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Oppenheimer – Miglior Tutto (o quasi) Oscar 2024

7 premi su 13 nomination sia agli Oscar che ai BAFTA per le medesime categorie, 5 Golden Globe, 4 Critics Choise Awards, 3 SAG-AFTRA, un Grammy Award alla colonna sonora di Ludwig Göransson, e l’inserimento nel National Board Rewiew fra i 10 migliori film dell’anno. Per non dire degli incassi record, anzi lo stiamo dicendo. Tutto questo nonostante il film sia sostanzialmente ostico trattando di materie astratte come la fisica e la quantistica e raccontando un protagonista non particolarmente simpatico in un contesto storico e accademico fatto di nomi e circostanze che dicono poco o nulla al grande pubblico: tolti i rassicuranti (perché conosciuti) Albert Einstein e il presidente Harry Truman, sono tutti personaggi alcuni dei quali Premi Nobel che fanno solo girare la testa. Ma la forza del film, scritto dallo stesso regista dalla biografia “Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica” di Kai Bird e Martin J. Sherwin che già vinse il Premio Pulitzer, sta nella sua struttura che mescola i generi spy thriller e legal drama interpuntati da accattivanti veloci effetti che visualizzano l’astrusità (per noi comuni spettatori) della materia quanto mai oscura, e la confezione è talmente perfetta che ci tiene incollati allo schermo nonostante le tre ore di visione. Gli Oscar vinti sono Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Protagonista, Miglior non Protagonista, Miglior Fotografia a Hoyte Van Hoytema e Miglior Montaggio a Jennifer Lame.

Ma c’è da aggiungere che molto del merito va anche alle superlative interpretazioni dell’insieme, sin nei ruoli più piccoli dove spesso ritroviamo nomi di prim’ordine, e questo fa la differenza: la grandezza di un film, e conseguentemente del suo autore, si vede anche dall’adesione che al progetto viene da conclamati protagonisti che pur di esserci si accontentano di ruoli secondari: ci sono i già premi Oscar Matt Damon (miglior sceneggiatura originale nel 1998 insieme all’amico Ben Affleck per “Will Hunting – Genio Ribelle”) il quale non ha mai disdegnato i ruoli da comprimario se ne vale la pena e che qui ha uno dei ruoli più corposi, il fratello del suo amico Casey Affleck (miglior non protagonista nel 2017 per “Manchester by the Sea”) ed entrambi già con ruoli secondari nel cast di “Interstellar” sempre di Christopher Nolan.

Gary Oldman

In ruoli davvero minori Rami Malek (miglior protagonista nel 2019 per “Bohemian Rhapsody” dove ha impersonato Freddy Mercury), Sir Kenneth Branagh (7 candidature e un solo Oscar nel 2022 per la miglior sceneggiatura originale del biografico “Belfast”) e Gary Oldman (miglior attore nel 2018 per “L’ora più buia” dove è stato Winston Churchill) che qui con una sola scena lascia la sua impronta come presidente Truman il quale pensa basti pulirsi le mani con un fazzoletto di seta dal sangue versato dalla bomba atomica che rivendica come sua.

Ci sono poi i già candidati all’Oscar Florence Pugh (nel 2020 per “Piccole Donne”) che qui pervade la prima parte del film come tormentata amante segreta di Oppenheimer, e soprattutto Robert Downey Jr. che come vero antagonista complottista si aggiudica l’Oscar best supporting actor dopo aver ricevuto le candidature per “Charlot” nel 1993 e “Tropic Thunder” nel 2009.

Robert Downey Jr.

E ci sono a vario titolo i già protagonisti o noti comprimari sia di film che di serie tv: Emily Blunt nel ruolo della moglie del fisico che qui si aggiudica la sua prima nomination all’Oscar come best supporting actress; Josh Hartnett, Jason Clarke, James D’Arcy, Dane DeHaan, Alden Herenreich, Tony Goldwin, David Krumholz, Scott Grimes, Gregory Jbara, Tim DeKay, Jeff Hephner, James Remar, Gustaf Skarsgård, James Urbaniak, Josh Zuckerman e per ultimo, anche nei titoli, il quasi irriconoscibile Matthew Modine che fu giovane promessa hollywoodiana: Coppa Volpi al Festival di Venezia per “Streamers” (1983) di Robert Altman e poi protagonista assieme a Nicholas Cage (che al contrario ha saputo mantenersi sulla breccia) dello struggente “Birdy” (1984) di Alan Parker e in “Full Metal Jacket” (1987) di Stanley Kubrick; ma dopo qualche altro film la sua carriera è tutta in discesa fino a venire quasi del tutto dimenticato.

Come generosamente ha titolato MoviePlayer

Chiudo l’elenco del fitto cast con gli ex attori bambini ormai divenuti interpreti di rango Alex Wolff, Michael Angarano e Josh Peck; ci sono poi il figlio d’arte Jack Quaid (di Dennis Quaid e Meg Ryan) e i meno noti al grande pubblico Dylan Arnold come fratello del protagonista, Tom Conti che veste i panni di Einstein, Danny Deferrari come Enrico Fermi e Benny Safdie che è principalmente regista indipendente in coppia col fratello Josh.

Cillian Murphy a confronto con il vero Robert Oppenheimer

Protagonista assoluto l’intenso Cillian Murphy premiato con la statuetta più ambita alla sua prima candidatura. Ricordando che ha già lavorato con Nolan in “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno” e in “Dunkirk”, bisogna notare che il regista londinese preferisce lavorare con interpreti britannici suoi conterranei: qui oltre a Murphy, Emily Blunt, Florence Pugh, Kenneth Branagh, James D’Arcy e Tom Conti oltre ad altri, non dimenticando anche il Christian Bale della trilogia sul Cavaliere Oscuro. Ma se l’autore è riconoscibile nella composizione del casting lo è soprattutto per il suo stile: ama raccontare i tormenti interiori passando per le ossessioni e gli inganni – in quest’ottica è davvero magistrale l’interpretazione di Robert Downey Jr. – e i confini della realtà anche solo come percezione interiore dei suoi personaggi – qui ben esplicitati nella figura di Oppenheimer con le sue visioni e i suoi tormenti.

Christopher Nolan sul set

Da ricordare anche la polemica dell’autore con la Warner Bros. che aveva prodotto i suoi precedenti film: “Alcuni dei più grandi registi e delle star più importanti della nostra industria sono andati a dormire pensando di lavorare per lo studio più prestigioso e si sono svegliati scoprendo di lavorare per il peggior servizio streaming.” aveva dichiarato polemicamente Nolan allorché la major aveva deciso di distribuire tutto il suo catalogo 2021 (la pandemia ha rilanciato l’home video) in contemporanea sia nelle sale che in streaming su tv e pc; e difatti, passato con questo film alla Universal, si legge nei titoli che il film è scritto e diretto “per il cinema”. E la Warner Bros. per fargli dispetto fece uscire il suo blockbuster su “Barbie” proprio in contemporanea all’uscita di “Oppenheimer”, ma gli attori di entrambi i cast, più lungimiranti e accoglienti delle case produttrici, invitarono il pubblico ad andare a vedere i due film in un solo pomeriggio come un doppio spettacolo, l’evasione e l’impegno, e tra le celebrity a fare da apripista seguendo il consiglio e fare da traino al grosso del pubblico ci sono stati Tom Cruise, che era già nelle sale con “Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte uno” e che non ha perso l’occasione per parlare anche del suo film, e lo sfaccendato cineamatore Quentin Tarantino; e a quel punto si è creato un altro dibattito: in che ordine vederli? la stampa chiamò il fenomeno Barbernheimer e il merchandising si buttò a capofitto nell’impresa creando magliette e ogni altra sorta di gadget… che poi uno dice: le americanate!

Povere creature! – Leone d’Oro e Oscar 2024

Ovvero quando in Italia proprio non ci azzeccano coi titoli. Dietro questo film c’è un romanzo, “Poor Things!” appunto, che l’eclettico artista scozzese Alasdair Gray diede alle stampe nel 1992 e che da noi Marcos y Marcos tradusse come “Poveracci!” che se uno lo comprava senza sapere cosa, poteva pensare che si trattasse di un romanzo inedito di Pier Paolo Pasolini sulle sue periferie romane; ma la casa editrice milanese dovette subito rendersi conto della figuraccia tant’è che lo stesso anno uscì con un’altra edizione reintitolata “Vita e misteri della prima donna medico d’Inghilterra” facendo pensare stavolta a un saggio storico su Elizabeth Blackwell che fu la prima donna a laurearsi in medicina nel 1849; doveva essere molto faticoso alla Marcos y Marcos – che orgogliosamente si sono dedicati esclusivamente alla traduzione e diffusione di letteratura straniera – pensare a un titolo più rispettoso dell’originale, magari lasciandolo così com’è dato che ormai tutti comprendiamo due parole come poor things. Risultato: le vendite non decollarono e il geniale – in patria – autore scozzese restò da noi misconosciuto. Ma con eccezionale tempismo da standing ovation (su cui mi indagherò) la piccola casa editrice Safarà (anch’essa con vocazione esterofila dedicata alla pubblicazione di opere lontane nello spazio e nel tempo, come si legge sul sito) con sede in Pordenone, dunque periferia geografia e periferia editoriale, fa il colpaccio acquisendo per tempo i diritti ed esce in contemporanea col film al Festival di Venezia, entrambi i lavori, libro e film stavolta intitolati “Povere Creature!”: film e libro di successo.

Alasdair Gray

Il progetto del film non è cosa recente. Nel 2009 l’autore greco Yorgos Lanthimos arrivato proprio in quell’anno alla ribalta con “Dogtooth”, suo terzo lungometraggio tutto greco (il titolo originale era “Kynodontas”) incoronato miglior film al Festival di Cannes nella categoria Un Certain Regard cui seguirono le candidature al British Film Awards e all’Oscar, forte della recentissima fama acquisita in ambito internazionale, andò fino in Scozia per chiedere ad Alasdair Gray, scrittore drammaturgo e artista visivo, di concedergli i diritti del romanzo in questione, e quando arrivò a casa dello scrittore fu sorpreso dall’accoglienza: lo scozzese aveva visto e apprezzato molto il suo film e il greco lo ricambiò esprimendogli la sua ammirazione per quel romanzo che nessuno aveva mai pensato di trasporre per il cinema, fino a ispirarsene: l’inizio di “Dogtooth” e l’inizio del romanzo hanno un aspetto identico: in entrambe le narrazioni i genitori tengono i figli chiusi in casa senza nessun contatto col mondo esterno, reale. Nel film poi le cose procedono in maniera assai più inquietante che nel romanzo, il quale attraverso una narrazione pastiche rimane una favola morale con evidentissimi rimandi al Frankenstein di Mary Shelley e con richiami anche ai mondi narrativi di Arthur Conan Doyle e Lewis Carroll: il romanzo gotico fine ‘800. Da buoni nuovi amici il 75enne scozzese portò il 36enne greco in giro per Glasgow a mostrargli i luoghi reali che aveva inserito nella storia, storia che però era quanto mai irreale, lontana dagli altri suoi romanzi in cui raccontava una città più realistica con indagini sul sociale.

Alasdair Gray a una sua mostra

Le “povere cose” del romanzo, in cui l’autore inserisce anche delle tavole illustrate di propria mano firmate però con lo pseudonimo di William Strang, si muovono in una fantasiosa epoca vittoriana raccontata come iperbole per continuare a parlare dei temi cari: le disuguaglianze sociali, l’ambiguità delle relazioni interpersonali e la ricerca dell’identità – temi cari anche all’autore greco che di suo aggiunge un gusto assai noir ellenicamente intriso di eros e thanatos: il progetto prese il via restando però come lungo work in progress data la difficoltà dell’impresa.

Una delle illustrazioni di Gray: è evidente che lo stile è stato ripreso nelle scenografie del film.

I film successivi di Lanthimos si aprono alle coproduzioni internazionali e vengono girati in lingua inglese, ma restano ancora nell’ambito delle produzioni indipendenti, però con l’arrivo sui set dei primi divi: Colin Farrell, Rachel Weisz e in un ruolo secondario l’apprezzata ma non ancora nota Olivia Colman per “The Lobster” (2015) Premio della Giuria a Cannes, candidatura all’Oscar per la sceneggiatura e al Golden Globe per Colin Farrell che ha rilanciato la sua carriera che s’era avviata in fase discendente; Farrell torna nel successivo film affiancato da Nicole Kidman in “Il Sacrificio del Cervo Sacro” (2017) con la sceneggiatura premiata a Cannes più molte altre candidature in altri premi – ma sono film ancora a basso costo che trattano le tematiche noir e grottesche tipiche dell’autore. Il 2019 è l’anno della consacrazione (anche se ancora gli sfugge l’Oscar personale) col triangolo lesbico nei palazzi reali inglesi del 1700 in “La Favorita” dove per la prima volta l’autore lavora su una sceneggiatura non sua, e per il ruolo della protagonista restò fermo su Olivia Colman che vincerà Oscar e Golden Globe divenendo una delle attrici più richieste; mentre per l’altra protagonista, dopo che Kate Winslet ha lasciato il progetto, offrì il ruolo a Cate Blanchett che però ringraziando declinò; a quel punto Lanthimos ripescò Rachel Weisz che non si fece problemi nell’essere una terza scelta e anzi si disse molto stimolata considerando il ruolo come “il più succoso” della sua carriera, paragonando la sceneggiatura a “Eva contro Eva” ma più divertente perché mossa dalla passione e dal sesso.

Protagonista e regista sul set

Emma Stone si autocandidò: aveva chiesto al suo agente di metterla in contatto col regista, che dopo averla incontrata le chiese di prendersi un insegnante per acquisire l’accento british, e la Stone s’impegnò così tanto che fra i due scoccò una scintilla professionale, tanto che Lanthimos le anticipò il suo progetto su “Poor Things”.

“Dopo il relativo successo di ‘La Favorita’ – ha dichiarato il regista – dove in realtà ho realizzato un film leggermente più costoso che ha avuto successo, le persone erano più propense a permettermi di fare qualunque cosa volessi, quindi sono tornato al libro di Gray e ho detto: ‘Questo è quello che voglio fare.’ È stato un processo lungo, ma il libro era sempre nella mia mente.” Processo talmente lungo che nel 2019 Alasdair Gray se ne andò 85enne senza aver potuto vedere il film tratto dal suo romanzo: il progetto fu ufficialmente annunciato nel 2021, in piena pandemia Covid, con Emma Stone che fece il grande salto da attrice scritturata a co-produttrice: “È stato molto interessante essere coinvolta nel modo in cui il film veniva messo insieme, dal cast ai capi dipartimento a ciò che è stato messo insieme. Alla fine, Yorgos è stato colui che ha preso quelle decisioni, ma io sono stato molta coinvolta nel processo, che è iniziato durante la pandemia; stavamo contattando le persone, facendo il casting e tutto il resto durante quel periodo, perché non potevamo andare da nessuna parte.” Mentre era chiusa in casa, pensando al personaggio sperimentò di farsi una tintura che accidentalmente risultò nera corvina, cosa che non era nelle sue aspettative; ma quel look che contrastava con la sua carnagione chiara piacque al regista e decisero di mantenerlo. Nel costruire il personaggio di Bella Baxter, l’attrice era attratta dall’idea di ritrarre una donna rinata con una mentalità libera dalle pressioni sociali: “Chiaramente, questo non può realmente accadere, ma l’idea che tu possa ricominciare daccapo come donna, con un corpo già formato, e vedere tutto per la prima volta e provare a capire la natura della sessualità, o del potere, o del denaro o della scelta, la capacità di fare delle scelte e di vivere secondo le proprie regole e non quelle della società: ho pensato che fosse un mondo davvero affascinante in cui compenetrarmi. Era il personaggio più gioioso al mondo da interpretare, perché non ha vergogna di nulla. E’ nuova, sai? Non ho mai dovuto costruire un personaggio prima che non avesse cose che gli erano accadute o che non gli erano state imposte dalla società per tutta la vita. È stata un’esperienza estremamente liberatoria essere lei.”

Si proseguì con la composizione del cast e per i ruoli maschili firmarono il veterano Willem Dafoe nel ruolo del frankensteiniano creatore di Bella che ogni giorno si è sottoposto a sei ore di trucco e parrucco, e il cinematograficamente poco noto ma già premiato comico americano di origine egiziana Ramy Youssef come suo aiutante e promesso sposo della creatura: entrambi, per prepararsi ai ruoli, hanno frequentato una scuola per becchini. Mark Ruffalo prese il ruolo del fascinoso manipolatore avvocato che introduce Bella nel mondo reale pensando di poterla usare come oggetto di piacere e al contempo controllare, non immaginando che la voglia di vita di lei avrebbe preso il sopravvento scompaginando tutte le regole vittoriane sulle quali l’uomo basava ogni sua convinzione: interpretazione molto autoironica e divertente. Nel ruolo del sadico marito della prima vita della protagonista l’emergente Christopher Abbott.

Si aggiungono Margareth Qualley (figlia di Andie McDowell) come nuova creatura in sostituzione della transfuga Bella, e nel ruolo della tenutaria del bordello Kathryn Hunter nata in America da genitori greci come Aikaterini Hadjipateras e poi naturalizzata britannica: forte caratterista che per la sua fisicità viene spesso chiamata sui set di film in costume; la nera francese Suzy Bemba, vista come protagonista della serie tv francese sul balletto “L’Opéra”, è una delle prostitute; e come crocieristi sul transatlantico il filosofo nero Jerrod Carmichael che principalmente è un altro comico televisivo e la rediviva 80enne Hanna Schygulla, indimenticata star di tutti gli anni ’70 fino alla metà degli ’80, nel divertito ruolo di una vecchia ricca signora dallo spirito assai innovativo rispetto a quell’Ottocento.

Oscar anche ai costumi di Holly Waddington che ha lavorato a stretto contatto con l’autore per rendere attraverso il guardaroba la crescita e lo sviluppo di Bella, dall’infanzia con abiti gonfi al corsetto che la fascia alla fine del film; anche l’attrice produttrice ci ha messo del suo pensando che nella sua infanzia Bella si veste in modo più tradizionale (si fa per dire, visti i costumi) mentre via via che cresce sceglie di vestirsi in modo più bizzarro – in un contesto surreale e grottesco dove qualsiasi cosa è plausibile.

E Oscar anche alla scenografia firmata dagli inglesi James Price e Shona Heath a cui in un secondo tempo si è aggiunto l’ungherese Zsuzsa Mihalek per i set interamente costruiti in studio in Ungheria, con i fondali dipinti in stile vecchia Hollywood secondo la visione del regista, e partendo dalle illustrazioni che Gray aveva realizzato per illustrare il suo romanzo, Lanthimos ha invitato gli scenografi a liberare tutta la loro follia: sono stati così realizzati, oltre alle versioni in miniatura per i campi lunghi, quattro enormi set in stile Escher, con versioni distorte e vertiginose delle capitali europee in cui Bella viaggia, come visioni nate dalla fantasia del personaggio ancora bambina.

Distorsioni visive accentuata anche dalla visione registica che col direttore della fotografia Robbie Rayan (candidato) hanno usato spessissimo le lenti deformanti come il grandangolo e il fish-eye. Un altro compiacimento autorale è l’uso del bianco e nero in molte sequenze all’inizio del film, che è generalmente gradevole pur senza essere compreso appieno, e qui arrivano le dotte spiegazioni: Lanthimos parte dal fatto che secondo eminenti studi i neonati cominciano a vedere il mondo in bianco e nero e solo dopo, lentamente, cominciano a riconoscere i colori: dunque il b/n del film è lo stato mentale della rinata Bella. Inoltre il b/n, sempre nelle intenzioni del regista, rimanda ai primi film horror con Frankenstein. Io da solo come spettatore medio non c’ero arrivato.

Oscar anche a trucco e acconciature di Nadia Stacey, Mark Coulier Josh Weston. Non premiato con l’Oscar come Miglior Film, categoria che invece è stata premiata ai Golden Globe insieme alla protagonista, e con il Leone d’Oro al Festival di Venezia. Solo candidatura per la sceneggiatura firmata dall’australiano Tony McNamara (di nuovo l’autore si è fatto da parte come sceneggiatore) e per i non protagonisti Willem Dafoe e Mark Ruffalo; solo nomination anche per il musicista Jerskin Fendrix qui debuttante come compositore di colonna sonora.

Ariane Lebed

E poiché Yorgos Lanthimos non se ne sta con le mani in mano, fra un film e l’altro ha realizzato due cortometraggi che è il caso di definire d’autore: nel 2019 con Matt Dillon ha realizzato “Nimic” e nel 2022 durante la lavorazione di “Poor Things” con Emma Stone ha girato “Bleat”, cortometraggi che sarebbe interessante andare a vedere. E al momento sta già ultimando il prossimo film “Kind of Kindness” di cui pochissimo si sa, se non che è stato girato a New Orleans e che dovrebbe uscire la prossima estate; nel cast di nuovo la Stone con Willem Dafoe e Margareth Qualley, ma stavolta è tornato a scrivere lui la sua sceneggiatura col suo amico di sempre Efthimis Filippou; e ricordiamoci, ora che è diventato una star hollywoodiana, che deve ancora piazzare anche la moglie attrice francese Ariane Labed per la quale, oltre a un ruolo di cameriera in “Lobster” non ha ancora trovato una parte succosa; intanto lei è l’altra protagonista della serie francese “L’Opéra” insieme a Suzy Bemba: si suppone che il colore della pelle nelle grandi produzioni sia determinante per l’assegnazione delle quote etniche.

Già si parla del prossimo film sempre con la Stone, perché squadra vincente non si cambia (a meno che un pettegolezzo dell’ultim’ora non ci sveli una loro relazione anche amorosa) che dovrebbe essere il remake della commedia fantasy sud-coreana “Save the green planet”: staremo a vedere cosa accadrà sui grandi schermi e sui grandi rotocalchi. Loro intanto, regista e attrice, interrogati dalla stampa, scherzano: “Facciamo schifo, e lo sappiamo. Perciò ci continuiamo a provare!”

Da qui in poi non si parla più del film ma di finanza ed editoria.

Gennaio 2016. La Elgo Holding con sede a Londra che è proprietaria di oltre 25 aziende sparse nel mondo, ha investito nell’assetto societario dell’azienda pordenonese dmyzero srl che si occupa di comunicazione aziendale ed editoria avendo creato un’innovativa sintesi fra i due settori: due marchi che hanno unito le loro storie per creare una realtà unica e condivisa, capace di evolvere insieme nel tempo: la D’Orsi Studio che opera nell’ambito della comunicazione visiva ai più diversi livelli e la Safarà Editore, una casa editrice che si dedica alla pubblicazione di letteratura e saggistica internazionale e che è tra le 58 case editrici europee vincitrici del bando Europa Creativa, un programma che premia la traduzione e promozione di opere letterarie di qualità firmate da autori provenienti dai più diversi paesi dell’Unione Europea. Elgo, scegliendo D’Orsi Studio per sviluppare la comunicazione delle oltre 25 aziende del gruppo, ha acquisito anche la casa editrice con l’intento di sviluppare importanti progetti editoriali di levatura mondiale. Da qui la dritta della più o meno imminente realizzazione del film dal romanzo già malamente edito in Italia. Marcos y Marcos che ne deteneva i diritti per l’Italia è stata ben lieta di sbarazzarsene e Safarà, che nasconde la longa manus di Elgo, ha fatto il colpaccio. Se è vero che bisogna trovarsi al posto giusto nel momento giusto, è anche vero quello che diceva mia nonna: i soldi fanno i soldi e i pidocchi fanno i pidocchi.

La zona d’interesse – un Oscar quasi scontato

Quasi scontato perché i membri dell’Academy che votano i vincitori sono da sempre assai sensibili ai tema della Shoah, non a caso nel 1999 hanno premiato con l’Oscar al miglior film straniero “La vita è bella” di Roberto Benigni, dunque arrivano assai riduttive se non inopportune le rozze semplificazioni alla Massimo Ceccherini che nel difendere il “suo” “Io Capitano” in quanto co-sceneggiatore ha detto in tv: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.”

Quelli, non vincono sempre, ma vincono spesso perché nell’industria cinematografica statunitense ci sono stati molti autori fuggiti in passato dalle persecuzioni naziste, che hanno lasciato una grande eredità sia simbolica che effettiva in termini generazionali: gli ebrei vincono spesso perché in quel settore sono tanti. Ma non vincono sempre e basta come esempio su tutti il grande Steven Spielberg che è stato preso in considerazione e premiato solo quando ha affrontato direttamente il tema con “Schlinder’s List” nel 1994 dopo trent’anni di onorata carriera costellata da molti capolavori.

Tornando a parlare di “Io capitano” di Matteo Garrone, il film italiano ha una cosa in comune con questo film vincitore: il punto di vista, un nuovo punto di osservazione. Garrone per raccontare il tema dell’immigrazione si addentra in Africa a filmare i punti di partenza, partendo proprio da racconti reali; Jonathan Glazer per il suo film sceglie di raccontare l’orrore dei campi di concentramento dal punto di vista banalmente umano, e per la sua umana banalità anche orribilmente feroce, dei nazisti: ci fa vedere che erano persone reali, ordinari nella ricerca dello status, della crescita sociale, e delle proprie soddisfazioni personali fatte di piccole lecite cose: la piscinetta su un prato perfettamente falciato, la serra sul retro della graziosa e altrettanto banale villetta, il benessere quotidiano semplificato da uno stuolo di silenziosi servitori, i bei figli da crescere in quella pace idilliaca, quasi arcadica: solo che il tutto si svolge a ridosso del muro del campo di concentramento di Auschwitz e la bella e perfetta famigliola è quella del comandante Rudolf Höß (scritto anche Höss) realmente esistito come creatore del campo e poi condannato e giustiziato nel 1946 come criminale di guerra.

L’inglese Jonthan Glazer, che ha scritto anche la sceneggiatura ispirandosi a un romanzo, ha debuttato nel 2000 con un film che lo ha subito portato alla ribalta, il gansteristico grottesco “Sexy Beast” da cui è nata una serie tv recentemente uscita su Paramount+. Cambia genere e prosegue, continuando a collezionare riconoscimenti, col fantasy-psicologico “Birth – Io sono Sean” e poi col fantascientifico “Under The Skin”, e oggi con questo suo quarto film cambia ancora una volta genere, ma non stile: nel film precedente aveva usato delle telecamere nascoste realizzando una sorta di candid camera, e qui accresce in modo esponenziale lo stratagemma tecnico: col direttore della fotografia, il polacco Łukasz Żal (già due volte candidato all’Oscar per i film di due suoi connazionali che erano sempre nella sezioni miglior straniero) piazza nell’appartamento minuziosamente ricostruito dallo scenografo inglese Chris Oddy più di dieci telecamere comandate da remoto come in una casa del “Grande Fratello”, senza l’invasiva presenza di nessun altro supporto tecnico o umano, utilizzando la luce naturale, di modo che gli attori potessero recitare muovendosi liberamente, anche improvvisando qua e là quando si aveva a che fare coi bambini o il cane, realizzando una serie di campi lunghi o medio lunghi senza alcun movimento di camera o di obiettivo: il risultato del materiale montato è quello di una raggelante casa di bambole dove i personaggi sono seguiti come insetti al microscopio, pochi i piani americani e pochissimi i primi piani. E il racconto filmico è su diversi livelli, come un palcoscenico teatrale diviso in più parti: mentre è centrale l’azione dei personaggi principali, di lato o sullo sfondo si muovono discreti e silenziosi i personaggi secondari che fanno funzionare il ben oliato marchingegno domestico: gli untermenschen, uomini e donne di razza inferiore, le serve cooptate fra le locali ragazze polacche e gli uomini di fatica fra i prigionieri del campo.

Questo studio quasi entomologico della famiglia crea un distacco emotivo sul pubblico, tanto che nessuno dei personaggi risulta simpatico – quando è risaputo che molti personaggi negativi di cinema e teatro diventano beniamini del pubblico: qui il male non è spettacolarizzato e reso accattivante ma semplicemente raccontato attraverso un’analisi distaccata; e se la distanza dai personaggi è raggelante non c’è però distanza dal film, che coinvolge e suscita sorpresa, dolore, indignazione, ansia – perché quei personaggi, com’è nelle intenzioni dell’autore, possono essere chiunque di noi perché noi siamo – noi più la circostanza in cui ci troviamo: la famiglia del comandante Höss si è trovata in quelle circostanze, in parte senza poter scegliere, com’è il caso dei figli, che però da adulti hanno poi difeso la memoria del padre celebrandolo come un eroe morto in guerra avendo compiuto soltanto il proprio dovere: dunque anche i bambini da adulti hanno fatto la loro banale scelta scegliendo di non scegliere.

La scena bucolica che apre il film

Il film comincia a schermo nero per un tempo che sembra interminabile mentre udiamo i rumori di fondo che sentiremo per l’intero film: per Jonathan Glazer anche noi pubblico siamo cavie, da abituare all’esercizio di stile che verrà, ovvero l’ascolto di quello che accade in sottofondo piuttosto che le banali conversazioni in primo piano – e qui il film si aggiudica il suo secondo meritatissimo Oscar per il miglior sonoro: il sound designer Johnnie Burn ha prima stilato un documento di ben 600 pagine in cui ha raccolto gli eventi più rilevanti accaduti nel campo di Auschwitz, insieme alle testimonianze dirette dei soravvissuti e una mappa del campo per meglio determinare le distanze e gli echi dei suoni; a quel punto ha impiegato ancora un anno per costruire una libreria sonora che includeva i suoni di macchinari, dei crematori, delle fornaci, di stivali, di spari e urla di dolore; la sua meticolosità si è spinta al punto da inserire le voci dalle proteste parigine del 2022 per ricreare gli echi delle voci dei francesi che in quel preciso momento storico erano stati deportati-importati nel campo; mentre per le voci delle guardie ha inserito quelle degli ubriachi che urlano per strada nel quartiere Reeperbahn di Amburgo: come ha giustamente considerato Glazer il suono è un altro film, probabilmente il vero film.

Era candidato anche per il miglior regista e la miglior sceneggiatura non originale dal romanzo omonimo di Martin Amis: la zona d’interesse è, a cominciare dalla Polonia di Auschwitz, tutto l’est russo in cu Adolf Hitler avrebbe voluto espandersi. Nel romanzo lo scrittore pur ispirandosi alla figura reale di Höss cambia il nome e ne fa una narrazione di fantasia. Glazer, partendo dal romanzo, ha ovviamente cominciato a fare le sue ricerche concentrandosi sempre più sulla figura reale del comandante nazista, e decidendo di togliere il filtro della finzione narrativa ha riesumato il vero personaggio e la sua famiglia aggiungendo dettagli storici e biografici che nel libro non c’erano, come la figura della suocera venuta in vacanza, genericamente e serenamente razzista nei confronti degli ebrei che stanno bene dove stanno, al di là del muro, fino a quando non si rende conto di quello che realmente accade nei forni crematori e scappa lasciando solo un biglietto alla figlia. Seguendo le note di Glazer, il suo lavoro è stato quello di costruire un film che demistificasse i nazisti ormai quasi sempre descritti come mitologicamente malvagi, raccontando l’Olocausto non “come qualcosa di sicuro nel passato” ma come “una storia del qui e ora” e facendo un riferimento diretto, anche nel discorso di accettazione dell’Oscar, a quanto sta accadendo in Medio Oriente: l’orrore delle persecuzioni e la capacità di infliggere sofferenze non si è mai eradicata dall’animo umano qualsiasi sia la fede religiosa o politica che la muove.

Con una produzione anglo-polacca e la decisione di girare il film nelle lingue originali dei luoghi descritti, tedesco polacco e yiddish, è stato contattato l’attore tedesco Christian Friedel che era assai restio avendo già rifiutato in passato di interpretare personaggi nazisti e avendo invece impersonato un oppositore attentatore alla vita di Hitler in “Elser – tredici minuti che non cambiarono la storia” di Oliver Hirschbiegel del 2015; fu però positivamente colpito dal nuovo approccio del regista e rendendosi disponibile suggerì per il ruolo della moglie la collega Sandra Hüller con cui aveva già felicemente lavorato, e poiché anche lei non era disponibile a interpretare figure naziste le fu inviato solo un estratto della sceneggiatura, un dialogo fra moglie e marito, senza alcun riferimento al reale contesto, che convinse l’attrice a leggere la sceneggiatura completa e a incontrare il regista… a quel punto fece scritturare anche il suo Weimaraner nero per interpretare Dilla, il cane della famiglia Höss, mentre Medusa Knopf fu scritturata per interpretare sua madre.

Momento d’oro per l’attrice dato che agli Oscar era personalmente candidata come protagonista per un altro film di produzione francese e girato in francese e inglese, “Anatomia di una caduta” di Justine Triet, regista già premiata in patria con la Palma d’Oro a Cannes, e che si è aggiudicata anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale insieme al suo compagno di vita Arthur Harari. Ma anche “La zona d’interesse” aveva trionfato a Cannes aggiudicandosi il Grand Prix Speciale della giuria, il Cannes Soundtrack Award e il FIPRESCI della critica cinematografica.

Insieme all’uso delle telecamere in stile “Grande Fratello” e al tappeto sonoro come film nel film, Glazer si spinge verso la ricerca sperimentale inserendo anche un paio di sequenze girate con una termocamera, una particolare telecamera di sorveglianza utilizzata dai militari e ufficialmente classificata come arma.

Telecamera termica con le quali rievoca le incursioni notturne di una ragazza che lascia delle mele dove i prigionieri le possano trovare. Anche queste sequenze, le uniche che danno un filo di speranza nel film, sono nate dalle ricerche dell’autore e si ispirano ad Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk che l’autore incontrò nel 2016 poco prima che l’ottantanovenne morisse: all’età di 12 era stata membro dell’Esercito Nazionale Polacco e andava in bicicletta per lasciare nei dintorni del campo, laddove i prigionieri venivano condotti per lavorare, le mele; come è raccontato nel film, ha scoperto uno spartito musicale scritto da un prigioniero, che poi la giovane attrice Julia Polaczek eseguirà al pianoforte in una scena girata nella vera casa di Aleksandra; e anche l’abito che indossa e la bicicletta che usa sono gli originali appartenuti alla protagonista reale, alla quale Glazer ha dedicato il film nel discorso di accettazione del premio. Il brano musicale era stato scritto da Joseph Wulf che poi sopravvisse al campo e fu uno dei primi a testimoniare le atrocità che aveva vissuto.

Sotto finale il comandante del campo accusa dei dolori allo stomaco – gastrite? rigurgiti di coscienza? – e il film fa un ardito salto in avanti, al Museo di Auschwitz da cui l’autore ha avuto completa collaborazione, mentre le donne delle pulizie preparano prima dell’apertura al pubblico; poi si torna al nazista sperduto negli squadrati meandri del palazzo del potere nel cui buio sta per discendere definitivamente.

Incidentalmente, il 19 maggio 2023 il film è stato presentato al Festival di Cannes ricevendo una standing ovation di sei minuti, mentre Martin Amis, l’autore del romanzo, moriva 73enne nella sua casa in Florida, da accanito fumatore per un cancro all’esofago. Da registrare anche che il discorso del regista che accomunava l’Olocausto a quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza, facendo intendere che gli oppressori sono oggi gli ebrei, ha fatto infuriare molti a cominciare dal suo produttore esecutivo Danny Cohen che si è dissociato dichiarando che molti membri della comunità ebraica gli hanno confidato che le parole di Glazer hanno riaperto vecchie ferite nella loro storia etnica nonostante il film sia un capolavoro sulla Shoah: di fatto, è la mia opinione, piuttosto che continuare a ricattare il mondo con “le vecchie ferite” sarebbe necessario riflettere sulle nuove, e sulle nuove responsabilità.

The Whale – nel riscatto del personaggio il riscatto dell’attore

Confessiamocelo, Brendan Fraser per noi è sempre stato solo il simpatico ragazzone protagonista della trilogia “La Mummia” anche se per altre interpretazioni drammatiche è stato lodato, come ad esempio in “Demoni e Dei” del 1998 regia di Bill Condon o “The Quiet American” del 2002 di Phillip Noyce. Ma fondamentalmente la sua carriera è tutta spesa in commedie, film d’azione e giocattoloni vari: si fa quel che si può e si prende quel che passa il convento e, come ha specificato l’attore nel suo discorso di accettazione dell’Oscar, la sua carriera è stata fatta di alti e bassi. Va anche detto che la percezione che abbiamo noi europei, e italiani nello specifico, degli attori stranieri, manca di molti dettagli e sfumature che possono avere senso solo in patria; ad esempio per Brendan Fraser a Hollywood è stato coniato il termine “Brenaissance” che lega insieme Brendan a Renaissance, dopo la sua profonda crisi dei primi anni Duemila in cui pensò addirittura di ritirarsi. Ma cos’era successo?

Brendan Fraser al meglio della prestanza fisica nel film “George Re della Giungla…? sul finire degli anni Novanta. Dirà di quel periodo da “bisteccone” che effettivamente si sentiva come una “bistecca ambulante”, per dire della vacuità che gli veniva intorno a causa del suo aspetto.
Philip Berk

Si parla esattamente di venti anni fa, il 2003, quando l’attore era al culmine della sua carriera. Accadde che a un pranzo in un hotel di Beverly Hills, Philip Berk, che all’epoca era uno dei più influenti elettori dell’HFPA, Hollywood Foreign Press Association di cui in seguito divenne anche presidente, palpasse pesantemente l’attore. Va ricordato che l’associazione ha fondato nel 1944 i Golden Globe Awards con l’intento di assegnare premi e riconoscimenti a produzioni cinematografiche e televisive di tutto il globo terraqueo (sic! ma anche sigh!), in pratica il secondo premio statunitense per importanza dopo l’Oscar; l’attore, ancora astro nascente senza statuette importanti in bacheca, aveva tre opzioni: gradire, fingere che fosse uno scherzo e farsi una finta risata, o restarci male. Brendan ci restò malissimo tanto da mettere in discussione la sua permanenza nello show business. Solo nel 2018, incoraggiato dai movimenti anti abuso Mee Too ebbe il coraggio di raccontare pubblicamente la sua esperienza. Nel 2003 Fraser, attraverso i suoi avvocati chiese e ottenne da Berk e dall’HFPA scuse private, ricevendo una lettera il cui tono era il classico: se ho fatto qualcosa che ha turbato il signor Fraser non era intenzionale e me ne scuso – di fatto non ammettendo alcun illecito. E nei fatti facendogli terra bruciata intorno: la carriera dell’attore subì una grave flessione che lo portò a una crisi personale che coinvolse anche la tenuta del suo matrimonio.

Nel 2018 Brendan si è confidato alla rivista GQ che già altre volte aveva avuto attenzioni per lui: “Ho parlato perché ho visto così tanti dei miei amici e colleghi che in quel momento stavano coraggiosamente venendo allo scoperto per dare forza alla loro verità. Avevo anch’io qualcosa da dire. Si possono mettere gli attori su piedistalli e poi buttarli giù rapidamente e facilmente: è quasi come se fosse il gioco. Così io mi sono appena liberato del piedistallo. Voglio solo essere me stesso”. E raccontando in dettaglio quanto è accaduto: “La sua mano sinistra si è allungata ad afferrare la mia chiappa e poi con un dito mi ha toccato nella zona anale (qui l’attore usa un termine gergale intraducibile: taint) cominciando a muoverlo girandolo. Mi sono sentito male, mi sono sentito come se qualcuno mi avesse gettato addosso della vernice invisibile. Ero come un ragazzino che stava per scoppiare a piangere…”. A questa tardiva denuncia pubblica la HFPA ha avviato un’indagine interna che ha concluso che Berk stava solo scherzando e, rifiutando di condividere con l’attore i dettagli emersi nell’indagine, gli è stato chiesto di firmare una dichiarazione congiunta in cui “con lungimiranza” tutte le parti, l’attore l’assalitore e l’associazione, consideravano conclusa la vicenda e che auspicavano una rinnovata collaborazione, mentre Philip Berk sarebbe rimasto membro attivo dell’HFPA. Brendan Fraser ha rifiutato di firmare, rilanciando: “Io sono l’unico che sa dove e come è stato toccato”: le intenzioni di Berk – che stesse scherzando o ci stesse pesantemente provando – rimangono per lui irrilevanti: lui era stato abusato. “Sono come lupi travestiti da agnelli” ha concluso.

Per completare la triste vicenda del tristo figuro: Nel 2014 pubblicò un libro di memorie – in cui fra l’altro finalmente ammetteva di aver “scherzato” con l’attore mentre per anni aveva sempre negato – che fece arrabbiare non poco i membri della HFPA perché svelava retroscena sul funzionamento interno dell’organizzazione, e altri ameni pettegolezzi su alcuni dei suoi colleghi, col risultato che fu costretto a prendersi un congedo di sei mesi dall’associazione; ma finì con l’essere definitivamente espulso nel 2021, dopo che Berk – di nazionalità sudafricana e di origini olandesi, ed evidentemente sostenitore dell’apartheid – inviò una mail ad altri membri dell’associazione in cui citava un articolo che descriveva Black Lives Matter come un “movimento di odio razzista”: il classico bue che dà del cornuto all’asino. A quel punto l’emittente televisiva NBC che trasmette il gala dei Golden Globe, chiese l’espulsione immediata di Berk per andare avanti con la collaborazione: detto, fatto; e a seguire il consiglio dell’associazione ha dichiarato che “condanna tutte le forme di razzismo, discriminazione e incitamento all’odio e trova inaccettabili tali linguaggio e contenuti.”

Brendan Fraser con “The Whale” è stato candidato nella sezione miglior attore in un film drammatico ai Golden Globe 2022, ma per coerenza l’attore si è rifiutato di presenziare alla serata dicendo solo: “Non sono un ipocrita”; vinse Austin Butler per “Elvis” che altrettanto concorreva per quest’Oscar 2023 e sperava di fare la doppietta: sorry, è l’anno della Brenaissance!

Veniamo al film. Darren Aronofsky è un regista raffinato che dal suo debutto nel 1998 ha realizzato otto film, sparsi però in una lunga sequenza di progetti irrealizzati che di numero superano quelli realizzati; fra i film che hanno visto la luce vale la pena ricordare “The Wrestler” (2008) che ha rilanciato la carriera dell’appesantito Mickey Rourke che però per la sua imprevedibilità e il discutibile gusto nella scelta dei copioni, pare destinato a un secondo declino; segue “Il Cigno Nero” (2010) che è valso Oscar e Golden Globe a Natalie Portman; poi viene il biblico e non del tutto riuscito “Noah” (2014) con Russell Crowe; quindi passa all’horror d’autore con “Madre!” (2017) starring Jennifer Lawrence e Javier Bardem, che tanto per cominciare è stato fischiato al Festival di Venezia. Per riuscire a realizzare quest’ultimo film, Il regista ha impiegato più di dieci anni perché non trovava il giusto interprete, ma ebbe una folgorazione quando vide Fraser in alcuni spezzoni di “Journey to the End of the Night” del 2006 mai distribuito in Italia.

All’origine del film c’è il dramma teatrale omonimo del 2011 di Samuel D. Hunter che qui debutta come sceneggiatore adattando la sua pièce per lo schermo. L’autore, quotato e premiato in patria, esplora nei suoi lavori la religiosità con particolare attenzione a mormoni ed evangelici: presumo – del tutto liberamente e senza pezze d’appoggio – che data la sua dichiarata omosessualità e la sua provenienza dall’Idaho che è uno degli stati dove sono insediati i mormoni, che sia lui stesso un mormone fuoriuscito che ancora cerca il senso di un sano rapporto con Dio.

Il 55enne Brendan Fraser naturalmente appesantito dagli anni fra regista e autore.

La storia, apparentemente piana, è molto complessa e si presta a diversi livelli di lettura: oltre all’omosessualità del protagonista e alle dispute religiose col giovane missionario della New Life Church, ci sono il passato in cui conserva la memoria di un compagno morto e da cui irrompe nel presente una figlia adolescente che non vede da otto anni, frutto di un errato matrimonio, cui segue anche la visita dell’ex moglie; ma soprattutto c’è il rapporto con l’insegnamento: Charlie, il protagonista, è un professore di lettere che tiene lezioni online e, come ha dichiarato Hunter, proprio da lì parte l’ispirazione del dramma; l’obesità del personaggio è venuta dopo, per dare al personaggio una caratteristica che gli facesse tenere la distanza dal mondo; e ancora spiega che il personaggio del giovane missionario è un modo per “proteggersi e allontanarsi” dalla religione e di “scrivere sulla religione ma in modo che non si sentisse troppo vicino a casa”. Più chiaro di così.

Nell’adattare per lo schermo la sua storia che si svolge tutta all’interno di un appartamento, l’ha voluta ambientare in un’epoca recente ma pre-pandemia affinché non si facesse confusione fra l’auto-reclusione del protagonista con un forzato lockdown. La derivazione teatrale è evidente e, come suppongo sia a teatro, la tensione drammatica non viene mai meno perché risvolti narrativi e ingresso degli altri personaggi sono equilibratissimi: la vietnamita-statunitense Hong Chau, candidata all’Oscar, è l’amica infermiera; la ventenne Sadie Sink che si è meritata la candidatura Critics’ Choice Awards come miglior giovane interprete, è la figlia adolescente; l’ex attore bambino Ty Simpkins, che a tre anni ha debuttato in tv e a quattro al cinema, è il giovane missionario; la britannica Samantha Morton, eccellentissima attrice mai abbastanza valutata nei casting, è l’ex moglie. Si intravede il fattorino delle pizze e, grave lacuna in un’attenta drammaturgia che si fa poetica attraverso l’iperrealismo, non c’è traccia di qualcuno che venga a fare le pulizie.

Laddove il dramma presta il fianco alla retorica, l’autore non indulge nel melodrammatico e taglia sempre corto dove il rischio è dietro l’angolo. Ciò non toglie che il film sia veramente coinvolgente sul piano emotivo grazie all’interpretazione del gigantesco (gioco col termine intendendolo in senso figurato) Brendan Fraser, che sotto il make up premiato con l’Oscar a Adrien Morot, Judy Chin e Anne Marie Bradley (ci sono anche i cuscinetti ad acqua che fanno pulsare le tempie!) è veramente commovente nel personaggio; e anche se noi sentiamo il doppiaggio con l’interpretazione di Fabrizio Pucci, gli occhi di Brendan non lasciano dubbi.

Il finale non è a sorpresa, sappiamo sin dall’inizio come andrà a finire. Ma è consolatorio che il buon grasso Charlie trovi il suo riscatto in un guizzo di lucido arrabbiato sacrosanto orgoglio. Ed è consolatorio e davvero commovente che Brendan Fraser, altrettanto, trovi nel film e nel successo un riscatto che attendeva da vent’anni.

Fuori contesto lancio una scommessa: che presto vedremo in scena uno dei nostri quotati attori teatrali portare in scena questo dramma.

CODA, I segni del cuore – tre Oscar buttati via

Remake del francese “La Famiglia Bélier” del 2014, trasvolando l’Atlantico subisce il necessario adattamento restando nell’impianto identico all’originale: una ragazza adolescente, unica normodotata in una famiglia di sordomuti – padre madre e fratello – per ironia della sorte canta come un usignolo e vuole seguire il suo sogno e spiccare il volo. Ma la poverina è intrappolata essendo l’unica a poter fare da traduttrice fra la sua famiglia e il mondo esterno, oltre a dover fare i conti con le naturali palpitazioni amorose per il belloccio di turno che guarda caso è canterino pure lui. E come l’originale francese è un film così delizioso ma anche così spalmato di buoni sentimenti senza se e senza ma, da farmi salire i trigliceridi.

Nella ruolo della mater familias la mater familias dei sordomuti hollywoodiani Marlee Matlin che debuttando nel 1986 in “Figli di un Dio Minore” vinse l’Oscar e da lì in poi si è ritagliata una carriera di lusso fra cinema e tv. Protagonista è la londinese Emilia Jones e il giovanotto con cui duetta è l’irlandese Ferdia Walsh-Peelo, mentre il fratello è Daniel Durant al suo debutto cinematografico. Troy Kotsur, il pater familias, è uno dei più importanti esponenti nel mondo dei sordomuti dello spettacolo statunitense e, a sorpresa ma neanche tanto (aveva già incassato altri importanti premi) vince l’Oscar 2022 come Migliore Non Protagonista, e la mia sensazione è che il premio sia un riconoscimento alla comunità perché, anche se bravo è bravo, premiarlo con l’Oscar mi pare davvero un’esagerazione: negli USA hanno un servile rispetto per ogni minoranza e fanno un uso così smoderato del politically correct da diventare a volte razzisti all’incontrario. È davvero un’esagerazione anche l’Oscar alla migliore sceneggiatura non originale alla sconosciuta Sian Heder qui al suo secondo film che si porta via, davvero a gran sorpresa da vero outsider, l’Oscar come Miglior Film. Ed è davvero troppo perché è un film, come l’originale, molto grazioso e molto furbo, che evidentemente ha messo nel sacco i membri dell’Academy. Con un difetto di fabbricazione: nell’originale francese gli attori che interpretano i sordomuti sono dei normodotati che danno un’eccellente totale interpretazione da fare impallidire le graziose ma ordinarie interpretazioni dei veri sordomuti americani. Americani che alla notte degli Oscar, ricevendo cotanti premi, si sono ben guardati dallo spendere una sola parole per l’originale francese che hanno copiato, copiato arrivando a una striminzita sufficienza, che l’ignoranza pervasiva degli americani verso il cinema europeo ha fatto gridare al miracolo.

L’acronico CODA nel titolo sta per Child Of Deaf Adult(s) ovvero figlio/a di adulto/i sordo/i.

Green Book, vincente per forza

“Green Book” ha già vinto il Golden Globe nella sezione Miglior Film Commedia e Miglior Attore non protagonista per Mahershala Ali; è candidato all’Oscar come Miglior Film, Miglior Attore Protagonista e Non Protagonista, Miglior Montaggio e Miglior Sceneggiatura al regista Peter Farrelly che l’ha scritta a sei mani con Brian Hayes e Nick Vallelonga che è il figlio del Tony di cui il film racconta la storia “ispirata a vicende reali”. Ricordiamo qui che Peter Farrelly in coppia col fratello Bobby ha firmato grandi successi come “Tutti pazzi per Mary”.

La vicenda cui si ispira è quella del pianista nero Don Shirley, colto azzimato e nero, che per la sua tournée nel profondo sud degli States si affida all’italo-americano Tony Vallelonga, ignorante rozzo e bianco. La vicenda è complicata perché siamo nel 1962, nel sud vige ancora la segregazione razziale e l’eccezionale pianista è accolto da strette di mano e applaudito solo finché si esibisce ma poi non può condividere ristoranti e bagni coi bianchi che lo hanno ingaggiato e osannato. Il Green Book del titolo è una guida di viaggio per negri, per aiutarli a trovare i posti dove possono alloggiare e mangiare più tutte le altre regole della segregazione, come quella della restrizione notturna agli spostamenti.

Fondamentalmente è un film del filone “strana coppia” dove i due, quanto mai diversissimi, finiranno con l’apprezzarsi e col condividere esperienze e culture: nulla di nuovo. Vince l’ambientazione, appunto, e la coppia del cast che schiera due nomi di prim’ordine già pluri premiati: Viggo Mortensen e Mahersala Ali che sembrano divertirsi molto, in libera uscita dai ruoli impegnativi che li hanno premiati in passato, e divertono la platea. Ai Golden Globe ha vinto solo Mahersala Ali come Non Protagonista ed entrambi sono candidati all’Oscar sempre come protagonista Viggo Mortensen e non protagonista Mahershala Ali che di fatto è protagonista tanto quanto: vedremo presto come andrà anche se a mio avviso il film, gradevolissimo, è però molto sopravvalutato. Nel cast la palpitante Linda Cardellini come moglie di Viggo e lo stesso co-sceneggiatore figlio del vero protagonista Nick Vallelonga.

Ma la pecca più grossa del film è il suo doppiaggio italiano che lo riduce a un film di macchiette col suo insentibile “sicilianese” (termine gergale per addetti ai lavori per definire un siciliano inventato e assai sgradevole) che ha il suo peccato originale nell’adattamento dei dialoghi dove sentiamo addirittura un “chissi cosi” che non esiste in nessuno dei dialetti dell’Isola: come rovinare un film in corsa per gli Oscar. Dato il peso specifico artistico di Mortensen ho immaginato che il suo lavoro sulla lingua italo-inglese dovesse essere più raffinato e me ne sono accertato cercando sul web il trailer in lingua originale…

Regine inglesi al cinema e in corsa per gli Oscar

Un solo pomeriggio-sera, un’occasione da non mancare per gli appassionati del genere, la visione di due film storici su regine inglesi: “La Favorita” e “Maria Regina di Scozia” sul più famoso duetto-duello regale della storia inglese, fra Mary Stuart ed Elizabeth Tudor. Il dramma teatrale di Friedrich Schiller “Mary Stuart” ha anche ispirato l’opera lirica “Maria Stuarda” di Gaetano Donizetti e ha avuto da noi un’epica regia teatrale di Franco Zeffirelli del 1983 con le regine del palcoscenico Rossella Falk e Valentina Cortese.

Nei decenni l’intricata e intrigante vicenda è stata ispirazione per diversi film fra i quali vale la pena ricordare il muto “Regina Elisabetta” con Sarah Bernhardt del 1912; una “Maria di Scozia” del 1936 con Katharine Hepburn cui fece seguito l’anno dopo una “Elisabetta d’Inghilterra” con Vivian Leigh; del 1953 è “La regina vergine” con Jean Simmons come Elisabetta ma non dimentichiamo Bette Davis che ha impersonato Elisabetta in due diversi film: “Il conte di Essex” del 1939 con Errol Flynn che nel titolo inglese era “The Private Lives of Elizabeth and Essex” e Il favorito della grande regina” del 1955 con Richard Todd; nel 1971 arriva “Maria Stuarda regina di Scozia” con le duellanti Vanessa Redgrave e Glenda Jackson. In anni più recenti abbiamo visto Cate Blanchett nei due film “Elizabeth” del 1998 cui ha fatto seguito nel 2007 “Elizabeth: the golden age”.

Nel film attuale, ben diretto dalla regista teatrale Josie Rourke, raccolgono i pesanti testimoni la ventiquattrenne irlandese Saoirse Ronan già dotata attrice bambina, tre volte candidata agli Oscar, e la ventinovenne australiana Margot Robbie candidata all’Oscar lo scorso anno per “Tonya”. Due astri nascenti di sicuro talento che reggono in modo eccellente il peso delle parti in un film che rilegge la vicenda in chiave più femminile e femminista dove i caratteri maschili sono rivelati come doppiogiochisti e manipolatori. Ma nessuna candidatura per le due, stavolta, e a mio avviso le avrebbero meritate.

Film storicamente fedele aggiunge il dettaglio del vaiolo che avrebbe deturpato Elisabetta, che da quel momento in poi si coprirà il viso di una maschera bianca alla biacca avvelenandosi col piombo della mistura. Più risalto è data alla vicenda omosessuale del menestrello italiano Davide Rizzio (Ismael Cruz Còrdova) che si porta a letto il bel marito di Maria (Jack Lowden) ansioso di potere oltre che di vino e piaceri alternativi; ansia di potere che ha anche il di lei fratellastro James (James Mc Ardle); alla corte di Elisabetta tramano i manipolatori Lord Maitland (Ian Hart) e Willian Cecil (Guy Pearce). Una nota a parte sul nero Adrian Lester che interpreta l’ambasciatore Lord Randolph in un’epoca in cui i neri erano solo schiavi servi e valletti, in questo ruolo solo perché la produzione, inglese, si deve preoccupare delle “quote” di colore di pelle inserite nel cast, quel politically correct che vede anche la cinese Gemma Chan come dama di compagnia di Maria. Ricordiamo le altre candidature all’Oscar per i costumi e per trucco e parrucco davvero eccellenti.

Conclusione sul fatidico e tanto atteso incontro fra le due regine qui ottimamente drammatizzato in un capanno dove sono stesi ad asciugare panni di lino come vaporoso labirinto in cui si muovono le due donne. Questo incontro, già nel dramma di Schiller e momento topico di ogni rappresentazione di questo dramma in ogni sua forma, non è storicamente certo che sia avvenuto ed è soltanto verosimile più che vero, credibile e plausibile, e in mancanza di prove opposte diventa immancabile appuntamento drammaturgico.

Di tutt’altro stile “La Favorita” del greco Yorgos Lanthimos che ha trovato in patria i soldi della produzione che batte bandiera greca. La vicenda mette in campo la regina Maria con tutti i suoi acciacchi, capricci, debolezze, indolenze, dolori, insicurezze, crisi ed estasi per la passione omosessuale e perversa per la sua favorita che ben presto trova una degna rivale a contendersi i favori della regina in una sorta di “Eva contro Eva” fra crinoline e veleni.

Ricordando che questa Anna è pronipote di Mary Stuart il cui figlio è stato nominato erede al trono da Elizabeth, al contrario dell’altro film che spiega la vicenda storica con veloci e necessarie scritte, qui non sappiamo nulla di questa regina e chi non conosce dettagliatamente la storia inglese si trova spiazzato: sembra che alla sceneggiatrice Deborah Davis e al regista, più del contesto storico importi il dettaglio della vicenda minima che si svolge tutta nel chiusa del palazzo reale che, a dispetto dei grandi spazi, risulta opprimente e claustrofobico, grazie alla fotografia che al giorno dà un lucore grigiastro e alle notti le guizzanti fiammelle delle candele.

Mentre “Maria” è drammaticamente solenne questo film è dichiaratamente divertente, da un lato prendendosi gioco dell’imbarazzante regina e dall’altro mettendo in campo un duello femminile fra le due favorite senza esclusione di colpi bassi. Si ride spesso delle feroci schermaglie e delle battute al vetriolo di cui è cosparso l’intero film: “Siete venuto a corteggiarmi o a violentarmi?” “Sono un gentiluomo!” “Allora violentatemi.” Abbonda anche un altrettanto divertente turpiloquio credibilmente in linea anche con le corti reali del passato mentre più azzardati e surreali e grotteschi mi sembrano altri passaggi, fra cui una danza di corte che diventa troppo moderna e un uso spropositato di grandangolo e di occhio di pesce che storpiando le inquadrature include spazi immensi in un racconto drammatico che non c’è. Ma anche qui c’è la visione femminile e femminista del mondo passato e se da un lato le donne sono mostrate al naturale o sobriamente truccate, gli uomini sono dei cicisbei imparruccati che si trastullano in discutibili giochi di corte mentre giocano alla guerra con una Francia che qui, a differenza dell’altro film, è solo un’ipotesi lontana come un gioco da tavolo. Non si fa cenno al dramma delle differenze religiose sempre presente nelle corti inglesi passate e tutto il film gioca sul gioco al massacro delle tre donne protagoniste: a mio avviso, tolti gli orpelli, i merletti, i candelieri e le boiserie, resta solo un film del genere amiche-nemiche abilmente confezionato e collocato in un’epoca remota di cui mostra solo le spettacolari esteriorità di trucco e parrucco. Senza il contesto storico è una vicenda che potrebbe essere collocata in qualsiasi periodo e in qualsiasi luogo.

Candidature agli Oscar per tutti: regista, sceneggiatrice, direttore della fotografia, scenografia, costumi, montaggio e miglior film. Per la protagonista Olivia Colman che è la regina Maria già premiata con la Coppa Volpi a Venezia e con il Golden Globe. Per le non protagoniste Rachel Weisz e Emma Stone, entrambe già Oscar e Golden Globe che saranno così rivali anche alla serata delle premiazioni, e stavolta non c’è una favorita. Alla fine l’Oscar è andato a Olivia Colman, a bocca asciutta tutte le altre.

The Danish Girl, tragica eroina mélo

Eddie Redmayne, dopo essersi meritatamente procurato l’Oscar con la biografia di Stephen Hawking in “La Teoria del Tutto”  resta a bocca asciutta con quest’altra biografia della prima persona che ha tentato il cambio di sesso nel 1926: il pittore danese paesaggista di buon successo Einar Wegener che è anche, drammaticamente, Lily Elbe. Oscar che invece va alla sua coprotagonista Alicia Vikander nei panni della moglie, Gerda Wegener, anche lei pittrice, ma ritrattista di scarso successo benché talentuosa, finché non comincia a ritrarre, e a fare affiorare, l’alter ego femminile di suo marito che via via prende il sopravvento fino a non voler più rientrare nei suoi panni maschili…

Il film, diretto dall’ottimo e specializzato in film in costume, Tom Hooper (“I Miserabili” e “Il Diascorso del Re”) è però troppo patinato, come a voler sdoganare la storia tragica, e altrimenti forte, di un uomo che si riappropria della sua intima natura femminile, confezionando un prodotto per il pubblico delle grandi platee, un mélo romantico che ammorbidisce le crudezze e sorvola su certi dettagli, uno su tutti: Einar/Lily ha da poco subito l’orchiectomia e se ne va in giro a passeggio sui tacchi come se nulla fosse… Nell’insieme l’atmosfera del film è quella classica da “eroina tragica” quando a mio parere avrebbe dovuto essere molto di più, e viene a  mancare il necessario pathos in una sovrabbondanza noiosa di immagini morbide ed eleganti.

In interessanti ruoli di supporto il belga Matthias Schoenaerts, volto emergente del cinema europeo: “Suite Francese” “Le regole del caos”, qui nei panni del primo amore adolescenziale di Einar; e Ben Winshaw che nel 2006 si fece conoscere al grande pubblico come protagonista di “Profumo” dal best seller di Patrick Süskind e qui nei panni di un amico omosessuale di Einar di cui voleva diventarne amante fin tanto che Einar fosse solo un travestito ma che desiste quando Einar diventa definitivamente Lily.

Il Caso Spotlight, riflettori sui preti pedofili

Spotlight, ovvero riflettore. Al quotidiano The Boston Globe c’era e forse ancora c’è il Team Spotlight, ovvero un gruppetto di giornalisti investigatori che concentravano le loro energie su casi scottanti come ad esempio la corruzione nella polizia; per potere transitivo il caso su cui indagavano veniva definito un Caso Spotlight. Titolo abbastanza generico e poco accattivante per uno di quei solidi film di indagine giornalistica il cui capostipite è “Tutti gli uomini del presidente” del 1976, diretto da Alan J. Pakula con Robert Redford e Dustin Hoffman e che narrava il Caso Watergate che chiuse la carriera presidenziale di Richard Nixon.

Uno di quei solidi film, appunto, con un cast eccellente ma senza primedonne, che si è portato a casa l’Oscar come Miglior Film: onestamente non è un film da Oscar e il premio è sicuramente emotivo dato che il Caso Spotlight è un Caso di Preti Pedofili che il Boston Globe scoperchiò come un Vaso di Pandora nell’ormai lontano 2001 e per il quale vinse il Pulitzer nel 2003: gran bel film, anche necessario per quanto assai tardivo, ma non grandissimo film. Oggi la storia la conosciamo più o meno tutti e la forza di quell’indagine giornalistica fu quella di non volersi fermare ai singoli nomi dell’iniziale decina di preti infami ma allargare l’inchiesta fino a coinvolgere le alte sfere e il sistema Chiesa Cattolica nell’insieme:  l’arcivescovo Bernard Francis Law che assai colpevolmente coprì le decine di preti pedofili semplicemente spostandoli da una diocesi a un’altra permettendo così a questi predatori seriali di allargare il loro terreno di caccia. Alla fine per “punizione” l’arcivescovo di Boston fu “esiliato” nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma.

Cast eccellente e compatto, diretto da Tom McCarthy, corale e senza protagonisti assoluti, guidato da Michael Keaton e Mark Ruffalo e composto da: Rachel McAdams, Liev Schreiber, Stanley Tucci, John Slattery, Brian D’Arcy James, Billy Crudup, Jamey Sheridan, Paul Guilfoyle, Neal Huff. Film che indigna per i dettagli che svela di questa grande infamia e che magari ci sono sfuggiti perché ormai non leggiamo più gli articoli dei giornali ma solo i titoli ricopiati sui social network.

Selma, la strada per la libertà (ancora lunga e tortuosa)

In questa stagione cinematografica fioriscono biografie. Dopo “Il Giovane Favoloso” Giacomo Leopardi, “La Teoria del Tutto” di Stephen Hawking e l’“American Sniper” Chris Kyle ecco ancora il reverendo Martin Luther dottor King in un film che celebra il cinquantenario della macia per la libertà avvenuta nella cittadina di Selma nel profondo sud razzista dell’Alabama. Non si tratta, dunque, di una vera e propria biografia del leader nero ma della cronaca, scandita attraverso i dettagli dei resoconti dell’FBI che spiava Martin Luther King. Il film si apre con King che riceve il Premio Nobel per la Pace, tanto per ricordarci con chi abbiamo a che fare, e prosegue senza digressioni dritto verso quella famosa (non per noi ma per gli Statunitensi) marcia che portò il presidente Lyndon Johnson all’emanazione della legge sull’uguaglianza del diritto al voto per gli afroamericani. I punti chiave di questa vicenda sono la scelta da parte di King di Selma come terreno di pacifica dimostrazione, proprio perché amministrata da uno sceriffo ignorante e da un governatore razzista la cui natura violenta King voleva stanare con la sua marcia; ma la sua marcia non avrebbe avuto il successo e la risonanza mediatica e politica se, per la prima volta nella storia della comunicazione televisiva, non ci fosse stato un giornalista a filmare e a mandare il materiale alla CBS che in quell’occasione ha inventato le breaking news, ovvero le notizie dell’ultima ora a interrompere la normale programmazione tv e far conoscere a milioni di americani in pantofole l’orrore della violenza razzista. Un film importante, perciò, per la storia e la memoria collettiva degli Stati Uniti dove, nonostante un presidente nero, il razzismo continua ad esistere nel cuore di tanti esseri umani anche inconsapevolmente razzisti.

Detto questo, come prodotto cinematografico per me è un altro di quei film che hanno travalicato i confini del piccolo schermo, dove sarebbe stato più logico collocarlo, grazie all’imponenza produttiva della potente Oprah Winfrey che si ritaglia il ruolo assai esplicativo ed esemplare della donna che vuole andare a iscriversi alle liste elettorali e le viene impedito da un impiegato razzista che usa la burocrazia come randello. Mi soffermo a ricordare che Oprah, dopo aver cominciato la sua carriera leggendo i notiziari in tv, è stata nominata all’Oscar come non protagonista nell’ormai lontano 1985 per il bellissimo “Il Colore Viola” di Steven Spielberg; in seguito ha costruito il suo impero mediatico ed economico come opinion leader televisiva col suo famoso Show che è ormai diventato un brand citato anche in film e telefilm come sinonimo di successo. Ogni tanto la signora produce ottimo cinema, ovviamente nell’ambito della black fraternity, e per quest’operazione ha scritturato grossi nomi anche per piccoli ruoli, ognuno significativo a suo modo nel suo contesto: Tom Wilkinson come Lyndon Johson, Tim Roth come governatore razzista, Cuba Gooding jr, Mahalia Jackson, Giovanni Ribisi, Alessandro Nivola, Lorraine Toussaint e molti altri volti noti sia sul grande che sul piccolo schermo. David Oyelowo è Martin Luther King e Carmen Ejogo sua moglie Coretta, mentre la regia è affidata all’emergente Ava DuVernay che dà a tutto il film un taglio intimistico da dramma privato e borghese, con primissimi piani tipici da piccolo schermo, e scene di massa e di azione che risultano statiche e piatte nonostante tutto, e per tutto intendo il cast, la storia, la sceneggiatura, la produzione…

Candidature sparse qua e là che hanno fruttato solo il Golden Globe e l’Oscar alla canzone originale, effettivamente bella, che nella tessitura melodica inserisce il gospel e il rap, scritta ed eseguita da John Legend con Metroman il quale s’infila nel film anche come attore nello staff di King. Resta solo una considerazione sul razzismo così intimamente connaturato nell’animo di metà degli statunitensi: io non penso che esso sia un sentimento radicato nel cuore e nei sentimenti, o un pensiero che attiene all’educazione e alla cultura, e semmai è vero il contrario, e cioè che educazione e cultura tengono a bada questo che io ritengo un istinto primario dell’essere umano, radicato nel cervelletto, quella parte di cervello preistorico che ancora condividiamo coi rettili, e che gestisce la fame e la paura e l’accoppiamento, quelle tre cose necessarie alla sopravvivenza dell’individuo e della sua specie e che porta ad attaccare tutto ciò che è diverso da noi e che attenta alla nostra vita e ai nostri spazi vitali: messi di fronte a queste (normalmente inimmaginabili) emergenze ognuno di noi è un razzista, e chi si fa razzista senza queste emergenze non fa che dare voce ai suoi istinti primordiali in un contesto e in un’epoca che altrimenti non li prevede. Nel DNA della storia americana c’è il razzismo verso i neri, ma anche verso i nativi, e ora verso i messicani che premono sul confine a sud-ovest; ma c’è stato anche quello verso gli italiani e i cinesi e tutte le altre etnie differenti da quella anglo-irlandese che ha generato i padri fondatori di quella terra, una terra di conquista da difedere ad armi spianate, quelle armi che sono consentite anche nella costituzione; un DNA che spesso, dove manca educazione e cultura, si affaccia nella violenza quotidiana. Noi europei, che abbiamo battagliato fra noi sin dall’inizio della nostra civiltà, siamo più disincantati e possibilisti, e l’orrore delle leggi razziali da noi è durato solo qualche decennio, se non contiamo i secoli bui dell’oscurantismo. Troppo poco per fare di noi dei razzisti convinti e da prendere davvero sul serio, e infatti non ci facciamo distrarre troppo dai gruppetti neonazisti che inneggiano a cose che non hanno mai neanche vissuto per proteggere spazi fisici e culturali che non sono mai stati in pericolo: perché il razzismo primordiale e istintivo, una volta espresso, deve trovare una logica che naturalmente non ha, e si fa pensiero e ideologia per giustificare la sua stessa esistenza. Poi noi italiani nello specifico scendiamo ancora più in basso con i leghisti ai quali sarebbe troppo nobile addurre un pensiero e una logica e, io temo, anche un istinto: cosa c’è da difendere su quella pianura nebbiosa?