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Selma, la strada per la libertà (ancora lunga e tortuosa)

In questa stagione cinematografica fioriscono biografie. Dopo “Il Giovane Favoloso” Giacomo Leopardi, “La Teoria del Tutto” di Stephen Hawking e l’“American Sniper” Chris Kyle ecco ancora il reverendo Martin Luther dottor King in un film che celebra il cinquantenario della macia per la libertà avvenuta nella cittadina di Selma nel profondo sud razzista dell’Alabama. Non si tratta, dunque, di una vera e propria biografia del leader nero ma della cronaca, scandita attraverso i dettagli dei resoconti dell’FBI che spiava Martin Luther King. Il film si apre con King che riceve il Premio Nobel per la Pace, tanto per ricordarci con chi abbiamo a che fare, e prosegue senza digressioni dritto verso quella famosa (non per noi ma per gli Statunitensi) marcia che portò il presidente Lyndon Johnson all’emanazione della legge sull’uguaglianza del diritto al voto per gli afroamericani. I punti chiave di questa vicenda sono la scelta da parte di King di Selma come terreno di pacifica dimostrazione, proprio perché amministrata da uno sceriffo ignorante e da un governatore razzista la cui natura violenta King voleva stanare con la sua marcia; ma la sua marcia non avrebbe avuto il successo e la risonanza mediatica e politica se, per la prima volta nella storia della comunicazione televisiva, non ci fosse stato un giornalista a filmare e a mandare il materiale alla CBS che in quell’occasione ha inventato le breaking news, ovvero le notizie dell’ultima ora a interrompere la normale programmazione tv e far conoscere a milioni di americani in pantofole l’orrore della violenza razzista. Un film importante, perciò, per la storia e la memoria collettiva degli Stati Uniti dove, nonostante un presidente nero, il razzismo continua ad esistere nel cuore di tanti esseri umani anche inconsapevolmente razzisti.

Detto questo, come prodotto cinematografico per me è un altro di quei film che hanno travalicato i confini del piccolo schermo, dove sarebbe stato più logico collocarlo, grazie all’imponenza produttiva della potente Oprah Winfrey che si ritaglia il ruolo assai esplicativo ed esemplare della donna che vuole andare a iscriversi alle liste elettorali e le viene impedito da un impiegato razzista che usa la burocrazia come randello. Mi soffermo a ricordare che Oprah, dopo aver cominciato la sua carriera leggendo i notiziari in tv, è stata nominata all’Oscar come non protagonista nell’ormai lontano 1985 per il bellissimo “Il Colore Viola” di Steven Spielberg; in seguito ha costruito il suo impero mediatico ed economico come opinion leader televisiva col suo famoso Show che è ormai diventato un brand citato anche in film e telefilm come sinonimo di successo. Ogni tanto la signora produce ottimo cinema, ovviamente nell’ambito della black fraternity, e per quest’operazione ha scritturato grossi nomi anche per piccoli ruoli, ognuno significativo a suo modo nel suo contesto: Tom Wilkinson come Lyndon Johson, Tim Roth come governatore razzista, Cuba Gooding jr, Mahalia Jackson, Giovanni Ribisi, Alessandro Nivola, Lorraine Toussaint e molti altri volti noti sia sul grande che sul piccolo schermo. David Oyelowo è Martin Luther King e Carmen Ejogo sua moglie Coretta, mentre la regia è affidata all’emergente Ava DuVernay che dà a tutto il film un taglio intimistico da dramma privato e borghese, con primissimi piani tipici da piccolo schermo, e scene di massa e di azione che risultano statiche e piatte nonostante tutto, e per tutto intendo il cast, la storia, la sceneggiatura, la produzione…

Candidature sparse qua e là che hanno fruttato solo il Golden Globe e l’Oscar alla canzone originale, effettivamente bella, che nella tessitura melodica inserisce il gospel e il rap, scritta ed eseguita da John Legend con Metroman il quale s’infila nel film anche come attore nello staff di King. Resta solo una considerazione sul razzismo così intimamente connaturato nell’animo di metà degli statunitensi: io non penso che esso sia un sentimento radicato nel cuore e nei sentimenti, o un pensiero che attiene all’educazione e alla cultura, e semmai è vero il contrario, e cioè che educazione e cultura tengono a bada questo che io ritengo un istinto primario dell’essere umano, radicato nel cervelletto, quella parte di cervello preistorico che ancora condividiamo coi rettili, e che gestisce la fame e la paura e l’accoppiamento, quelle tre cose necessarie alla sopravvivenza dell’individuo e della sua specie e che porta ad attaccare tutto ciò che è diverso da noi e che attenta alla nostra vita e ai nostri spazi vitali: messi di fronte a queste (normalmente inimmaginabili) emergenze ognuno di noi è un razzista, e chi si fa razzista senza queste emergenze non fa che dare voce ai suoi istinti primordiali in un contesto e in un’epoca che altrimenti non li prevede. Nel DNA della storia americana c’è il razzismo verso i neri, ma anche verso i nativi, e ora verso i messicani che premono sul confine a sud-ovest; ma c’è stato anche quello verso gli italiani e i cinesi e tutte le altre etnie differenti da quella anglo-irlandese che ha generato i padri fondatori di quella terra, una terra di conquista da difedere ad armi spianate, quelle armi che sono consentite anche nella costituzione; un DNA che spesso, dove manca educazione e cultura, si affaccia nella violenza quotidiana. Noi europei, che abbiamo battagliato fra noi sin dall’inizio della nostra civiltà, siamo più disincantati e possibilisti, e l’orrore delle leggi razziali da noi è durato solo qualche decennio, se non contiamo i secoli bui dell’oscurantismo. Troppo poco per fare di noi dei razzisti convinti e da prendere davvero sul serio, e infatti non ci facciamo distrarre troppo dai gruppetti neonazisti che inneggiano a cose che non hanno mai neanche vissuto per proteggere spazi fisici e culturali che non sono mai stati in pericolo: perché il razzismo primordiale e istintivo, una volta espresso, deve trovare una logica che naturalmente non ha, e si fa pensiero e ideologia per giustificare la sua stessa esistenza. Poi noi italiani nello specifico scendiamo ancora più in basso con i leghisti ai quali sarebbe troppo nobile addurre un pensiero e una logica e, io temo, anche un istinto: cosa c’è da difendere su quella pianura nebbiosa?