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The Happy Prince – opera prima di Rupert Everett

Rupert Everett: Una vita anti-Brit - Amica

2018. Il 59enne Rupert Everett è alla sua prima regia cinematografica ma ha faticato non poco a trovare i soldi per realizzarla, tanto che la BBC, coproduttrice, ha anche girato un documentario sulla lunga e difficile ricerca dei fondi: una storia nella storia; alla fine insieme al Regno Unito producono USA, Italia che è anche location, e Belgio. Una scelta quasi scontata per l’attore, omosessuale orgoglioso di esserlo, che scrive la sceneggiatura e poi la interpreta e la dirige mostrando grande padronanza del linguaggio cinematografico, conoscenza della figura di Wilde nonché adesione pressoché totale. Rupert Everett, di buonissima famiglia, a 15 anni lascia i normali corsi di studio nel natio Hampshire, o meglio scappa dal rigoroso collegio benedettino dove la famiglia lo aveva relegato, per iscriversi alla Central School of Speech and Drama di Londra, dove però resiste un paio d’anni e poi viene espulso per i suoi vivaci disaccordi col corpo docente. In rottura con la famiglia vive in miseria e di espedienti e per sopravvivere si prostituisce; riprende gli studi alla Royal Shakespeare Company e da lì in poi comincia la sua carriera di attore e raggiunge la fama con il protagonista omosessuale di “Another Country” che impressiona positivamente pubblico e critica. Nel 2002 il suo primo incontro professionale con Oscar Wilde, come protagonista insieme a Colin Firth, di “L’importanza di chiamarsi Ernest” diretto da Oliver Parker, dalla commedia “The Importance of Being Earnest” dove c’è un gioco di parole intraducibile poiché earnest sta per onesto, serio, irreprensibile oltre che come nome proprio. Nel 2012 torna in scena a Londra con il dramma “The Judas Kiss” in cui interpreta Oscar Wilde ancora con grande successo di pubblico e critica. Dunque possiamo immaginare che da lì in poi abbia lavorato a questo film.

Bosie e Oscar

“Nel 1895, Oscar Wilde era l’uomo più noto di Londra. Bosie Douglas, figlio del famoso Marchese di Queensberry, era il suo amante. Furioso per la loro relazione, Queensberry, lasciò un biglietto al club di Wilde: A Oscar Wilde che si atteggia a sodomita. Su istigazione di Douglas, Wilde lo querelò per diffamazione, finendo poi sul banco degli imputati con l’accusa di oscena indecenza. Fu condannato a due anni di carcere e lavori forzati.” Questa la scritta esplicativa all’apertura del film, a ricordarci le circostanze che conducono agli ultimi anni di vita del discusso artista qui ritratto subito dopo l’uscita di prigione e in miseria. Morirà nel 1900 appena 46enne.

Oscar Wilde è una figura enorme di cui si possono raccontare solo pochi dettagli in una sola opera, proprio come ebbe a dire il suo amico Reggie Turner affermando che secondo lui “mai si sarebbe scritto un libro che potesse essere considerato tanto soddisfacente da contenere un personaggio così grande come Oscar Wilde”. Su di lui e sulle sue opere c’è molto e vale la pena considerare anche il film del 1997 diretto da Brian Gilbert “Wilde” interpretato da Stephen Fry con Jude Law come Alfred “Bosie” Douglas, un ruolo che lo lancerà nell’empireo delle star.

Ma Wilde, probabilmente più grazie ai suoi pungenti aforismi che alla sua intera opera, si è conquistato suo malgrado un posto di rilievo nella cultura di massa. I suoi aforismi sono estrapolati dalle sue opere e in una battuta rappresentano la quintessenza del suo spirito, del suo stile di vita, la sua critica sociale. Nel film, moribondo, Rupert Everett gli fa dire il famoso: “Muoio al di sopra delle mie possibilità”. Wilde ebbe l’idea di farne una raccolta ma non vi diede seguito e, proprio perché probabilmente ne aveva parlato agli amici, venne dato alle stampe un “Phrases and Philosophies for the use of the Young” che è possibile scaricare in PDF da questo link: https://www.sas.upenn.edu/~cavitch/pdf-library/Wilde_Phrases_and_Philosophies.pdf; e anche la prefazione alla prima edizione del romanzo “The Picture of Dorian Gray” era interamente composta da aforismi. Mentre era in prigione il suo amico e curatore letterario Robbie Ross per sostenerlo economicamente pubblicò “Sebastian Melmoth Aphorisms” che è possibile scaricare in PDF da qui: http://mgtundoedu.altervista.org/Sebastian%20Melmoth%20Aphorisms%20GAME.pdf; ricordando che Sebastian Melmoth è uno pseudonimo che Wilde aveva usato e sotto il quale si nasconderà una volta uscito di prigione e andato in esilio in Francia, dalla quale si sposterà in Italia e non farà più ritorno nell’isola natia.

Del Wilde nella cultura di massa c’è da ricordare che a un secolo dalla morte si organizzano ancora conferenze internazionali su di lui, mentre a Londra esistono agenzie turistiche che organizzano tour nei luoghi dell’autore, per non dire dell’enorme merchandising che sfrutta le sue celebri frasi. Come fatto curioso c’è da riferire che nel tempo numerose sue estimatrici sono andate sulla sua tomba monumentale nel cimitero parigino di Père-Lachaise lasciandovi, come traccia del loro passaggio, impronte di baci, ma questa romantica tradizione finì quando nel 2011 fu eretta una barriera di vetro per proteggere la scultura dalle tracce degli innumerevoli rossetti: avrebbe mai immaginato Oscar Wilde di suscitare tanta passione postuma nelle donne? La sua prima tomba fu però nel cimitero di Bagneaux, nella Borgogna, dove i pochi amici rimastigli avevano fatto erigere un modesto monumento funerario. Solo successivamente, nel 1909, le sue spoglie furono trasferite nel cimitero parigino dove poi venne sepolto anche il fedelissimo Robert Ross. Come dice una seconda scritta alla fine del film: “Robbie pagò i debiti di Oscar e dedicò il resto della vita a risollevare l’opera e la reputazione dell’amico. Morì nel 1918. Le sue ceneri sono sepolte insieme a Oscar. Bosie morì povero e solo nel 1945. Insieme ad altri 75.000 uomini condannati per omosessualità, Oscar è stato riabilitato nel 2017.”

Ma già nel 1995 nella cattedrale di Westminster a Londra era stata installata nel cosiddetto “angolo dei poeti” una vetrata a lui dedicata come simbolica riabilitazione da parte del governo inglese che solo negli anni ’60 del Novecento aveva depenalizzato l’omosessualità, che però nei fatti è stata ancora perseguita dai giudici preposti che hanno applicato la legge in modo assai restrittivo e arbitrario fino a una nuova regolamentazione del 2000.

Il film che Rupert Everett ha reallizato si inserisce nella tradizione celebrativa di questo genio come un’opera molto ben riuscita, apprezzata dalla critica ma scarsamente considerata dal pubblico se si considera che fra Canada e USA insieme ha incassato solo 464.495 dollari, come dire che la stessa comunità gay lo ha ignorato. Per noi italiani degna di nota la vacanza napoletana che Wilde trascorse col ritrovato amato Bosie, soggiornando a Villa Del Giudice in via Posillipo 27. In quel periodo, ma non ce n’è traccia nel film, conobbe Eleonora Duse e subito le fece avere una estemporanea traduzione italiana della sua “Salomè”, un’opera mai rappresentata in patria dato che il Lord Ciambellano l’aveva considerata scandalosa per quella scena biblica rappresentata in modo così sfrenatamente lascivo. L’unica messa in scena in vita dell’opera era avvenuta nella più liberale Francia ma lui non aveva potuto assistervi perché in prigione. Wilde sperò molto nell’interesse della Duse, poiché necessitava di un rilancio artistico ed economico, ma la diva italiana restò sconcertata dalla pièce e la rifiutò categoricamente. Anche la scrittrice Matilde Serao non era una fan del discusso inglese tanto da scrivere sul “Mattino”: “Come? Oscar Wilde a Napoli? Ma sarebbe una calamità la presenza tra noi dell’esteta britannico”.

Oltre a Rupert Everett che presta a Oscar Wilde anche il suo corpo inevitabilmente appesantito dagli anni insieme al suo vissuto e alla sua consapevolezza di omosessuale, nel cast altri nomi di spicco della cinematografia britannica, che l’attore regista, da gran signore, nei titoli di coda mette tutti prima di sé: Colin Firth è l’amico Reggie Turner e Emily Watson interpreta la scrittrice irlandese Constance Lloyd che fu moglie, infelice va da sé, di Wilde. Tom Wilkinson interpreta il prete che Wilde vedrà alla fine dei suoi giorni, con la curiosità che l’attore aveva interpretato il Marchese di Queensberry nel film “Wilde” del 1997. Alfred “Bosie” Douglas lo interpreta un irriconoscibile Colin Morgan biondo e con le lentine azzurre, per chi l’ha conosciuto come protagonista del giovane mago Merlino nella fortunata serie tv “Merlin”, e ne fa un marchettaro d’alto bordo davvero inquietante, con quello sguardo penetrante di giovane omosessuale sfacciato pericoloso e sgradevole. Edwin Thomas, qui al suo debutto cinematografico, è l’amico e fedele innamorato Robbie Ross. Nel quadro napoletano ci sono Franca Abategiovanni e Antonio Spagnuolo. Nel piccolo ruolo della proprietaria del caffè francese ritroviamo Béatrice Dalle, una modella che debuttò con grande successo nel 1986 in “Betty Blue” dell’allora fidanzato Jean-Jacques Beineix, ma il suo carattere a dir poco esplosivo e le sue cattive abitudini hanno fatto della sua carriera un percorso assai accidentato tutto in discesa. E’ stata anche una delle fidanzate di Rupert Everett, che come Oscar Wilde si è concesso frequentazioni eterosessuali: le altre fidanzate di cui si ha notizia sono la conduttrice tv Paula Yates e la star americana Uma Thurman. In conclusione: un ottimo film che coi suoi scarsi incassi difficilmente darà al suo autore l’opportunità di una seconda regia, sempre che Rupert Everett ce l’abbia in mente.

Selma, la strada per la libertà (ancora lunga e tortuosa)

In questa stagione cinematografica fioriscono biografie. Dopo “Il Giovane Favoloso” Giacomo Leopardi, “La Teoria del Tutto” di Stephen Hawking e l’“American Sniper” Chris Kyle ecco ancora il reverendo Martin Luther dottor King in un film che celebra il cinquantenario della macia per la libertà avvenuta nella cittadina di Selma nel profondo sud razzista dell’Alabama. Non si tratta, dunque, di una vera e propria biografia del leader nero ma della cronaca, scandita attraverso i dettagli dei resoconti dell’FBI che spiava Martin Luther King. Il film si apre con King che riceve il Premio Nobel per la Pace, tanto per ricordarci con chi abbiamo a che fare, e prosegue senza digressioni dritto verso quella famosa (non per noi ma per gli Statunitensi) marcia che portò il presidente Lyndon Johnson all’emanazione della legge sull’uguaglianza del diritto al voto per gli afroamericani. I punti chiave di questa vicenda sono la scelta da parte di King di Selma come terreno di pacifica dimostrazione, proprio perché amministrata da uno sceriffo ignorante e da un governatore razzista la cui natura violenta King voleva stanare con la sua marcia; ma la sua marcia non avrebbe avuto il successo e la risonanza mediatica e politica se, per la prima volta nella storia della comunicazione televisiva, non ci fosse stato un giornalista a filmare e a mandare il materiale alla CBS che in quell’occasione ha inventato le breaking news, ovvero le notizie dell’ultima ora a interrompere la normale programmazione tv e far conoscere a milioni di americani in pantofole l’orrore della violenza razzista. Un film importante, perciò, per la storia e la memoria collettiva degli Stati Uniti dove, nonostante un presidente nero, il razzismo continua ad esistere nel cuore di tanti esseri umani anche inconsapevolmente razzisti.

Detto questo, come prodotto cinematografico per me è un altro di quei film che hanno travalicato i confini del piccolo schermo, dove sarebbe stato più logico collocarlo, grazie all’imponenza produttiva della potente Oprah Winfrey che si ritaglia il ruolo assai esplicativo ed esemplare della donna che vuole andare a iscriversi alle liste elettorali e le viene impedito da un impiegato razzista che usa la burocrazia come randello. Mi soffermo a ricordare che Oprah, dopo aver cominciato la sua carriera leggendo i notiziari in tv, è stata nominata all’Oscar come non protagonista nell’ormai lontano 1985 per il bellissimo “Il Colore Viola” di Steven Spielberg; in seguito ha costruito il suo impero mediatico ed economico come opinion leader televisiva col suo famoso Show che è ormai diventato un brand citato anche in film e telefilm come sinonimo di successo. Ogni tanto la signora produce ottimo cinema, ovviamente nell’ambito della black fraternity, e per quest’operazione ha scritturato grossi nomi anche per piccoli ruoli, ognuno significativo a suo modo nel suo contesto: Tom Wilkinson come Lyndon Johson, Tim Roth come governatore razzista, Cuba Gooding jr, Mahalia Jackson, Giovanni Ribisi, Alessandro Nivola, Lorraine Toussaint e molti altri volti noti sia sul grande che sul piccolo schermo. David Oyelowo è Martin Luther King e Carmen Ejogo sua moglie Coretta, mentre la regia è affidata all’emergente Ava DuVernay che dà a tutto il film un taglio intimistico da dramma privato e borghese, con primissimi piani tipici da piccolo schermo, e scene di massa e di azione che risultano statiche e piatte nonostante tutto, e per tutto intendo il cast, la storia, la sceneggiatura, la produzione…

Candidature sparse qua e là che hanno fruttato solo il Golden Globe e l’Oscar alla canzone originale, effettivamente bella, che nella tessitura melodica inserisce il gospel e il rap, scritta ed eseguita da John Legend con Metroman il quale s’infila nel film anche come attore nello staff di King. Resta solo una considerazione sul razzismo così intimamente connaturato nell’animo di metà degli statunitensi: io non penso che esso sia un sentimento radicato nel cuore e nei sentimenti, o un pensiero che attiene all’educazione e alla cultura, e semmai è vero il contrario, e cioè che educazione e cultura tengono a bada questo che io ritengo un istinto primario dell’essere umano, radicato nel cervelletto, quella parte di cervello preistorico che ancora condividiamo coi rettili, e che gestisce la fame e la paura e l’accoppiamento, quelle tre cose necessarie alla sopravvivenza dell’individuo e della sua specie e che porta ad attaccare tutto ciò che è diverso da noi e che attenta alla nostra vita e ai nostri spazi vitali: messi di fronte a queste (normalmente inimmaginabili) emergenze ognuno di noi è un razzista, e chi si fa razzista senza queste emergenze non fa che dare voce ai suoi istinti primordiali in un contesto e in un’epoca che altrimenti non li prevede. Nel DNA della storia americana c’è il razzismo verso i neri, ma anche verso i nativi, e ora verso i messicani che premono sul confine a sud-ovest; ma c’è stato anche quello verso gli italiani e i cinesi e tutte le altre etnie differenti da quella anglo-irlandese che ha generato i padri fondatori di quella terra, una terra di conquista da difedere ad armi spianate, quelle armi che sono consentite anche nella costituzione; un DNA che spesso, dove manca educazione e cultura, si affaccia nella violenza quotidiana. Noi europei, che abbiamo battagliato fra noi sin dall’inizio della nostra civiltà, siamo più disincantati e possibilisti, e l’orrore delle leggi razziali da noi è durato solo qualche decennio, se non contiamo i secoli bui dell’oscurantismo. Troppo poco per fare di noi dei razzisti convinti e da prendere davvero sul serio, e infatti non ci facciamo distrarre troppo dai gruppetti neonazisti che inneggiano a cose che non hanno mai neanche vissuto per proteggere spazi fisici e culturali che non sono mai stati in pericolo: perché il razzismo primordiale e istintivo, una volta espresso, deve trovare una logica che naturalmente non ha, e si fa pensiero e ideologia per giustificare la sua stessa esistenza. Poi noi italiani nello specifico scendiamo ancora più in basso con i leghisti ai quali sarebbe troppo nobile addurre un pensiero e una logica e, io temo, anche un istinto: cosa c’è da difendere su quella pianura nebbiosa?

Grand Budapest Hotel

Gran divertimento per gli occhi, per la mente e per gli appassionati dello star system – ma non per tutti, trattandosi di un film con uno stile assai particolare: ispirato alle opere di Stefan Zweig ha un linguaggio volutamente assai letterario quasi al limite della parodia, così come lo stile dei personaggi e la recitazione da vaudeville degli attori, ed è davvero una goduria vedere star da premio Oscar e caratteristi di lusso recitare in questa girandola che non perde mai un colpo. Del resto è sempre questo lo stile del regista Wes Anderson, il grottesco, e anche se non tutti i suoi film sono ben riusciti (sì a “I Tenenbaum” no ai successivi “Le avventure acquatiche di Steve Zissou” e “Il treno per Darjeeling”) vale sempre la pena pagare il biglietto per vedere qualcosa di decisamente diverso nel panorama cinematografico statunitense. Cast ricchissimo di star anche in ruoli di una sola battuta o poco più che, si vede, si sono tutti divertiti assai a indossare costumi e acconciature di personaggi bislacchi che però sono la sferzante critica di Zweig al suo mondo: la mitteleuropa che si sta preparando alle assurde guerre mondiali del razzismo e del fratricidio. Eccellente la sceneggiatura che procede per scatole cinesi: lo scrittore interpretato da Tom Wilkinson comincia a raccontarci la storia del Grand Budapest Hotel con lui da giovane, che è Jude Law, che raccoglie quella storia dal vecchio proprietario F. Murray Abraham, che comincia a sua volta a raccontare di quando era un giovane fattorino dell’albergo, che è Tony Revolori che sarà il vero protagonista accanto al suo mentore, l’azzimato direttore dell’albergo Ralph Fiennes col quale viene coinvolto nelle rocambolesche avventure che sono la struttura del film e il tessuto nel quale incontrare i più incredibili personaggi interpretati in ordine sparso da: Saoirse Ronan come fornarina e fidanzatina del giovane protagonista, Adrien Brody nel ruolo del riccone cattivo, Willem Dafoe come suo spietato killer, Jeff Goldblum occhialuto notaio, Harvey Keitel ergastolano, Bill Murray Jason Schwartzman Owen Wilson e Bob Balaban come vari portieri d’albergo, Edward Norton capitano della polizia imperiale, Tilda Swinton mirabilmente truccata da ottantenne, il francese Mathieu Almaric come fuggitivo tenutario di segreti e l’italiana Giselda Volodi come la sua sorella zitella dal piede equino vittima accidentale. Al di là della ricca carrellata di volti più o meno noti il divertimento sta nell’ironia sottile della sceneggiatura e degli scritti a cui si ispira, e alla prova di sensibilità artistica cui il film ci sottopone con il suo essere un prodotto hollywoodiano assolutamente atipico.