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Falling, storia di un padre – opera prima di Viggo Mortensen

Curioso debutto in regia questo di Viggo Mortensen, anche autore della sceneggiatura e dunque autore a tutto tondo; curioso perché l’attore si è profilato una carriera assai interessante in film che lo hanno impegnato anche in una proficua collaborazione con il mai banale David Cronenberg, ed è dunque curioso che il suo film di debutto come autore sia alquanto banale, duole dirlo, visto che il personaggio stesso non lo è: l’artista è anche poeta, fotografo, pittore, musicista e per non farsi mancare niente anche editore.

Nato a Manhattan da madre statunitense con ascendenze canadesi e padre danese che a sua volta aveva una madre norvegese, Viggo Peter Mortensen Jr. è cresciuto in giro per il mondo poiché la famiglia seguiva il padre Viggo Sr. nei suoi impegni di lavoro legati alla gestione di imprese agricole, e vivendo per diversi anni in Argentina il ragazzo ebbe l’opportunità di imparare fluentemente lo spagnolo, oltre al danese paterno che fra le lingue scandinave è quella che meglio riesce a padroneggiare le altre: il norvegese e lo svedese; e allora perché fermarsi lì? così ha studiato anche francese, italiano, catalano e arabo. Dopo la laurea in scienze politiche e letteratura spagnola trovò un occasionale bell’impiego come traduttore per la squadra svedese di hockey su ghiaccio alle Olimpiadi invernali di Lake Placid nel 1980; e a seguire tornò in Danimarca, dove da ragazzo aveva vissuto col padre appena separato dalla madre, e per un po’ fece vari lavoretti come cameriere, camionista, barista e anche fioraio: il classico periodo sabbatico per chiarirsi le idee sul futuro, quindi si spostò in Canada per frequentare una scuola di teatro e dopo avere lì calcato le scene si trasferisce a Los Angeles per tentare il grande salto nel cinema, che non fu facile; passò attraverso varie comparsate e molte delusioni finché otterrà il ruolo di protagonista nel debutto alla regia di Sean Penn “Lupo solitario” del 1991 e da lì in poi la sua carriera è tutta in crescita fino alla consacrazione internazionale come Aragorn nella trilogia del “Signore degli Anelli” di Peter Jackson all’inizio degli anni duemila.

Per il suo debutto autorale Viggo sceglie il tema della demenza senile, argomento che insieme allo più specifico Alzheimer è ormai anche troppo frequentato: Anthony Hopkins in “The Father” del medesimo 2020 e dell’altrettanto debuttante Florian Zeller, Oscar al protagonista e alla sceneggiatura; ancora del 2020 “Supernova” con Stanley Tucci e Colin Firth, entrambi premiati con i BAFTA, come anziana coppia gay diretti da Harry Mcqueen; andando qualche anno più indietro nel 2014 c’è stato “Still Alice” di Richard Glatzer e Wash Westmoreland con Julianne Moore premiata con Oscar e Golden Globe solo per citare i primi due riconoscimenti; del 2012 è “Amour” di Michael Haneke, Oscar e Golden Globe come miglior film straniero, con Emmanuelle Riva, premiata col BAFTA, e Jean-Louis Trintignant che si aggiudicato l’European Film Awards; nel 2006 Sarah Polley ha diretto Julie Christie premiata con l’Oscar in “Lontano da lei”; del 2001 è “Iris – un amore vero” di Richard Eyre con Jim Broadbent premiato con Oscar e Golden Globe nel ruolo dell’anziano che si prende cura della moglie Judi Dench, solo candidata – solo per citare fin qui i titoli più noti. Dunque, se un attore quotato passa alla regia autorale con un tema così tanto frequentato, ci si aspetta che abbia qualcosa di molto personale da dire o di veramente artistico da mostrare: uno stile, un punto di vista. E Viggo ha avuto modo di spiegarlo, solo che nella realizzazione ha mancato il bersaglio.

L’ispirazione arriva da lontano e nel contempo anche da troppo vicino: entrambi i suoi genitori hanno sofferto di demenza senile, così come tre dei suoi nonni, e anche zie e zii, ma il film non è biografico: “È proprio mia madre che mi ha dato l’ispirazione per il film: rimane la persona più importante per me e ho scritto questa storia subito dopo il suo funerale. Il personaggio dello schermo è però frutto della mia immaginazione o, appunto, di fiction: nasce dall’idea e dai ricordi che ho di lei, e i ricordi sono sempre personali, alterati. La memoria è una collezione di emozioni che si evolvono e che noi modifichiamo in continuazione. Ci sono forme diverse di demenza: c’è chi perde la memoria, chi modifica i ricordi e chi invece trattiene solo quelli lontani, del passato. Spesso, nei film e nei lavori teatrali che ho visto, si rappresenta chi soffre di demenza come una persona confusa: nella mia esperienza – e volevo mostrarlo in ‘Falling’ – questa persona vede, sente e prova emozioni reali, chiare, non necessariamente confuse. Possono essere memorie felici o tristi, ma sono presenti, vivide. il personaggio interpretato da Henriksen, non è certo mio padre, ma è un dato di fatto che in passato gli uomini lavoravano fuori casa e non si occupavano dei figli, erano le donne a crescerli ed educarli. Ci sono poche relazioni fondamentali e complesse come quelle tra padre e figlio e pochi eventi sono destabilizzanti come la perdita di un genitore, quel momento in cui vengono tagliati quei legami che ti collegano con la terra. L’idea di ‘Falling’ mi è venuta mentre attraversavo l’Atlantico in aereo dopo il funerale di mia madre. Non riuscivo a dormire, la mia mente era invasa da ricordi e immagini di lei e della nostra famiglia nelle diverse fasi di vita condivisa. Sentendo il bisogno di descriverli, ho iniziato a scrivere una serie di episodi e frammenti di dialogo che ricordavo dalla mia infanzia. Più scrivevo su mia madre, più pensavo a mio padre. Durante quel volo notturno, le impressioni che appuntavo si erano trasformate in una storia composta principalmente da conversazioni e momenti che non erano mai realmente accaduti, linee parallele e divergenti che in qualche modo si incastravano allargando la prospettiva dei ricordi reali che avevo costruito intorno alla mia famiglia. Sembrava che le sequenze inventate mi permettessero di avvicinarmi alla verità dei miei sentimenti verso mia madre e mio padre piuttosto che un semplice elenco di ricordi specifici. Il risultato ha dato vita a una storia padre-figlio intitolata ‘Falling’ su una famiglia immaginaria che condivide alcuni tratti con la mia”.

L’autore mentre dirige Sverrir Gudnason e Hanna Gross nel ruolo dei suoi genitori quando lui era bambino rappresentato dal bambino biondo seduto a tavola

Ma “Falling” non è il primo film col quale pensava di debuttare in regia, è solo quello per il quale ha trovato più facilmente i finanziamenti, segno che i produttori credono molto nella demenza senile cinematografica: è da ben venticinque anni che Viggo scrive sceneggiature e, nello specifico, qui non pensava di interpretare un ruolo ma è stato spinto a recitare proprio dai produttori che volevano nel cast un nome di spicco. Con una coproduzione di Canada, Regno Unito e Danimarca, l’attore inserisce nel cast altri due interpreti dell’area scandinava: lo svedese-islandese Sverrir Gudnason nel ruolo del padre da giovane, e l’americano di genitori norvegesi Lance Henriksen come padre vecchio, il protagonista del film: qui l’ottantenne è nel suo ruolo probabilmente più impegnativo dato che in una carriera interamente di caratterista è giunto alla notorietà interpretando l’androide Bishop nel secondo Alien “Alien, scontro finale” (che non fu finale, anzi) diretto da James Cameron nel 1989, regista che lo avrebbe voluto come protagonista del suo “Terminator” che ha invece lanciato Arnold Schwarzenner; Henriksen è poi stato protagonista della serie tv fantasy “Millennium”. Completano il cast la supporter di lusso Laura Linney, l’ancora poco nota canadese Hannah Gross e il cino-canadese Terry Chen. Altra presenza di lusso è l’amico regista David Cronenberg nel ruolo del proctologo. In apertura dei titoli di coda l’autore dedica il film ai suoi fratelli. Girato nel 2019 è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio 2020 a ridosso della pandemia che nessuno poteva immaginare, ma in pieno lockdown il film è stato presentato a settembre al Toronto International Film Festival e a dicembre è poi uscito nel Regno Unito, mentre negli USA è andato nelle sale nel febbraio 2021: va da sé che ha incassato meno di mille dollari, solo restando negli Stati Uniti.

L’episodio del bambino che spara a un’anatra e poi da morta se la tiene come fosse un peluche prima che la mamma la cucini per cena, ripropone un episodio reale dell’infanzia dell’autore.

Al di là del tragico inconveniente del lockdown, il lavoro rimane un piccolo film molto ben confezionato che impropriamente alcuni hanno comparato alle regie di Clint Eastwood – che, per inciso, sarebbe stato perfetto nel ruolo del vecchio padre se non fosse che il vecchio Clint sta lasciando di sé l’immagine di un vecchio saggio ispirato e ispiratore di buoni sentimenti, ancorché sempre ribelle – dimenticando che il debutto cinematografico di Eastwood è stato di un altro tenore e che le sue successive regie apparentemente romantiche e melodrammatiche riescono sempre a graffiare lo smalto del perbenismo sociale, di cui il film di Mortensen è invece intriso insieme alle ambizioni filosofiche con le quali intendeva ridisegnare i rapporti, disagiatissimi, fra la persona malata e i suoi congiunti: materiale che il neo-autore non riesce a comporre e nel film manca sempre qualcosa o c’è qualcosa di troppo e i personaggi, a cominciare dal protagonista, non sono empatici e si fatica a entrarci in sintonia e farseli piacere: il vecchio affetto da demenza è violentemente scurrile, razzista, sessista, omofobo – tutti aspetti che coinvolgono la personalità di chi perde l’autocontrollo (so di anziani d’ambo i sessi che si masturbano davanti a figli nipoti e badanti, cosa che non si può raccontare neanche nella vita reale) e la lucida interpretazione di Lance Henriksen, benché interessante poiché non ordinaria, non riesce a diventare straordinaria. Anche la controllata e pacata condiscendenza del figlio interpretato dall’autore – irrita perché arriva come rinunciataria e ipocrita: una filosofia comportamentale molto politically correct o new age ma poco realistica. L’interpretazione più centrata appare quella di Sverrir Gudnason, che nel ruolo del contadino assai brusco con moglie e figlio, riesce a infondere al personaggio inattese e delicate sfumature che rendono appieno l’umanità di un uomo ancorché antipatico; è questo il talento degli interpreti: rendere umani e addirittura affascinanti i personaggi negativi. Jago ringrazia quanti lo hanno interpretato, ricordando che dietro c’era un signor autore.

The Glorias

Un altro di quei bei film sfortunati che sono incappati nella pandemia. Il progetto, scritto dalla regista Julie Taymor con la drammaturga Sarah Ruhl dall’autobiografia di Gloria Steinem “My life on the road”, risale a tempi non sospetti, il già lontano anni luce 2018 – in anni in cui il tempo vissuto in quarantena si è dilatato, allontanandoci gli uni dagli altri e tutti dalla realtà quotidiana; le riprese sono iniziate nel gennaio 2019 con un budget di 20 milioni di dollari che si farà fatica a riprendere perché il film sarà pronto un anno dopo, e verrà presentato al Sundance Film Festival nel gennaio 2020, poco prima che il mondo chiudesse i battenti. Dal settembre 2020 il film è stato svenduto su Prime Video e adesso è visibile sulla piattaforma Sky.

E’ dunque la biografia di una giornalista e scrittrice, attiva femminista negli anni ’60 e ’70, quegli anni infuocati di contestazioni d’ogni genere in tutto il mondo che noi chiamiamo “occidentale”, e che in America ha dovuto fare i conti anche con le rivendicazioni dei neri e di tutte le altre minoranze di cui quel popolo è composto. E non essendo io un attivista femminista e dunque non conoscendo la materia, non posso non chiedermi quante delle femministe nostrane davvero conoscessero, o conoscano oggi col senno di poi, Gloria Steinem. Quello che intendo è che il cinema americano racconta e vende al mondo intero la sua storia personale, personaggi fatti e dettagli della loro cultura, così come è stato, ad esempio, per la battaglia di Alamo o la marcia antirazzista di Selma, storie locali che, seppure importanti, nello specifico riguardano la storia degli Stati Uniti e non la storia del mondo; il punto, ancora, è che ormai siamo totalmente assoggettati a quell’immaginario: se ci chiedono quale sia il film che meglio si è sedimentato nei nostri ricordi, tiriamo fuori titoli come “Via col vento” o “Titanic” secondo le generazioni, e a nessuno di noi italiani vengono in mente “Ladri di biciclette” o “Novecento”.

Da sinistra a destra il cast per ordine di età, con Gloria Steinem e Julie Taymor

L’interesse che il film mi suscita, al di là della storia all american che racconta, risiede nello stile, visionario e sempre spettacolare, che è il marchio di fabbrica della regista Julie Taymor. Donna di grande ed eclettica cultura – 16enne studia mimo a Parigi presso la “Scuola internazionale di teatro Jacques Lecoq”, poi si laurea in mitologia e folklore e viaggerà in Indonesia e Giappone, poi frequenta un corso estivo sul “teatro delle ombre” – ed è finalmente pronta a firmare le sue prime regie teatrali in cui saranno fondamentali le dottrine precedentemente apprese. Dopo tre regie tv che filmavano sue regie teatrali debutta al cinema nel 1999 con “Titus” dallo shakespeariano “Titus Andronicus” che aveva già realizzato a teatro e che per il grande schermo riscrive in chiave post-moderna, con le superbe interpretazioni di Anthony Hopkins e Jessica Lange e un cast di tutto rispetto. Ma la grande notorietà arriva con la regia di “Frida” del 2002, biografia della tormentata pittrice messicana Frida Khalo interpretata da Salma Hayek, film che condusse l’autrice alla notte degli Oscar (vincendo per il trucco e la colonna sonora), ai Golden Globe, ai Bafta e via via discendendo verso tutti gli altri premi disponibili. La filmografia di Julie Taymor continua col musical “Across The Universe” che genialmente imbastisce una storia d’amore su 33 canzoni dei Beatles, poi torna a Shakespeare riprendendo dal teatro “The Tempest” dove riscrive il personaggio di Prospero come Prospera e lo affida ad Helen Mirren, e ci fermiamo al 2010 con un pacchetto di 4 film tutti da recuperare prima di giungere a quest’ultima sua visionaria eccentrica colorata pensosa poetica trasposizione di una biografia dove chiama 4 interpreti ad incarnare 4 periodi di quella vita: la bambina Ryan Keira Armstrong, l’adolescente Lulu Wilson (già vista nel fantasy “Ready Player One”), il premio Oscar (The Danish Girl) Alicia Vikander e l’altra premiata con l’Oscar (Still Alice) Julianne Moore, 4 momenti di vita che viaggiano insieme su un pullman (My life on the road) e che si scambiano commenti e suggerimenti di vita, da cui il titolo che volge al plurale il nome Gloria.

Altri interpreti sono uno stazzonato Timothy Hutton, anche lui premiato con l’Oscar per “Gente Comune” quand’era un ventenne di belle speranze non tutte realizzate; altri ruoli di spicco, per la comunità nera che si affiancò alle battaglie femministe, sono Lorraine Toussaint, molto attiva in tv e vista in “Selma”, e Janelle Monáe, nata cantautrice di successo e poi passata alla moda e al cinema.

Ma la sorpresa più piacevole arriva oltre la metà del film con l’irrompere della veterana 75enne Bette Midler, per la prima volta con una zazzeretta bruna; ottima cantante e attrice brillantissima che al cinema ha avuto i suoi anni migliori negli Ottanta dopo che nel 1979 aveva interpretato, premiata con il Golden Globe e candidata all’Oscar, il dramma musicale “The Rose”, una semi biografia molto romanzata della cantautrice Janis Joplin, per cui la Midler aveva composto la colonna sonora che subito divenne un suo grande successo discografico.

Volendo (oziosamente) tentare un parallelo con la nostra realtà, e con tutti i dovuti distinguo, essendo principalmente Julie Taymor una regista teatrale e d’opera che quando può fa il cinema, possiamo accostarla alle nostre Roberta Torre che se possibile è ancora più visionaria, e Emma Dante che recentemente ha realizzato “Le sorelle Macaluso” da un suo precedente spettacolo teatrale. Nel panorama statunitense e internazionale, invece, Julie Taymor resta in linea con tutte le altre registe che, ognuna a suo modo, fa cinema al femminile: Jane Campion, la signora degli intensi drammi romantici e storici “Lezioni di piano” e “Ritratto di signora”; la figlia d’arte Sofia Coppola con film dai toni surreali: “Il giardino delle vergini suicide”, “Lost in tralation”, “Marie Antoinette”; l’attrice Greta Gerwig che dal cinema indie è saltata ai classici sempre con uno sguardo personalissimo sulle sue protagoniste, da “Lady Bird” a “Piccole Donne”; Patty Jenkins che è la prima donna a dirigere blockbuster con super eroi, anzi eroine: “Wonder Woman”. Una collocazione a parte, invece, per la prima regista a vincere l’Oscar, Kathryn Bigelow, ex moglie e collaboratrice di James Cameron, che è l’unica a non fare cinema femminile e anzi si distingue per le sue regie muscolari in film di azione e militareschi, e dal thriller poliziesco con una donna protagonista, “Blue Steel” passa subito ai film pieni di testosterone con i surfisti rapinatori di “Point Break”, finché vince l’Oscar con “The Hurt Locker”, un film bellico collocato in Iraq, cui segue “Zero Dark Thirty” sulla cattura e l’uccisione di Osama Bin Laden; qualcuno aveva cominciato a chiedersi se per vincere l’Oscar una regista dovesse fare film virili, finché la risposta è arrivata quest’anno con la cerimonia degli Oscar 2021 che ha premiato la cinese Chloé Zhao per “Nomadland”, altro film rigorosamente al femminile. Dunque che le signore donne facciano film con donne e per donne, verranno premiate lo stesso.

“Maps to the Stars”: falling stars, risings stars, boring stars

A fine film la signora seduta accanto a me ha mormorato “Che tragedia!” e suo marito s’è messo a ridere: questo dice tutto del film. Un film che è un inganno sin dal titolo che fa romanticamente pensare a una mappa stellare e invece la mappa è quella di Los Angeles per trovare le ville delle star cinematografiche, e l’inganno mi sta bene così imparo a fare il romantico. Ma d’altronde che mi potevo aspettare da David Cronenberg, sempre votato alla violenza psicologica che si riverbera nella violenza fisica e viceversa? Io mi aspetto grandi film, e mi vengono subito in mente in due che ha girato con Viggo Mortensen: “A history of violence” e “La promessa dell’assassino”. Ma ultimamente Cronenberg sembra essersi raffreddato e dopo il non necessario dramma psicanalitico “A dangerous method” e l’ancor più gelido “Cosmopolis” che però esplora nuovi terreni, qui si affida a una sceneggiatura di Bruce Wagner che sarebbe stato meglio lasciare nel cassetto perché, a mio avviso, è tutta “troppo voluta”: storia corale di star in ascesa e altre in caduta libera dove la regola che vale per tutti, senza distinzione, è la nevrosi riccamente condita da droghe e psicofarmaci, ovvio; una storia dove nessuno si salva, neanche per sbaglio, neanche il cane, e non perché io ami gli happy endings ma davvero perché questa mancanza assoluta di speranza sembra tutta costruita a tavolino per raccontarci che dalle parti di Hollywood sono tutti brutti e cattivi nessuno escluso, e la morale ormai vecchiotta è che le colpe dei padri ricadono sempre sui figli. Trama da tragedia greca che si prende troppo sul serio e diventa grottesca spingendo al limite la pazienza dello spettatore con le allucinazioni in cui compaiono fantasmi che parlano troppo e non dicono niente. Brutti e cattivi, dicevo, anche visivamente, e se Julianne Moore si porta a casa il meritato premio come migliore attrice a Cannes mostrandosi fragile e sgradevole ma sempre affascinante anche se piena di rughe sotto una fotografia impietosa, la stessa fotografia fa di John Cusack – che è sempre un bravo attore ma ha il fascino di una zucchina bollita – un mostro invecchiato male e truccato peggio. La giovane Mia Wasikowska che ha sempre mostrato il suo fascino puro e acerbo, qui giocandosi la carta della bruttezza ci guadagna in credibilità artistica e il suo ritratto di ragazzetta scialba e sfigurata, nonché pazzoide ovviamente, è assai credibile. Anche Olivia Williams, nevrotica – e come sarebbe possibile altrimenti? – moglie dello pseudo-psico-terapeuta Cusack, cede al fascino della ruga in primo piano e anche lei lo fa con gran classe. Rimane inevitabilmente belloccio –  per chi lo crede belloccio ma per me ha l’occhio moscio – il Robert Pattinson che dopo aver fatto strage di cuori teenager come romantico vampiro s’è rifatto il look di attore serio col precedente “Cosmopolis” di Cronenberg dove era un giovane magnate che praticamente viveva nella sua limousine: qui è un giovane attore di belle speranze che la limousine la guida per pagare le bollette e anche se il suo ruolo è il più normale – ma dev’essere stata una svista dello sceneggiatore… – lui lo rende in modo naturale e credibile. Come altrettanto naturale, e anche di più, è il tredicenne Evan Bird che fa la giovanissima star, ovviamente in full immersion di nevrosi droghe e allucinazioni, che non si risparmia nulla: credo sia lui la vera rivelazione del film e se nella vita reale non farà la stessa fine del suo personaggio e di altre celebri giovani star sentiremo ancora parlare di lui. In conclusione, motivi per vedere il film: se sei un fan di David Cronenberg; se sei un fan di Julianne Moore; se sei un fan degli psicofarmaci. Altrimenti lascialo passare, senza perderci una serata, persino in tv, quando sarà.