Archivio mensile:agosto 2021

E per la prima volta sullo schermo… Zeudi Araya

Oltre che per ricordare un altro debutto cinematografico, ha senso parlare di questo film del 1972 non per il film in sé, che è un prodotto di genere, ma per quel genere che oggi non esiste più: l’erotico, che insieme al sexy conducevano ai cinema, meglio ancora se di terza visione, vagonate di sbarbatelli allupati e adulti nostalgici e/o sognatori e/o guardoni. Mentre il sexy si esprimeva meglio nella commedia scanzonata e spesso becera delle poliziotte delle supplenti e delle infermiere che puntualmente tornavano sugli schermi in tutte le combinazioni possibili mostrando delle belle di turno quanto più possibile – l’erotico si esprimeva sempre in trame drammatiche, spesso pensose ed esistenziali, anche con pretese intellettuali, e oltre a mostrare le grazie delle belle di turno intessevano atmosfere dense di tensione erotica, appunto, dove il vedo-non-vedo è più importante del vedo-tutto. Erotico e sexy che furono l’anticamera del porno, col dilagare del quale proprio in quegli anni, andarono via via scemando fra le produzioni nazionali, e mentre alcune attrici alla Edwige Fenech continuarono nel filone sexy che s’insinuò con successo nella commedia all’italiana, altre, come Lilli Carati ad esempio, scivolarono irrimediabilmente nel porno, e come ebbe a dichiarare lei stessa: solo perché aveva bisogno di soldi per pagarsi gli stupefacenti di cui era dipendente.

Terza visione, accennavo, perché era un’epoca in cui le sale cinematografiche delle grandi città (e va detto che allora al cinema si entrava in qualsiasi momento, anche a film iniziato) venivano catalogate così: in prima visione, ovvero i cinema più eleganti, avvenivano le prime uscite dei film, che dopo un certo periodo di sfruttamento commerciale passavano in seconda visione, a prezzo ridotto e qualità della sala – struttura, poltrone, audio e video – ancora dignitosi; quando il film, ovvero la pellicola come allora veniva ancora chiamata essendo fisicamente una pellicola di celluloide, esauriva questo segmento di mercato passava in terza visione, che erano le salette più in periferia o più defilate, quelle già fatiscenti, con le poltroncine di legno, il telone dello schermo giallo ocra per quanto erano impregnati di fumo, eh già perché allora si fumava ancora nei cinema, e la pellicola che a volte saltava perché nelle precedenti due visioni si era rotta ed era stata rattoppata. Fra i cinema di terza visione venivano inserite anche le sale parrocchiali la cui programmazione, però, era limitata alle scelte del gestore, dunque niente sesso.

Succedeva, è successo a me da ragazzo, che avendo pochi soldi in tasca si aspettava che il film cui eravamo interessati arrivasse in seconda o terza visione, ma a volte accadeva che quel film fosse troppo “intellettuale” e dopo pochi giorni in prima visione cessasse di girare, mentre al contrario arrivavano già in seconda visione i filmetti di scarso valore o considerati tali da gestori e distributori miopi, spesso produzioni internazionali con nomi sconosciuti che erano stati costretti ad acquistare nel pacchetto che comprendeva il film di richiamo, e qualche volta vi si trovavano delle perle che sarebbero diventati film di culto nella propria nicchia; nelle terze visioni, specialmente quelle parrocchiali, si davano invece programmazioni cicliche e perenni dei classici di Totò e Franco e Ciccio, perché non ancora in tutte le case c’era la televisione, e se c’era aveva una programmazione che andava dal mattino alla sera e durante le ore notturne chiudeva i battenti. Perché pare che una delle ragioni del tramonto delle sale di seconda e terza visione sia stata proprio la diffusione della televisione, e subito a seguire del VHS, l’home video che ci permetteva di registrare dalla tivù qualsiasi cosa, oppure acquistare e/o affittare il film dai negozi specializzati che sorsero come funghi, quelli che poi si riconvertirono coi DVD e DVX e che con l’avvento di internet veloce dove ora si può vedere di tutto, chiusero anche loro i battenti.

Il pregio più grande di “La ragazza dalla pelle di luna” è proprio il suo titolo, un non-sense fortemente evocativo e poetico, senza un’effettiva logica che però concede a chiunque la possibilità di cercarne una propria, davvero come accade con il verso enigmatico di un poeta ermetico. L’altro pregio è ovviamente la ragazza debuttante che si porterà dietro quella descrizione da “pelle di luna” quando riviste e rotocalchi parleranno di lei, e ne parleranno diffusamente, ne erano piene le copertine, perché l’Italia era ancora lontana dall’essere un paese multietnico e l’italiano medio non aveva mai visto bellezze del genere. Solo i nostri padri e i nostri nonni, quelli che nel 1935-36 avevano partecipato alla guerra Italo-Abissina, potevano guardare Zeudi Araya e ricordarsi – o rimpiangere – bellezze simili.

Zeudi Araya era nipote dell’ambasciatore etiope a Roma e 18enne aveva vinto il concorso di Miss Eritrea che come premio aveva proprio una vacanza nella nostra capitale. In realtà la ragazza aveva 16 anni e si era data due anni in più proprio per poter partecipare al concorso di bellezza; l’inganno era stato possibile perché all’epoca, parliamo del 1969, in quel paese ancora scosso da guerriglie locali che negli anni a venire sarebbero diventate battaglie sanguinarie, non esisteva una vera e propria anagrafe e i documenti non erano richiesti perché di fatto inesistenti. Il suo destino era segnato davvero nelle stelle: fra i suoi otto fratelli e sorelle lei era l’unica che aveva studiato l’italiano in un istituto fondato dagli italiani un secolo prima, all’epoca del primo tentativo italiano di colonizzazione quel territorio, quando nell’800 le potenze europee pensarono di espandersi sul continente africano. Così quando venne a Roma, sentendola parlare un fluente italiano la gente la guardava incredula, perché era troppo scura per essere italiana e le persone di colore venivano additate.

LeVar Burton nel ruolo di Kunta Kinte

Io stesso posso testimoniare un fatto. Era il 1978 e Zeudi Araya era già una star del nostro cinema; la Rai stava mandando in onda, con grande seguito di ascolto, la serie “Radici”. Io passeggiavo col mio nipotino di due anni il quale, vedendo sul marciapiedi opposto un ragazzo nero, il primo che anche io vedevo in città, lo indicò gridando gioioso “Kunta Kinte!” che era il nome del protagonista della serie tratta da un romanzo di successo. Per dire quanto davvero fossimo poco avvezzi a vedere fra noi gente di altri colori, e Zeudi parlava pure come noi.

Mentre era in un ristorante con un’amica romana fu avvicinata da un cortese signore che le disse: “Vorrei fare un suo ritratto, mi chiamo Renato Guttuso” e fu l’inizio di un’amicizia e di una collezione di ritratti che restano nella collezione privata di Zeudi. E sempre in un ristorante fu avvicinata da un tizio che chiedendole a bruciapelo “Vuoi fare cinema?” divenne il suo agente, e già l’indomani la chiamò per presentarle un regista, questo Luigi Scattini che oltre a questo film la diresse in altri due rigorosamente di genere erotico: “La ragazza fuoristrada” e “Il corpo”. Col suo debutto dalla pelle di luna la ragazza fece ovviamente scandalo in terra natia: suo padre, che era governatore della provincia, e dunque uomo in vista, comprò tutti i mille biglietti del cinema dove avrebbe dovuto essere proiettato il film e per il quale erano arrivati in città i contadini dai villaggi vicini; venne però organizzata un’altra proiezione a Decamerè, la città natale di Zeudi, e lì il governatore si dovette arrendere, subendo l’onta degli amici che lo apostrofavano: “Poveretto, come ti compiangiamo, chissà la vergogna che stai provando”.

La ragazza dalla pelle di luna.jpg

Sul film c’è ben poco da dire, a essere troppo critici si rischia di sparare sul morto. Lo sceneggiatore e regista Luigi Scattini (padre dell’attrice Monica, brillante caratterista di successo morta a 60 anni per melanoma) era partito alla grande portando agli Oscar del 1962, l’anno in cui Sophia Loren vinse con “La Ciociara”, il suo documentario “La via del carbone”, ma in seguito si perse nel girone dei film di genere, firmandone 14 in tutto fino al 1977, per poi dedicarsi al lavoro di produzione, fino ad assestarsi come adattatore dialoghista dei film stranieri di cui ha diretto anche il doppiaggio. Per chi volesse approfondirne la conoscenza su questa piattaforma è stato creato un blog in sua memoria: https://luigiscattini.wordpress.com/

La storia è quella di una coppia alto borghese, di quelle che nei primi anni ’70 si potevano permettere le vacanze all’estero, lui ingegnere lei fotografa di moda, che decidono di fermarsi in quella che avrebbe dovuto essere solo una tappa di passaggio: le Seychelles, isole da sogno che gli italiani scopriranno grazie a questo film e le agenzie turistiche proporranno in pacchetti “tutto compreso” anche per le limitrofe Maldive, Zanzibar, Mauritius… La coppia scoppia quando incontrano la bella isolana che con lui si rotolerà nuda sul bagnasciuga in lunghe sequenze commentate dal gorgheggio di una soprano su musiche di Piero Umiliani simil Morricone. Lui, pensoso e compreso nel ruolo, è Ugo Pagliai, genero di Vittorio Gassman, interprete teatrale e belloccio degli sceneggiati Rai che qui bamboleggia sbattendo le ciglia più delle colleghe, consapevole che l’attore di rango è lui, con la sua recitazione manierata che andava bene in Rai ma che qui sfiora il ridicolo, colpevoli anche i dialoghi zeppi di profondità che però restano sul margine delle banalità. Lei è la jugoslava Beba Loncar (Desanka Lončar) già con seri trascorsi cinematografici in patria e poi a Hollywood allorché quei produttori venivano a cercare volti nuovi in Europa per contenere i costi cui li costringevano le loro star; arrivò in Italia perché il nostro cinema era sempre affamato di bellezze più o meno esotiche, e bastava che non parlassero correntemente l’italiano (sistemava tutto il doppiaggio) perché fossero subito scritturate; e lei oltre che bella era anche brava, come dimostra in questo film dove è la più centrata e misurata fra i quattro interpreti: aveva cominciato con film d’autore e da festival diretta da calibri come Mauro Bolognini, Pietro Germi, Carlo Lizzani e Mario Monicelli; ma forse consapevole che non sarebbe mai stata un’attrice completa perché sempre doppiata, preferì scivolare nel meno complesso film di genere.

La bella dalla pelle di luna, come la coppia la descrive con un’intuizione estemporanea mentre cercano una frase per definirla, fa di più che circuire il marito e, poiché portatrice di uno sbandierato libero amore che si pratica sull’isola (e per la quale i ragionieri italiani sarebbero partiti in massa con o senza mogli) con sguardi lunghi e vellutati tesse una trama di fascino erotico anche attorno alla moglie che, fotografa di moda, pensa di lanciarla come modella e la accarezza e ne indaga le nudità con la fotocamera Nikon in palese pubblicità. Qui un’altra digressione sull’epoca: gli scatti della fotografa sono diapositive, tecnologia anch’essa caduta in disuso con l’avvento del digitale; si potevano vedere attraverso piccoli visori portatili o tramite proiettore su schermo, e molti abbiamo memoria di certe serate letali dove i padroni di casa che erano stati in vacanza, rigorosamente all’estero per suscitare ancora più invidia, invitavano amici e parenti alla proiezione sulla parete bianca del salone delle centinaia di soporifere diapositive minuziosamente descritte una per una fino a fare notte.

Ma non succede nulla fra le due donne, forse perché troppo scontato o perché troppo oltre per le capacità narrative di sceneggiatori e regista. E così la bella signora si concede una sveltina con un avventuriero, scrittore di racconti che nessuno legge, cui da volto, e amara credibilità di fallito, l’italo-scozzese Giacomo Rossi Stewart, padre dell’oggi più quotato Kim Rossi Stuart. All’epoca del film coi suoi ben portati 47 anni è il più maturo del quartetto. Passato dall’Actor Studio di New York girerà in Italia più di cento film in quarant’anni e nonostante sia stato protagonista in film di ogni genere – cappa e spada, peplum, western, fantasy, horror, spionaggio ed erotico, appunto – non è mai passato al livello di credibile protagonista in film di serie A, anche lui perché sempre doppiato da altri professionisti. Qui mostra un naso malamente rifatto, nonostante sia ancora il 1972 e pochi uomini a quel tempo facevano ricorso alla chirurgia estetica: probabilmente non è riuscito a essere il bello che voleva essere. Nel film è anche accreditato come aiuto regista.

Il film, approfittando dell’ambientazione, inopinatamente tenta anche la via del reportage mostrando spaccati di ambienti e usi e costumi che però si fermano sulla superficie del folkloristico; azzarda con una scena di mattanza di pescecani, in realtà cuccioli di pescecani – allora li chiamavamo ancora così, avremmo imparata a chiamarli squali un paio d’anni dopo quando Steven Spielberg terrorizzò il mondo col suo squalo, jaw in originale, ma anche shark, termini il cui labiale caratterizzato dalla A come unica vocale si adatta al doppiaggio proprio con squalo; infilzando e squartando dal vero i piccoli pescecani il film tenta un timido approccio a certo cinema degli anni ’70 detto di exploitation, un genere ricco di sottogeneri che meriterebbe un approfondimento a parte, e che è andato a finire nello splatter, quando è andata bene, e negli snuff movie per dire il peggio. Erano film approssimativamente con taglio da documentario, o che fingevano di esserlo, in cui venivano sfruttate ambientazioni esotiche per fare film principalmente scandalistici spacciando scene di nudo tribale e/o sesso esplicito e/o rituale, e/o atti di violenza su persone e animali, per narrazione divulgativa, ma in realtà solo pornografica nel senso più ampio del termine. Il regista Umberto Lenzi in “Il paese del sesso selvaggio”, 1972, mostra scene di vero cannibalismo e la cannibal-exploitation ebbe così tanto successo che Ruggero Deodato girò nel 1977 “Ultimo mondo cannibale” e nel 1980 “Cannibal Holocaust”, film di produzione italiana che finalmente avevano grande distribuzione all’estero. Restando sull’erotico italiano che occhieggiò al genere ci sono due film della serie su Emmanuelle Nera, a cui lo stesso Giacomo Rossi Stuart prese parte: “Emmanuelle Nera – Orient Reportage” e “Emmanuelle e gli ultimi cannibali”.

Nel 1975 Zeudy Araya, che si trovava a Los Angeles per studiare la lingua e le abitudini di Hollywood, incontra il produttore Franco Cristaldi che era lì per seguire la candidatura all’Oscar di “Amarcord” di Fellini, e lei gli chiede se avesse potuto procurargli un biglietto per la serata. Lui, che era solo – si stava separando da Claudia Cardinale che lo aveva lasciato per il regista Pasquale Squitieri – la invita ad accompagnarlo e poiché “Amarcord” vince come miglior film straniero, lei viene nominata seduta stante portafortuna di lui, e cominciano a frequentarsi (lui è di 27 anni più anziano) per poi sposarsi nel 1983. Cristaldi la avvierà verso un cinema più dignitoso ma senza grossi exploit e lei, dopo avere recitato in altri cinque film si ritira dai set preferendo stare accanto al marito, forse anche consapevole che non sarebbe mai diventata una star di prima grandezza. Dopo la scomparsa del marito ha preso in mano le redini dell’azienda di produzione cinetelevisiva, e oggi bellissima 70enne, naturalizzata italiana, è diventata un simbolo di successo ed emancipazione nel suo paese d’origine. Nessuno ha mai pensato di farle girare ciò che in qualche modo è stata: una Cenerentola Nera.

Omaggio a Piera Degli Esposti

Il 14 agosto del 2021 se n’è andata anche Piera Degli Esposti, 83enne, e se n’è andata così come se ne doveva andare, essendo stata operata a 39 anni di pleurectomia, ovvero a causa di un tumore le sono state rimosse entrambe le pleure, che sono le membrane che avvolgono i polmoni. Ha trascorso un lungo periodo in un sanatorio e ha poi ricordato che per darsi forza si alzava ogni mattina con una canzone in testa, come quando da ragazzina lavorava in una sartoria della nativa Bologna e cantava mentalmente per far passare il tempo. “Io volevo essere un’atleta, ho la fissa del nuoto, alle Olimpiadi mi affascinano quelli che spiccano i salti e l’asta sta lì in bilico: mi interessa la forza di volontà di quel momento, ho una passione per il corpo che ha questa gran energia e concentrazione. Infatti non mi piaceva fare cinema perché, nonostante abbia iniziato con i Taviani, Pasolini, Zampa, lo giudicavo troppo centimetrale, mi sentivo stretta nell’inquadratura.E quanta forza di volontà ed esercizio deve esserle costata la recitazione, soprattutto quella teatrale, che è fatta di diaframma e di respiri lunghi che sostengono la battuta, che danno forza alla voce. La sua voce cinematograficamente un po’ così, un po’ graffiata, caratteristica di chi fuma troppo, e da spettatori comuni non ci era dato sapere quale grande sofferenza e attenzione ed esercizio c’erano invece dietro. Per la sua particolare voce Eduardo De Filippo l’aveva definita “o verbo nuovo”.

Si forma artisticamente nel teatro sperimentale facendo un percorso con Carmelo Bene; tenta il salto stilistico ma viene respinta dall’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, non si dà però per vinta e si unisce al Teatro 101, spazio che dalla metà degli anni ’60 fa innovazione e cultura teatrale, spazio in cui incontra Gigi Proietti che diverrà suo grande amico e dove comincia a lavorare diretta da Antonio Calenda; poi passa al Teatro Stabile dell’Aquila dove sarà prim’attrice in spettacoli classici come “La figlia di Jorio” e “Antonio e Cleopatra”. Nel frattempo ha esordito in tivù nel “Conte di Montecristo” del 1966 e l’anno successivo comincia a fare il cinema dove sarà un’interprete molto amata da autori come i Taviani, Pasolini, Ferreri, Moretti, Bellocchio, Tornatore, Sorrentino e con la Lina Wertmuller della fase calante dopo i successi con la coppia Giannini-Melato, girerà tre film. Nel 1980 arriva nelle librerie “Storia di Piera”, storia della sua infanzia e grande successo di vendite scritto con la sua amica di sempre Dacia Maraini; romanzo da cui tre anni dopo Marco Ferreri girerà il film omonimo con Isabelle Huppert come Piera e Hanna Schygulla come sua madre, che a Cannes vinse il premio per la migliore interprete femminile. Marco Ferreri la stima in modo speciale, e più che impiegarla come attrice preferisce usare il suo talento di scrittrice e sempre in coppia con Dacia Maraini la preferisce sceneggiatrice, oltre che della sua storia, la storia di Piera, anche di “Il futuro è donna”.

E’ protagonista assoluta di questo film del 1989, “Il decimo clandestino”, sceneggiato dalla Wertmuller da un racconto di Giovanni Guareschi, quello di Don Camillo e Peppone, e prodotto per la tivù di Mediaset. Proprio perché prodotto tivù non ci sono locandine e anche le foto del set sono assai scarse, ed è evidente che non è stato considerato un prodotto di punta. Rattrista, anche, nelle scarse note che sul web accennano al film, leggere il nome della protagonista dopo quello della più/altrimenti celebrata coprotagonista Dominique Sanda, e addirittura ci sono casi in cui Piera non è neanche citata.

Da un fotogramma tv i nove bambini tutti arrampicati su un albero, come uccellini pronti a spiccare il volo o come frutti pronti da spiccare, in un’inquadratura surreale che vale tutto il lavoro di Lina Wertmuller.

La storia è quella di una vedova che dalla campagna si trasferisce in città, a Bologna, per aprire una bottega di primizie alimentari, ma ha con sé una nidiata di nove figli e non riuscendo a trovare un alloggio, perché nessuno vuole così tanti bambini in giro, si finge sola e in un palazzo nobiliare riesce a prendere in affitto una mansarda dai proprietari borghesi, come essi stessi si definiscono. I nove bambini in età scalare dai 12 ai 2 sono talmente ubbidienti e bene ammaestrati da passare inosservati alla portinaia, la mattina presto e a notte fonda, e sono nove dei clandestini cui fa riferimento il titolo, ma l’inganno non può evidentemente durare. Surreale, e a tratti grottesco, conserva lo spirito di Guareschi che viene esaltato dalla regia di una Lina Wertmuller ancora in grado di dire la sua, poiché il surreale e il grottesco sono da sempre il suo pane quotidiano. Trova in Piera Degli Esposti una protagonista in stato di grazia, sempre lieve e sorridente anche nei momenti più difficili fa brillare questo piccolo film con la sua gioia di vita. Non sono da meno i nove bambini che recitano tutti in presa diretta, e non dev’essere stato facile dirigerli, e imprimono al film una freschezza rara che fa seguire la visione con un sorriso, lo stesso che la protagonista esibisce dall’inizio alla fine, senza mai abbattersi e sempre gioendo alla vita, sulle note di “Azzurro” portata al successo da Adriano Celentano ma scritta da Paolo Conte, canzone che torna in molti diversi arrangiamenti, dall’aria con violini al carillon.

Giorgio Trestini

Coprotagonista, dicevo, la francese Dominique Sanda, che sul grande schermo ha avuto i suoi anni migliori nei Settanta, diretta da maestri come De Sica, Bertolucci, Visconti, Bolognini, Cavani; qui nel ruolo della rigida borghese padrona di casa che nasconde un doloroso segreto: il decimo clandestino, la cui scoperta toglie il sorriso alla nostra protagonista. Nel ruolo di suo marito lo sconosciuto tedesco Hartmut Becker, scritturato per evidenti ragioni di mercato e coproduzione, attore fondamentalmente televisivo nella natia Germania con un paio di partecipazioni nell’Ispettore Derrick che molto seguito ha avuto da noi. Un altro ruolo di peso, quello del lattaio vicino di bottega (con sfacciata pubblicità della Granarolo) è andato a Giorgio Trestini, anch’egli della provincia bolognese, qui forse (limitatamente alla mia conoscenza) nel suo ruolo più impegnativo dato che più spesso è riconoscibile, per la sua faccia e il suo fisico, in piccoli ruoli e figurazioni come uomo di fatica, energumeno e malvivente, raramente in divisa di poliziotto: era nel cast di “Milano calibro 9”.

Quando nel novembre dello scorso anno se ne andò Gigi Proietti, Piera Degli Esposti ebbe a dire: “Sono senza parole, sono addolorata, sono colpita che un uomo cui mi sentivo legata da oltre cinquant’anni, un artista della portata di Gigi Proietti, se ne sia andato via prima di me.” Era consapevole della sua fragilità. Con Proietti condivideva il senso del cognome: i proietti e gli esposti erano i trovatelli, i figli di nessuno, quelli che una volta venivano abbandonati davanti ai portoni dei conventi e delle chiese, ma non era questa antica provenienza oggi curiosità lessicale che li legava, quanto piuttosto l’essersi riconosciuti simili, ribelli, insofferenti alle catalogazioni. Avevano praticamente cominciato insieme e si erano ritrovati in palcoscenico nella messa in scena di “Operetta” di Witold Gombrowicz all’epoca del Teatro 101 di Roma, ai tempi del teatro di ricerca e sperimentazione e proprio in quello spettacolo, a suo dire, emersero le loro differenti specificità che li avrebbe condotti su binari diversi e paralleli, ed erano sempre rimasti in contatto con stima e affetto reciproci: “Siamo cresciuti in modo differente, ma siamo stati due ragazzi che si sono entusiasticamente sottoposti a un tirocinio uguale, con risultati speculari”. Nel giugno di quest’anno Piera è entrata in ospedale per complicazioni polmonari, le sue di sempre, quelle che le hanno spezzato il respiro e fatto di lei un’attrice unica. E con l’ultimo respiro mi piace pensare che sia tornata nel respiro universale.

The Glorias

Un altro di quei bei film sfortunati che sono incappati nella pandemia. Il progetto, scritto dalla regista Julie Taymor con la drammaturga Sarah Ruhl dall’autobiografia di Gloria Steinem “My life on the road”, risale a tempi non sospetti, il già lontano anni luce 2018 – in anni in cui il tempo vissuto in quarantena si è dilatato, allontanandoci gli uni dagli altri e tutti dalla realtà quotidiana; le riprese sono iniziate nel gennaio 2019 con un budget di 20 milioni di dollari che si farà fatica a riprendere perché il film sarà pronto un anno dopo, e verrà presentato al Sundance Film Festival nel gennaio 2020, poco prima che il mondo chiudesse i battenti. Dal settembre 2020 il film è stato svenduto su Prime Video e adesso è visibile sulla piattaforma Sky.

E’ dunque la biografia di una giornalista e scrittrice, attiva femminista negli anni ’60 e ’70, quegli anni infuocati di contestazioni d’ogni genere in tutto il mondo che noi chiamiamo “occidentale”, e che in America ha dovuto fare i conti anche con le rivendicazioni dei neri e di tutte le altre minoranze di cui quel popolo è composto. E non essendo io un attivista femminista e dunque non conoscendo la materia, non posso non chiedermi quante delle femministe nostrane davvero conoscessero, o conoscano oggi col senno di poi, Gloria Steinem. Quello che intendo è che il cinema americano racconta e vende al mondo intero la sua storia personale, personaggi fatti e dettagli della loro cultura, così come è stato, ad esempio, per la battaglia di Alamo o la marcia antirazzista di Selma, storie locali che, seppure importanti, nello specifico riguardano la storia degli Stati Uniti e non la storia del mondo; il punto, ancora, è che ormai siamo totalmente assoggettati a quell’immaginario: se ci chiedono quale sia il film che meglio si è sedimentato nei nostri ricordi, tiriamo fuori titoli come “Via col vento” o “Titanic” secondo le generazioni, e a nessuno di noi italiani vengono in mente “Ladri di biciclette” o “Novecento”.

Da sinistra a destra il cast per ordine di età, con Gloria Steinem e Julie Taymor

L’interesse che il film mi suscita, al di là della storia all american che racconta, risiede nello stile, visionario e sempre spettacolare, che è il marchio di fabbrica della regista Julie Taymor. Donna di grande ed eclettica cultura – 16enne studia mimo a Parigi presso la “Scuola internazionale di teatro Jacques Lecoq”, poi si laurea in mitologia e folklore e viaggerà in Indonesia e Giappone, poi frequenta un corso estivo sul “teatro delle ombre” – ed è finalmente pronta a firmare le sue prime regie teatrali in cui saranno fondamentali le dottrine precedentemente apprese. Dopo tre regie tv che filmavano sue regie teatrali debutta al cinema nel 1999 con “Titus” dallo shakespeariano “Titus Andronicus” che aveva già realizzato a teatro e che per il grande schermo riscrive in chiave post-moderna, con le superbe interpretazioni di Anthony Hopkins e Jessica Lange e un cast di tutto rispetto. Ma la grande notorietà arriva con la regia di “Frida” del 2002, biografia della tormentata pittrice messicana Frida Khalo interpretata da Salma Hayek, film che condusse l’autrice alla notte degli Oscar (vincendo per il trucco e la colonna sonora), ai Golden Globe, ai Bafta e via via discendendo verso tutti gli altri premi disponibili. La filmografia di Julie Taymor continua col musical “Across The Universe” che genialmente imbastisce una storia d’amore su 33 canzoni dei Beatles, poi torna a Shakespeare riprendendo dal teatro “The Tempest” dove riscrive il personaggio di Prospero come Prospera e lo affida ad Helen Mirren, e ci fermiamo al 2010 con un pacchetto di 4 film tutti da recuperare prima di giungere a quest’ultima sua visionaria eccentrica colorata pensosa poetica trasposizione di una biografia dove chiama 4 interpreti ad incarnare 4 periodi di quella vita: la bambina Ryan Keira Armstrong, l’adolescente Lulu Wilson (già vista nel fantasy “Ready Player One”), il premio Oscar (The Danish Girl) Alicia Vikander e l’altra premiata con l’Oscar (Still Alice) Julianne Moore, 4 momenti di vita che viaggiano insieme su un pullman (My life on the road) e che si scambiano commenti e suggerimenti di vita, da cui il titolo che volge al plurale il nome Gloria.

Altri interpreti sono uno stazzonato Timothy Hutton, anche lui premiato con l’Oscar per “Gente Comune” quand’era un ventenne di belle speranze non tutte realizzate; altri ruoli di spicco, per la comunità nera che si affiancò alle battaglie femministe, sono Lorraine Toussaint, molto attiva in tv e vista in “Selma”, e Janelle Monáe, nata cantautrice di successo e poi passata alla moda e al cinema.

Ma la sorpresa più piacevole arriva oltre la metà del film con l’irrompere della veterana 75enne Bette Midler, per la prima volta con una zazzeretta bruna; ottima cantante e attrice brillantissima che al cinema ha avuto i suoi anni migliori negli Ottanta dopo che nel 1979 aveva interpretato, premiata con il Golden Globe e candidata all’Oscar, il dramma musicale “The Rose”, una semi biografia molto romanzata della cantautrice Janis Joplin, per cui la Midler aveva composto la colonna sonora che subito divenne un suo grande successo discografico.

Volendo (oziosamente) tentare un parallelo con la nostra realtà, e con tutti i dovuti distinguo, essendo principalmente Julie Taymor una regista teatrale e d’opera che quando può fa il cinema, possiamo accostarla alle nostre Roberta Torre che se possibile è ancora più visionaria, e Emma Dante che recentemente ha realizzato “Le sorelle Macaluso” da un suo precedente spettacolo teatrale. Nel panorama statunitense e internazionale, invece, Julie Taymor resta in linea con tutte le altre registe che, ognuna a suo modo, fa cinema al femminile: Jane Campion, la signora degli intensi drammi romantici e storici “Lezioni di piano” e “Ritratto di signora”; la figlia d’arte Sofia Coppola con film dai toni surreali: “Il giardino delle vergini suicide”, “Lost in tralation”, “Marie Antoinette”; l’attrice Greta Gerwig che dal cinema indie è saltata ai classici sempre con uno sguardo personalissimo sulle sue protagoniste, da “Lady Bird” a “Piccole Donne”; Patty Jenkins che è la prima donna a dirigere blockbuster con super eroi, anzi eroine: “Wonder Woman”. Una collocazione a parte, invece, per la prima regista a vincere l’Oscar, Kathryn Bigelow, ex moglie e collaboratrice di James Cameron, che è l’unica a non fare cinema femminile e anzi si distingue per le sue regie muscolari in film di azione e militareschi, e dal thriller poliziesco con una donna protagonista, “Blue Steel” passa subito ai film pieni di testosterone con i surfisti rapinatori di “Point Break”, finché vince l’Oscar con “The Hurt Locker”, un film bellico collocato in Iraq, cui segue “Zero Dark Thirty” sulla cattura e l’uccisione di Osama Bin Laden; qualcuno aveva cominciato a chiedersi se per vincere l’Oscar una regista dovesse fare film virili, finché la risposta è arrivata quest’anno con la cerimonia degli Oscar 2021 che ha premiato la cinese Chloé Zhao per “Nomadland”, altro film rigorosamente al femminile. Dunque che le signore donne facciano film con donne e per donne, verranno premiate lo stesso.

E per la prima volta sullo schermo… Ornella Muti

1970. Damiano Damiani è uno dei registi di punta del cinema di impegno civile di quegli anni, che si concesse un’incursione nell’horror americano con “Amityville Possession”, 1982, al seguito del produttore Dino De Laurentiis (che intendeva colonizzare Hollywood ed è riuscito a lasciare una sua traccia permanente); ma che quando l’impegno civile cinematografico ebbe il suo declino continuò con i polizieschi segnando i suoi ultimi grandi successi col televisivo “La Piovra”, 1984, e il cinematografico “Pizza Connection” del 1985, e poi avviandosi al declino fino ad “Alex l’ariete” del 2000 che segnò lo sfortunatissimo debutto cinematografico di Alberto Tomba. E’ morto 90enne nel 2013.

Franca Viola; e Filippo Melodia, con i complici, dietro le sbarre nell’aula del processo

E’ di cinque anni avanti la vicenda della prima donna che rifiutò il matrimonio riparatore facendo cronaca storia e legislatura. La quindicenne Franca Viola, di Alcamo in provincia di Trapani, si fidanzò col consenso dei genitori col maggiorenne e maggiorente di bell’aspetto Filippo Melodia, rampollo di una rispettata famiglia mafiosa, e all’inizio erano tutti felici e contenti perché la famiglia di contadini di lei aveva tutto da guadagnare da quell’unione, rispetto e benessere, e fin qui il film ricalca fedelmente la vicenda della fascinazione che la ragazzina provò per il giovane uomo ben vestito e dallo sguardo assassino. Senonché, il giovane uomo, che era davvero un assassino, finì momentaneamente al fresco per un semplice furto e papà Viola, orgogliosamente, ruppe il fidanzamento. Ma erano luoghi e tempi in cui l’orgoglio di un contadino non aveva valore e perciò subì minacce e devastazioni. Franca Viola sulla sua vicenda ebbe parole che oggi sembrerebbero banali ma che allora suonavano rivoluzionarie: “Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce” senza dimenticare che ci sono angoli del mondo dove ancora queste cose accadono. L’aggressore fu condannato a dieci anni di carcere con due di soggiorno obbligato a Modena, dove alla scadenza della pena venne raggiunto da un anonimo colpo di lupara.

La sceneggiatura devia dalla storia originale per darsi l’opportunità di raccontare altre realtà: la fidanzata bambina oggetto comincia a vedere l’uomo per quello che è, un arrogante maschilista che non la rispetta perché pensa di doverla possedere, perché possedere è tradizione di famiglia, e lei allora rompe il fidanzamento, nel film senza l’appoggio della famiglia, e la sceneggiatura dà spazio drammatico al padre che si maledice per non avere avuto il coraggio di schierarsi con la figlia, raccontando con questa scena una realtà sottesa: quella della diffusa complicità per ignavia e paura, sottomissione socio-culturale. Nella realtà e nel film la ragazza viene rapita e violentata per essere poi costretta a un matrimonio riparatore, per salvare il suo onore e quello della sua famiglia, pena l’isolamento sociale con il marchio di svergognata e un destino da zitella. E all’epoca, la legislazione italiana, con l’articolo 544 del codice penale, dichiarava: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”; con parole più comprensibili l’articolo ammetteva la possibilità che si potesse estinguere il reato di violenza carnale, anche ai danni di una minorenne, qualora fosse stato seguito dal cosiddetto “matrimonio riparatore”, visto come forma di contratto tra l’accusato e la persona offesa; questo accadeva perché la violenza sessuale era allora considerata oltraggio alla pubblica morale e non reato contro la persona. Va da sé che il caso di Franca Viola sollevò forti polemiche divenendo oggetto di numerose interpellanze parlamentari. Quell’articolo del codice penale sarà abrogato con una legge del 1981, a sedici anni di distanza dalla conclusione della vicenda, e solamente nel 1996 lo stupro da reato contro la morale sarà riconosciuto in Italia come un reato contro la persona.

Luisa Rivelli

Per interpretare i due protagonisti Damiano Damiani sceglie due convincenti debuttanti: la 15enne Francesca Rivelli e il 25enne Alessio Orano, e impone a lei il nome d’arte di Ornella Muti da sue reminiscenze dannunziane: Ornella è un personaggio de “La figlia di Jorio” ed Elena Muti è la protagonista de “Il piacere”; nome d’arte, a dire del regista pigmalione, necessario per distinguerla dall’attrice Luisa Rivelli, che in realtà è molto più anziana e in quegli anni già a fine carriera. La coppia di giovani e belli farà coppia nella vita e alla maggiore età di lei convolano a nozze, quando lei era già madre di Naike, la cui paternità non verrà mai dichiarata. In quegli anni lui darà il meglio in film horror e thriller e lei, come sappiamo, diverrà una delle interpreti più celebrate del nostro cinema, nonostante sia sempre stata doppiata da altre professioniste e solo in anni più recenti ha recitato con la sua vera voce, concedendosi pure un paio di interpretazioni teatrali. Qui è doppiata da Loretta Goggi e lui è doppiato da Michele Gammino. Il padre è interpretato da Gaetano Cimarosa che nel film conserva il suo vero nome, Tano Cimarosa, mentre la protagonista Franca sarà Francesca, anche vero nome dell’attrice. Nel ruolo del tenente dei carabinieri l’interessante e purtroppo prematuramente scomparso, a 36 anni, Pierluigi Aprà; mentre interessante è la partecipazione, nel ruolo di un contadino dibattuto fra l’imperativo morale e il dovere sociale-mafioso, del cantante Joe Sentieri, esponente negli anni ’60 di quel gruppo detto “degli urlatori”, genere che ebbe anche una sua propria filmografia composta da un trittico, gruppo cui appartenevano anche Tony Dallara, Adriano Celentano e Little Tony e a cui si aggiungerà il giovanissimo Gianni Morandi. In quegli anni molti cantanti hanno tentato la via del cinema al di fuori e oltre il genere musicarello degli anni ’60, ma solo due di loro sono riusciti a ritagliarsi delle carriere di tutto rispetto: l’ex urlatore Adriano Celentano e l’ex crooner Johnny Dorelli, entrambi star della commedia, il primo con quelle venature surreali che lo contraddistinguono dato che fu anche sceneggiatore e regista, il secondo più a suo agio nel genere scollacciato con incursioni nella commedia di costume d’autore.

Ornella Muti, dopo questo folgorante debutto, ebbe numerose offerte di lavoro, anche dalla Spagna e, come piano B nel caso la carriera cinematografica non avesse decollato, cominciò anche a lavorare nei fotoromanzi insieme alla sorella maggiore, Claudia Rivelli, già star della Lancio; ma non ebbe il tempo di continuare su questa strada perché il cinema la fagocitò, dapprima con ruoli da adolescente inquieta (le adolescenti, nel cinema di ogni epoca e latitudine, sono sempre inquiete, forse perché inquietano i pensieri dei maschi che fanno quel cinema…) e questo genere avrebbe potuto essere la sua tomba professionale, finché Marco Ferreri non la volle protagonista insieme a Gerard Depardieu del discusso e disturbante “L’ultima donna” del 1976, anno in cui Ornella ricevette anche la Targa d’Oro ai David di Donatello per il complesso delle sue interpretazioni; e l’anno successivo, recitando con Ugo Tognazzi in “la stanza del vescovo” di Dino Risi, diede una svolta definitiva alla sua carriera.

Il film, parlando di verginità e dunque obbligatoriamente collocato nella Sicilia cinematografica di allora, fa subito pensare a un film di tre anni prima, “Assicurasi vergine” con la meno espressiva Romina Power, altra storia ispirata a una vicenda realmente accaduta ma in quel caso raccontata con toni da commedia boccaccesca benché qua e là fotografasse comunque una Sicilia dai toni realistici: tutt’altra atmosfera rispetto a questo solido dramma che si apre, comunque, perché il set è la Sicilia, col suono metallico del marranzano, perché la Sicilia è sempre marranzano, anche se a firmare la colonna sonora stavolta c’è Ennio Morricone che, a mio avviso, qui mette insieme spezzoni inutilizzati altrove col solito assolo della sua soprano Edda Dell’Orso, senza scrivere pagine memorabili.

A Franca Viola il poeta palermitano (di Bagheria) Ignazio Buttitta dedicò dei versi che il cantautore-cantastorie calabrese Otello Profazio mise in musica.

Qui il film completo:

Calibro 9 – il sequel sbagliato

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Quasi 50 anni dopo arriva il sequel del poliziottesco “Milano calibro 9”, all’epoca grande successo al botteghino, punta di diamante nella filmografia del regista Fernando Di Leo e oggi considerato una pietra miliare del genere, genere che oltre oceano Quentin Tarantino ha ripreso e svecchiato pur mantenendone le specifiche: personaggi grotteschi e sopra le righe, situazioni al limite, e storia dinamica senza troppe chiacchiere esistenziali, mentre di suo gusto ci ha aggiunto lo splatter facendone un personale marchio di fabbrica. Si prendono la briga di realizzare questo sequel il figlio dell’allora produttore Ermanno Curti, Gianluca Curti a sua volta produttore e sceneggiatore, e il regista sceneggiatore Toni D’Angelo figlio del cantante neomelodico per eccellenza Nino D’Angelo. I due hanno già collaborato nel 2017 realizzando “Falchi” un ottimo noir napoletano, con uno spirito più affine ai poliziotteschi di quanto lo sia questo sequel. Alla notizia i nostalgici esultano e viene anche rilasciata una prima locandina in cui insieme ai due nuovi protagonisti Marco Bocci (il personaggio è chiamato Fernando in onore al regista Di Leo) e Ksenia Rappaport ritroviamo due nomi del vecchio cast, Mario Adorf (90 anni) e Barbara Bouchet (78 anni), unici sopravvissuti come personaggi e anche come persone nella vita reale. Ma qualcosa va storto con Mario Adorf – problemi di salute? – e viene sostituito in corsa dal 75enne Miche Placido, e a Mario Adorf rimane l’omaggio nei titoli che riprende fotogrammi dell’originale.

La locandina “coming soon”

A vedere uno di seguito all’altro i due film, all’inizio se ne apprezzano subito i rimandi anche se, come è giusto e necessario, il nuovo film deve essere comprensibile anche a chi non ha memoria del primo: si tratta di dettagli che solo i cultori possono riconoscere e apprezzare. In apertura del classico un malloppo di centomila dollari passava di mano in mano per essere consegnato al capo di un’organizzazione criminale detto l’Americano, ma di mano in mano il malloppo si perde per strada e conseguentemente tutti i corrieri vengono ammazzati nella ricerca del colpevole. Nel moderno non c’è più un malloppo perché la valuta, stavolta sono cento milioni di euro, è dematerializzata e viaggia in digitale su diversi server europei e di nuovo, quando il malloppo digitale sparisce, tutti i responsabili dei vari trasferimenti vengono giustiziati nei vari scenari europei, quasi come se fossimo in un film di 007, ma ci sta perché il richiamo all’originale è compiuto guardando all’oggi. Altri rimandi: uno dei personaggi che esce dalla metropolitana sulla piazza del duomo e un altro dal carcere, e nel finale il primo piano su una cicca di sigaretta. Poi il film, pretendendo di dover piacere ai giovani spettatori di oggi secondo le dichiarazioni degli autori, perde lo stile del poliziottesco – che forse i giovani d’oggi avrebbero pure apprezzato – e diventa un noir che alterna le scene di azione, ben realizzate, a improvvidi momenti di sentimentalismo introspettivo che avviano il film verso il genere televisivo, e non è un caso che la Rai produce. Laddove il personaggio di Gastone Moschin si distingueva da tutti per la sua laconicità, qui, quello che viene raccontato come suo figlio, è solo uno dei tanti, perno della storia come fu il padre, certo, ma troppo chiacchierone e troppo raccontato, in un film che spiega troppe cose togliendoci il piacere di decrittare i personaggi, come accadrebbe in un vero noir; e l’interprete Marco Bocci sembra più a suo agio quando fa il romanticone che l’uomo in azione. Anche il poliziotto che indaga, ruolo che è andato ad Alessio Boni, mantiene dello spirito dei poliziotteschi il carattere di cane sciolto, ma quanto ce ne può importare che sia separato e stia lottando per l’affidamento condiviso del figlio? è un noir o una puntata di CentoVetrine?

la locandina definitiva che mette Marco Bocci in primo piano e toglie di mezzo tutti gli altri

Nel cast salta subito all’occhio, e infastidisce purtroppo, la russa Ksenia Rappaport che Giuseppe Tornatore ha importato nel 2006 per il film “La sconosciuta” col quale ha vinto il David di Donatello come protagonista, e da allora italianizzata con successo; e per quando bene possa ormai parlare la nostra lingua le rimane quel vago accento esotico che la rende aliena al personaggio che interpreta: l’esponente ripulita di una famiglia mafiosa calabrese, della ‘ndrangheta; viene inserita al volo una battuta per giustificare l’accento russo ma non basta a farci accettare la scelta di inserire nel cast e in quel ruolo questa pur brava attrice.

‘Ndrangheta calabrese dicevamo, quando nell’originale il personaggio di Rocco Musco, interpretato da Mario Adorf e doppiato da Stefano Satta Flores parlava in sicilianese, ma vabbè una famiglia mafiosa vale l’altra. L’anziano boss in clandestinità ha il volto segnato e ormai assimilato a questo genere di ruoli di Adriano Chiaramida, livornese di nascita ma siculo-calabrese cinematograficamente. Il capintesta assai aggressivo e il calabrese doc Paco Reconti mentre il conterraneo Walter Cordopatri è un killer assai violento e divertente, forse l’unico personaggio che rispetta i canoni del poliziottesco, perché continua ad ammazzare – con grandi schizzi di sangue in un omaggio di ritorno a Tarantino – chiedendo rabbioso alle vittime: “Und’è ‘a pila?”, dove sono i soldi?, che è praticamente la sua unica battuta che diventa un leitmotiv. Antonio Zavatteri è l’inevitabile magistrato corrotto, mentre si potevano pure evitare nel cast la francese Jessica Cressy, già vista nel premiato a Venezia “Martin Eden” e il belga Éric Godon, probabilmente come specchietti per le allodole per il mercato d’oltralpe, assieme a un paio di russi come manovalanza mafiosa per il mercato sovietico dove Ksenia Rappaport conserva frequentazioni.

Restano poche parole sui sopravvissuti a cominciare dall’originale Barbara Bouchet, che nel 2008 ha ricevuto un riconoscimento alla carriera ad Alghero, e che qui riprende il suo personaggio che avevamo lasciato alla fine dell’originale mentre si prendeva in faccia uno dei più bei pugni del cinema in soggettiva da parte del Rocco Musco di Mario Adorf e che oggi se la deve vedere col Rocco Musco di Michele Placido e non le andrà altrettanto bene ma, altro tradimento al poliziottesco, tutto è bene quel che finisce bene. Michele Placido si diverte a riprendere un personaggio divenuto iconico e laddove la sceneggiatura non gli offre molta ciccia da masticare lui gigioneggia facendo la faccia cattiva ma restando simpatico.

In conclusione un suggerimento a produttori e registi: state lontani dai sequel, soprattutto se sono passati decenni, come nel caso di “Blade Runner 2049″, perché quando non è un sequel inutile è sicuramente sbagliato e fuori rotta: “Milano calibro 9” rimane un brillante esempio di poliziottesco mentre questo “Calibro 9” è solo un film televisivo e neanche dei migliori.

Milano calibro 9

Il film è del 1972 ed è un viaggio nel tempo, per chi c’era come me, e anche per chi ancora non c’era, perché testimonia una realtà tutta italiana oggi scomparsa, una realtà cinematografica che a sua volta filtrava la vera realtà, la cronaca e il sociale. Ritroviamo subito un termine oggi caduto in disuso: il malloppo, parola di origine regionale, laziale e toscano soprattutto, che indica un pacco voluminoso che, in gergo, contiene banconote o altri preziosi, per lo più di origine illegale, truffaldina (altro termine in disuso); il malloppo poteva anche essere immateriale, ovvero indicare un capitale bancario o un’eredità, come essere anche sinonimo di uno stato d’animo o malessere fisico: avere un malloppo sullo stomaco.

Altro termine caduto in disuso è il night club, il cui periodo d’oro in Italia risale agli anni ’50, all’immediato dopoguerra col suo boom economico che attraeva in quei locali l’alta borghesia e genericamente quelli che potevano spendere, dunque anche gli arricchiti molto spesso legati alla malavita e qualche volta dai modi un po’ più rozzi; i night, come venivano abbreviati, si distinguevano dai bar e dalle discoteche per la musica dal vivo e nei migliori locali si esibivano artisti come Renato Carosone e Fred Bongusto, Peppino Di Capri e Sergio Endrigo; la qualità era anche nel servizio, e ai frequentatori si richiedeva altrettanta eleganza, almeno nell’abbigliamento, ed era un d’obbligo ordinare champagne da mettere in conto, e che conto! I night club furono al culmine in Italia fino a tutti gli anni ’60 e successivamente, dunque all’epoca di questo film, cominciò il loro declino, dovuto alle trasgressioni legate alla droga e al sesso che hanno attirato sempre più i malviventi, altro termine che sta andando in disuso, e allontanato la clientela d’élite. Oggi, sinteticamente club, o sono parecchio esclusivi, vedi il Billionaire, ritrovando lo spirito originario ed elitario incarognito però dai tempi, o sono la loro copia vorrei-ma-non-posso e finiscono con l’essere dei troiai. In ogni caso hanno quasi totalmente perso il fascino della musica dal vivo e sono solo discoteche con quel qualcosa in più. Il cosa dipende dal proprietario.

Barbara Bouchet go-go dancer nel film

Col night-club è caduto in disuso anche il termine go-go dance, oggi sostituita dalla (o dal) cubista, che non è una pittrice cubista ma una ragazza che balla, o meglio si agita e dimena, su un cubo, o comunque uno spazio ristretto, che può anche essere una gabbia, a sua protezione ma anche ulteriore fantasia per l’avventore. La go-go dance sopravviva anche nella lap-dance, termine che traduce la danza del ventre e trasforma la tradizionale danza araba, nata nelle corti principesche del Nord-Africa con significati ancestrali legati alla femminilità e alla fertilità, in una semplice danza erotica che può continuare nella prostituzione. In Italia chiamiamo lap-dance anche la pole-dance, che è quella che si fa attorno a un palo, che nasce come vera e propria attività sportiva legata all’acrobazia, con notevole impegno di forza fisica, flessibilità e coordinazione, e poi emigra nei club dove diventa anch’essa intrattenimento erotico.

#the first one is a renaissance painting from chaotic hedonist

La go-go dance è nata casualmente negli anni ’60 al Peppermint Lounge di New York, una discoteca dove all’epoca si ballava il twist, così alla moda che nel ’61 vi venne girato il film “Hey, let’s twist!”. Assai gay friendly il Peppermint fu frequentato da molte star fra cui, oltre a Paul MacCartney riconoscibile nella foto, Audrey Hepburn e Marilyn Monroe, Frank Sinatra e Truman Capote, e addirittura l’elusiva Greta Garbo vi si lasciò andare scatenandosi nel ballo, mentre Judy Garland probabilmente assistette all’esibizione di sua figlia Liza Minnelli, dato che vi si faceva anche musica dal vivo.

A un certo punto le avventrici, che indossavano minigonna e stivali, cominciarono a ballare sui tavoli per scatenarsi nel twist e dato che la cosa piacque molto, i gestori del locale (di cui era proprietaria la famiglia mafiosa dei Genovese) pensarono di assumerle come intrattenitrici. Il termine go-go è chiaramente un incitamento che in Europa si arricchisce della significanza del francese à gogo, in abbondanza. Nel 1965 il Peppermint chiuse e sulla sponda opposta degli States, sul Sunset Boulevard di West Hollywood aprì il Whisky a Go Go che ha preso il nome dal parigino Le Whisky à Go-Go del 1947, e lì a Hollywood furono regolarmente assunte le prime go-go dancers che si esibivano, assoluta novità, dentro gabbie che pendevano dal soffitto; erano generalmente vestite con abiti aderenti e succinti con frange che accentuavano i movimenti, solo successivamente le ragazze vennero via via spogliate.

Ill film oggi, dopo l’apprezzamento espresso da Quentin Tarantino cultore dei B movie italiani, viene considerato un capolavoro del genere, e dell’epoca. Il genere è il poliziottesco, ovvero il poliziesco all’italiana, fratello e contemporaneo dello spaghetti-western, un genere attivo dagli anni ’60 fino a tutti gli ’80, con punte di maggior fulgore proprio nei Settanta; che, come dice il termine, si basava su indagini di polizia con ampio riferimento al mondo criminale, storie che spesso prendevano spunto dai fatti di cronaca, e li raccontavano con uno stile enfatico che in certi casi sfiorava il grottesco, ma con un occhio anche al sociale – non dimentichiamo che sono gli anni delle contestazioni e del terrorismo – facendo però molta demagogia e poco pensiero critico.

Viene indicato come pietra miliare del genere poliziottesco “Svegliati e uccidi” di Carlo Lizzani sulla figura del criminale milanese Luciano Lutring, e il filone sviluppa un percorso parallelo nel cinema di impegno civile cui si dedicarono registi come Marco Bellocchio, Damiano Damiani, Giuliano Montaldo, Elio Petri, Francesco Rosi, Florestano Vancini con sceneggiature che guardavano in cronaca per i conflitti sociali, spesso trovando il protagonista nel cittadino che si ribella, e ai romanzi di Leonardo Sciascia per parlare malaffare e mafia.

Al di là dell’Atlantico il poliziottesco è fratello di un poliziesco più duro, dove quei tutori dell’ordine sono più intransigenti e violenti dei nostri che invece sono commissari di polizia assai sui generis, spesso anarcoidi però, incompresi e anche perseguitati dai superiori, dotati di compassione quando a delinquere erano i derelitti, ma sempre fedeli all’ordine e ai precetti della legge. Nel poliziottesco come attori troviamo protagonisti di qualità che negli altri film, quelli di serie A, restano comprimari e spalle, ma in genere il filone ha portato alla fama una serie di nomi che hanno dato il meglio, quando non il tutto, proprio lì: Giuliano Gemma, Luc Merenda, Maurizio Merli, Tomas Milian, Franco Nero, Fabio Testi, per ricordare i più noti, mentre fra le attrici, in genere solo comprimarie in questi film densi di testosterone, si ricordano: Janet Agren, Femi Benussi, Barbara Bouchet, Olga Karlatos, Dagmar Lassander, Marisa Mell, tutte rigorosamente straniere e belle, con alcune italiane altrettanto belle e doppiate come Agostina Belli e Silvia Dionisio, attrici che in alcuni casi hanno mostrato il meglio in un altro filone dell’epoca, le commedie sexy ed erotiche, curiosamente sempre accanto a uomini più anziani o brutti.

sopra alcune locandine con i protagonisti citati
sotto alcune delle belle nei cast di quei film
in una selezione incompleta

“Milano calibro 9” prende il titolo da una raccolta di racconti dello scrittore Giorgio Scerbanenco, poiché ad essi si ispira per personaggi e situazioni senza fare un riferimento specifico ad alcun racconto. Scerbanenco fu un prolifico giornalista scrittore molto versatile che ha spaziato in ogni campo della letteratura di genere – western, fantascienza, rosa – imponendosi all’attenzione negli anni ’60 come autore di racconti gialli e da considerare come uno dei maestri del genere, dove ha raccontato un’Italia in controtendenza a quella spensierata e brillante del boom economico, ma disincantata e cattiva, fatta di personaggi amari con un bisogno disperato di emergere sull’altro lato della storia italiana, quella edulcorata e gioiosa. Soggetto e sceneggiatura del film sono del regista, Fernando Di Leo, che realizza il film forse più importante della sua carriera, tanto che pochi anni dopo ne farà un remake ambientato nella capitale che avrebbe dovuto intitolarsi “Roma calibro 9” e che alla fine si chiamò “Diamanti sporchi di sangue” con Barbara Bouchet che rifà il suo personaggio riscritto in un altro contesto.

Gastone Moschin e Mario Adorf

Ne è protagonista Gastone Moschin, attore di classica impostazione teatrale che fu, come dicevo, uno di quegli interpreti che spaziando con grande versatilità nei film di genere, nel cinema di serie A rimarrà comprimario, e deve la sua fama maggiore alla trilogia di “Amici miei”, oltre che agli sceneggiati Rai. Qui come freddo criminale di poche parole appena uscito dal carcere di San Vittore è assai misurato e in controtendenza con il resto del cast e l’intero film. Gli fa da contraltare il logorroico e iper espressionista Mario Adorf, tedesco di padre calabrese, eccellente caratterista con carriera internazionale che qui recita in italiano, si vede dal labiale, ma è doppiato malissimo in un improbabile sicilianese dal pur ottimo Stefano Satta Flores. Come già detto la bella che balla è Barbara Bouchet, la tedesca che abbiamo già visto in “Casino Royale” la parodia a 007, e che in Italia è già talmente quotata da condividere col protagonista il nome sopra il titolo, e mentre fa la sua go-go dance coperta solo di perline il regista la filma con tutte le inquadrature possibili da tutte le angolazioni immaginabili, anche le più assurde, per il suo e il nostro piacere.

Nella scena del film Luigi Pistilli, Frank Wolff e Gastone Moschin

Nel ruolo del commissario all’antica il tedesco-americano Frank Wolff che era venuto in Italia all’inizio degli anni ’60 su suggerimento del suo amico regista Roger Colman, dato che quello era il periodo il cui gli americani che non riuscivano a sfondare in patria venivano da noi a girare i peplum, e subito Francesco Rosi lo ingaggia come protagonista del suo “Salvatore Giuliano” nel ruolo di Gaspare Pisciotta, e poi sarà Galeazzo Ciano in “Il processo di Verona” di Carlo Lizzani; ma dal cinema d’impegno civile scivola subito nei B movie dei poliziotteschi e degli spaghetti-western; si è suicidato tagliandosi la gola per una depressione dovuta a patimenti sentimentali. Anche Luigi Pistilli si è tolto la vita a causa della depressione le cui concause sono un insuccesso teatrale, la rottura sentimentale con Milva e, non ultimo, il suicidio del figlio 24enne avvenuto qualche anno prima; qui interpreta un vice commissario con una visione più moderna e dinamica sulle indagini condotte che, secondo lui, non intendono scalfire la connivenza dei malviventi con l’alta società milanese, e per questo in contrasto col commissario.

Nel piccolo ruolo dell’anziano boss decaduto e cieco c’è Ivo Garrani, un altro grande attore di provenienza teatrale, mentre il suo figlioccio, esperto sicario dal grilletto facile è interpretato dal francese Philippe Leroy, già militare paracadutista in patria e riparato in Italia per le tensioni politiche che si erano create attorno a certe sue dichiarazioni riguardo a De Gaulle che illudeva e buttava via i giovani che si erano arruolati per le guerre in Indocina e Algeria; è già famoso per avere interpretato Leonardo Da Vinci nello sceneggiato Rai del 1971 e bisserà il successo col ruolo di Yanez in “Sandokan”, ma è già protagonista di tanto cinema italiano. Altro straniero con ricca carriera italiana è l’americano Lionel Stander trasferitosi in Europa per sfuggire alla persecuzione maccartista, qui proprio nel ruolo dell’Americano, in un film in cui i personaggi sono tutti delle maschere, senza sfumature, esemplificazioni di una tipologia senza sovrastrutture psicosociali.

Fernando Di Leo scrive e dirige con grande sicurezza ma con qualche sciatteria tipica dei film di serie B. A cominciare da come si indicano i numeri con le dita: il tedesco Mario Adorf, che interpreta un siciliano, adotta il gesto di centro mentre qualcuno avrebbe dovuto spiegargli che noi italiani lo facciamo come nella prima immagine, mentre la terza è quella che usano gli americani. C’è poi che quando i tanti muoiono sparati, cadono fulminati a terra senza buchi sulle giacche e nessuna macchia di sangue, come nei film per bambini, e solo quando muoiono i pezzi grossi del cast vengono sprecati i soldi per bucare le giacche e spargere sangue finto. Anche la grande sparatoria finale è molto raffazzonata e tutti quanti hanno l’approssimazione dei bambini che giocano a guardia e ladri e non sanno neanche come si punta una pistola, ma il regista poi dedica ad ognuno di loro la propria inquadratura, ad ognuno un momento topico quando viene ferito a morte, e tutti fanno di tutto e di più fra smorfie e contorcimenti per lasciare il loro segno artistico nel film: del resto a personaggi grotteschi una morte grottesca. Però il film ha un buon ritmo e nell’insieme risulta ancora oggi gradevole, potendo separare col senno di poi il grano dal loglio. Resta comunque un film da vedere perché, come dire? ha un suo perché.