Archivio mensile:ottobre 2020

Terminator Salvation

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Quarto capitolo della saga Terminator ma stavolta senza numero progressivo perché si stacca dai primi tre, perché non c’è più un terminator e non c’è più Arnold Schwarzenegger che ora sta facendo il governatore della California, soprannominato governator da terminator. Non ci sono più neanche i produttori Vajna e Kassar che avevano acquisito tutti i diritti del franchising, sfilandoli al creatore James Cameron, e ora li avevano venduti a The Halcyion Company. Il film è del 2009 a sei anni di distanza dal precedente di cui avrebbe dovuto continuare il plot, ma ancora una volta passa di mano in mano, cambiano le visioni produttive e viene più volte riscritta la sceneggiatura, che alla fine, nonostante il contributo di diversi, porta solo la firma di John Brancato e Michael Ferris, autori del 3°.

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«Ero un muratore, costruivo case. Non ho mai voluto recitare. Quando avevo diciannove anni mi sono messo con una ragazza che doveva fare un’audizione per la Premier Drama School. Ho fatto il provino con lei per farle da supporto morale, per tirarla un po’ su. Io venni preso, lei no… non è grandioso l’amore? Mi ha lasciato una settimana dopo!» Nella copertina di GQ che lo ha proclamato Man of the Year nel 2009.

Il progetto finale si stacca dalla trilogia precedente e si propone come l’inizio di una nuova trilogia che riscrive lo scenario e i personaggi. Mentre i film precedenti si basavano sui viaggi temporali del terminator e del suo rivale, questo nuovo progetto si basa su un’unica linea temporale, collocata nell’immediato futuro, l’anno 2018 (che per noi, oggi, è già il passato) e su un inedito punto di vista: quello dei combattenti in un futuro da cui finora avevamo solo visto arrivare amici e nemici. Si apre con un antefatto collocato nel 2003 in cui a un condannato a morte viene offerta la possibilità di donare il suo corpo alla scienza, nello specifico alla Cyberdyne Systems, di cui sappiamo che sta progettando lo Skynet col quale le macchine prenderanno il sopravvento. Il condannato è Marcus Wright, interpretato da Sam Worthington, un attore australiano semi sconosciuto che però ha appena finito di girare da protagonista “Avatar” di James Cameron, che uscirà lo stesso anno e che, sono parole sue, “gli ha cambiato la vita”. Prima di “Avatar” era arrivato a essere un senzatetto che viveva in un’automobile acquistata per duemila dollari, tutto quello che aveva ricavato vendendo i suoi beni. Fu lo stesso Cameron a parlarne al nuovo regista, McG, quando questi volle incontrare il vero autore del terminator per chiedergli suggerimenti e consigli.

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Helena Bonham Carter e Tim Burton

Nell’antefatto la dottoressa che gli propone l’affare è interpretata da Helena Bonham Carter, che accetta di girare il cameo solo per far piacere al suo compagno, il regista Tim Burton, che era un fan di Terminator. Nel film, l’anno dopo in cui l’ergastolano dona il suo corpo alla sperimentazione, Skynet viene attivato e il sistema, riconoscendo negli esseri umani un nemico, scatena il conflitto nucleare che porta al presente narrativo, il 2018. Il film si inquadra così nel genere post-apocalittico e survivalistico. Marcus Wright si risveglia, redivivo, in un mondo che non riconosce e senza neanche avere coscienza di cosa gli è successo, perché evidentemente non era stato ancora attivato, però si dimostra subito un forte e impavido distruttore di macchine. Nel suo vagare fra le rovine di Los Angeles incontra un giovane esperto in sopravvivenza, Kyle Reese. Su un altro piano narrativo John Connor, militarmente inquadrato nell’esercito combattente, si porta dietro l’aura della leggenda che si è sparsa sul suo conto ma deve ancora obbedire agli ordini dei suoi più alti in grado; ha una moglie visibilmente incinta, e dunque si suppone che la sua prole avrà un ruolo nei due sequel programmati, e ora, dopo che ha saputo che le macchine vogliono uccidere lui ma anche uno sconosciuto ragazzo di nome Kyle Reese, si mette sulla sua ricerca.

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In un film dove non è più protagonista il T-800 di Arnold Scwarzenegger è tutto uno spettacolare susseguirsi di diverse macchine stermina umani: vediamo all’azione gli obsoleti T-600 con scheletro esposto e i T-700 con pelle di gomma, e in volo una versione più piccola degli Hunter-Killer dei film precedenti, gli Aerostati, capaci di inviare un segnale radio agli Harvester, umanoidi di 18 metri, che essendo però molto lenti, hanno in dotazione incastonati nelle gambe dei Moto-Terminator che corrono a catturare gli umani; ma la vera chicca è l’Hydrobot, sorta di robot che si muove nell’acqua come un’anguilla assassina. Insomma, le macchine dominano tre elementi, terra aria e acqua, e non temono neanche l’ultimo, il fuoco. Ma gli umani scoprono che il loro punto debole è proprio il segnale radio attraverso il quale comunicano fra loro e ricevono ordini dal sistema centrale: basta spegnerlo per metterli al tappeto.

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Roland Kickinger

In questo affollarsi di macchine rivediamo in una movimentata sequenza il volto di Schwarzy – non accreditato – ricostruito con la computer grafica sul culturista, austriaco anche lui, Roland Kickinger; e altrettanto non accreditata c’è la voce di Linda Hamilton-Sarah Connor che il figlio John ascolta da audiocassette. John Connor è Chistian Bale, star con la più interessante carriera di ex attore bambino, e il suo coinvolgimento nel progetto è stato determinante, grazie anche al regista McG che non temeva di lavorare in collegialità. Egli aveva per primo cercato di coivolgere Bale – al momento impegnato sul set del secondo capitolo del Batman di Christopher Nolan, “Il Cavaliere Oscuro” – offrendogli il ruolo di Marcus Wright; ma l’attore, che prima di firmare ha rifiutato per tre volte, era più interessato al ruolo di John Connor, così il ruolo ebbe uno sviluppo più ampio nella sceneggiatura. Bale, pur essendo un fan di Terminator, fu convinto ad accettare solo quando il regista gli assicurò che la storia si sarebbe sviluppata sui personaggi e non sugli effetti speciali: e così è, in un film pur assai spettacolare sul piano effettistico, i personaggi sono molto ben delineati e il loro lato umano ed emozionale sono parte essenziale del racconto. Christian Bale, insieme al regista e all’altro interprete Sam Worthington, lavorarono d’amore e d’accordo sulla sceneggiatura, e poi passò insieme a lui intere giornate lavorative in sala montaggio per contribuire al prodotto finito.

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Nel ruolo del giovane Kyle Reese c’è Anton Yelchin, nato a Leningrado da una coppia di pattinatori russi che hanno richiesto asilo politico agli Stati Uniti lo stesso anno della sua nascita. Anche per lui, come per Sam Worthington è un momento di svolta: già premiato con il Young Artist Award, è ora scritturato in due film importanti con ruoli importanti, e insieme a questo Terminator interpreta anche Pavel Chekov in “Star Trek” e si avvierà a una carriera importante, tragicamente interrotta nel 2016: è stato ritrovato morto, col corpo incastrato tra la sua automobile e una cassetta della posta in mattoni, all’esterno della sua villa, la cui strada è in forte pendenza, e al momento del ritrovamento il motore dell’auto era ancora acceso e il cambio, che evidentemente ha ceduto, in folle.

Bryce Dallas Howard e Moon Boodgood

Ma il cast di primordine non finisce qui. Bryce Dallas Howard interpreta la moglie di John Connor; come pilota della Resistenza e momento romantico per Marcus Wright, c’è Moon Bloodgood, in quegli anni inserita dalla rivista Maxim fra le donne più sexy e poi, inanellando ruoli più da comprimaria che da protagonista, porterà avanti una bella carriera fra cinema e tv; il rapper spirituale Common che si è dato brillantemente anche al cinema come caratterista, interpreta il braccio destro di John Connor; altri caratteristi di lusso: Michael Ironside che è il generale al comando della resistenza, e Jane Alexander come anziana leader di un gruppo di sopravvissuti. Alla regia c’è Joseph McGinty Nichol, che abbreviato in McG sembra una di quelle sigle dietro cui palpita il cuore di un cyborg; ha cominciato come produttore e regista di videoclip musicali ed è anche regista di pubblicità di successo; il suo primo film è “Charlie’s Angels” cui seguirà “Charlie’s Angels, più che mai”, film di azione poco graditi alla critica ma molto apprezzati dal pubblico. Anche questo suo “Terminator Salvation” non piace ai critici: “Un tizio muore, si ritrova resuscitato, incontra altri, combatte. Ciò prosegue per quasi due ore”, è anche definito “prevedibile” e con “elementi drammatici che si appiattiscono”, l’interpretazione di Bale è “unidimensionale” ma i suoi co-protagonisti fanno di meglio, con Worthington che aveva “un’intensità silenziosa guastata solo quando urla ‘Nooooo!’ per tre volte in circa 10 minuti”; e ancora: “Il desiderio di Bale di interpretare John Connor è stato probabilmente il colpo più fatale al film, ha completamente distorto la forma della storia così com’è esistita.” ma c’è anche chi scrive: “la storia di Terminator si ricarica con una scossa di energia post-apocalittica. Frenetico e pieno di benvenuti legami col passato, apre anche nuove strade a proposito.” Arnold Schwarzenegger, protagonista dei precedenti tre film della serie, inizialmente fu generoso e definì “Terminator Salvation” “un grande film”, salvo poi ribaltare questa posizione e dire che era “orribile” e “un’occasione persa”. James Cameron lo considerò un “film interessante” che “non ho odiato tanto quanto avrei pensato”, e lodando l’interpretazione del suo pupillo Sam Worthington, disse anche che i suoi due film erano migliori di entrambi i successivi. Linda Hamilton, aveva augurato al film “il meglio” ma disse pure che la serie “era perfetta con due film. Era un cerchio completo, ed era abbastanza di per sé. Ma ci saranno sempre quelli che cercheranno di mungere la mucca”. Come sappiamo, il film non generò i due sequel previsti e rimane come un esperimento unico in tutta la serie, e non è da buttar via, a mio avviso.

Come curiosità c’è da riferire che durante le riprese, Christian Bale si arrabbiò con il direttore della fotografia per avere camminato sul set mentre giravano una scena; imprecò e urlò e si arrabbiò talmente che minacciò pure di lasciare il film. L’audio della filippica di Bale trapelò al pubblico e divenne virale. Bale si scusò poi pubblicamente. Ma la frittata era fatta Il compositore Lucian Piane creò un remix dance satirico dall’audio dell’incidente intitolato “Bale Out”. Per sorridere un po’.

Warning! James Cameron will be back!

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Terminator 3, le Macchine Ribelli

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Se fra il primo e il secondo capitolo erano passati sette proficui anni, fra il secondo e il terzo ne sono passati dodici, meno proficui. Mentre il 2° era ancora nelle sale James Cameron disse che se avesse avuto un certo successo ci sarebbero sicuramente state delle pressioni per un altro seguito, ma lui era convinto che Terminator dovesse concludersi lì. Non era dello stesso parere la sua ex moglie, la produttrice Gale Anne Hurd che dichiarò:  “Ho sempre pensato che la storia si prestasse meravigliosamente ad essere un racconto continuo.” E poi, se c’è da fare un sacco di soldi, perché no? Anche Mario Kassar e Andrew Vajna con la loro Carolco Film, co-produttrice del secondo episodio, erano pronti al nuovo impegno, e anche la Tri-Star Pictures che stava distribuendo il 2° sarebbe entrata nella produzione del 3°: erano tutti d’accordo e anche l’autore si convinse a scrivere un terzo Terminator, ma intanto era impegnato a dirigere Schwarzy in “True Lies” (1994) ed era impegnato pure nella preparazione del complicatissimo “Titanic”. Bisognava fare i conti anche col calendario del super impegnato Arnold Schwarzenegger che, se Cameron non sarebbe stato coinvolto, voleva prima approvare sia il copione che il nuovo regista.

Ma le difficoltà non finiscono qui, alla fine del ’95 la Carolco dichiara fallimento, affossata dagli insuccessi dei suoi ultimi film, e vanno in liquidazione tutte le sue attività, compresa l’intera cineteca e i diritti sui sequel di Terminator, che ormai era diventato un appetitoso pacchetto. Le complesse trattative coinvolsero la 20th Century Fox, la francese Canal+ e la stessa Gale Anne Hurd co-proprietaria del diritti. Quando sembrava che la Fox fosse in dirittura d’arrivo lo stesso Cameron si impegnò a scrivere il film e a dirigerlo, ricostituendo il trio originario con Schwarzenegger e Linda Hamilton. Intervennero però intoppi economici: la Fox voleva produrre il film con lo stesso budget del precedente, che si aggirava sui 95 milioni di dollari, ma mettendo nel conto il costo di acquisizione dei diritti dalla Carolco più il cachet di Schwarzy che da solo costava 25 milioni, gli entusiasmi si raffreddarono: non c’erano i numeri per produrre il film. Allora il costoso divo propose al regista di acquistare insieme i diritti ma inspiegabilmente Cameron declinò l’offerta, probabilmente perché fortemente stressato dal Titanic ancora in lavorazione.

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Andrew Vajna e Mario Kassar

Nel 1997 gli ex patron della Carolco, Mario Kassar e Andrew Vajna, furono invitati da James Cameron a una visione privata del montaggio preliminare del suo prossimo capolavoro, e fra una chiacchiera e l’altra i due appresero che i diritti del Terminator erano ancora disponibili. Fu così che la coppia, in gran segreto, andò a negoziare col tribunale fallimentare per riacquisire i diritti della loro ex Carolco e formare una nuova produzione che avrebbe debuttato con “Terminator 3”. L’acquisizione riuscì e questo fece irritare tutti, soprattutto per il metodo silente con cui l’operazione era stata condotta, e i rapporti personali si guastarono. Cameron diede la sua benedizione a Hurd e Schwarzenegger perché partecipassero al progetto senza di lui, benché l’attore non volesse continuare senza di lui, tanto che sulle prime si rifiutò categoricamente di girare il numero 3. L’autore dichiarerà in seguito: “Sentivo solo che come cineasta forse sarei potuto andare oltre. Non ero molto interessato. Mi sembrava di aver già raccontato la storia che volevo raccontare. Suppongo che avrei potuto perseguirla in modo più aggressivo, ma mi sentivo come se stessi lavorando in casa di qualcun altro, in qualche modo, perché avevo venduto i diritti molto prima”. Tuttavia, ritenendo che il personaggio di Terminator fosse tanto di Schwarzenegger quanto suo, Cameron alla fine consigliò all’attore di girare il terzo film senza di lui: “Se riescono a trovare una buona sceneggiatura e ti pagano un sacco di soldi, non pensarci due volte”. La notte in cui i diritti furono messi all’asta, Vajna contattò Cameron e Schwarzenegger per risolvere la questione, e fu sinceramente sorpreso che l’autore fosse arrabbiato per i diritti venduti, e in seguito disse: “Che differenza fa per Jim chi sta finanziando il film, se uno studio o noi? Il suo accordo sarebbe stato lo stesso. Arnold ha cercato per molto tempo di convincerlo a fare il film, e per questo è stato anche molto leale. Cameron ritenne che ‘avessimo rubato il suo bambino’, anche se siamo quelli che lo hanno messo insieme l’ultima volta. Quindi abbiamo pensato che fosse strano e così abbiamo continuato a farlo da soli”. I due acquistarono i restanti diritti dalla Hurd, che comunque restò nell’impresa col ruolo di produttore esecutivo. James Cameron, con la sua Lightstorm Entertainment, con un’azione estrema e tardiva aveva cercato di acquisire tutti i diritti del franchising ma si ritrovò di fronte allo stesso scoglio su cui si era arenata la Fox: fra diritti e paga di Schwarzy il pacchetto sarebbe costato oltre 100 milioni di dollari, troppo considerando che poi bisognava produrre anche il film.

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Kristanna Loken – Termionatrix

I due fondarono la C2 Pictures, che visse pochi anni e dopo “Terninator 3” sfruttarono il marchio producendo la serie tv “Terminator: the Sarah Connor Chronicles”. Incaricarono Tedi Sarafian di scrivere la sceneggiatura di cui rimane il titolo e la figura del terminator femmina, ovvero terminatrix T-X; la proposero a Cameron che si rifiutò di dirigerla: trovava assai sgradevole dover lavorare sulla sceneggiatura di un altro su un personaggio creato da lui. Come dargli torto. Allora furono contattati i registi Ang Lee, David Fincher, Ridley Scott, Roland Emmerich, ma nessuno volle impegnarsi, così alla fine firmò Jonathan Mostow, un regista-sceneggiatore con all’attivo pochi film d’azione e non certo all’altezza di James Cameron. Consapevole del gap artistico superò l’impasse facendo la voce grossa: “Ecco il film che farò, ecco come lo farò. Se non volete farlo a modo mio, dovreste trovare un altro regista.” Il piglio autoritario e la determinazione piacquero ai produttori, che peraltro avevano contattato qualsiasi regista di vaglia ed erano arrivati a lui come ultima scelta. Il nuovo regista non era contento della sceneggiatura e pretese di far scritturare due suoi compagni di college, John Brancato e Michael Ferris, che riscrissero il plot mantenendo il titolo e la terminatrix, e aggiungendo scene d’azione in stile road movie, più in sintonia con la visione adrenalinica di Mostow.

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Chyna

Il film è tutto questo: grandi inseguimenti su strada, esplosioni, molta azione, poca riflessione. Lo spettacolo c’è ma manca totalmente il tocco del maestro originario, e il terzo Terminator-Terminatrix diventa un film di genere. Non c’è più Sarah Connor che è morta di leucemia e funziona a meraviglia la TX, terminatrix di ultima generazione, che da un lato rinnova il look e il genere del cyborg e dall’altro potenzia la sua dotazione bellica. Kristanna Loken è stata scelta fra diecimila concorrenti e ha dovuto superare anche i dubbi di Schwarzy che per quel ruolo avrebbe voluto la wrestler Chyna, che in seguito si darà al porno. Il film rispetta anche lo spazio temporale che è intercorso dal 2°, quindi John Logan è nel film un ventenne: Edward Furlong, che era perfettamente in età, aveva firmato per riprendere il personaggio, ma poi la produzione ha rescisso il contratto a causa dei suoi seri problemi di dipendenza da alcol e droghe. Jake Gillenhaal era stato preso in considerazione ma alla fine il ruolo andò all’ex attore bambino Nick Stahl. Si aggiunge il personaggio della sua amica-poi-fidanzata interpretato da Claire Danes, che ha già all’attivo una gran bella lista di film importanti e diverse candidature a vari premi, e che anche per questo non resterà schiacciata dall’esperienza Terminator. Perché Terminator non perdona.

Mentre James Cameron è stato fatto fuori dalla serie che ha creato, Arnold Schwarzenegger è diventato governatore della California, e tutti si chiedono: tornerà a fare l’attore? ci sarà un altro Terminator?

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Terminator 2, il Giorno del Giudizio

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1991. Sono passati ben 7 anni dal primo “Terminator”, che è un’eternità nell’industria cinematografica, ma sono 7 anni ben spiegati. Terminator è stato la scommessa produttiva di un regista che non aveva nulla da perdere, che veniva dal fallimento di “Piraña paura” e che poteva contare solo sulla sua passione per la fantascienza e le capacità tecniche acquisite nel gruppo di lavoro di Roger Corman; dunque non era previsto un sequel, già riuscire a realizzare il film era la sospirata meta.

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Ovviamente dato il clamoroso successo se ne parlò, ma Cameron decise di attendere perché sapeva che da lì a poco gli sviluppi degli effetti speciali avrebbero subito una poderosa accelerazione: già nel creare il primo Terminator si era ipotizzato di farlo di metallo liquido ma l’opzione fu accantonata perché non esistevano gli effetti adeguati, e si dovette ancora ricorrere sia al passo uno che alle ricostruzioni meccaniche in lattice del volto danneggiato del cyborg. Nel frattempo il regista aveva diretto “Aliens, Scontro Finale” (1986) e “The Abyss” (1989), entrambi grossi successi: era ormai un regista assurto nell’olimpo dei grandi e potenzialmente ora poteva fare quello che voleva. Nel frattempo ha anche divorziato dalla produttrice Gale Anne Hurd che da innamorata aveva creduto in lui e rischiato insieme a lui, ma sono rimasti in buoni rapporti, tanto che lei è ancora fra i produttori di questo secondo capitolo; James Cameron ha sposato la regista Kathryn Bigelow, che in quello stesso anno, il 1991, raccoglie il successo di “Point Break” prodotto proprio dal suo marito: si piazza al 26° posto del box office mentre “Terminator 2” si piazza al primo. E qui di seguito una breve carrellata sui successi di quell’anno che sono rimasti impressi nella memoria collettiva: “Il Silenzio degli Innocenti” è al 4° posto, “Balla coi Lupi” al 6°, “La Carica dei 101” al 17°, “Thelma e Louise” al 25°, “Il Padrino, parte III” al 31°.

In apertura il film ripropone le sequenze iniziali del primo film, rivedute e aggiornate. Arnold Schwarzenegger è lo stesso cyborg, il T-800 che, come scopriremo, è stato catturato dai combattenti umani del 2029 e riconvertito alla loro causa, mandato nel passato, che stavolta è il 1995 (quattro anni avanti al tempo reale) a proteggere il giovane John, il futuro capo della resistenza concepito alla fine del primo film da Sarah Connor con il combattente venuto dal futuro Kyle Reese. Il ragazzo è un teppistello decenne dato in affido perché sua madre, che vaneggia di viaggiatori dal futuro, terminator e guerre nucleari, è rinchiusa in un manicomio criminale, ma nei primi anni di vita del ragazzo lo ha addestrato al combattimento e alla sopravvivenza, consapevole di quale sarebbe stato il suo futuro. Lei stessa si è trasformata da imbelle cameriera in un dura combattente e presto lo dimostrerà evadendo dal manicomio. Insieme al T-800 arriva dal futuro il nuovo cattivo, il nuovo modello T-1000 fatto di metallo liquido, che può assumere qualsiasi forma e quindi molto spettacolare e molto molto pericoloso, perché alla potenza militare aggiunge la capacità di inganno e trasformazione.

Il film spinge su spettacolari scene catastrofiche collocandosi di diritto nel genere apocalittico, mantenendo la sua originaria vena ironica che riesce a rimanere in sottotraccia, senza farsi troppo preponderante come ormai accade in tanti film di azione, che se spingono troppo in commedia diventano, a mio avviso, giocattoloni per adolescenti di tutte le età. Ma è anche un film drammatico che indaga i sentimenti dei personaggi, primo fra tutti la tormentata Sarah Connor, portatrice di dolore materno, tragica consapevolezza degli eventi, e fragilità emotiva mista a muscolare determinatezza: un equilibrio di spunti magistralmente elaborati da Cameron insieme al co-sceneggiatore Bill Wisher, e molto ben resi da Linda Hamilton, dalle scene in manicomio alle battaglie, passando per uno spettacolare incubo in cui vede Los Angeles distrutta da un fungo atomico.

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Le due gemelle Hamilton

Sull’attrice c’è da dire che soffre di disturbo bipolare e proprio in quegli anni rese pubblico il suo disagio per sensibilizzare l’opinione pubblica e incrementare la ricerca scientifica; resta anche da dire che ha una gemella identica utilizzata come sua controfigura nei due film che ha interpretato. Nel 1997, in ritardo sui tempi di lavorazione dei film, sposerà James Cameron (che nel frattempo ha divorziato anche da Kathryn Bigelow) e due anni dopo chiederà il divorzio perché lui non si sa tenere i pantaloni abbottonati e sul set di “Titanic” ha avuto una relazione con Suzy Amis, ex modella, oggi anche ex attrice, e al momento ancora moglie del nostro eroe, grande autore cinematografico e intrepido tombeur de femmes.

Risultato immagine per robert patrick t-1000

Per interpretare il sofisticato T-1000, Cameron voleva trovare un attore che creasse un buon contrasto con Schwarzy: “Se la serie 800 era una sorta di Panzer umano, allora la serie 1000 doveva essere una Porsche.” Lo trovò in Robert Patrick, che come lui veniva dalla scuderia di Roger Corman, un attore dallo sguardo azzurro gelido e dal fisico ben tornito ma leggero. L’attore aveva all’attivo solo tre film di serie B prodotti da Corman e questo fu e rimarrà il suo ruolo più celebre in una carriera lunga e proficua di caratterista in cinema e tv; proprio in tv avrà un altro ruolo di rilievo quando sarà protagonista di due stagioni di “X-Files” in sostituzione di David Duchovny che non voleva più partecipare alla serie.

Edward Furlong sul set del film e poi da adulto in un’aula di tribunale

Il giovane John Connor è il debuttante tredicenne Edward Furlong (che nel film ha solo dieci anni) e verrà premiato con il Saturn Award e l’MTV Movie Award. Il ragazzo intraprende subito una brillante carriera con ruoli importanti, scegliendo produzioni indipendenti nelle quali si trova più a suo agio per crescere artisticamente, e crescendo si conferma con una faccia da teppista che caratterizzerà i suoi personaggi futuri; purtroppo farà anche abuso di alcol e droga, e questo gli creerà problemi personali e giudiziari che rallenteranno il resto della sua carriera. Firmerà per riprendere il suo personaggio nel successivo Terminator ma proprio a causa dei suoi problemi di tossicodipendenza la produzione rescisse il contratto.

Con questo secondo Terminator, James Cameron ha messo d’accordo pubblico e critica e porta a casa quattro Oscar nelle categorie tecniche: Miglior Trucco, Miglior Sonoro, Miglior Montaggio Sonoro e Migliori Effetti Speciali; ai Saturn Award ottiene i premi come Miglior Film di Fantascienza, Miglior Regia, Migliore Attrice Protagonista, Miglior Attore Emergente, Migliori Effetti Speciali, e le candidature non andate a segno per Sceneggiatura, Trucco, Robert Patrick come Non Protagonista e Arnold Schwarzenegger come Protagonista; Schwarzy ha però vinto agli MTV Movie Award insieme a Linda Hamilton e Edward Furlong, più il premio Miglior Sequenza d’Azione. In conclusione, sette anni di attesa per un sequel sono stati sette anni di felice gestazione per un film che ha superato di gran lunga il primo, e con il quale dovranno fare i conti tutti i successivi della serie. I’ll be back!

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Terminator – siamo tutti cyborg

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Negli anni ’80 a Hollywood ci davano per spacciati nel giro di 40-50 anni e il futuro post-apocalittico, post-atomico, veniva collocato sul finire degli anni 2020: nel 2027 in “Robocop” e nel 2029 il “Terminator”. Che dire? siamo agli inizi di questo decennio allora prefigurato come apocalittico e già andiamo tutti in giro con delle mascherine, con limitazioni di movimento e coprifuoco a macchia di leopardo, evitando di abbracciare anche gli amici più cari perché chiunque di loro potrebbe essere il nostro inconsapevole assassino: forse non sarà uno spettacolare cataclisma atomico a far finire il mondo come lo conosciamo, ma qualcosa più infinitesimale e silente, assai poco spettacolare, assai più inquietante: a riscrivere la fine del mondo non saranno più i muscolari sceneggiatori americani ma gli anemici esistenzialisti europei, una fine del mondo alla Michelangelo Antonioni o alla François Truffaut.

“Tornio e telaio” di Fortunato Depero, 1949

Sin dall’uscita del film si creò una confusione sui termini: il terminator fu definito cyborg assassino, ma più correttamente esso è un androide, ovvero un robot con sembianze umane ma nulla di umano al suo interno; mentre il cyborg, quello di “Robocop”, è un essere umano con parti non umane. L’idea di un uomo-macchina è stata lanciata all’inizio del Novecento dai teorici del Futurismo in Italia, prima avanguardia culturale europea. Poi, il concetto di cyborg, termine che contrae cybernetic organism, è nato in ambienti medici e bionici negli anni ’60, ipotizzando un essere umano potenziato con protesi meccaniche ed elettroniche per sopravvivere in ambienti alieni, poiché allora la ricerca spaziale era prioritaria, e si teorizzava la colonizzazione di mondi extraterrestri da parte di esseri umani che necessitavano di essere connessi alla tecnologia per sopravvivere in ambienti ostili. L’uso militare non era ancora previsto. Poi, nella realtà odierna, meno visibile, i cyborg sono già fra noi: sono coloro che portano un pace-maker o dei by-pass o delle estensioni metalliche nello scheletro. Detto questo tutti quanti noi siamo dei fyborg, termine meno noto che sta per functional cyborg, ovvero individui potenziati con estensioni non innestate nel corpo: parliamo di semplici orologi da polso ma anche di lenti a contatto e occhiali da sole, auricolari e tutta la tecnologia smart; anche stando alla guida di un’auto o impugnando un’arma siamo dei fyborg.

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James Cameron, i cui due ultimi film “Titanic” (1997) e “Avatar” (2009) fino allo scorso anno erano in testa nella lista dei film con maggiore incasso nella storia del cinema (sono stati scalzati da “Avengers: Endgame” che è balzato al primo posto) era all’epoca un trentenne appassionato di sci-fi con poche prospettive di successo. Aveva interrotto il corso di laurea in fisica per dedicarsi al cinema dopo che era stato folgorato da “Guerre Stellari”. Nel 1978 firma il cortometraggio “Xenogenesis” che già contiene gli elementi che caratterizzeranno il suo cinema: il futuro, la tecnologia, la guerra uomo-macchina. Si fa le ossa lavorando come tecnico di effetti speciali nell’equipe di Roger Corman e poi nel 1981 debutta come regista del sequel di “Piraña” di Joe Dante; il film, “Piraña paura”, come si usava all’epoca per i sequel di film a basso costo, venne girato in Italia per abbattere i costi e fu un disastro su tutti i fronti: ignorato da pubblico e stampa, porta la firma di James Cameron nonostante egli sia stato licenziato a metà lavorazione per l’evidente scarsa esperienza al momento di girare le difficili scene in acqua, e relegato nel ruolo di aiuto-regia dal produttore che completò il film come regista. Deve essergli bruciato molto, visto che poi nel 1989 si prenderà una clamorosa rivincita sull’elemento acqua scrivendo e dirigendo con successo “The Abyss”, prima di cimentarsi con il “Titanic”.

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Alla fine di questa disastrosa avventura, che sicuramente gli ha abbassato le difese immunitarie, finisce in ospedale per un’intossicazione alimentare, e fa un sogno, anzi un incubo: sogna un torso metallico che si trascinava fuori da un’esplosione mentre tiene in mano dei coltelli da cucina. Germina l’idea del terminator. All’epoca frequentava una certa Gale Anne Hurd (che avrebbe sposato alla fine del film), anche lei nello staff di Roger Corman come segretario esecutivo, e alla quale piacque il progetto; così, sognando in grande, i due piccioncini strinsero un accordo: lui le vendette i diritti del suo terminator per un dollaro e lei si impegnò a lanciarsi come produttrice del loro primo film; gli suggerì anche alcune modifiche allo script e d’amore e d’accordo fu accreditata come sceneggiatrice; solo in seguito, ad amore e collaborazione conclusi, lui dichiarò che effettivamente lei non aveva scritto nulla: al capitolo amori e disamori.

Il soggetto si definì come oggi lo conosciamo: dal futuro 2029 con la terra cosparsa di teschi e in cui sopravvivono un manipolo di umani che combattono contro le distruttrici macchine padrone del mondo, arrivano nel presente narrativo, il 1984, il cyborg che deve uccidere Sarah Connor, futura madre del leader della resistenza John Connor che condurrà gli umani alla vittoria, e il combattente Kyle Reese inviato da Connor per proteggere la donna. Al momento di definire il cast, James Cameron voleva, come cyborg, il suo amico Lance Henriksen che aveva diretto in “Piraña paura”, e per convincere i produttori si presentò all’incontro con l’attore già in costume da terminator. La produzione voleva anche una star, per favorire il successo economico, e propose per il ruolo del buono Kyle Reese, il culturista austriaco Arnold Scwarzenegger che aveva sfondato al botteghino con “Conan il Barbaro” e stava girando il sequel “Conan il Distruttore”, ma Cameron non era convinto perché Scwarzy era troppo grosso e il suo amico Lance al confronto sarebbe risultato troppo mingherlino; allora i produttori rilanciarono proponendo come terminator Sylvester Stallone e Mel Gibson, ma entrambi rifiutarono; fu fatto anche il nome del nero O. J. Simpson ma Cameron non riusciva a immaginarlo nel ruolo dell’assassino: sarebbero dovuti passare altri dieci anni perché la realtà superasse la finzione, quando a O. J. Simpson, nonostante la controversa assoluzione giuridica, rimarrà incollata per sempre l’immagine di duplice assassino, della moglie e dell’amante.

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Tuttavia, James Cameron accettò con molte riserve di incontrare Arnold Schwarzenegger per parlare del ruolo del buono, ma il culturista lo sorprese parlandogli di come immaginava l’interpretazione del cattivo e il resto è storia: il caro amico Lance Henriksen dovette farsi da parte e accettare un ruolo secondario, (sarà un androide per la regia di Cameron nel secondo capitolo di “Alien”) e Schwarzy firmò per essere il terminator nonostante i suoi palesi dubbi: sul set del secondo Conan dichiarò a un giornalista “E’ un film di merda che sto facendo, mi prenderà un paio di settimane”. Pensava che interpretare un robot in contemporanea al barbaro Conan sarebbe stato un interessante cambio di passo artistico, e anche qualora fosse stato un flop non avrebbe danneggiato la sua carriera. Al contrario, invece, la consolidò e fece di lui una vera star. All’epoca Scwarzy aveva ancora un forte accento tedesco e questo caratterizzò il suo terminator senza necessità di effetti sonori aggiuntivi: in tutto pronuncia 18 battute e meno di 100 parole; poiché non riusciva a pronunciare la frase I’ll be back cercò di far cambiare la forma contratta in quella completa I will be back spiegando che riteneva che il suo personaggio robotico doveva usare un linguaggio dichiarativo privo di contrazioni colloquiali; Cameron s’impuntò e alla fine l’austriaco pronunciò la frase meglio che poteva, creando inconsapevolmente una frase-icona che poi ripeterà in tanti altri film. Nello sconsiderato doppiaggio italiano I’ll be back diventa un aspetto fuori che non si lega con l’azione, quando il terminator torna sfondando l’ingresso con l’automobile.

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Michael Biehn interpreta l’altro protagonista, il combattente venuto dal futuro a salvare la madre del salvatore. “Terminator” fu il suo primo film di successo e con Cameron girerà anche il secondo “Alien” e “The Abyss”, poi la sua carriera procederà in film secondari o con ruoli secondari. Forse le aspettative create dal suo primo clamoroso successo hanno fuorviato le sue scelte future, perché è rimbalzato fra ruoli inspiegabilmente rifiutati e altri che non è riuscito ad agguantare arrivando sempre secondo. Anche Linda Hamilton, la protagonista femminile, è rimasta in qualche modo bruciata da “Terminator” e non ha più interpretato film o ruoli degni di particolare nota; solo il suo personaggio ha avuto più lunga vita nella serie tv “Terminator: The Sarah Connor Chronicles” interpretata però da Lena Headey. Tornerà in “Terminator 2 – Il Giorno del Giudizio” e nel sesto della serie “Terminator – Destino Oscuro” che è il sequel diretto del secondo ignorando tutti gli altri film che si sono succeduti. Staremo a vedere cosa succede…

Se permettete parliamo di donne – opera prima di Ettore Scola

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1964. Nel titolo c’è del genio: con estrema educazione propone un argomento e allo stesso tempo strizza maliziosamente l’occhiolino, perché quando si parla di donne, e ovviamente siamo fra uomini, la chiacchierata si fa piccante. Perché il film è questo, nove episodi più o meno divertenti intrisi di compiaciuto maschilismo e senza alcun rispetto per le donne in oggetto, per le donne oggetto. Siamo ancora lontani da quella che viene definita “seconda ondata femminista” che in Italia arriva negli anni ’70: è del 1970 la legge sul divorzio; nel 1975 viene riformato il diritto di famiglia, prevendendo parità di genere all’interno del matrimonio, nessuna discriminazione dei bambini nati al di fuori del matrimonio e rimozione del concetto di adulterio dagli atti penali perseguibili; poi nel 1978 si ebbe la legge sull’aborto. Ma oltre che maschilista e malizioso il film è una grossa bufala, perché le donne di cui parlare restano sullo sfondo di un film che celebra il Mattatore, un Vittorio Gassman protagonista assoluto di ogni episodio, in cui di volta in volta si trasforma in una maschera diversa con l’indubbio talento di cui godeva; e di fatto anche la locandina lo celebra, mettendolo in primo piano, ammiccante e con sguardo diretto, mentre quattro donne sono disegnate sullo sfondo, irriconoscibili nei tratti benché alcune di loro fossero altrettante star: Sylva Koscina, Antonella Lualdi, Giovanna Ralli, Eleonora Rossi Drago. Ma il pacchetto, così come fu confezionato fu un gran successo al botteghino, nonostante la critica lo avesse stroncato definendolo una serie di barzellette di una volgarità efferata ma divertente. Con l’aggravante, aggiungo, che nel secondo episodio non c’è ombra di donne ed è palesemente un esercizio di stile per il mattatore. Resta però il fatto che la qualità della scrittura, paragonata a quella dei film odierni di genere trash, è alta, espressione di quella scuola della commedia all’italiana con autori, registi e sceneggiatori, intercambiabili nei ruoli e portatori di un gusto che anche nelle sue espressioni più villerecce rimane un punto di riferimento.

Ettore Scola, che sarà un celebrato maestro del cinema italiano, come Federico Fellini esordisce come disegnatore di vignette per il “Marc’Aurelio” e anche lui si fa poi le ossa in Rai, radio e tv. Per il suo debutto si adatta alle esigenze di mercato con un film di genere e al servizio di una star, scritto insieme a Ruggero Maccari che è stato uno dei migliori sceneggiatori italiani, e diretto con mano sicura, riuscendo a dare, laddove possibile, un taglio diverso a ogni episodio, così com’è stato il lavoro di Gassman. E’ l’epoca dei film a episodi, dei film con Franco e Ciccio e con Totò, ma anche dei musicarelli, dei peplum e degli spaghetti-western; è anche l’anno di “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, “Matrimonio all’italiana” di Vittorio De Sica, “La donna scimmia” di Marco Ferreri, “Sedotta e abbandonata” di Pietro Germi. Politicamente è un periodo felice per il cinema italiano: nel 1958 è morto Papa Pio XII, che aveva scomunicato i comunisti e gli è succeduto il “papa buono” Giovanni XXIII, e si sa che fra i lavoratori dello spettacolo la maggioranza guarda sempre a sinistra, e Ettore Scola farà il punto sulla sinistra italiana nel 1980 con “La terrazza”. E’ poi del 1961 il primo governo di centro-sinistra, si attenua il fenomeno della censura, compaiono nuovi mezzi di comunicazione di massa che verranno inseriti nei film: televisione, giradischi, juke-box e radioline a transistor; c’è il boom economico e i film italiani tornano a circolare all’estero: saranno proprio gli americani a coniare il termine commedia all’taliana, “Comedy Italian Style”.

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Maria Fiore

Nei nove episodi il genovese Vittorio Gassman fa prima il siciliano, e con la romana Maria Fiore si esibiscono nel discutibile sicilianese cinematografico d’antan. Nel secondo è uno scioperato impiegato ministeriale che passa il suo tempo a fare scherzi e sberleffi, salvo poi divenire un padre severo con il figlio che sta seguendo le sue orme.

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Giovanna Ralli

Nel terzo si accompagna a una prostituta molto borghese, Giovanna Ralli, che lo fa incontrare col marito cornuto compiacente, il caratterista Umberto D’Orsi.

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Antonella Lualdi

Nel quarto Antonella Lualdi gli mette fretta perché deve andare a sposarsi.

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Sylva Koscina
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Edda Ferronao

Nel quinto, assai esemplificativo del genere, l’amante Sylva Koscina lo esaspera con i suoi tentennamenti e alla fine lui soddisfa i suoi bassi bisogni con la cameriera di un motel, Edda Ferronao: nessun tentativo di spiegare l’indecisione della donna, dipinta come gratuitamente capricciosa, e assoluto appiattimento narrativo sul punto di vista maschile, un personaggio con cui l’attore fa un’auto citazione di “Il sorpasso” di due anni prima, facendo montare quel clacson tritonale sul coupé che qui guida alla ricerca di un luogo che soddisfi la compagna.

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Heidi Stroh

Nel sesto episodio è un nottambulo in cerca di prostitute da raggirare, con la tedesca Heidi Stroh.

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Walter Chiari

Nel settimo episodio è un giovane di buona famiglia incaricato di salvare l’onore della sorella disonorata dal playboy Walter Chiari, altra star a servizio, ma che finisce col seguire le orme del nuovo amico nel bel mondo con belle donne passivamente disponibili.

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Eleonora Rossi Drago

Nell’ottavo è un rude rigattiere circuito da un’annoiata signora del bel mondo in cerca di maschi ruspanti, Eleonora Rossi Drago.

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Jeanne Valérie

Nell’ultimo è un carcerato a cui la moglie, Jeanne Valérie, fa ottenere un permesso per potergli attribuire il figlio che aspetta, che invece è di un caro amico, un giovane Gigi Proietti qui alla sua seconda partecipazione cinematografica e che in futuro sarà delfino di Gassman.

In definitiva “Se permettete parliamo di donne” fa una carrellata di belle donne, molte star del cinema italiano con alcune starlette straniere già dimenticate – ma nel parlare di donne sono sempre gli uomini che parlano di se stessi e di come vorrebbero le donne. Allora come oggi?

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Le sorelle Macaluso – frammenti di vite che parlano di tutti noi

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Elena Cotta con la sua Coppa Volpi a Venezia

Secondo film di Emma Dante, complessa autrice teatrale palermitana, tratto da un suo spettacolo di grande successo. il primo film è stato “Via Castellana Bandiera” del 2013, tratto da un suo romanzo, poiché la Dante è anche prolifica scrittrice, e che presentato al Festival di Venezia ha portato ad Elena Cotta, anziana signora del teatro, la Coppa Volpi come migliore interpretazione femminile. Anche a quest’opera seconda va un premio alle interpretazioni, nello specifico il Premio Pasinetti per la migliore interpretazione femminile all’intero cast – quello per l’interpretazione maschile è andato ad Alessandro Gassmann per “Non odiare”. Voci di corridoio sussurrano che la Dante rimase delusa allora, quando il riconoscimento andò alla sua co-protagonista e non anche a lei che ne era anche co-interprete, e delusa oggi dato che il Premio Pasinetti è un premio collaterale e non risplende di prima luce come la Coppa Volpi. Delusioni lecite, per carità, dato che è un mestiere necessariamente fatto di egocentrismo, a volte sfrenato, e nello specifico di Emma Dante è un percorso artistico fatto anche di visceralità.

Comincia come attrice, frequenta la scuola di teatro del palermitano Michele Pereira, sperimentatore espressionista col quale non si trova in sintonia, e lascia dopo il primo anno. Frequenta l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, percorso formativo assai classico che le dà le solide basi culturali di cui necessiterà nel suo futuro creativo; come spettatrice si avvicina al teatro d’avanguardia ed è folgorata dal polacco Tadeusz Kantor, rivoluzionario del teatro, simbolista e astrattista suggestionato dal teatro dell’assurdo e dalla teoria della supermarionetta. Tutti spunti, per chi volesse, da approfondire altrove. In sintesi: il testo e i suoi interpreti, i movimenti e i suoni, sono visti come elementi autonomi non più sottomessi alla classica interpretazione di un testo, ma divengono realtà separate, indagate e rappresentate autonomamente, e contemporaneamente, nell’ottica di una performance teatrale totale.

Nel 1999, tornata a Palermo dopo una carriera teatrale più o meno tradizionale, fonda la sua compagnia, Sud Costa Occidentale, che nel nome ha due precise collocazioni intese anche come distinguo: Sud – dato che il suo teatro parlerà del suo sud, in dialetto, un dialetto che diventerà un grammelot alla Dario Fo quando nel suo gruppo arriveranno interpreti non siciliani – e Occidentale, per distinguersi dalla costa orientale, Catania, nello specifico, dove ha vissuto durante l’infanzia e dove in quegli anni impera un teatro stabile di nobili e classiche tradizioni, oggi allo sbando. Il suo teatro è anche sociale, e ci tiene a precisare che non è politico, perché racconta il popolo, la miseria fisica e morale, la fame, la bestialità e un dolore del vivere senza catarsi, intrappolato ed espresso nel corpo degli interpreti, in un teatro che si fa espressionista nel suo personalissimo modo.

“le sorelle Macaluso” a teatro erano sette, perché dalle Pleiadi in poi le sorelle sono sempre sette, nell’immaginario collettivo, sette stelle, “Sette spose per sette fratelli” film del 1954; ed esistono filastrocche e romanzi, ma ci sono anche le sette sorelle delle compagnie petrolifere internazionali e le sette sorelle fra le squadre di calcio in serie A. Il film ne perde due per concentrarsi in un nuovo racconto, dove i gesti, le grida, i bisbigli, la ripetitività, la fisicità, l’animalità, rimangono e si asciugano per essere raccontati per immagini, che è lo specifico dell’opera filmica, immagini che Emma Dante frammenta in dettagli, di espressioni e di gesti, di oggetti quotidiani, in una ripetitività che si fa altrimenti narrativa, e portatrice di quegli stessi valori, e disvalori, che ha raccontato in teatro: la differente femminilità, la brutalità della vita, la fisicità dei rapporti fra sorelle e fra donne e oggetti, senza tralasciare il potente simbolismo che il mezzo cinematografico le consente: un buco scavato nel muro – nonostante le ampie finestre – da cui le sorelle si accalcano per spiare il mondo da una prospettiva minima, ristretta, costretta, come è la loro vita; e poi la colombaia con centinaia di colombe, molte delle quali bianche da dare in affitto per matrimoni e feste parrocchiali, perché tanto tornano sempre a casa, bianche perché il bianco è il colore della purezza, e la purezza è il colore delle sorelle Macaluso, la purezza dei loro spiriti e dei loro intenti, dei loro sogni che andranno infranti negli anni futuri, che resteranno bianchi nonostante tutto, la tragedia, la miseria, le gelosie, i rancori, la mancanza di amore, i matrimoni grigi, il sesso gridato alla finestra: nel racconto di Emma Dante, dal teatro al film, non c’è speranza per nessuna di loro ma la sensazione che mi rimane, da spettatore cinematografico, è che comunque ognuna di loro è salva nel disegno più ampio dell’universo, perché ognuna ha vissuto tutti i propri peccati ed ognuna non ha mai tradito, né se stessa né le altre.

Le cinque sorelle Macaluso sono accompagnate dalla loro infanzia-giovinezza del 1985 (viene citato il film “Ritorno al futuro”) anno di illusioni e di speranze colorate, ma in cui perdono la più piccola e si radica il dramma che le accompagnerà per sempre, al grigio presente in cui sono mature e disilluse, e perdono un’altra di loro, alla vecchiaia in un futuro immaginario di là da venire che celebra il funerale della sorella più mentalmente instabile, l’unica che – non è un caso, è anzi un altro simbolo – ama i libri. Viola Pusatieri è la piccola Antonella che tornerà a farsi mettere il rossetto nei ricordi delle sorelle; Eleonora De Luca e Simona Malato, che viene dal teatro di Emma Dante, sono Maria adolescente e poi adulta; Susanna Piraino, Serena Barone e Maria Rosaria Alati, interpretano le tre età di Lia, la lettrice, la disturbata, fra le quali solo Serena Barone viene anche dallo spettacolo teatrale; alla più rotonda Katia danno vita Alissa Maria Orlando, Laura Giordani e Rosalba Bologna; mentre la più vivace e sessualmente attiva è interpretata dalla giovane Anita Pomario, che da adulta è l’unico nome noto nel circuito cinematografico, Donatella Finocchiaro, e da anziana è Ileana Rìgano qui alla sua ultima interpretazione insieme a “Picciridda”, anch’esso presentato alla 77a Mostra di Venezia dove ha ricevuto la “Menzione Speciale Opera Prima” del Premio Kinéo.

“Le sorelle Macaluso” è un film ammaliante, avvolgente, come le mura della casa – che è la “sesta sorella” come dice l’autrice nelle interviste – appartamento in cui si svolge e si avvolge la vita di queste donne, bambine avventurose, adolescenti piene di sogni, donne sfigurate dal dolore, donne concrete senza illusioni, donne senza uomini nonostante gli uomini, donne che non sanno che farsene degli uomini: donne simbolo di tante donne sparse in tutta la Sicilia, dentro ogni casa, in ogni famiglia, da dove la favola nera di Emma Dante prende spunto e ritorna, per farci riconoscere come nipoti, figli, fratelli, mariti, amanti. Evocativo anche il commento musicale, che utilizza la più nota delle Gymnopédies di Erik Satie, che dal carillon nella colombaia esce a diventare struggente colonna sonora; e poi la voce di Gianna Nannini che spicca su tutte le altre canzoni. Un film che merita un lungo percorso e che celebra, nonostante il dialetto che sottende alla lingua parlata, un linguaggio limpido e comprensibile in tutte le parti d’Italia, contrariamente alla tendenza odierna di altre produzioni dove il parlato va oltre il dialetto e diventa un biascichio incomprensibile. Un film che vedrei bene per rappresentare l’Italia agli Oscar.

recensione di Le Sorelle Macaluso
La regista circondata dll’intero cast

Non odiare – opera prima di Mauro Mancini

Intensa opera prima di Mauro Mancini, regista con un curriculum di tutto rispetto fra corti, documentari e pubblicità che hanno rastrellato premi e riconoscimenti. Per questo suo primo lungometraggio, che ha scritto con Davide Lisino, si è lasciato ispirare da un fatto di cronaca: in Germania, un chirurgo ebreo si rifiuta di operare un paziente con tatuaggio nazista, e passa i bisturi a un collega; siamo di fronte a un dilemma: mantenere fede al Giuramento di Ippocrate o seguire la propria coscienza di uomo? Simone Segre, il protagonista di questa storia, non ha dubbi e come il chirurgo tedesco segue la sua coscienza: omette di soccorrere un uomo vittima di incidente stradale quando vede la svastica che ha tatuata sul petto. Ma qui prende il via il suo tormento e indaga sull’uomo e sulla sua famiglia, tre figli: la maggiore Marica che viveva lontana, a Roma, l’adolescente Marcello che è un fervente neonazista e il piccolo e confuso Paolo. Col suo senso di colpa, Simone cerca di aiutare Marica assumendola come colf e poi si scontra con Marcello che non accetta che la sorella faccia la serva a un ebreo.

E’ un film sulle colpe e sui sensi di colpa di ognuno, e anche un film sulle identità: Simone Segre è figlio di un sopravvissuto all’olocausto ma sembra aver dimenticato le sue origini, su cui adesso torna a riflettere e a indagare dopo l’incontro-scontro con i neonazisti, perché per conoscere bisogna capire e per capire bisogna conoscersi. E come dice il regista in un’intervista: è anche un film sull’indifferenza diffusa in cui viviamo, pervasi da una realtà fatta di social in cui prestiamo un’attenzione assai labile alla cronaca, cliccando un like e passando subito oltre senza approfondire nulla.

Un debutto assai interessante, maturo e profondo, in controtendenza: che guarda al passato per indagare il presente, senza spiegarlo però, senza cercare facili soluzioni né avere punti di vista morali e moralistici; scegliendo di raccontare la pericolosa e poco indagata realtà del neonazismo, spesso minimizzato come espressione folcloristica di un manipolo di facinorosi ma che rappresentano la vera anima nera della nostra società.

Abbiamo qui registrato altri debutti cinematografici, quello romanissimo dei fratelli D’Innocenzo (già al lavoro per Sky su una serie noir romana) con “La terra dell’abbastanza”; poi alla loro opera seconda, “Favolacce” (visto in tv) che a Berlino 2020 ha vinto il premio per la sceneggiatura, restano nel loro ambiente suburbano romanesco e cambiano solo registro narrativo, da drammatico a grottesco, mettendo insieme un cast di professionisti e non, che col loro incomprensibile biascicare, lo stesso con cui si esprimono i due fratelli e che necessita di sottotitoli, mi ha davvero dato ai nervi e mal predisposto sulle prossime fatiche dei gemelli. Altro interessante debutto è l’horror di atmosfera “The Nest” di Roberto De Feo che guarda a un genere rimasto di nicchia nel mercato italiano, nonostante la gigantesca presenza di Dario Argento, e si allinea sul mainstream internazionale. C’è poi stato l’onesto debutto di Stefano Cipani con “Mio fratello rincorre i dinosauri”, veicolato dal successo del libro da cui è tratto il film. Lascia ben sperare Marco D’Amore, Nastro d’Argento 2020 Miglior Regista Esordiente, che ha debuttato con “L’immortale”, un film di genere, spin-off e cross-over della serie di cui è protagonista, “Gomorra”; D’Amore, già attivo nella scrittura e nella produzione, sono certo che ci riserverà interessanti sorprese. Concludo l’incompleta carrellata col fumettista Igort che ha messo in film la sua graphic novel “5 è il numero perfetto”, sorta di unicum nel nostro panorama.

“Non odiare” è stato l’unico film italiano in concorso a Venezia 2020, molto applaudito da pubblico e critica, che ha portato ad Alessandro Gassmann il meritato Premio Pasinetti per la migliore interpretazione maschile: un’interpretazione intensa fatta di molti silenzi, com’era già nella prima sceneggiatura e che lui stesso ha chiesto di accentuare; premiato anche il quasi debuttante, qui al suo primo ruolo da protagonista, Luka Zunic, nome slavo ma nato a Riva del Garda, Premio NuovoImaie Talent Award. Niente premi per la terza protagonista, la pescarese Sara Serraiocco, che però si conferma come sicura promessa femminile del cinema italiano: nessun premio ma tanti riconoscimenti.

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Il film ha tanti punti di forza: oltre alle interpretazioni, una sceneggiatura intelligente e accurata; l’ambientazione in una non riconoscibile Trieste che colloca l’azione in un fuligginoso mitteleuropa, per rendere la cui luce particolare e imprimere cupezza, il regista ha scelto un direttore della fotografia polacco con un suo background culturale ben preciso, Mike Stern Sterzyński; la solitudine dei personaggi che non hanno una vita sentimentale ma sono raccontati come simboli assoluti, esempi, esemplificazioni di varia umanità. Unica forzatura, a mio avviso, è lo scivolone narrativo in un bacio non necessario fra il medico di mezza età e la giovane cameriera: drammaturgicamente era necessario un abbraccio, che si sarebbe potuto risolvere in un abbraccio padre-figlia, senza arrivare all’imbarazzante e imbarazzato bacio che però gli interpreti hanno reso con grande sensibilità. Per il resto, ogni cosa al suo posto: l’ebreo non praticante che ritrova l’orgoglio della fede e dell’identità, pur scoprendo le ambiguità del padre che per sopravvivere all’olocausto è stato collaborazionista; il giovane neonazista indottrinato ma ignorante dell’ambiguità che lo circonda, che alla fine trova una salvifica via di fuga; il bambino che non vuole dispiacere il fratello neonazista ma che non sa riconoscere gli ebrei alla sola vista, che poi sulla tomba del padre fa il saluto nazista per ammonirci che piccoli nazisti crescono, grazie alla confusione e all’ignoranza in cui vivono; la giovane donna totalmente consapevole quanto assolutamente inabile a mettere insieme le tessere di un arduo mosaico. La cifra del film è nel suo antefatto apparentemente slegato dalla storia: il protagonista da bambino è costretto dal padre a una dolorosissima scelta, perché la vita non farà sconti e bisognerà sempre compiere scelte dolorose, discutibili, assolutamente personali.