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Mistero e Passione di Gino Pacino – cortometraggio di Edoardo De Angelis

Il film completo

Edoardo De Angelis che è su Paramount+ col suo kolossal “Comandante”, è un autore in crescita costante da non perdere di vista; aveva realizzato nel 2008 questo suo primo cortometraggio in napoletano stretto come saggio di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia, operina che gli procura il premio della critica alla prima edizione del serbo Küstendorf Film and Music Festival organizzato dal regista Emir Kusturica che aiuta il giovane debuttante a realizzare la sua prossima opera prima, il lungometraggio “Mozzarella Stories”.

C’è in questo delizioso cortometraggio la sintesi di quello che verrà, tutto l’immaginario del nuovo autore che si muove fra il surreale e il poetico osservando personaggi che si muovono a disagio nel loro contesto; qui fra i tanti figuranti ci sono anche due gemelle, fantasia autorale che ritroveremo gemelle siamesi nell’intenso “Indivisibili”, oltre a tutta la sua varia umanità che sempre si muove fra il tragico e il grottesco. E già sin da questo Gino Pacino, santificato nel titolo, De Angelis esamina – attraverso la sua già magistrale sintesi fra profondità introspettiva e macchiettistico – il disagio di esistere così come si è, e la naturale aspirazione a essere altro, e altrove.

Giovanni Esposito, che ha esordito come comico nel televisivo “Pippo Kennedy Show”, Rai 2 1997, è il protagonista che si innamora della bella e bionda straniera che impersonerà la Santa Lucia in carne ed ossa nella processione del paese, interpretata da Eva Allenbach; Antonella Morea, nipote di Renato Carosone e attrice prevalentemente teatrale, interpreta la di lui oppressiva madre, e il giovane autore compare da figurante come si sono sempre divertiti a fare molti registi a cominciare da Alfred Hitchcock. In chiaro su YouTube film da vedere, per chi ama i cortometraggi e già segue Edoardo De Angelis.

I soliti ignoti vent’anni dopo

1985, esattamente 27 anni dopo arriva il secondo sequel di cui nessuno sentiva la necessità. L’anno prima c’era stato il non riuscito remake americano “Crackers” a firma del francese americanizzato Louis Malle e il sequel tutto italiano lo ha forse voluto solo il non più giovanissimo regista esordiente Amanzio Todini che per anni è stato assistente di Mario Monicelli e finalmente vuole fare qualcosa di suo, solo che invece di fare qualcosa di veramente suo si immette nel solco del suo maestro. Perché evidentemente sa vivere solo di luce riflessa e come autore non ha niente da dire: firma il secondo sequel – dopo “Audace colpo dei soliti ignoti” che Nanni Loy diresse l’anno dopo il capostipite capolavoro – senza infamia e senza lode. Semmai l’infamia gli viene dall’essersi voluto cimentare nell’impresa e la mancanza di lode proprio nell’aver fallito clamorosamente: non che il film sia brutto ma è semplicemente banale, una commedia di genere senza una precisa identità.

Ma vediamo chi è rimasto nell’impresa. Alla sceneggiatura resta solo Age che da qui in poi si firmerà col nome completo Agenore Incrocci, perché il suo sodalizio con Furio Scarpelli si è concluso a metà anni Sessanta. Torna Suso Cecchi D’Amico che aveva saltato l’appuntamento col secondo sequel e completa il terzetto lo stesso regista debuttante, già co-sceneggiatore per il suo maestro Monicelli nel film “Le due vite di Mattia Pascal” dello stesso anno con Marcello Mastroianni che in quel 1985 esce anche con “Maccheroni” di Ettore Scola e “Ginger e Fred” di Federico Fellini. Il produttore dei primi due film Franco Cristaldi, ormai accasato con Zeudi Araya, si tira fuori e produce la non meglio identificata Excelsior Film.

A quel punto bisognava fare i conti col cast: chi c’era, chi non c’era e chi non era più interessato – fermo restando che per suscitare l’interesse degli interpreti a volte basta l’entità del compenso. Le riconferme più entusiaste arrivano da coprotagonisti e generici: Tiberio Murgia è della partita e lo segue Gina Rovere che fu la moglie di Mastroianni nel primo film; da qui in poi bisognava convincere i big. Si lascia convincere Vittorio Gassman che quell’anno esce con un solo altro film di produzione internazionale, poco visto: “Il potere del male” di Krzysztof Zanussi, e non è improbabile che sia stato lui a chiedere agli sceneggiatori di farlo morire alla fine del film per evitare ulteriori tentazioni. Un no secco deve essere arrivato da Nino Manfredi che si era unito al cast del secondo capitolo riempiendo il vuoto lasciato da Mastroianni che a sorpresa torna nell’impresa, stavolta da protagonista assoluto con l’unico nome sopra il titolo: Gassman si fa collocare alla fine “con la partecipazione di”. Carlo Pisacane era morto dieci anni prima di beata vecchiaia e Renato Salvatori ha lasciato il cinema da alcuni anni, “un mondo che non gli apparteneva più” come dichiarò in un’intervista, ma da almeno un decennio soffriva di alcolismo e morirà 54enne di cirrosi epatica nel 1988. Anche Claudia Cardinale si sfila dall’impresa: con tutta la buona volontà non c’era modo di offrirle un ruolo appetibile e ormai è una diva inarrivabile per certe produzioni e questo secondo sequel del film che l’ha lanciata si prospetta come una commedia di genere, forse anche di serie B; quell’anno lei esce con due film, “La donna delle meraviglie” di Alberto Bevilacqua e il francese “L’estate prossima” di Nadine Trintignant. Dunque agli sceneggiatori tocca giocare con le carte rimaste pescandone di nuove, e di nuovo ci sono due figli che nel primo capitolo erano bambini e oggi sono adulti, nel segno della continuità generazionale.

Il ruolo più importante va al romano Giorgio Gobbi come figlio di Marcello Mastroianni e Gina Rovere che gli sceneggiatori fanno venire giù da Milano dove il giovanotto vive e lavora; l’attore, che aveva debuttato accanto ad Alberto Sordi in “Il Marchese del Grillo” di Mario Monicelli (il maestro torna sempre nella narrazione) fa bene, recita con accento milanese anche se non si capisce – e questa è un’altra delle tante lacune della sceneggiatura – perché un giovanotto nato e cresciuto a Roma improvvisamente cominci a parlare con forte accento meneghino dopo qualche anno in trasferta: la spiegazione forse sta nella debolissima gag con cui chiama papi suo padre che da buon romano non apprezza; c’è poi che il ragazzo dichiara al padre di essere diverso: siamo in un’epoca che, benché sfrondata dai tanti tabù dei decenni precedenti, l’omosessuale al cinema è ancora raccontato come macchietta da deridere o dramma individuale: in questo caso il giovane non è mai stato con una donna ma non ha ancora fatto il grande salto perché non è andato neanche con gli uomini: nella narrazione dell’epoca c’è speranza che “guarisca”, come il padre auspica, cosa che puntualmente avviene dopo un accidentale bacio con la bella di turno: scivoloni della scrittura oggi non più tollerabili che in ogni caso segnano le mancanza di idee davvero vincenti.

Francesco De Rosa primo a destra con Enrico Montesano e Gigi Proietti in “Febbre da cavallo”

L’altro figlio porta il cognome di Cruciani ed è l’erede narrativo del Dante Cruciani di Totò, ruolo che è andato al napoletano Francesco De Rosa che anche artisticamente si era proposto come erede di Totò, se non altro per la faccia che ne ricordava la maschera e anche il timbro vocale, tanto che esordì sui palcoscenici partenopei con delle macchiette in cui imitava o omaggiava il Principe della Risata. Gli si aprirono le porte del cinema e debuttò diretto da Steno in “Piedone a Hong Kong” con Bud Spencer, e l’anno dopo, sempre diretto da Steno, fu nel cast di “Febbre da cavallo” con il suo ruolo più importante che gli fece raggiungere la massima notorietà e per il quale viene ancora oggi ricordato. Fra un film e l’altro torna a omaggiare Totò in questo film ma la svolta drammatica arriva nei primi anni Duemila con la produzione di “La mandrakata” come seguito di “Febbre da cavallo”, diretto da Carlo Vanzina figlio del fu Steno. Incomprensibilmente, contrariamente agli altri interpreti, non viene riconfermato nel cast, e nel ruolo del napoletano fu scritturato l’emergente Carlo Buccirosso cambiando alcune caratteristiche del personaggio; questo grave smacco fece scivolare De Rosa in una profonda depressione che lo condusse al suicidio per impiccagione un paio d’anni dopo.

Per quanto la Cardinale non fosse più disponibile non si poteva rimettere in scena il Ferribotte di Tiberio Murgia senza la sorella Carmelina, dato che la coppia degli allora debuttanti formava un unicum narrativo assai riuscito che vent’anni dopo ribalta i ruoli in un buon sviluppo narrativo: Carmelina ha oggi preso le redini della conduzione domestica, lavora e mantiene l’inutile fratello, tanto che si stenta a riconoscerla sul piano caratteriale, mentre sul piano fisiognomico è interpretata dalla credibilissima e somigliante Rita Savagnone, che essendo più attiva nel doppiaggio è già stata più volte la voce di Claudia Cardinale che qui stavolta sostituisce fisicamente; il personaggio è ben riuscito e gradevole ma gli sceneggiatori, sbagliando ancora una volta, preferiscono non svilupparlo avendo a che fare con una sostituzione. Sviluppano invece il non riuscito personaggio della madre di Cruciani come vecchia al seguito della banda nell’odierna disavventura: la interpreta la non troppo vecchia napoletana Concetta Barra, madre di Peppe Barra, che fa quello che può col poco materiale narrativo che le è stato dato in carico, dimostrando ancora una volta che gli sceneggiatori hanno lavorato davvero male sprecando occasioni su occasioni; eppure, tolto il regista Todini che ha sempre arrancato dietro agli altri, i primi due erano due vecchie volpi del mestiere. Mah.

La bella di turno che guarisce il diverso è, in linea coi tempi, una ragazza madre che fugge da un fidanzato violento. La interpreta la napoletana Clelia Rondinella mentre il violento che la insegue è l’ancora sconosciuto Ennio Fantastichini che nei decenni a venire sarà uno dei protagonisti di qualità del cinema italiano: morto 63enne nel 2018 per cause naturali. Completano il cast come trafficanti Giovanni Lombardo Radice, mio amico personale recentemente scomparso, attore e regista teatrale che era divenuto famoso, per gli appassionati, come iconico interprete di alcuni film horror di serie B, anche in lingua inglese che parlava fluentemente, e per i quali ebbe un suo proprio fan club internazionale; come suoi scagnozzi Pasquale Africano che divenne famoso in tv come guardia giurata del giudiziario “Forum” di Canale 5, e un giovanissimo quasi irriconoscibile Alessandro Gassmann (che ha recuperato nel cognome tedesco la seconda N che Vittorio aveva fatto cadere) che il padre sta avviando alla carriera artistica ma qui è doppiato da Roberto Chevalier. Vanno ricordati anche il caratterista romano dal fisico imponente specializzato in ruoli di rude e violento Natale Tulli, doppiato da Enzo Liberti, qui come nuovo compagno della moglie di Tiberio-Mastroianni, e in un piccolo ruolo la doppia figlia d’arte Alessandra Panelli (di Paolo Panelli e Bice Valori) come moglie dell’erede Cruciani, e nella vita reale moglie a scadenza di Lombardo Radice.

Nell’insieme il film si lascia seguire piacevolmente e recuperarlo non è tempo perso, se non altro per rivedere duettare Gassman e Mastroianni, ma resta un’occasione sprecata sin dalla sua genesi: l’intento è nostalgico ma anche commerciale e viene confezionato un film di genere che nulla ha dei punti di forza del capostipite che fondò la commedia all’italiana. Non si trattava di rifondare il genere ormai sepolto dalla commedia sexy all’italiana ma se non altro mantenerne l’idea, l’ideale, e a nulla valgono gli inserti in bianco e nero del film capostipite concessi dal primo produttore che viene ringraziato nei titoli di coda: “La produzione e gli autori ringraziano FRANCO CRISTALDI per gli inserti da I SOLITI IGNOTI di MARIO MONICELLI”.

Monicelli che in apertura dei titoli di testa viene citato con “Mario Monicelli presenta”, una sorta di viatico e lasciapassare per il discepolo dotato di poco talento. Marcello Mastroianni è l’unico nome prima del titolo: uscendo dal carcere all’inizio del film si ritrova in una Roma sconosciuta e anche incattivita, ma ancora una volta la sceneggiatura non graffia laddove spunti ce ne sarebbero a decine, e la recitazione dell’attore ha lo spessore dell’interprete maturo, ma non avendo spunti brillanti a cui aggrapparsi – se non trite gag da avanspettacolo, quello che Monicelli aveva mandato in soffitta – il suo personaggio risulta più cupo che brillante, da commedia amara, e sarebbe stato un punto a favore se il film avesse seguito questa traccia, ma in realtà in film non ha nessuna traccia.

Segue nei titoli, al secondo posto, Tiberio Murgia “nel ruolo di Ferribotte”, che non essendo un vero interprete rifà sé stesso senza sbagliare; vengono poi Rita Savagnone “nel ruolo della sorella di Ferribotte”, Concetta Barra “nel ruolo della signora Italia” e infine arriva “con la partecipazione diVittorio Gassman che pur continuando a balbettare si è liberato di quel trucco e parrucco che lo avevano aiutato a diventare maschera brillante quasi trent’anni prima. Amanzio Todini dopo questo debutto-flop firmerà due anni dopo solo un’altra regia, il televisivo Fininvest “Non tutto rosa” con Marisa Laurito e Andy Luotto; è morto 48enne nel 1995 ma non mi è stato possibile rintracciare ulteriori dettagli. Il film è disponibile su YouTube.

I nuovi mostri – con gli episodi censurati dalla Rai qui recuperati

1977. Sono passati quindici anni dall’originale e molta acqua è passata sotto i ponti: sono finiti i tempi spensierati del boom economico sull’onda del quale cinematograficamente si è passati dal neorealismo del dopoguerra alla spensieratezza della commedia all’italiana che nei suoi esempi migliori era anche critica sociale con venature di un umorismo graffiante che non risparmiava niente e nessuno. Il 1977 è nel mezzo di un decennio nero di terrorismo, nazionale e internazionale, una narrativa che drammaticamente entra anche in questo film in cui i toni grotteschi e graffianti si fanno ancora più incisivi, e anche violenti come la società che li esprime.

Gli episodi che prima erano 20 qui sono 14 e a Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi si aggiunge un Alberto Sordi in gran spolvero, di suo già campione di maschere grottesche dell’italiano medio, con l’aggiunta della stella in ascesa Ornella Muti che aveva debuttato solo sette anni prima con “La moglie più bella” di Damiano Damiani. Un’altra novità è che in alcuni episodi i quattro nomi dei titoli di testa cedono il passo ad altri validi interpreti che a loro volta diventano protagonisti. Tognazzi e Gassman recitano insieme in un solo episodio. Degli sceneggiatori originali rimane Ruggero Maccari che scrive il film con Age & Scarpelli e Bernardino Zapponi; mentre Ettore Scola che lì era sceneggiatore qui è regista e insieme a Mario Monicelli si aggiunge a Dino Risi che fu regista unico del primo film. Suo figlio Claudio Risi è l’aiuto regista. Armando Trovajoli che qui è Trovaioli torna a firmare la colonna sonora. Dei tre registi, all’uscita del film non si sapeva chi avesse diretto cosa perché di comune accordo avevano deciso di non firmare i loro episodi, e pare che i tre si siano impegnati a sostenere con i loro guadagni l’amico sceneggiatore Ugo Guerra gravemente malato e da diversi anni paralizzato, che sarebbe morto cinque anni dopo. Oggi siamo in grado di abbinare i registi agli episodi. Alla produzione Pio Angeletti e Adriano De Micheli della Dean Film prendono il posto di Mario Cecchi Gori. Come film straniero fu candidato all’Oscar nel 1979 ma quell’anno vinse il francese “Preparate i fazzoletti” di Bertrand Blier. Fu anche candidato ai David di Donatello ma vinse solo l’Alloro d’Oro alla miglior sceneggiatura al Festival di Taormina.

La versione presente su YouTube è quella ridotta negli anni Ottanta per la Rai in cui vengono tagliati cinque dei quattordici episodi rimescolando l’ordine di quelli rimasti. In questa censura sono saltati quelli meno edificanti ritenuti non adatti alle famiglie, ovvero: “Il sospetto”“Sequestro di persona cara”, “Mammina e mammone”“Cittadino esemplare” e “Pornodiva”; questi ultimi tre però sono stati reintegrati in una versione trasmessa su Rai Movie a partire dal 2014, però con l’amputazione del finale di “Pornodiva” che, come vedremo, cambia completamente il senso del racconto.

Tantum Ergo di Dino Risi

Gassman è un cardinale che causa guasto alla sua auto si ferma in una chiesa di periferia dove è in corso un acceso dibattito di borgatari guidato dal prete Luigi Diberti. Il cardinale improvvisa un sermone che acquieta gli animi, dimostrando al prete-operaio che faticosamente guidava da pari a pari il dibattito, che la retorica e l’eloquenza con l’aggiunta degli effetti speciali di sempre – luci, campane e musica d’organo – sono la vera via del Signore. Paolo Baroni efficacissima spalla in una regia molto arguta è il pretino che come da tradizione, vedi “La giornata dell’onorevole” in “I mostri”, è sempre omosessuale.

Auto stop di Mario Monicelli

Oggi lo scriviamo in un’unica parola ma all’epoca erano ancora due parole staccate. Partendo dal dettaglio del magnete sul cruscotto “vai piano e pensa a noi” con foto dei familiari, scopriamo che alla guida dell’auto Eros Pagni (raffinato interprete teatrale che al cinema è un caratterista di lusso) va oltre un autostoppista commentando “Sì, col cazzo!” per poi fermarsi immediatamente quando sul ciglio della strada gli compare la “gnocca” Ornella Muti che carica in macchina facendo sparire il magnete, e ovviamente mettendo in campo tutti i luoghi comuni dell’automobilista con fantasie erotiche, e tutti noi spettatori conosciamo i luoghi comuni sulla pericolosità degli autostoppisti ma anche degli automobilisti…

Con i saluti degli amici di Dino Risi

Segue uno dei due soli episodi non ambientati nell’area romana: breve come uno sketch televisivo. In un paesino dell’entroterra siciliano, un notabile mafioso passeggia per le vie assolate accompagnato dal suono del sempre classico marranzano, finché viene steso a colpi di lupara da due ragazzotti in vespa “Con i saluti degli amici”, ed è comune fra i siciliani il detto “Amici, e guàrdati!”. Battuta folgorante finale del mafioso morente interpretato dal romano Gianfranco Barra unico protagonista.

Hostaria! di Ettore Scola

Col punto esclamativo che subito mette in evidenza la tipicità dell’osteria della tradizione romana. Gassman e Tognazzi, l’uno cameriere l’altro cuoco, nel loro unico incontro del film fanno dell’osteria il loro personale ring con divertimento reciproco: sono quella che oggi diremmo una coppia di fatto, litigiosa e di mezza età, che con i tempi e i modi e la musichetta delle comiche d’antan si tirano addosso di tutto distruggendo la cucina salvo poi fare pace con un bacetto. I borghesissimi commensali apprezzano le vivande che dopo la lite contengono di tutto. E non è chiaro se i mostri sono la litigiosa coppia o i commensali, che di passaggio citano e omaggiano Indro Montanelli come caro amico: messaggio ambiguamente trasversale al giornalista.

Pronto soccorso di Mario Monicelli

Un affettatissimo Alberto Sordi, come Principe Giovan Maria Catalan Belmonte è un esponente della nobiltà nera romana, quella papalina sempre nostalgica del Papa-Re, lascia un’amica al Jackie O’, esclusivo locale romano che a partire dagli anni ’70 ereditò quello che restava della dolce vita romana dei tardi anni ’50. Con la sua Rolls Royce bianca (la Land Rover la prende solo per le uscite sportive) deve raggiungere la residenza della Principessa Aldobrandi dove fra nobili si discuterà lo scisma del Cardinale Marcel Lefebvre. Sordi si esibisce in un monologo un po’ troppo lungo e un po’ troppo indugiando, a mio avviso, su alcune volgarità che pur caratteristiche del “nobile” personaggio non necessitavano di sottolineature. Raccoglie la vittima di un incidente stradale e tenta inutilmente di portarlo in tre ospedali che per un motivo o un altro rifiutano l’urgente ricovero: questa è un’altra delle mostruosità sociali. Alla fine lo abbandona lì dove l’aveva trovato, sotto il monumento a Mazzini che lui crede Mussolini. Luciano Bonanni interpreta l’uomo ferito mentre l’amica di passaggio all’inizio altri non è che la ballerina del ventre Aïché Nana che sul finire degli anni ’50 si era resa famosa per uno spogliarello al ristorante Rugantino, immortalata dal fotografo Tazio Secchiaroli. In coda il titolo “Pronto soccorso” diventa inglese: “First Aid” e vai a capire perché.

L’uccellino della Val Padana di Ettore Scola

Questo è il secondo episodio non ambientato a Roma. La moda dell’epoca nominava le cantanti in un bestiario tutto italiano: Mina era la Tigre di Cremona, Iva Zanicchi era l’Aquila di Ligonchio e Orietta Berti che aveva addirittura due nomignoli – l’Usignolo di Cavriago e la Capinera dell’Emilia – qui diventa Fiorella l’Uccellino della Val Padana gestita dal totalizzante marito-impresario Tognazzi che nel privato se la deve vedere con le tante bambole che invadono la loro camera da letto, autocitazione per la Berti che è realmente collezionista di bambole. La poverina incorre in un problema alle corde vocali e il solerte marito le procura un incidente domestico dopo la quale potrà esibirla come caso umano su una sedia a rotelle. Molto brava lei che da cantante professionista si mette in gioco e nel finale stona con grande maestria.

Come un regina di Ettore Scola

Sordi asciuga i toni e condivide lo schermo con una dolce vecchina che interpreta la madre. Che lui, all’insaputa di lei, sta portando in in ospizio. L’interpretazione più convincente dell’attore è tutta negli sguardi che spaziano dall’apprensione all’esasperazione, dall’amore alla malsopportazione e al senso di colpa. Per Sordi è un bagno di verità: è noto che fosse morbosamente legato alla madre e ancora si racconta di quando, alla morte di lei, per vent’quattr’ore si chiuse in camera col cadavere rifiutandosi anche di aprire agli impiegati delle pompe funebri. La vecchina è l’attrice di un solo film Emilia Fabi. “Trattatela come una regina!” è l’invocazione finale del figlio mentre va via. Come una regina in esilio, dolorosa condizione di molti nostri vecchi che non hanno più spazio nella frenetica quotidianità che ci stritola.

Senza parole di Dino Risi

Il breve incontro d’amore fra una hostess poliglotta e un affascinante mediorientale che non parla nessuna delle lingue che lei conosce – e qui tocca dire che la Muti non parlava bene nemmeno l’italiano dato che per tutto l’arco crescente della sua carriera è stata sempre doppiata. Nel romantico episodio senza parole la musica è padrona con due successi dell’epoca: “Ti amo” di Umberto Tozzi e “All by myself” nella versione originale di Eric Carmen. Episodio volutamente zuccheroso dove non tutto è come sembra. Con il greco Yorgo Voyagis inspiegabilmente col trattino nei titoli, Yorgo-Voyagis, volto nuovo sugli schermi italiani come Giuseppe nel televisivo “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli, in onda quello stesso 1977.

L’elogio funebre di Ettore Scola

Il funerale comincia con l’accompagnamento di una musichetta sgangherata di una piccola banda che dà subito il tono all’episodio. Fra i quattro che portano a spalla la bara ecco Alberto Sordi. Si seppellisce un comico d’avanspettacolo e i convenuti sono il variopinto bestiario di amici e colleghi. Sordi, come storica spalla del vecchio comico Formichella, comincia l’elogio funebre che presto si trasforma in rievocazione di gloriose scenette e sagaci battute: il funerale diventa un’allegra rivisitazione della rivista d’antan in cui Sordi stesso mosse i primi passi, e alle lacrime si sostituiscono risate canti e applausi con tanto di passerella finale attorno alla fossa e sipario calato dai muratori retrostanti che calano una rete di protezione. Nel sentire comune di quell’Italietta democristiana forse questi teatranti erano dei mostri ma è evidente che a un attore comico quel funerale sarebbe piaciuto assai. Per non dire che oggi è ormai prassi comune, questa sì tristemente comune, l’abitudine di applaudire ai funerali, gesto privo di senso traslato dalla gente di spettacolo che di quegli applausi era vissuta, tanto che alcuni preti cominciano ad avvertire che gli applausi non sono consentiti. Per l’intero film questo episodio è un delizioso e degno finale. E poi con una ricerca mirata ho trovato i singoli episodi tagliati dalla Rai.

Mammina e mammone di Dino Risi

La giornata di due eccentrici barboni in un episodio davvero inconsistente che probabilmente avrà avuto un senso per i suoi creatori se ispirato a personaggi reali: la morale è che fra i barboni che si aggirano nelle nostre città ci sono anche nobili decaduti e personalità esemplari. Con Tognazzi che come dolce bambinone si accompagna all’ottantenne Nerina Montagnani, una caratterista che dopo aver lavorato come cameriera per tutta la vita ha esordito a settant’anni costruendosi una carriera di tutto rispetto.

Cittadino esemplare di Ettore Scola

Il mostro siamo noi. Gassman rientrando a casa dal lavoro assiste all’aggressione e all’accoltellamento di un uomo. Come nulla fosse raggiunge la famiglia per cena e si rilassa davanti a un programma Rai: ovvio che la Rai lo abbia tagliato. Dal programma sentiamo la voce di Pippo Franco nel varietà “Bambole, non c’è una lira” diretto da Antonello Falqui.

Il sospetto di Ettore Scola

Episodio decisamente politico, dunque indigesto alla finta ecumenica mamma Rai. Gassman commissario di polizia dall’accento napoletano fa una paternale a un gruppo di giovani sovversivi arrestati, e dal mucchio gli arriva una pernacchia. Fatta da un brigadiere infiltrato per meglio mimetizzarsi. Con Francesco Crescimone da Caltagirone che sarà anche sceneggiatore e regista.

Sequestro di persona cara di Ettore Scola

Cinema che racconta la televisione-verità: diretta televisiva dal salotto di un uomo distrutto dal dolore al quale hanno rapito la moglie e che si rivolge ai sequestratori implorando almeno una telefonata per averne notizie. Andata via la troupe televisiva l’uomo mostra che aveva tagliato il filo del telefono. Altro episodio scomodo da mostrare in tv perché un mostro si fa gioco della tv. Oltre che dell’opinione pubblica.

Pornodiva di Dino Risi

In effetti l’episodio, senza voler svelare nulla a chi non l’avesse ancora visto, è davvero forte, non per il contenuto ma per il concetto che veicola. Eros Pagni è di nuovo protagonista con la procace moglie interpretata da Fiona Florence che all’anagrafe è Luisa Alcini, una coppia di burini che prima di firmare il contratto che prevede scene di nudo e di sesso con una scimmia vogliono capire i dettagli e alzare il compenso. Nel ruolo dell’anziano produttore il caratterista settantenne Vittorio Zarfati che con Risi aveva debuttato l’anno prima, e che aveva una tragica storia alle spalle: di religione ebraica sfuggì al rastrellamento nazi-fascista dell’ottobre 1943 perché si trovava poco fuori Roma e perse la moglie e tre figli deportati e soppressi a Auschwitz-Birkenau. come figlia della coppia di burini la decenne Simona Patitucci che da adulta farà poco cinema ma tanto teatro musicale e molto doppiaggio.

E per finire un po’ di numeri. Nella versione integrale di 14 episodi Ugo Tognazzi è presente in 3, Vittorio Gassman in 5, insieme solo in uno; 3 per Alberto Sordi, 2 per Ornella Muti e 2 anche per Eros Pagni che di fatto si colloca fra i protagonisti. Nella versione ridotta Tognazzi perde un episodio e Gassman addirittura 3 restando entrambi a pari merito con 2 episodi, cedendo il passo a Sordi che li porta avanti tutti e tre mentre Pagni ne perde uno dei due. Come anticipato Rai Movie ha trasmesso una versione allungata ma continuano a mancare “Sequestro di persona cara” e “Il sospetto” entrambi con Gassman. L’ultima volta in cui il film è stato trasmesso in televisione è stato nell’agosto 2022 su Rai 3. Anche nelle versioni home prima in VHS e poi in DVD c’è la versione ridotta a 9 episodi, la stessa disponibile attualmente su Netflix: non credo che si tratti più di censura per argomenti ritenuti scabrosi o antisociali ma sono incuria da pigrizia intellettuale e commerciale.

Gli occhiali d’oro – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Dopo “La lunga notte del ’43” e “Il giardino dei Finzi Contini” terzo e a tutt’oggi ultimo film dalla narrativa che Giorgio Bassani dedicò alla sua Ferrara e contestualmente al periodo fascista della città, essendo egli stesso uno di quegli ebrei che vissero sulla propria pelle le leggi razziali emanate nel 1938. Il giovane Bassani era all’epoca studente universitario a Bologna e gli fu concesso di proseguire gli studi, si sarebbe laureato l’anno dopo, mentre non erano più consentite le nuove iscrizioni agli ebrei, di pari passo all’epurazione del corpo docenti. L’io narrante, un universitario ebreo che è chiaramente l’alter ego dello scrittore, nel romanzo non ha un nome e nel film, scritto dallo stesso regista Giuliano Montaldo con Nicola Badalucco e Antonella Grassi, viene chiamato Davide Lattes, figlio di Bruno Lattes che a sua volta è il nome di uno dei personaggi che frequentano il giardino dei Finzi-Contini, romanzo dove a sua volta si cita la vicenda che viene raccontata in questo romanzo: se nel Bassani scrittore i rimandi e le autocitazioni sono frequenti, gli sceneggiatori ne prendono atto e proseguono sulla strada tracciata per restare fedeli allo spirito che anima quelle narrazioni: Ferrara come luogo eletto di una comunità che si autodefinisce “popolo eletto”. Nel romanzo e nel film procedono di pari passo le vicende dell’io narrante e del medico narrato: un omosessuale di mezza età che innamorandosi di un giovane arrivista crea scandalo e viene emarginato dalla benpensante società dell’epoca, emarginazione che procede specularmente a quella che lo studente subisce a causa della sua religione.

Nicola Farron e Philippe Noiret

Vidi il film al cinema alla sua uscita nel 1987 e già allora non mi convinse del tutto benché all’epoca non sapessi motivare chiaramente le mie impressioni: riferivo al mio gusto personale; rivisto oggi confermo e specifico: manca di pathos, è ben confezionato ma calligrafico. Manca l’atmosfera cupa dei tempi bui cui ci si avviava in quegli anni, che il debuttante Florestano Vancini aveva saputo infondere alla sua lunga notte del ’43, e soffre di quel patinato manierismo che si respirava nel giardino dei Finzi-Contini filmato da Vittorio De Sica. Detto ciò il film ebbe successo e si aggiudicò alcuni premi tecnici: a Venezia l’Osella d’Oro per i costumi di Nanà Cecchi e le scenografie di Luciano Ricceri, e poi David di Donatello alla musica di Ennio Morricone che comunque non è fra quelle che continuiamo ad ascoltare. Il cast, come nella migliore tradizione italiana dei decenni passati, è un’insalata di interpreti stranieri e italiani, qui giustificata dal fatto che si tratta di una coproduzione Italia Francia Jugoslavia; insalate per fortuna non più consentite alle produzioni italiane odierne in cui c’è l’obbligo della presa diretta dove gli eventuali interpreti stranieri devono recitare in italiano o fare ciò che sono, gli stranieri, e in cui all’eventuale necessario doppiaggio saranno gli stessi attori a usare la propria voce, a meno che non rinuncino personalmente; una battaglia, quella della voce-volto lanciata dall’impegnatissimo Gian Maria Volonté già alla fine degli anni ’70: un complesso argomento che meriterebbe un approfondimento a parte.

Rupert Everett e Valeria Golino

Davide Lattes, con la voce di Tonino Accolla, ha il volto di Rupert Everett fresco del successo del britannico “Another Country: la scelta” diretto dal polacco Marek Kanievska nel 1984; va da sé che viene scritturato dai nostri produttori e in quel 1987 è protagonista per Francesco Rosi in “Cronaca di una morte annunciata” e di questo film di Montaldo. L’anziano medico, doppiato da Sergio Rossi, è impersonato dal francese di casa in Italia Philippe Noiret, che in quella pratica di coproduzioni e finte produzioni italiane con attori stranieri, si accaparrò molti ruoli assai interessanti che sarebbero potuti andare ai nostri colonnelli: Gassman, Mastroianni, Manfredi, Sordi, Tognazzi. Protagonista femminile è l’emergente Valeria Golino che recita con la sua voce ingolata non del tutto gradevole all’epoca, viziati com’eravamo dalle voci perfette del doppiaggio, migliore attrice rivelazione l’anno prima premiata col Globo d’Oro per “Piccoli fuochi” di Peter Del Monte, e qui candidata inopinatamente (a mio avviso brava ma non da premio) come protagonista ai David di Donatello, insieme a Noiret: entrambi restarono a bocca asciutta perché i premi agli attori protagonisti andarono a Marcello Mastroianni e Elena Safonova per “Oci ciornie” di Nikita Sergeevič Michalkov. Il bel mascalzone di cui s’innamora il medico è impersonato da un altro emergente che poi non rispettò la promessa di una brillante carriera, Nicola Farron, che si esibisce in un nudo integrale sotto la doccia che ancora vale il limite di età alla visione del film su YouTube, anch’egli doppiato da Fabio Boccanera.

Il professor Amos Perugia di Roberto Herlitzka accompagnato all’uscita dall’ateneo dai suoi studenti mentre sullo sfondo si grida “Ebreo! ebreo!” e “Eia eia alalà”.

Altri nomi di spicco sono la centratissima Stefania Sandrelli come malefica pettegola e soprattutto Roberto Herlitzka perfettamente in ruolo essendo egli stesso un ebreo che bambino sfuggì al nazi-fascismo col padre che riparò in Argentina: qui nei primi dieci minuti del film interpreta il professore universitario epurato. I genitori del protagonista sono interpretati dal serbo Rade Markovic e dalla romana di nobili origini Esmeralda Ruspoli. Nel ruolo di uno studente universitario un giovane Luca Zingaretti. Il film, che di diritto si inserisce sotto l’etichetta Fascismo e Resistenza, è oggi considerato un caposaldo anche del filone film LGBT.

Di Giuliano Montaldo bisogna ricordare che come tanti dei suoi coetanei debuttò con un film legato al racconto del fascismo, “Tiro al piccione”, tema che continuerà ad esplorare in altri suoi riusciti lavori come “Gott Mit Uns” e “L’Agnese va a morire”. Nel 2007 è stato insignito del David di Donatello alla Carriera e nel 2018 vinse il David come attore non protagonista per “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni. Mentre il suo ultimo film da regista è “L’industriale” del 2011 con Pierfrancesco Favino. Oggi ha 93 anni.

IL SOSPETTO – omaggio a Francesco “Citto” Maselli

Sarò sincero, non sono mai stato un fan dell’appena scomparso 92enne Francesco Maselli e trovando su YouTube questo suo importante film che ho visto per la prima volta, confermo la mia posizione: il suo impegno politico e sociale prevarica l’attenzione per il pubblico, tant’è che i suoi film non hanno mai avuto grande riscontro al botteghino. Ci sono film di maestri coevi, Francesco Rosi Florestano Vancini ed Elio Petri tanto per citare i primi che mi vengono in mente, che pur indagando la politica e il sociale non derogano da quella che dovrebbe una delle regole portanti del cinema: la spettacolarità, che non sono solo botti e botte da orbi, ma soprattutto scrittura accattivante e ritmo coinvolgente: chi continuerebbe a leggere un libro che risulta ostico se non noioso sin dalle prime pagine?

Francesco Maselli è “nato bene” come si diceva una volta, in una famiglia di intellettuali romani: suo padre era un critico d’arte che ospitava nel suo salotto i bei nomi intellettuali e progressisti dell’epoca, ed era intimo amico di Luigi Pirandello che gli dava da leggere in anteprima i suoi manoscritti, e fu proprio Pirandello a tenere a battesimo Francesco affibbiandogli il nomignolo Citto. Il ragazzo si dimostrò anch’egli un intellettuale precocissimo: a sette anni aveva già imparato l’Amleto a memoria; e a tredici, durante l’occupazione tedesca della capitale, portava armi e cibo ai partigiani del Gap, Gruppo d’Azione Partigiana; e a seguire, a soli quattordici anni riuscì entrare nell’allora clandestino Pci, Partito Comunista Italiano. In quegli anni gira anche i suoi due primi cortometraggi in 8mm fra i 15 e i 17 e ancora 17enne viene accettato al Centro Sperimentale di Cinematografia da cui si diploma 19enne; sarà subito assistente di Luigi Chiarini, critico e teorico del cinema fra i fondatori del Centro, suo padrino professionale, oltre ad affiancarsi come aiuto di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti: insomma, il giovane Citto “nato bene” non ha dovuto sgomitare per lavorare coi migliori. Si comincia già a delineare il suo talento come documentarista che è in linea coi suoi impegni politici e civili e probabilmente proprio in questo tipo di cinematografia riesce a dare il meglio: perché essendo film dichiaratamente documento non hanno l’obbligo – ammesso che sia un obbligo – della spettacolarità, ovvero di dover piacere al grande pubblico. Perché questo sarà il nodo irrisolto di tutta la cinematografia di Citto Maselli: non riesce a piacere al pubblico di massa, tanto che per indagare questo aspetto andrà anche in analisi. Di fatto l’autore mette sempre in primo piano la politica che, di fatto, è la sua formazione emotiva, quella che ha formato l’adolescente; racconta i suoi personaggi e struttura i suoi film secondo una visione intimamente marxista, facendone dei casi-limite, esempi di un’umanità e di contesti sociali che finiscono con l’essere poco accattivanti e indigesti al botteghino.

Prendiamo ad esempio questo “Il sospetto” del 1975, che per non essere confuso col film omonimo del 1941 di Alfred Hitchcock “Suspicion” in originale, verrà distribuito come “Il sospetto di Francesco Maselli” (poi ci sarà un altro film omonimo nel 2012 del danese Thomas Vinterberg). Ambientato nella Torino del 1934, centro nevralgico di interessi politici della sinistra operaia per la gran massa di operai della Fiat, racconta di un dirigente del Partito Comunista Italiano in clandestinità perché si è nel bel mezzo del cosiddetto ventennio fascista.

Scorcio parigino del film

L’ambientazione è inappuntabile e accattivante, si fa grande sfoggio di auto d’epoca e di comparse bene acconciate, e la cinematografia di Giulio Albonico insieme al montaggio di Vincenzo Verdecchi scarnificano l’opera rendendola fascinosamente essenziale, senza sbavature e inutili compiacimenti – ma già alla base del progetto c’è una scrittura – sceneggiatura di Franco Solinas (già critico cinematografico per il quotidiano comunista l’Unità) da un soggetto dello stesso Maselli – che sembra non tenere conto degli spettatori: è scritto come se parlasse solo ai tesserati del partito, dando per scontati dettagli informazioni e utili raccordi che vengono a mancare a chi non è addentro a quelle specifiche dinamiche, col risultato che io spettatore “non iniziato” e non iscritto al Partito Comunista faccio fatica ad entrare nello spirito del film, della sua narrazione; è esemplare il finale del film con il lungo monologo-spiegazione del funzionario del partito fascista, che dà un senso all’intero impianto del film ma che nelle mani di altri cineasti sarebbe potuto diventare un confronto più serrato e drammaticamente vivo; e l’intera storia che contiene tutti gli elementi di un thriller – il sospetto che ci sia un traditore fra le fila dei comunisti e l’indagine per smascherarlo – viene invece condotta come un film a tesi che spiega solo le dinamiche interne al partito: le tesi appunto e i contrasti, i dirigenti in clandestinità e quelli in esilio all’estero, l’allontanamento ideologico dal Partito Socialista Italiano, le direttive imposte dall’alto e il sacrificio individuale.

Ne è protagonista il sempre centratissimo Gian Maria Volonté, anch’egli comunista attivissimo: proprio in quel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, carica da cui si dimise appena sei mesi dopo, motivando: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso” a dimostrazione che la purezza e l’integrità ideologica non possono andare di pari passo con l’attività politica sul campo che deve fare i conti con le varie realtà trasformando l’iniziale ideologia in fatti concreti. A latere bisogna sempre ricordare che quelli erano i cosiddetti anni di piombo (modo di dire derivato dal film omonimo del 1981 della tedesca Margarethe Von Trotta) del terrorismo di destra e sinistra che aveva fatto del territorio italiano un campo di battaglia, si suppone col supporto dei servizi segreti americani che temevano l’espandersi della comunista Russia nell’Europa Occidentale: già nel film si parla dell’Unione Sovietica come ideologico faro dell’umanità. E anche in tale contesto va collocata l’ispirazione politica di autore e protagonista.

Fanno da contorno a Volonté un insolito Renato Salvatori per chi lo ricorda brillante giovanottone che era arrivato al successo negli anni ’50 con la trilogia di Dino Risi dei “Poveri ma belli” e, nonostante fosse quasi sempre doppiato ebbe anche bei ruoli in film drammatici; ma per Salvatori quegli anni ’70 erano già gli anni del declino: aveva ceduto all’alcolismo e consequenzialmente veniva chiamato per ruoli meno impegnativi benché sempre tenuto in considerazione da amici e colleghi; morirà 55enne di cirrosi epatica. Nel ruolo della dirigente italiana in esilio a Parigi c’è la parigina Annie Girardot, amica di famiglia essendo l’ex moglie di Salvatori con il quale era rimasta in affettuosi rapporti: si erano conosciuti nel 1960 sul set di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, film che peraltro segnò l’apice della carriera di lui come interprete drammatico. Nel ruolo di un altro dirigente di partito c’è il torinese doc Felice Andreasi che era appena divenuto noto come ospite fisso del televisivo “Il poeta e il contadino” condotto da Cochi e Renato. Chiude il cast dei ruoli principali il sempre eccellente Pietro Biondi, l’unico ancora in vita fra gli elencati, nel ruolo del monologante agente dell’OVRA, la polizia politica fascista. Accreditato nel cast benché con un ruolo da figurante in campo lunghissimo c’è l’emergente Gabriele Lavia che già al cinema aveva avuto ruoli da protagonista: si suppone che il suo personaggio si sia perso in sala di montaggio.

protagonista e regista

L’occasione della scomparsa di Citto Maselli mi accende la curiosità sulla sua filmografia che non ho mai frequentato, con un focus sui lavori collettivi, i cosiddetti film a episodi, e quelli più onestamente politici e documentaristici. Nel 1981 Maselli ha confessato a Paese Sera: “Ho un’ambizione che non ho mai rivelato a nessuno, nemmeno a me stesso. È quella di essere dimenticato come regista e riscoperto, invece, come fotografo… La cosa più orribilmente sincera che abbia mai detto.” E inquadrati in quest’ottica i suoi film sono più fotografici che narrativi, nel senso che staticamente si focalizzano su personaggi e situazioni senza raccontarne lo sviluppo, la dinamicità, il divenire, e in questo modo congelando ogni afflato emotivo. Interessante la sua svolta negli anni ’80 con quattro film incentrati sulla donna: “Storia d’amore” del 1986 gran successo al Festival di Venezia dove l’autore vince il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria mentre alla protagonista Valeria Golino va la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Nel 1988 segue lo sperimentale “Codice privato” con Ornella Muti unica interprete del film, nominata ai David di Donatello, ai Nastri d’Argento agli European Film Awards e vincitrice del Ciak d’Oro. Del 1990 sono gli altri due film con protagonista Nastassja Kinski, “L’alba” e “Il segreto”, film però entrambi clamorosamente bocciati dalla critica senza dire che il pubblico li ha praticamente ignorati.

Francesco Maselli, oltre a essere cineasta non ha mai abbandonato l’attività politica dedicandosi in particolare alla scrittura saggistica e mantenendo il suo ruolo, fondamentale, come militante della sinistra italiana. Nel 2001 dette vita alla Fondazione Cinema nel Presente riunendo una trentina di autori rappresentativi di tutte le generazioni del cinema italiano, fra i quali: Francesca Comencini, Wilma Labate, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Ettore Scola e Pasquale Scimeca; fondazione che produrrà molti di quei documentari collettivi in cui ha dato il meglio di sé. Andiamo a riscoprirlo.

La passeggiata – opera prima di Renato Rascel

Opera prima e anche unica dato che fu un clamoroso insuccesso per l’artista che volle fare il passo più lungo della gamba, ma andiamo con ordine.

Su YouTube il film completo… anzi no, incompleto: manca il vero finale

Renato Rascel nato Renato Ranucci nel 1912, dunque quest’anno sono 110 anni dalla nascita, fu un figlio d’arte che casualmente nacque a Torino dove i genitori romani erano in tournée: il padre cantante d’operetta e la madre ballerina. Il bambino crebbe a Roma affidato a una zia dati i continui spostamenti dei genitori, e poiché il frutto non cade mai lontano dall’albero, Renatino già a dieci anni canta nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina, poiché crescendo nel rione Borgo a ridosso del Vaticano frequentava la Scuola Pontificia Pio IX; e sempre in quegli anni preadolescenziali si esibisce addirittura alla batteria di un complessino jazz di dilettanti, e a seguire debutta come attore bambino sotto la direzione del padre che nel frattempo era divenuto direttore di una compagnia filodrammatica. Ma papà Ranucci, che sulle sue spalle aveva la consapevolezza di quanto potesse essere dura una carriera artistica, interruppe lì l’esperimento attoriale del ragazzino e tentò di avviarlo verso mestieri più tradizionali, ancorché umili: garzone di barbiere, muratore e anche apprendista calderaio; ma il danno era già fatto, il ragazzo aveva già assaggiato il velenoso brivido dell’esibirsi in pubblico, ed essendo anche talentuoso, ancora tredicenne venne scritturato come musicista presso un locale capitolino, e due anni dopo entra a far parte di un complesso musicale e lì un impresario teatrale, notando la sua simpatica esuberanza, lo spinge ad esibirsi in improvvisazione estemporanee durante le pause del complesso, numeri di arte varia e balletti inventati lì per lì che divertono molto la platea con la sua freschezza naïf. Nasce così l’arte varia di Renato Rascel: attore, comico, ballerino, musicista, cantante, cantautore e più avanti conduttore televisivo e anche giornalista. La sua comicità sarà di un segno nuovo rispetto al classico panorama dell’epoca, dove la risata era strappata grazie a doppi sensi sessuali più o meno espliciti, e comunque sempre di grana grossa; lui, che ancora bambino aveva imparato a improvvisare, crea un personaggio originale, una nuova maschera: un omino dall’aria candida che esprime una comicità più ingenua – ma anche finta ingenua all’occorrenza – attraverso monologhi surreali ricchi di ardite sperimentazioni linguistiche che lasciano molto indietro la comicità fin lì fatta di più grevi qui pro quo; le sue esibizioni verbali sono invenzioni estemporanee con repentini cambi di prospettiva che spiazzano il pubblico, che sulle prime non lo comprende, e anche fisicamente si impegna con pantomime grottesche al limite dell’acrobatico, possedendo nella piccola statura doti atletiche non comuni.

Scatola vintage madreperlata di cipria Diadermina della Rachel

Ventenne, all’inizio degli anni Trenta e già con un lungo tirocinio in compagnie di varietà di second’ordine, il giovanotto decide di scegliersi un nome d’arte, e come si usava all’epoca ispirandosi al favoloso e favoleggiato varietà d’oltralpe con quei nomi scivolosi ed eleganti: sceglie il nome di una cipria francese che usava in camerino, la Rachel con pronuncia rascèl, ma poiché quel nome, stampato sui manifesti veniva erroneamente letto così com’era scritto, all’italiana, Rachel con accento sulla A e dunque pronunciato ràkel, Renato pensò bene di italianizzare il segno CH in SC, quantunque il nome finì con l’essere pronunciato sempre Ràscel. Italianizzazione che però non bastò a quei dettami fascisti emanati da Achille Starace secondo i quali tutti i nomi tronchi dovevano finire con una vocale per essere italianizzati, e gli fu intimato di cambiare il nome in Rascèle, ma il giovanotto pare che non si fece passare la mosca sotto al naso e replicò: “Cambiate prima Manin in Manino e poi ne riparliamo!” e da lì in poi i suoi rapporti col regime non furono dei più cordiali.

È del 1939, dunque a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, l’invenzione di “È arrivata la bufera” in cui, all’interno di quei versi surreali, il ritornello “È arrivata la bufera / è arrivato il temporale / chi sta bene e chi sta male / e chi sta come gli par” fa presagire l’arrivo di ben altra bufera, e in quattro versi tutta l’espressione dei vari comportamenti sociali e politici. E i burocrati fascisti, che come tutti gli estremisti d’ogni fede mancano di fantasia e ironia, lo braccano ripetutamente perché si ostinano a voler leggere nei testi bizzarri delle sue canzoncine chissà quali significati nascosti ed eversivi; stiamo parlando di titoli come “Torna a casa che mamma ha buttato la pasta” e “La canzone della zanzara tubercolotica“. Ma Renato Rascel si prenderà la sua rivincita nel film a episodi “Gran varietà” del 1953 diretto da Domenico Paolella, in cui fa la parodia di uno di quei burocrati nell’episodio “Il censore” in cui interpreta se stesso e in doppio ruolo il censore fascista, di certo partecipando alla sceneggiatura anche se non accreditato.

Aveva debuttato come attore cinematografico nel 1942 in “Pazzo d’amore”, un film che Vittorio Metz, anche regista, scrisse per lui dopo averlo visto al varietà, ma con scarsi risultati, dato che il film è piuttosto goffo e non mette a fuoco la comicità di Rascel, che inspiegabilmente è anche doppiato, forse perché al momento del doppiaggio l’attore era impegnato in tournée, cosa che all’epoca e in quegli ambienti accadeva sovente. Con la successiva caduta del fascismo e l’occupazione nazista di Roma, Rascel e la sua novella sposa, la showgirl Tina De Mola, sono costretti a darsi alla macchia perché invisi al regime e riparano, ovviamente dati i trascorsi del ragazzo Renato Ranucci, in Vaticano. Con gli anni ’50 continua la sua attività sia teatrale che cinematografica con una punta di diamante nel 1952: “Il cappotto” diretto da Alberto Lattuada e tratto dal racconto omonimo di Gogol è la sua prima interpretazione drammatica che gli frutterà il Nastro d’Argento ma anche la delusione per avere sfiorato il premio come migliore attore a Cannes, che quell’anno andò a Marlon Brando per “Viva Zapata!” di Elia Kazan, e scusate se è poco.

A quel punto, e siamo nel 1953, Rascel si mette in testa di voler continuare su quella strada per accreditarsi come un vero attore, uno di quelli seri e drammatici da premi prestigiosi, e per dare continuità al suo nuovo percorso appena iniziato si focalizza su un altro racconto di Gogol, “La prospettiva Nevskij”, con l’intento di assumerne anche la regia, ahilui, perché la strada si fa tutta in salita dato che per i produttori lui rimane un attore comico, da varietà, casualmente passato al drammatico e, soprattutto, ben diretto da un vero regista: che ora anche lui aspirasse alla regia non era credibile, anche perché Rascel non era scrittore né men che meno sceneggiatore e per scrivere il film aveva messo insieme una corposa squadra di tutto rispetto coinvolgendo i professionisti che avevano partecipato al progetto di “Il cappotto”: il neoregista Franco Rossi che aveva debuttato l’anno prima col poliziesco “I falsari” scritto da Ugo Guerra, e da cui Rascel si farà affiancare nella sua regia per la parte tecnica: era consapevole dell’inesperienza; lo stesso Ugo Guerra, anch’egli a inizio carriera e che si affermerà come sceneggiatore e produttore; e gli scrittori e drammaturghi Diego Fabbri, Turi Vasile e Giorgio Prosperi; ma fu col coinvolgimento del veterano Cesare Zavattini che riuscì a chiudere il pacchetto vincente e si assicurò la produzione della cattolica – guarda un po’ – Film Costellazione che con lungimiranza aveva già in produzione un altro regista debuttante, Antonio Pietrangeli con “Il sole negli occhi”, e la lavorazione del film prese il via, con la vicenda di nuovo trasferita da San Pietroburgo a Roma e con tante di quelle libertà narrative da far dire alla critica dell’epoca che il film non aveva più nulla a che vedere col racconto di Gogol che, per chi lo volesse leggere, lo trova a questo link.

Il racconto russo si apre con una lunga descrizione della più importante via di Pietroburgo, la Prospettiva Nevskij appunto, brulicante di varia umanità nella quale l’autore sceglie i suoi protagonisti. Rispettando l’ispirazione il film italiano viene intitolato “La passeggiata”, ma impropriamente perché nel film non c’è nessuna introduzione descrittiva di qualsivoglia centrale via romana altrettanto brulicante di varia umanità, e l’unica passeggiata che vi si racconta è quella che avviene alla fine del film, in calesse, sull’Appia Antica. E da lì in poi il racconto sviluppato da Rascel e dalla sua squadra di sceneggiatori vive di vita propria, con il clamoroso errore di aver voluto inserire in una vicenda drammatica dei momenti di comicità surreale, fatti di pantomime, il cui accostamento immediato e dichiarato è quello con Charlie Chaplin, senza però averne la grandezza narrativa e senza padroneggiare il linguaggio cinematografico: se con Charlot i momenti surreali si integravano nel dramma, qui rimangono siparietti a sé stanti. A questo si aggiunge il problema della censura, assai pressante all’epoca: passando dal fascismo al catto-centrismo della Democrazia Cristiana non era cambiato praticamente nulla nell’imposizione di direttive morali, e gli sceneggiatori si autocensurano già in sede di scrittura scegliendo di non raccontare la tossicodipendenza del protagonista, e di fare della prostituta e delle sue volgarità una elegantissima e forbita dama, un po’ principessa delle favole e un po’ fata madrina, alla quale vengono pure immillati afflati di maternità insoddisfatta e dolente; ma per la censura il punto più scabroso sul quale intervenne con uno specifico divieto fu il suicidio del protagonista alla fine della storia, quando il poverino non riesce a realizzare il suo sogno d’amore e si suicida: giammai un suicidio poteva essere raccontato al cinema, ché se durante il Ventennio di vent’anni prima era da pusillanimi senza nerbo, in quell’oggi era perverso e anti cristiano.

La prostituta del film, assai sui generis e molto gran dama, è interpretata da una bravissima Valentina Cortese, già diva del cinema e del teatro, che recita con grande naturalezza, assai moderna, un personaggio assai improbabile nella scrittura. Paolo Stoppa, altro divo cine-teatrale dell’epoca sempre caratterista al cinema, rifà uno dei suoi tanti riusciti cliché come preside del collegio dove il protagonista insegna. Altri volti riconoscibile da chi ha superato gli anta sono Francesco Mulè come altro insegnante e l’elegante Tino Bianchi, volto assai noto degli sceneggiati Rai, qui come politico affascinato dalla folgorante bellezza della prostituta in libera uscita come donna dei sogni d’ognuno.

All’inizio del film programmato dalla meritevole Cine34 – che facendo passare film d’ogni genere sia vintage che vecchi e stravecchi ha il merito di proporre vere rarità – c’è un cartello che spiega: “La copia del film che state per vedere è il risultato di un lavoro di ‘collazione’ basato sulle due copie d’archivio 35mm conservate dalla Cineteca Nazionale, di cui una a colori e con sottotitoli in inglese, e l’altra in bianco e nero. La prima copia di un ‘autarchico ed inconfondibile Ferraniacolor’ – corrisponde ad una versione breve del film – forse accorciata per la distribuzione estera oppure ‘mutilata’ per ragioni di censura a noi sconosciute. Il taglio dei 20 minuti del finale sono stati quindi ricollocati proprio nel punto dove il protagonista viene cacciato dal collegio, scena che concludeva il film… Nel proseguimento in bianco e nero – Paolo interpretato da Renato Rascel – prosegue la sua vicenda d’amore con la prostituta Lisa interpretata da Valentina Cortese… Il lavoro di ricostruzione è stato realizzato dalla Cineteca Nazionale.” La versione disponibile su YouTube è quella breve, mutila, mentre per la versione completa bisogna stare al passo con la programmazione tv di Cine34 che ripropone ciclicamente tutti i film che ha in repertorio, e anche se un film imperfetto e velleitario vale la pena vederlo come documento d’epoca, e opera unica di un personaggio altrettanto unico come Renato Rascel.

Che, va detto, acquisì anche fama internazionale con la sua canzone “Arrivederci Roma” che spopolerà in America, tanto da spingere un produttore di Hollywood a metterlo in coppia col tenore italo-americano Mario Lanza e nel 1957 viene confezionato il film “The Seven Hills of Rome”, con Marisa Allasio nel cast e Roy Rowland alla regia, che da noi verrà distribuito col titolo della canzone di Rascel che Lanza canta nel film, e a seguire sarà un successo che canteranno anche Dean Martin, Johnny Mathis, Perry Como, Nat King Cole… In quello stesso anno Rascel viene contattato dal cantant’attore francese Tino Rossi che gli chiede l’autorizzazione a incidere in francese quella canzone, e poiché da cosa nasce cosa con stima reciproca, Renato Rascel finì con lo scrivere tutta la partitura musicale dell’operetta “Naples au baiser de feu” da un racconto di Auguste Bailly che già era diventato un film americano come “La fiamma e la carne” di Richard Brooks con Lana Turner; e quando l’operetta andò in scena a Parigi, il piccolo grande Renato Rascel salì sul podio nell’inusuale ruolo di direttore d’orchestra.

E nel 1960 vince a Sanremo con “Romantica” cantata in doppio con Tony Dallara, la cui versione da cantante urlatore avrà più successo di quella sussurrata e romantica dell’autore Rascel, che se ci rimane male come cantante è però contento di incassare i diritti d’autore; per quella canzone viene però accusato di plagio da tale Nicola Festa, veterinario e musicista, autore di “Angiulella” dalla quale a suo dire Rascel avrebbe copiato: a dirimere la disputa musical-legale venne addirittura interpellato Igor Stravinski che emise sentenza a favore del nostro. Il suo ultimo impegno come attore sarà nel 1977 con un piccolo ma significativo ruolo nella miniserie tv “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli. Tutto il resto saranno partecipazioni nei varietà televisivi dove sempre più anziano riproporrà i suoi successi di sempre. Muore 79enne in conseguenza a un’arteriosclerosi.

Noi siamo 2 evasi – nel centenario della nascita di Raimondo Vianello

Ricordiamo Raimondo Vianello, un altro della classe del ’22, come già abbiamo ricordato Pier Paolo Pasolini, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi che con Vianello formò una coppia di successo nella nascente Rai Radiotelevisione Italiana e che quello stesso anno, il 1959, girarono insieme altri due film, mentre il solo Tognazzi in quell’anno partecipò a ben 14 pellicole, nel segno di una fiorentissima carriera che avrebbe lasciato indietro l’amico Vianello che cinematograficamente non fu mai protagonista assoluto, ma che resta nei nostri ricordi come gran signore della televisione in coppia con la moglie Sandra Mondaini. E come vediamo nel manifesto e nei titoli il suo nome viene terzo dopo Tognazzi e la francese Magali Noël, già attrice e cantante di successo in patria che aveva varcato le Alpi l’anno prima per girare da protagonista “È arrivata la parigina” di Camillo Mastrocinque ma che resta scolpita nel nostro immaginario per i tre film girati con Federico Fellini.

Raimondo nacque a Roma da padre veneto con carriera nella marina militare e dunque soggetto a diversi spostamenti, e con dei quarti di nobiltà per parte di madre che gli conferiranno la sua innegabile eleganza nell’esprimere una comicità, a volte anche noir, più all’inglese rispetto a quella del suo compagno di scena più sanguigno: diversi e complementari. Da adolescente conobbe al liceo il coetaneo Vittorio Gassmann (che poi avrebbe tolto una N al cognome tedesco, doppia consonante recuperata dal figlio Alessandro) quando ancora entrambi non pensavano alla carriera artistica. Neolaureato in giurisprudenza con voti scarsi si dette alla carriera militare e fu sottufficiale dei Bersaglieri, e come tale aderì alla nascente Repubblica Sociale Italiana, anche nota come Repubblica di Salò, che s’instaurò nel Nord Italia fra il 1943 e il 1945: gli Alleati erano già sbarcati in Sicilia risalendo il territorio italiano fino a Napoli, e da Roma in su venne istituito quel regime come cuscinetto e baluardo all’avanzata degli Anglo-Americani, voluto da Adolf Hitler e guidato da Benito Mussolini. Alla fine della guerra e con la caduta del regime nazi-fascista, Vianello fu detenuto nel campo di prigionia creato dagli Alleati a Coltano, presso Pisa, dove si ritrovò – per restare nell’ambito dello spettacolo – con Enrico Maria Salerno, altro giovincello che affascinato dal Fascio aveva aderito alla Repubblica di Salò; con Walter Chiari, che era passato attraverso vari impieghi senza ancora capire cosa fare nella vita e si era arruolato nella Xª Flottiglia MAS e da lì, con un bel salto di qualità, era passato nella Wehrmacht e inviato a combattere in Normandia dove fu leggermente ferito durante il D-Day; altro nome di spicco è Dario Fo, che avendo ricevuto la cartolina precetto della neonata Repubblica si arruolò come volontario nell’esercito fascista, finendo anche lui nel campo e con molte aspre polemiche nei successivi anni ’70 quando diventerà un intellettuale di spicco della sinistra italiana. Anche Tognazzi fu un giovane camerata che aderì alla Brigata Nera della sua Cremona dopo che l’8 settembre del 1943 fu firmato l’armistizio con gli Alleati, ma di questo nelle sue biografie pubbliche non rimane traccia. Altrettanto, Giorgio Albertazzi, con più gravi e precise responsabilità, fu un repubblichino che invece che al campo fu mandato in carcere, dove rimase due anni e poi amnistiato, perché accusato di collaborazionismo e di aver comandato un plotone per l’esecuzione di un partigiano, tutte accuse che lui ha sempre rigettato.

Raimondo Vianello con Mirko Tremaglia

Dunque, molti giovani all’epoca scelsero “la parte sbagliata” come oggi si dice con spirito di pacificazione: alcuni, come Tognazzi appunto, fecero perdere traccia del loro passato, altri rimasero fedeli alle loro idee politiche, e Vianello fu tra questi, pur mantenendo nel privato il suo credo nella consapevolezza che il mondo dello spettacolo è fondamentalmente di sinistra. Alla sua morte però molti fascisti omaggiarono sul web l’onore del camerata Vianello. Mirko Tremaglia, figura storica della destra italiana, ricorderà: “Vianello era con me al campo di prigionia di Coltano, vicino Pisa, nell’estate del ’45. Eravamo 36 mila della Repubblica sociale. Non ha mai rinnegato la sua storia. Come Tognazzi. Come Walter Chiari. Come Giorgio Albertazzi. Loro, quelli di noi che sono diventati personaggi di spettacolo, hanno contribuito molto alla pacificazione, ci hanno avvicinato alla gente.

Alla fine della guerra Raimondo si dedicò allo sport come atleta e dirigente del Centro Nazionale Sportivo Fiamma, sempre vicino all’ambiente fascista come suggerisce il nome, fondata con lo scopo di “contribuire all’elevazione della persona umana e della società in cui vive per mezzo della diffusione e della propaganda della pratica sportiva in tutte le sue forme: agonistica, formativa, ricreativa”, ideali condivisibili in ogni luogo ed epoca, se non quando diventano mezzo di propaganda per idee politiche più specifiche; ente ancora attivo, riconosciuto nel 1976 dal CONI e oggi riconosciuto come “Ente europeo di promozione sportiva, assistenziale, promozione sociale e difesa ambientale”: il tempo smussa ogni asperità. Tornando a Raimondo, non si sa come (la cronaca latita) già nel 1944 era finito sul palcoscenico con la rivista “Cantachiaro” diretta da Garinei e Giovannini e che schierava nomi come Anna Magnani e Carlo Ninchi, titolari della compagnia, oltre a Ave Ninchi cugina di Carlo, Gino Cervi, Marisa Merlini, Lea Padovani, Ernesto Calindri, Gianni Agus e Massimo Serato che era anche compagno di vita della Magnani: nomi che si avvicendarono nelle tre edizioni della rivista; Raimondo, allora come Raimondo Viani, si mise subito in evidenza e da lì il salto al cinema fu ovvio, prima con piccoli ruoli nei film di Totò, Franco e Ciccio, Renato Rascel e Walter Chiari, e poi salendo di ruolo come caratterista e spalla.

Il successo personale arrivò in tv col programma di varietà “Un due tre” che andò in onda dal 1954 al ’59 e dove fece coppia con Tognazzi col quale si era già esibito in palcoscenico fin dal 1951, una coppia che, come vediamo in questo film, funziona benissimo e che avrebbe potuto avere lunga vita come l’altra coppia cinematografica formata da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ma che con il successo personale di Tognazzi, non ebbe seguito. La chiusura forzata del programma fu decisa dopo che la coppia di burloni si permise di ironizzare su un incidente occorso al presidente Giovanni Gronchi: a una prima alla Scala di Milano, per fare il galante con una signora aveva mancato la sedia finendo col culo per terra; fatto che la stampa ignorò autocensurandosi, ma il duo Tognazzi-Vianello ripeté la scena in tv: Vianello tolse la sedia a Tognazzi che cadde per terra, e alla domanda di Vianello “Chi ti credi di essere?” Tognazzi rispose: “Be’, presto o tardi, tutti possono cadere!” La parodia costò il posto anche al direttore della sede Rai di Milano.

Al banchetto del matrimonio, di fronte a loro s’intravede l’amico Ugo

Nel 1958 durante una scrittura teatrale conobbe la sua futura compagna di vita Sandra Mondaini, che in quegli anni si stava affermando come un nuovo modello di soubrette, più ragazza della porta accanto che femme fatale. Non fu colpo di fulmine, entrambi erano già sentimentalmente impegnati, lei soprattutto stava per accasarsi, ma durante la noia di una tournée si guardarono con più attenzione e quattro anni dopo si sposarono creando anche la longeva coppia artistica di successo che sappiamo. Oltre che nella veste di presentatore e intrattenitore televisivo, quasi sempre accanto alla moglie, fu anche commentatore sportivo e per quasi un ventennio fu co-autore e protagonista con Sandra di “Casa Vianello”. Ma fu anche sceneggiatore cinematografico di commedie, l’ultima delle quali fu l’omaggio al personaggio televisivo inventato da Sandra, “Sbirulino” del 1982 diretto da Flavio Mogherini. A dieci anni dalla morte di entrambi i coniugi, nel 2020 è stato emesso un francobollo commemorativo.

Nel 1961 rifiutò di fare da spalla a Tognazzi nel film “Il federale” diretto da Luciano Salce perché metteva in ridicolo il fascismo, ma per l’amico Ugo si prestò a un cameo nel suo film d’esordio come regista di “Il mantenuto”. Negli ultimi anni Tognazzi, che morì nel 1990, insisteva perché Raimondo scrivesse un film su loro due, che mostrasse alle nuove generazioni di comici quello che si faceva quarant’anni prima, la satira politica passibile di censura, ma Raimondo continuò a declinare l’invito dicendo che sarebbero stati solo due vecchi attori patetici. Sempre nel 1961 nacque il Secondo Canale Televisivo, poi Rai 2, e un dirigente aveva chiesto a Vianello, che era stato allontanato dalla Rai, se avesse qualcosa di pronto da proporre per il nuovo palinsesto, al che lui aveva risposto “Una cosa sul papa” e le porte della Rai giust’appena ridischiuse gli si richiusero in faccia. Come non detto. Tornò in video nel 1963, per la prima volta accanto alla moglie e l’accoppiata, presentandosi rassicurante e affatto trasgressiva, si avviò al successo che sappiamo.

Il film, scritto da Castellano e Pipolo e diretto da Giorgio Simonelli, regista di commedie che aveva contribuito a creare il successo della coppia Franco e Ciccio e che dunque dirige con mano sicura un film scritto bene, è tutto al servizio della nuova coppia che passa da un travestimento all’altro, ed è farcito di battute che ancora oggi fanno sorridere nonostante non siano più fresche di giornata; un film sapientemente costruito a tavolino con dosaggi perfetti di azione e puro divertimento grottesco e surreale, passando per il sexy e con incursioni nel sentimentale con il siparietto della bella e possibile Magali Noël col povero ma bello Maurizio Arena (doppiato da Pino Locchi) qui in partecipazione straordinaria perché all’epoca divo virile e prestante insieme a Renato Salvatori della nascente commedia all’italiana; nel film c’è anche un corredo musicale di tutto rispetto curato da Carlo Rustichelli con i fondamentali interventi anche in video di Fred Buscaglione, che è autore della canzone dei titoli, e che l’anno dopo morirà 38enne in un incidente stradale; mentre Arena morirà 45enne nel 1979 per cause naturali.

Il fotogramma è colorato a posteriori dato che il film è in bianco e nero

La storia comincia con due criminali evasi, uno detto il Bello e l’altro lo Strangolatore, interpretati da Tiziano Cortini e Mirko Ellis, che vagamente somigliano a Bernardo e Camillo, Tognazzi e Vianello, i quali sono banali contabili presso un’agenzia di assicurazioni guidata con pugno di ferro da una nostalgica del regime nazista, di cui il film si fa beffe, interpretata dalla lady di ferro Titina De Filippo che ha una graziosa nipote, Sandra Mondaini già in amore con Raimondo sia nel film che nella vita; i due criminali organizzano la fuga facendosi sostituire dai due sprovveduti quasi sosia, che a loro volta fuggono diventando altrettanto due evasi che passeranno da un travestimento all’altro, anche prostitute e frati, al fine di recuperare la propria innocenza. Il film non perde un colpo ed è certamente ancora oggi molto visto su YouTube data la massiccia presenza di pubblicità, che notoriamente va dove ci sono più visualizzazioni.

Concludono il cast l’altra francese Irène Tunc (doppiata da Maria Pia Di Meo) che è un’ex Miss Francia subito importata nelle commedie italiane, e purtroppo altra morte prematura e violenta: incidente stradale a 37 anni. Olimpia Cavalli e Lilia Landi sono le due prostitute, la mora e la bionda; Maria Del Valle e l’americano Jackie Jones sono i coniugi coinvolti loro malgrado nella vicenda, e per la quota spagnola della coproduzione ci sono Josè Calvo, Julio Riscal e Josè Jaspe. Notevole Magali Noël, che nel recitato è doppiata da Rosetta Calavetta, in un’autocitazione quando nel tabarin (che nei prossimi anni ’60 si sarebbe americanizzato in night club) canta Rififi come già aveva fatto nel noir omonimo di Jules Dassin pochi anni prima.

Nanni Moretti ebbe a dire di Raimondo: “Vianello è un attore di serie A che si accontenta di giocare in serie B”, ma lui aveva un’altra opinione di sé: “Ho meritato quel che ho avuto perché non ho mai cercato niente, non mi sono impegnato. Non ci ho messo la volontà. Mi ha aiutato il caso”.