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The Glorias

Un altro di quei bei film sfortunati che sono incappati nella pandemia. Il progetto, scritto dalla regista Julie Taymor con la drammaturga Sarah Ruhl dall’autobiografia di Gloria Steinem “My life on the road”, risale a tempi non sospetti, il già lontano anni luce 2018 – in anni in cui il tempo vissuto in quarantena si è dilatato, allontanandoci gli uni dagli altri e tutti dalla realtà quotidiana; le riprese sono iniziate nel gennaio 2019 con un budget di 20 milioni di dollari che si farà fatica a riprendere perché il film sarà pronto un anno dopo, e verrà presentato al Sundance Film Festival nel gennaio 2020, poco prima che il mondo chiudesse i battenti. Dal settembre 2020 il film è stato svenduto su Prime Video e adesso è visibile sulla piattaforma Sky.

E’ dunque la biografia di una giornalista e scrittrice, attiva femminista negli anni ’60 e ’70, quegli anni infuocati di contestazioni d’ogni genere in tutto il mondo che noi chiamiamo “occidentale”, e che in America ha dovuto fare i conti anche con le rivendicazioni dei neri e di tutte le altre minoranze di cui quel popolo è composto. E non essendo io un attivista femminista e dunque non conoscendo la materia, non posso non chiedermi quante delle femministe nostrane davvero conoscessero, o conoscano oggi col senno di poi, Gloria Steinem. Quello che intendo è che il cinema americano racconta e vende al mondo intero la sua storia personale, personaggi fatti e dettagli della loro cultura, così come è stato, ad esempio, per la battaglia di Alamo o la marcia antirazzista di Selma, storie locali che, seppure importanti, nello specifico riguardano la storia degli Stati Uniti e non la storia del mondo; il punto, ancora, è che ormai siamo totalmente assoggettati a quell’immaginario: se ci chiedono quale sia il film che meglio si è sedimentato nei nostri ricordi, tiriamo fuori titoli come “Via col vento” o “Titanic” secondo le generazioni, e a nessuno di noi italiani vengono in mente “Ladri di biciclette” o “Novecento”.

Da sinistra a destra il cast per ordine di età, con Gloria Steinem e Julie Taymor

L’interesse che il film mi suscita, al di là della storia all american che racconta, risiede nello stile, visionario e sempre spettacolare, che è il marchio di fabbrica della regista Julie Taymor. Donna di grande ed eclettica cultura – 16enne studia mimo a Parigi presso la “Scuola internazionale di teatro Jacques Lecoq”, poi si laurea in mitologia e folklore e viaggerà in Indonesia e Giappone, poi frequenta un corso estivo sul “teatro delle ombre” – ed è finalmente pronta a firmare le sue prime regie teatrali in cui saranno fondamentali le dottrine precedentemente apprese. Dopo tre regie tv che filmavano sue regie teatrali debutta al cinema nel 1999 con “Titus” dallo shakespeariano “Titus Andronicus” che aveva già realizzato a teatro e che per il grande schermo riscrive in chiave post-moderna, con le superbe interpretazioni di Anthony Hopkins e Jessica Lange e un cast di tutto rispetto. Ma la grande notorietà arriva con la regia di “Frida” del 2002, biografia della tormentata pittrice messicana Frida Khalo interpretata da Salma Hayek, film che condusse l’autrice alla notte degli Oscar (vincendo per il trucco e la colonna sonora), ai Golden Globe, ai Bafta e via via discendendo verso tutti gli altri premi disponibili. La filmografia di Julie Taymor continua col musical “Across The Universe” che genialmente imbastisce una storia d’amore su 33 canzoni dei Beatles, poi torna a Shakespeare riprendendo dal teatro “The Tempest” dove riscrive il personaggio di Prospero come Prospera e lo affida ad Helen Mirren, e ci fermiamo al 2010 con un pacchetto di 4 film tutti da recuperare prima di giungere a quest’ultima sua visionaria eccentrica colorata pensosa poetica trasposizione di una biografia dove chiama 4 interpreti ad incarnare 4 periodi di quella vita: la bambina Ryan Keira Armstrong, l’adolescente Lulu Wilson (già vista nel fantasy “Ready Player One”), il premio Oscar (The Danish Girl) Alicia Vikander e l’altra premiata con l’Oscar (Still Alice) Julianne Moore, 4 momenti di vita che viaggiano insieme su un pullman (My life on the road) e che si scambiano commenti e suggerimenti di vita, da cui il titolo che volge al plurale il nome Gloria.

Altri interpreti sono uno stazzonato Timothy Hutton, anche lui premiato con l’Oscar per “Gente Comune” quand’era un ventenne di belle speranze non tutte realizzate; altri ruoli di spicco, per la comunità nera che si affiancò alle battaglie femministe, sono Lorraine Toussaint, molto attiva in tv e vista in “Selma”, e Janelle Monáe, nata cantautrice di successo e poi passata alla moda e al cinema.

Ma la sorpresa più piacevole arriva oltre la metà del film con l’irrompere della veterana 75enne Bette Midler, per la prima volta con una zazzeretta bruna; ottima cantante e attrice brillantissima che al cinema ha avuto i suoi anni migliori negli Ottanta dopo che nel 1979 aveva interpretato, premiata con il Golden Globe e candidata all’Oscar, il dramma musicale “The Rose”, una semi biografia molto romanzata della cantautrice Janis Joplin, per cui la Midler aveva composto la colonna sonora che subito divenne un suo grande successo discografico.

Volendo (oziosamente) tentare un parallelo con la nostra realtà, e con tutti i dovuti distinguo, essendo principalmente Julie Taymor una regista teatrale e d’opera che quando può fa il cinema, possiamo accostarla alle nostre Roberta Torre che se possibile è ancora più visionaria, e Emma Dante che recentemente ha realizzato “Le sorelle Macaluso” da un suo precedente spettacolo teatrale. Nel panorama statunitense e internazionale, invece, Julie Taymor resta in linea con tutte le altre registe che, ognuna a suo modo, fa cinema al femminile: Jane Campion, la signora degli intensi drammi romantici e storici “Lezioni di piano” e “Ritratto di signora”; la figlia d’arte Sofia Coppola con film dai toni surreali: “Il giardino delle vergini suicide”, “Lost in tralation”, “Marie Antoinette”; l’attrice Greta Gerwig che dal cinema indie è saltata ai classici sempre con uno sguardo personalissimo sulle sue protagoniste, da “Lady Bird” a “Piccole Donne”; Patty Jenkins che è la prima donna a dirigere blockbuster con super eroi, anzi eroine: “Wonder Woman”. Una collocazione a parte, invece, per la prima regista a vincere l’Oscar, Kathryn Bigelow, ex moglie e collaboratrice di James Cameron, che è l’unica a non fare cinema femminile e anzi si distingue per le sue regie muscolari in film di azione e militareschi, e dal thriller poliziesco con una donna protagonista, “Blue Steel” passa subito ai film pieni di testosterone con i surfisti rapinatori di “Point Break”, finché vince l’Oscar con “The Hurt Locker”, un film bellico collocato in Iraq, cui segue “Zero Dark Thirty” sulla cattura e l’uccisione di Osama Bin Laden; qualcuno aveva cominciato a chiedersi se per vincere l’Oscar una regista dovesse fare film virili, finché la risposta è arrivata quest’anno con la cerimonia degli Oscar 2021 che ha premiato la cinese Chloé Zhao per “Nomadland”, altro film rigorosamente al femminile. Dunque che le signore donne facciano film con donne e per donne, verranno premiate lo stesso.

Selma, la strada per la libertà (ancora lunga e tortuosa)

In questa stagione cinematografica fioriscono biografie. Dopo “Il Giovane Favoloso” Giacomo Leopardi, “La Teoria del Tutto” di Stephen Hawking e l’“American Sniper” Chris Kyle ecco ancora il reverendo Martin Luther dottor King in un film che celebra il cinquantenario della macia per la libertà avvenuta nella cittadina di Selma nel profondo sud razzista dell’Alabama. Non si tratta, dunque, di una vera e propria biografia del leader nero ma della cronaca, scandita attraverso i dettagli dei resoconti dell’FBI che spiava Martin Luther King. Il film si apre con King che riceve il Premio Nobel per la Pace, tanto per ricordarci con chi abbiamo a che fare, e prosegue senza digressioni dritto verso quella famosa (non per noi ma per gli Statunitensi) marcia che portò il presidente Lyndon Johnson all’emanazione della legge sull’uguaglianza del diritto al voto per gli afroamericani. I punti chiave di questa vicenda sono la scelta da parte di King di Selma come terreno di pacifica dimostrazione, proprio perché amministrata da uno sceriffo ignorante e da un governatore razzista la cui natura violenta King voleva stanare con la sua marcia; ma la sua marcia non avrebbe avuto il successo e la risonanza mediatica e politica se, per la prima volta nella storia della comunicazione televisiva, non ci fosse stato un giornalista a filmare e a mandare il materiale alla CBS che in quell’occasione ha inventato le breaking news, ovvero le notizie dell’ultima ora a interrompere la normale programmazione tv e far conoscere a milioni di americani in pantofole l’orrore della violenza razzista. Un film importante, perciò, per la storia e la memoria collettiva degli Stati Uniti dove, nonostante un presidente nero, il razzismo continua ad esistere nel cuore di tanti esseri umani anche inconsapevolmente razzisti.

Detto questo, come prodotto cinematografico per me è un altro di quei film che hanno travalicato i confini del piccolo schermo, dove sarebbe stato più logico collocarlo, grazie all’imponenza produttiva della potente Oprah Winfrey che si ritaglia il ruolo assai esplicativo ed esemplare della donna che vuole andare a iscriversi alle liste elettorali e le viene impedito da un impiegato razzista che usa la burocrazia come randello. Mi soffermo a ricordare che Oprah, dopo aver cominciato la sua carriera leggendo i notiziari in tv, è stata nominata all’Oscar come non protagonista nell’ormai lontano 1985 per il bellissimo “Il Colore Viola” di Steven Spielberg; in seguito ha costruito il suo impero mediatico ed economico come opinion leader televisiva col suo famoso Show che è ormai diventato un brand citato anche in film e telefilm come sinonimo di successo. Ogni tanto la signora produce ottimo cinema, ovviamente nell’ambito della black fraternity, e per quest’operazione ha scritturato grossi nomi anche per piccoli ruoli, ognuno significativo a suo modo nel suo contesto: Tom Wilkinson come Lyndon Johson, Tim Roth come governatore razzista, Cuba Gooding jr, Mahalia Jackson, Giovanni Ribisi, Alessandro Nivola, Lorraine Toussaint e molti altri volti noti sia sul grande che sul piccolo schermo. David Oyelowo è Martin Luther King e Carmen Ejogo sua moglie Coretta, mentre la regia è affidata all’emergente Ava DuVernay che dà a tutto il film un taglio intimistico da dramma privato e borghese, con primissimi piani tipici da piccolo schermo, e scene di massa e di azione che risultano statiche e piatte nonostante tutto, e per tutto intendo il cast, la storia, la sceneggiatura, la produzione…

Candidature sparse qua e là che hanno fruttato solo il Golden Globe e l’Oscar alla canzone originale, effettivamente bella, che nella tessitura melodica inserisce il gospel e il rap, scritta ed eseguita da John Legend con Metroman il quale s’infila nel film anche come attore nello staff di King. Resta solo una considerazione sul razzismo così intimamente connaturato nell’animo di metà degli statunitensi: io non penso che esso sia un sentimento radicato nel cuore e nei sentimenti, o un pensiero che attiene all’educazione e alla cultura, e semmai è vero il contrario, e cioè che educazione e cultura tengono a bada questo che io ritengo un istinto primario dell’essere umano, radicato nel cervelletto, quella parte di cervello preistorico che ancora condividiamo coi rettili, e che gestisce la fame e la paura e l’accoppiamento, quelle tre cose necessarie alla sopravvivenza dell’individuo e della sua specie e che porta ad attaccare tutto ciò che è diverso da noi e che attenta alla nostra vita e ai nostri spazi vitali: messi di fronte a queste (normalmente inimmaginabili) emergenze ognuno di noi è un razzista, e chi si fa razzista senza queste emergenze non fa che dare voce ai suoi istinti primordiali in un contesto e in un’epoca che altrimenti non li prevede. Nel DNA della storia americana c’è il razzismo verso i neri, ma anche verso i nativi, e ora verso i messicani che premono sul confine a sud-ovest; ma c’è stato anche quello verso gli italiani e i cinesi e tutte le altre etnie differenti da quella anglo-irlandese che ha generato i padri fondatori di quella terra, una terra di conquista da difedere ad armi spianate, quelle armi che sono consentite anche nella costituzione; un DNA che spesso, dove manca educazione e cultura, si affaccia nella violenza quotidiana. Noi europei, che abbiamo battagliato fra noi sin dall’inizio della nostra civiltà, siamo più disincantati e possibilisti, e l’orrore delle leggi razziali da noi è durato solo qualche decennio, se non contiamo i secoli bui dell’oscurantismo. Troppo poco per fare di noi dei razzisti convinti e da prendere davvero sul serio, e infatti non ci facciamo distrarre troppo dai gruppetti neonazisti che inneggiano a cose che non hanno mai neanche vissuto per proteggere spazi fisici e culturali che non sono mai stati in pericolo: perché il razzismo primordiale e istintivo, una volta espresso, deve trovare una logica che naturalmente non ha, e si fa pensiero e ideologia per giustificare la sua stessa esistenza. Poi noi italiani nello specifico scendiamo ancora più in basso con i leghisti ai quali sarebbe troppo nobile addurre un pensiero e una logica e, io temo, anche un istinto: cosa c’è da difendere su quella pianura nebbiosa?