Archivio mensile:marzo 2015

Una Nobile Rivoluzione (e quattro chiacchiere su documentari e transessuali)

Continuano per me spettatore, e del tutto casualmente, le biografie cinematografiche e dopo “Il Giovane Favoloso”, “La Teoria del Tutto”, “American Sniper” e “Selma” ecco adesso “Una Nobile Rivoluzione” sulla figura di Marcella Di Folco, prima transessuale italiana eletta consigliere comunale, a Bologna, benché romana di nascita, nonché figura di spicco, seppure ai margini del suo mondo, della Dolce Vita romana: animatore del Piper e attore per Federico Fellini che quando era ancora uomo lo volle, per la sua figura imponente e il suo naso importante che gli dava un profilo antico, in “Satyricon”, “La Città delle Donne” e soprattutto in “Amarcord” dove ha impersonato il Principe cui graziosamente si offre quella “Gradisca” di Magali Noël che è rimasta impressa nella memoria di tutti noi allora giovani uomini o solo adolescenti.

principe
gradisca

Il film di Simone Cangelosi monta con grande affetto materiale di repertorio, contributi Rai e filmati amatoriali insieme alle nitide immagini odierne girate in digitale; i primi che filmano Marcella nella sua vita sia pubblica che privata, fra impegno socio-politico e gay pride e chiacchierate in cucina dove lei stessa si racconta senza filtri alla telecamera in quello che sembra l’abbozzo di un racconto autobiografico; le nuove riprese, che chiaramente e in modo più organizzato prendono il via subito dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2010, vedono l’autore/regista che ne incontra la famiglia, quella allargata del MIT a Bologna, il Movimento Italiano Transessuali di cui Marcella Di Folco è stata presidente, e quella naturale romana composta dalla sorella Liliana/Lilli e dal nipote Roberto che fra contenute commozioni e amorosi rimpianti raccontano la loro Marcella privata; ne viene via via fuori un quadro che ha il fascino discreto della quotidianità e conduce per mano lo spettatore a girare attorno a questa imponente figura, imponente sia in senso fisico che morale: la nobile rivoluzione del titolo è quella che Marcella ha condotto su se stessa e nell’impegno sociale e politico.

Simone Cangelosi, che vediamo come presenza costante in tutto il film come un fil rouge che dalle immagini vecchie ci conduce in quelle nuove in una transizione senza soluzione di continuità, al contrario delle persone che incontra, però, ci racconta la sua storia di Marcella senza raccontarsi, e si mostra abbondantemente senza mai esprimersi, e se da un lato questa mi sembra una scelta narrativa interessante dall’altro mi lascia la sensazione di una omissione: la testimonianza, sì, della sua assoluta vicinanza a Marcella Di Folco, senza però volercene raccontare il come e il perché. Che invece è quello che fanno Vladimir Luxuria o la Valerie del MIT, e sua sorella Lilli Di Folco (Di Folco come Marcella per una errata trascrizione all’anagrafe) raffinata sarta teatrale che gli cuciva i suoi caftani e che ancora oggi opera nel settore dove suo figlio Roberto Di Falco (che ha recuperato l’errore di trascrizione) continua l’arte di famiglia come sensibilissimo e sempre divertito nonché divertente costumista teatrale col quale ho avuto il piacere di collaborare e che è anche un amico personale. L’altro punto debole del film è a mio avviso la totale adesione sentimentale alla figura di Marcella senza spingersi nella critica affettuosa ma anche impietosa che i veri amici sono in grado di fare, che era ciò che faceva lei stessa con i suoi cari: come se l’esigenza primaria di questo film fosse un incondizionato omaggio alla persona e non un’indagine ragionata su una personalità che appare ovviamente assai complessa e quanto mai contraddittoria, assolutamente interessante da indagare se ci fosse stata questa volontà narrativa.

Divagando sull’arte “di famiglia” cui ho accennato, voglio divertirmi a ipotizzare che nella Roma degli anni ’60 e ’70 era facile finire dentro o intorno al mondo dello spettacolo se si aveva una brillante personalità e uno spiccato gusto per i lustrini. Questo per dire che il Marcello pre-Marcella non era un vero uomo di spettacolo e infatti non si è mai esibito sui palcoscenici come cantante o attore o entertainer: semplicemente si è trovato nelle notti folli del Piper a porgere il braccio alla vecchia Josephine Baker o sui set di Fellini che lo ha utilizzato come figurante di gran lusso solo perché era dove lo conduceva la sua vulcanica personalità, di cui abbiamo interessanti accenni nei ricordi di Lilli che ci svela pure come il loro padre fosse un ex gerarca fascista di cultura gesuitica, tutto rigore familiare e amante francese extraconiugale: contraddizioni che formano le generazioni future.

Un’altra divagazione che merita una scivolosa chiacchierata è il transessualismo: Marcella racconta che, ultratrentenne, in seguito a una cocente delusione amorosa fece le valige e andò a operarsi a Casablanca, che era ciò che si faceva all’epoca quando il cambio di sesso era ancora vietato in Italia. Oggi probabilmente non glielo avrebbero permesso, per lo meno non prima di un serio percorso di auto analisi e preparazione psico-fisica che assolutamente esclude il colpo di testa dell’amore infelice. Infatti mi è capitato di conoscere delle trans di quella fascia di età che si erano pentite del cambio di sesso…

Un altro punto chiave cui voglio accennare (dato che Marcella stessa ne ha parlato) senza però avere io la pretesa della reale conoscenza della assai spinosa e controversa problematica, è il binomio transessuale/prostituta, e sarei felice se qualcuno più addentro l’argomento volesse esporre il suo punto di vista: la prostituzione della transessuale è – o forse era – quasi una necessità, dato che è – o era – il modo più veloce per fare i soldi necessari all’operazione… Poi subentra il tenore di vita da mantenere, l’assuefazione al mestiere che, in gran maggioranza, è anche piacere perché nella trans c’è una innegabile iper-sessualità che gli viene sia dal suo voler piacere ed essere riconosciuta come super-donna, sia dai suoi (rimanenti) ormoni maschili che lo(la) spingono alla promiscuità dato che il maschio antropologicamente è quello che sparge il più possibile il suo seme nel più ampio branco di femmine… C’è poi una lampante realtà che è sotto gli occhi di tutti, la discriminazione: quante trans o travestite possiamo vedere che fanno le commesse in un negozio del centro o le segretarie di uno studio notarile o le cameriere in un ristorante di lusso?… Altro innegabile fatto è che nella stragrande maggioranza, se non hanno iniziato il loro percorso di transizione da adolescenti, alla Eva Robin’s per capirci, permarrà nella loro nuova figura femminile quel tanto di maschile che cercheranno di rimuovere con reiterate e spesso mal riuscite chirurgie plastiche, perché non accetteranno mai di essere delle donne bruttine, o per lo meno scialbe, e sognano tutte di essere delle super-femmine tanto che, quando vediamo una donna-nata-donna troppo rifatta dal chirurgo diciamo subito che sembra una trans: un paradosso. Sono poche le transessuali che cercano di passare inosservate e io ne ho conosciute: sono normali ragazze acqua e sapone che lavorano, loro sì, come parrucchiere o commesse o cameriere nei bar e nei ristoranti…

Una transessualità di cui si parla poco è quella F2M, female to male, da femmina a maschio, proprio perché questi uomini che hanno conquistato con altrettanta fatica la loro identità di genere, tendono a lasciarsi passare inosservati e non fanno della loro transizione un racconto manifesto: è anche più facile, per certi versi, perché alla peggio da un corpo di donna non voluto ricavano un uomo anche di piccola statura o con la voce chiara ma che è assolutamente nella norma, e tranne certi casi limite in cui si trasformano in rudi camionisti – che è il super-maschio super-io per un uomo nato in un corpo di donna – la stragrande maggioranza di persone F2M ci passa accanto inosservata mentre per le M2F è più difficile se sono alte un metro e ottanta e portano quarantacinque di scarpa e hanno un timbro di voce baritonale: la via del tacco e del lustrino appare allora la fuga più plausibile…

Nel film ci sono momenti di grande sensibilità narrativa: certi primi piani insistiti e silenziosi o il campo lungo in cui Lilli, accompagnata da Simone, torna ai Parioli alla casa in cui ha abitato da ragazza, a parlare attraverso un’inferriata con un vecchio vicino che non vediamo e non si ricorda più di lei… E’ importante che un documentario, questo documentario, venga circuitato al cinema e incoraggiato a fare incassi veicolando il suo spicchio di cultura.

Parlando di documentari eclatante è stato da noi il caso di “Sacro Gra” di Gianfranco Rosi, film sul Grande Raccordo Anulare di Roma e della varia umanità che vi vive ai margini, comprese prostitute e transessuali o forse soltanto travestite, non importa: per la prima volta nella storia della Mostra del Cinema di Venezia nel 2013 un documentario si è aggiudicato il Leone d’Oro suscitando non poche critiche e polemiche fra gli addetti ai lavori del cinema di finzione, e vale la pena ricordare che il presidente della giuria era Bernardo Bertolucci che ha così portato nella provincia italiana un po’ di quella cultura internazionale di cui lui è esponente. Gli Oscar già prevedono una sezione per i documentari e i film che vengono distribuiti sono ovviamente quelli più appetibili al botteghino, che parlano di animali, o incentrati su figure importanti o diretti da importanti registi.

Qui di seguito stilo una lista non ragionata e incompleta, tanto per capire di che parliamo, partendo da quelli che ho visto: “Bowling a Columbine” di Michael Moore che muovendo dalla strage nel liceo di Columbine fa una spietata indagine sui produttori e sulla cultura delle armi; “Pina” di Wim Wnders su Pina Bausch con uno spettacolare 3D messo a servizio della danza; “Cesare Deve Morire” di Paolo e Vittorio Taviani interpretato da detenuti e girato nel carcere di Rebibbia, Orso d’Oro al Festival di Berlino 2012; “Che strano chiamarsi Federico” di Ettore Scola che racconta il suo amico Fellini fra documentario e fiction; “I Clowns” di Federico Fellini; “Il Grande Silenzio” di Philip Gröning sulla vita monastica; “Quando Eravamo Re” di Leon Gast su e con Muhammad Alì; “Inside Gola Profonda” di Fenton Bailey e Randy Barbato che racconta la nascita della pornografia moderna come movimento politico e sociale di liberazione; “Super Size Me” di Morgan Spurlock sugli eccessi dell’industria alimentare; “Videocracy, basta apparire” di Erik Gandini sul regno videocratico e politico di Berlusconi; “Draquila, l’Italia che trema” di Sabina Guzzanti sempre su Berlusconi e tutto il malaffare italiano.

Ma non ho visto e vorrei recuperare; “Sugar Man” di Malik Bendjelloul sul musicista Sixto Rodriguez e Oscar 2013; “Un viaggio nel cinema americano secondo Martin Scorsese” e “Il mio Viaggio in Italia” di Martin Scorsese; “Kinski, il mio nemico più caro” di Werner Herzog; e “Sicko”, “Capitalism: a Love Story”, “Roger & Me”, “Fahrenheit 9/11” praticamente tutta la filmografia di Michael Moore, “Buena Vista Social Club” di Wim Wenders; “Come inguaiammo il cinema italiano” di Ciprì e Maresco; “Michel Petrucciani, Body & Soul” di Michael Radford; “1960” di Gabriele Salvatores; “La Cosa” di Nanni Moretti sulla fine del PCI; “Terra Madre” di Ermanno Olmi; “La trattativa” di Sabina Guzzanti e “Felice chi è diverso” di Gianni Amelio.

Buon documentario a tutti!

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Selma, la strada per la libertà (ancora lunga e tortuosa)

In questa stagione cinematografica fioriscono biografie. Dopo “Il Giovane Favoloso” Giacomo Leopardi, “La Teoria del Tutto” di Stephen Hawking e l’“American Sniper” Chris Kyle ecco ancora il reverendo Martin Luther dottor King in un film che celebra il cinquantenario della macia per la libertà avvenuta nella cittadina di Selma nel profondo sud razzista dell’Alabama. Non si tratta, dunque, di una vera e propria biografia del leader nero ma della cronaca, scandita attraverso i dettagli dei resoconti dell’FBI che spiava Martin Luther King. Il film si apre con King che riceve il Premio Nobel per la Pace, tanto per ricordarci con chi abbiamo a che fare, e prosegue senza digressioni dritto verso quella famosa (non per noi ma per gli Statunitensi) marcia che portò il presidente Lyndon Johnson all’emanazione della legge sull’uguaglianza del diritto al voto per gli afroamericani. I punti chiave di questa vicenda sono la scelta da parte di King di Selma come terreno di pacifica dimostrazione, proprio perché amministrata da uno sceriffo ignorante e da un governatore razzista la cui natura violenta King voleva stanare con la sua marcia; ma la sua marcia non avrebbe avuto il successo e la risonanza mediatica e politica se, per la prima volta nella storia della comunicazione televisiva, non ci fosse stato un giornalista a filmare e a mandare il materiale alla CBS che in quell’occasione ha inventato le breaking news, ovvero le notizie dell’ultima ora a interrompere la normale programmazione tv e far conoscere a milioni di americani in pantofole l’orrore della violenza razzista. Un film importante, perciò, per la storia e la memoria collettiva degli Stati Uniti dove, nonostante un presidente nero, il razzismo continua ad esistere nel cuore di tanti esseri umani anche inconsapevolmente razzisti.

Detto questo, come prodotto cinematografico per me è un altro di quei film che hanno travalicato i confini del piccolo schermo, dove sarebbe stato più logico collocarlo, grazie all’imponenza produttiva della potente Oprah Winfrey che si ritaglia il ruolo assai esplicativo ed esemplare della donna che vuole andare a iscriversi alle liste elettorali e le viene impedito da un impiegato razzista che usa la burocrazia come randello. Mi soffermo a ricordare che Oprah, dopo aver cominciato la sua carriera leggendo i notiziari in tv, è stata nominata all’Oscar come non protagonista nell’ormai lontano 1985 per il bellissimo “Il Colore Viola” di Steven Spielberg; in seguito ha costruito il suo impero mediatico ed economico come opinion leader televisiva col suo famoso Show che è ormai diventato un brand citato anche in film e telefilm come sinonimo di successo. Ogni tanto la signora produce ottimo cinema, ovviamente nell’ambito della black fraternity, e per quest’operazione ha scritturato grossi nomi anche per piccoli ruoli, ognuno significativo a suo modo nel suo contesto: Tom Wilkinson come Lyndon Johson, Tim Roth come governatore razzista, Cuba Gooding jr, Mahalia Jackson, Giovanni Ribisi, Alessandro Nivola, Lorraine Toussaint e molti altri volti noti sia sul grande che sul piccolo schermo. David Oyelowo è Martin Luther King e Carmen Ejogo sua moglie Coretta, mentre la regia è affidata all’emergente Ava DuVernay che dà a tutto il film un taglio intimistico da dramma privato e borghese, con primissimi piani tipici da piccolo schermo, e scene di massa e di azione che risultano statiche e piatte nonostante tutto, e per tutto intendo il cast, la storia, la sceneggiatura, la produzione…

Candidature sparse qua e là che hanno fruttato solo il Golden Globe e l’Oscar alla canzone originale, effettivamente bella, che nella tessitura melodica inserisce il gospel e il rap, scritta ed eseguita da John Legend con Metroman il quale s’infila nel film anche come attore nello staff di King. Resta solo una considerazione sul razzismo così intimamente connaturato nell’animo di metà degli statunitensi: io non penso che esso sia un sentimento radicato nel cuore e nei sentimenti, o un pensiero che attiene all’educazione e alla cultura, e semmai è vero il contrario, e cioè che educazione e cultura tengono a bada questo che io ritengo un istinto primario dell’essere umano, radicato nel cervelletto, quella parte di cervello preistorico che ancora condividiamo coi rettili, e che gestisce la fame e la paura e l’accoppiamento, quelle tre cose necessarie alla sopravvivenza dell’individuo e della sua specie e che porta ad attaccare tutto ciò che è diverso da noi e che attenta alla nostra vita e ai nostri spazi vitali: messi di fronte a queste (normalmente inimmaginabili) emergenze ognuno di noi è un razzista, e chi si fa razzista senza queste emergenze non fa che dare voce ai suoi istinti primordiali in un contesto e in un’epoca che altrimenti non li prevede. Nel DNA della storia americana c’è il razzismo verso i neri, ma anche verso i nativi, e ora verso i messicani che premono sul confine a sud-ovest; ma c’è stato anche quello verso gli italiani e i cinesi e tutte le altre etnie differenti da quella anglo-irlandese che ha generato i padri fondatori di quella terra, una terra di conquista da difedere ad armi spianate, quelle armi che sono consentite anche nella costituzione; un DNA che spesso, dove manca educazione e cultura, si affaccia nella violenza quotidiana. Noi europei, che abbiamo battagliato fra noi sin dall’inizio della nostra civiltà, siamo più disincantati e possibilisti, e l’orrore delle leggi razziali da noi è durato solo qualche decennio, se non contiamo i secoli bui dell’oscurantismo. Troppo poco per fare di noi dei razzisti convinti e da prendere davvero sul serio, e infatti non ci facciamo distrarre troppo dai gruppetti neonazisti che inneggiano a cose che non hanno mai neanche vissuto per proteggere spazi fisici e culturali che non sono mai stati in pericolo: perché il razzismo primordiale e istintivo, una volta espresso, deve trovare una logica che naturalmente non ha, e si fa pensiero e ideologia per giustificare la sua stessa esistenza. Poi noi italiani nello specifico scendiamo ancora più in basso con i leghisti ai quali sarebbe troppo nobile addurre un pensiero e una logica e, io temo, anche un istinto: cosa c’è da difendere su quella pianura nebbiosa?