Archivi tag: willem dafoe

Povere creature! – Leone d’Oro e Oscar 2024

Ovvero quando in Italia proprio non ci azzeccano coi titoli. Dietro questo film c’è un romanzo, “Poor Things!” appunto, che l’eclettico artista scozzese Alasdair Gray diede alle stampe nel 1992 e che da noi Marcos y Marcos tradusse come “Poveracci!” che se uno lo comprava senza sapere cosa, poteva pensare che si trattasse di un romanzo inedito di Pier Paolo Pasolini sulle sue periferie romane; ma la casa editrice milanese dovette subito rendersi conto della figuraccia tant’è che lo stesso anno uscì con un’altra edizione reintitolata “Vita e misteri della prima donna medico d’Inghilterra” facendo pensare stavolta a un saggio storico su Elizabeth Blackwell che fu la prima donna a laurearsi in medicina nel 1849; doveva essere molto faticoso alla Marcos y Marcos – che orgogliosamente si sono dedicati esclusivamente alla traduzione e diffusione di letteratura straniera – pensare a un titolo più rispettoso dell’originale, magari lasciandolo così com’è dato che ormai tutti comprendiamo due parole come poor things. Risultato: le vendite non decollarono e il geniale – in patria – autore scozzese restò da noi misconosciuto. Ma con eccezionale tempismo da standing ovation (su cui indagherò) la piccola casa editrice Safarà (anch’essa con vocazione straniera dedicata alla pubblicazione di opere lontane nello spazio e nel tempo, come si legge sul sito) con sede in Pordenone, dunque periferia geografia e periferia editoriale, fa il colpaccio acquisendo per tempo i diritti ed esce in contemporanea col film al Festival di Venezia, entrambi i lavori, libro e film stavolta intitolati “Povere Creature!”: film e libro di successo.

Alasdair Gray

Il progetto del film non è cosa recente. Nel 2009 l’autore greco Yorgos Lanthimos arrivato proprio in quell’anno alla ribalta con “Dogtooth”, suo terzo lungometraggio tutto greco (il titolo originale era “Kynodontas”) incoronato miglior film al Festival di Cannes nella categoria Un Certain Regard cui seguirono le candidature al British Film Awards e all’Oscar, forte della recentissima fama acquisita in ambito internazionale, andò fino in Scozia per chiedere ad Alasdair Gray, scrittore drammaturgo e artista visivo, di concedergli i diritti del romanzo in questione, e quando arrivò a casa dello scrittore fu sorpreso dall’accoglienza: lo scozzese aveva visto e apprezzato molto il suo film e il greco lo ricambiò esprimendogli la sua ammirazione per quel romanzo che nessuno aveva mai pensato di trasporre per il cinema, fino a ispirarsene: l’inizio di “Dogtooth” e l’inizio del romanzo hanno un aspetto identico: in entrambe le narrazioni i genitori tengono i figli chiusi in casa senza nessun contatto col mondo esterno, reale. Nel film poi le cose procedono in maniera assai più inquietante che nel romanzo, il quale attraverso una narrazione pastiche rimane una favola morale con evidentissimi rimandi al Frankenstein di Mary Shelley e con richiami anche ai mondi narrativi di Arthur Conan Doyle e Lewis Carroll: il romanzo gotico fine ‘800. Da buoni nuovi amici il 75enne scozzese portò il 36enne greco in giro per Glasgow a mostrargli i luoghi reali che aveva inserito nella storia, storia che però era quanto mai irreale, lontana dagli altri suoi romanzi in cui raccontava una città più realistica con indagini sul sociale.

Alasdair Gray a una sua mostra

Le “povere cose” del romanzo, in cui l’autore inserisce anche delle tavole illustrate di propria mano firmate però con lo pseudonimo di William Strang, si muovono in una fantasiosa epoca vittoriana raccontata come iperbole per continuare a parlare dei temi cari: le disuguaglianze sociali, l’ambiguità delle relazioni interpersonali e la ricerca dell’identità – temi cari anche all’autore greco che di suo aggiunge un gusto assai noir ellenicamente intriso di eros e thanatos: il progetto prese il via restando però come lungo work in progress data la difficoltà dell’impresa.

Una delle illustrazioni di Gray: è evidente che lo stile è stato ripreso nelle scenografie del film.

I film successivi di Lanthimos si aprono alle coproduzioni internazionali e vengono girati in lingua inglese, ma restano ancora nell’ambito delle produzioni indipendenti, però con l’arrivo sui set dei primi divi: Colin Farrell, Rachel Weisz e in un ruolo secondario l’apprezzata ma non ancora nota Olivia Colman per “The Lobster” (2015) Premio della Giuria a Cannes, candidatura all’Oscar per la sceneggiatura e al Golden Globe per Colin Farrell che ha rilanciato la sua carriera che s’era avviata in fase discendente; Farrell torna nel successivo film affiancato da Nicole Kidman in “Il Sacrificio del Cervo Sacro” (2017) con la sceneggiatura premiata a Cannes più molte altre candidature in altri premi – ma sono film ancora a basso costo che trattano le tematiche noir e grottesche tipiche dell’autore. Il 2019 è l’anno della consacrazione (anche se ancora gli sfugge l’Oscar personale) col triangolo lesbico nei palazzi reali inglesi del 1700 in “La Favorita” dove per la prima volta l’autore lavora su una sceneggiatura non sua, e per il ruolo della protagonista restò fermo su Olivia Colman che vincerà Oscar e Golden Globe divenendo una delle attrici più richieste; mentre per l’altra protagonista, dopo che Kate Winslet ha lasciato il progetto, offrì il ruolo a Cate Blanchett che però ringraziando declinò; a quel punto Lanthimos ripescò Rachel Weisz che non si fece problemi nell’essere una terza scelta e anzi si disse molto stimolata considerando il ruolo come “il più succoso” della sua carriera, paragonando la sceneggiatura a “Eva contro Eva” ma più divertente perché mossa dalla passione e dal sesso.

Protagonista e regista sul set

Emma Stone si autocandidò: aveva chiesto al suo agente di metterla in contatto col regista, che dopo averla incontrata le chiese di prendersi un insegnante per acquisire l’accento british, e la Stone s’impegnò così tanto che fra i due scoccò una scintilla professionale, tanto che Lanthimos le anticipò il suo progetto su “Poor Things”.

“Dopo il relativo successo di ‘La Favorita’ – ha dichiarato il regista – dove in realtà ho realizzato un film leggermente più costoso che ha avuto successo, le persone erano più propense a permettermi di fare qualunque cosa volessi, quindi sono tornato al libro di Gray e ho detto: ‘Questo è quello che voglio fare.’ È stato un processo lungo, ma il libro era sempre nella mia mente.” Processo talmente lungo che nel 2019 Alasdair Gray se ne andò 85enne senza aver potuto vedere il film tratto dal suo romanzo: il progetto fu ufficialmente annunciato nel 2021, in piena pandemia Covid, con Emma Stone che fece il grande salto da attrice scritturata a co-produttrice: “È stato molto interessante essere coinvolta nel modo in cui il film veniva messo insieme, dal cast ai capi dipartimento a ciò che è stato messo insieme. Alla fine, Yorgos è stato colui che ha preso quelle decisioni, ma io sono stato molta coinvolta nel processo, che è iniziato durante la pandemia; stavamo contattando le persone, facendo il casting e tutto il resto durante quel periodo, perché non potevamo andare da nessuna parte.” Mentre era chiusa in casa, pensando al personaggio sperimentò di farsi una tintura che accidentalmente risultò nera corvina, cosa che non era nelle sue aspettative; ma quel look che contrastava con la sua carnagione chiara piacque al regista e decisero di mantenerlo. Nel costruire il personaggio di Bella Baxter, l’attrice era attratta dall’idea di ritrarre una donna rinata con una mentalità libera dalle pressioni sociali: “Chiaramente, questo non può realmente accadere, ma l’idea che tu possa ricominciare daccapo come donna, con un corpo già formato, e vedere tutto per la prima volta e provare a capire la natura della sessualità, o del potere, o del denaro o della scelta, la capacità di fare delle scelte e di vivere secondo le proprie regole e non quelle della società: ho pensato che fosse un mondo davvero affascinante in cui compenetrarmi. Era il personaggio più gioioso al mondo da interpretare, perché non ha vergogna di nulla. E’ nuova, sai? Non ho mai dovuto costruire un personaggio prima che non avesse cose che gli erano accadute o che non gli erano state imposte dalla società per tutta la vita. È stata un’esperienza estremamente liberatoria essere lei.”

Si proseguì con la composizione del cast e per i ruoli maschili firmarono il veterano Willem Dafoe nel ruolo del frankensteiniano creatore di Bella che ogni giorno si è sottoposto a sei ore di trucco e parrucco, e il cinematograficamente poco noto ma già premiato comico americano di origine egiziana Ramy Youssef come suo aiutante e promesso sposo della creatura: entrambi, per prepararsi ai ruoli, hanno frequentato una scuola per becchini. Mark Ruffalo prese il ruolo del fascinoso manipolatore avvocato che introduce Bella nel mondo reale pensando di poterla usare come oggetto di piacere e al contempo controllare, non immaginando che la voglia di vita di lei avrebbe preso il sopravvento scompaginando tutte le regole vittoriane sulle quali l’uomo basava ogni sua convinzione: interpretazione molto autoironica e divertente. Nel ruolo del sadico marito della prima vita della protagonista l’emergente Christopher Abbott.

Si aggiungono Margareth Qualley (figlia di Andie McDowell) come nuova creatura in sostituzione della transfuga Bella, e nel ruolo della tenutaria del bordello Kathryn Hunter nata in America da genitori greci come Aikaterini Hadjipateras e poi naturalizzata britannica: forte caratterista che per la sua fisicità viene spesso chiamata sui set di film in costume; la nera francese Suzy Bemba, vista come protagonista della serie tv francese sul balletto “L’Opéra”, è una delle prostitute; e come crocieristi sul transatlantico il filosofo nero Jerrod Carmichael che principalmente è un altro comico televisivo e la rediviva 80enne Hanna Schygulla, indimenticata star di tutti gli anni ’70 fino alla metà degli ’80, nel divertito ruolo di una vecchia ricca signora dallo spirito assai innovativo rispetto a quell’Ottocento.

Oscar anche ai costumi di Holly Waddington che ha lavorato a stretto contatto con l’autore per rendere attraverso il guardaroba la crescita e lo sviluppo di Bella, dall’infanzia con abiti gonfi al corsetto che la fascia alla fine del film; anche l’attrice produttrice ci ha messo del suo pensando che nella sua infanzia Bella si veste in modo più tradizionale (si fa per dire, visti i costumi) mentre via via che cresce sceglie di vestirsi in modo più bizzarro – in un contesto surreale e grottesco dove qualsiasi cosa è plausibile.

E Oscar anche alla scenografia firmata dagli inglesi James Price e Shona Heath a cui in un secondo tempo si è aggiunto l’ungherese Zsuzsa Mihalek per i set interamente costruiti in studio in Ungheria, con i fondali dipinti in stile vecchia Hollywood secondo la visione del regista, e partendo dalle illustrazioni che Gray aveva realizzato per illustrare il suo romanzo, Lanthimos ha invitato gli scenografi a liberare tutta la loro follia: sono stati così realizzati, oltre alle versioni in miniatura per i campi lunghi, quattro enormi set in stile Escher, con versioni distorte e vertiginose delle capitali europee in cui Bella viaggia, come visioni nate dalla fantasia del personaggio ancora bambina.

Distorsioni visive accentuata anche dalla visione registica che col direttore della fotografia Robbie Rayan (candidato) hanno usato spessissimo le lenti deformanti come il grandangolo e il fish-eye. Un altro compiacimento autorale è l’uso del bianco e nero in molte sequenze all’inizio del film, che è generalmente gradevole pur senza essere compreso appieno, e qui arrivano le dotte spiegazioni: Lanthimos parte dal fatto che secondo eminenti studi i neonati cominciano a vedere il mondo in bianco e nero e solo dopo, lentamente, cominciano a riconoscere i colori: dunque il b/n del film è lo stato mentale della rinata Bella. Inoltre il b/n, sempre nelle intenzioni del regista, rimanda ai primi film horror con Frankenstein. Io da solo come spettatore medio non c’ero arrivato.

Oscar anche a trucco e acconciature di Nadia Stacey, Mark Coulier Josh Weston. Non premiato con l’Oscar come Miglior Film, categoria che invece è stata premiata ai Golden Globe insieme alla protagonista, e con il Leone d’Oro al Festival di Venezia. Solo candidatura per la sceneggiatura firmata dall’australiano Tony McNamara (di nuovo l’autore si è fatto da parte come sceneggiatore) e per i non protagonisti Willem Dafoe e Mark Ruffalo; solo nomination anche per il musicista Jerskin Fendrix qui debuttante come compositore di colonna sonora.

Ariane Lebed

E poiché Yorgos Lanthimos non se ne sta con le mani in mano, fra un film e l’altro ha realizzato due cortometraggi che è il caso di definire d’autore: nel 2019 con Matt Dillon ha realizzato “Nimic” e nel 2022 durante la lavorazione di “Poor Things” con Emma Stone ha girato “Bleat”, cortometraggi che sarebbe interessante andare a vedere. E al momento sta già ultimando il prossimo film “Kind of Kindness” di cui pochissimo si sa, se non che è stato girato a New Orleans e che dovrebbe uscire la prossima estate; nel cast di nuovo la Stone con Willem Dafoe e Margareth Qualley, ma stavolta è tornato a scrivere lui la sua sceneggiatura col suo amico di sempre Efthimis Filippou; e ricordiamoci, ora che è diventato una star hollywoodiana, che deve ancora piazzare anche la moglie attrice francese Ariane Labed per la quale, oltre a un ruolo di cameriera in “Lobster” non ha ancora trovato una parte succosa; intanto lei è l’altra protagonista della serie francese “L’Opéra” insieme a Suzy Bemba: si suppone che il colore della pelle nelle grandi produzioni sia determinante per l’assegnazione delle quote etniche.

Già si parla del prossimo film sempre con la Stone, perché squadra vincente non si cambia (a meno che un pettegolezzo dell’ultim’ora non ci sveli una loro relazione anche amorosa) che dovrebbe essere il remake della commedia fantasy sud-coreana “Save the green planet”: staremo a vedere cosa accadrà sui grandi schermi e sui grandi rotocalchi. Loro intanto, regista e attrice, interrogati dalla stampa, scherzano: “Facciamo schifo, e lo sappiamo. Perciò ci continuiamo a provare!”

Da qui in poi non si parla più del film ma di finanza ed editoria.

Gennaio 2016. La Elgo Holding con sede a Londra che è proprietaria di oltre 25 aziende sparse nel mondo, ha investito nell’assetto societario dell’azienda pordenonese dmyzero srl che si occupa di comunicazione aziendale ed editoria avendo creato un’innovativa sintesi fra i due settori: due marchi che hanno unito le loro storie per creare una realtà unica e condivisa, capace di evolvere insieme nel tempo: la D’Orsi Studio che opera nell’ambito della comunicazione visiva ai più diversi livelli e la Safarà Editore, una casa editrice che si dedica alla pubblicazione di letteratura e saggistica internazionale e che è tra le 58 case editrici europee vincitrici del bando Europa Creativa, un programma che premia la traduzione e promozione di opere letterarie di qualità firmate da autori provenienti dai più diversi paesi dell’Unione Europea. Elgo, scegliendo D’Orsi Studio per sviluppare la comunicazione delle oltre 25 aziende del gruppo, ha acquisito anche la casa editrice con l’intento di sviluppare importanti progetti editoriali di levatura mondiale. Da qui la dritta della più o meno imminente realizzazione del film dal romanzo già malamente edito in Italia. Marcos y Marcos che ne deteneva i diritti per l’Italia è stata ben lieta di sbarazzarsene e Safarà, che nasconde la longa manus di Elgo, ha fatto il colpaccio. Se è vero che bisogna trovarsi al posto giusto nel momento giusto, è anche vero quello che diceva mia nonna: i soldi fanno i soldi e i pidocchi fanno i pidocchi.

Zack Snyder’s Justice League

4 ore di film. Che sorprendentemente non stanca, se non fosse per le umane contingenti necessità: la pipì, un caffè… Ma la fascinazione e la tensione narrativa sono tali che non si vuole interrompere, e non si vede l’ora di togliere dalla pausa la visione casalinga a cui la pandemia ha consegnato quest’opera magna, ché di questo si tratta. E non bisogna essere dei nerd appassionati dei fumetti DC Comics, o degli adolescenti ossessionati dai supereroi, per apprezzare questo film che ha il respiro solenne di quei classici del cinema dove l’eroe era sempre solitario e con qualcosa in più: Spartacus, Ben-Hur, Ercole, ma anche Mosè e Gesù e Lawrence d’Arabia e, unica donna eroina del cinema epico, Cleopatra; personaggi il cui super potere era la forza fisica ma anche l’integrità morale, o l’astuzia, o la fede, come anche l’orgoglio o l’amore o la follia, una caratteristica che diventata estrema si fa segno caratteristico e, dunque, super potere. Chi non ha amato quei film?

The Great Comic Book Conflagration | Lapham's Quarterly

Ciò che ci tiene lontani dall’universo dei moderni super eroi è la loro modernità. Segno del nostro disprezzo aprioristico per tutto ciò che non sia classico, che non venga dalla letteratura alta o dai miti della nostra storia millenaria. Questi sono eroi in maschera, che abitano una mitologia nata dalla fantasia di nostri contemporanei d’oltre oceano come letteratura di quart’ordine per ragazzi, da leggere nel tempo libero o di nascosto; fino a quando questa letteratura non è esplosa come fenomeno di massa che ha spinto di lato sugli scaffali i classici, e gli scarni albi a fumetti sono diventati patinati libri di graphic novels per quei ragazzini che diventando adulti si sono affrancati dai sensi di colpa e di inferiorità e hanno scelto di credere in Superman.

Justice League, tutti gli Easter Egg nascosti nella Snyder Cut!

A mio avviso è questo il senso del contendere: è in atto una rivoluzione culturale dove un Paese relativamente nuovo ma soprattutto potente e pervasivo, gli Stati Uniti, sta ridisegnando per sé, ed esportando nel mondo, una nuova mitologia fatta a proprio consumo e a propria somiglianza, che non disdegna di cercare connessioni con le vecchie mitologie europee così come non si fa scrupolo nel polverizzarle per impastare nuovi idoli. Il punto è che siamo coevi e testimoni di questo cambiamento e – o restiamo indietro fedeli agli antichi miti – o ci incamminiamo in questo futuro incerto e in continua trasformazione. I sacerdoti non abitano più all’ombra delle piramidi o nei retrobottega del Monte Olimpo, e anche lo sfarzo ostentato del Vaticano è in crisi di identità, mentre dalle parti della Mecca continuano a girare attorno al monolite nero avvitandosi su se stessi in un passato sterile che, senza un suo futuro, vuole imporsi nel nostro con la forza. Gli dèi indù respirano lievi e in buona salute rinvigorendosi nelle teorie degli antichi visitatori alieni, mentre i filosofi con gli occhi a mandorla seguono il mondo con sempiterno distacco. E in questo vecchio mondo così ricco di espressioni mitiche, i nuovi sacerdoti americani ancora non sanno di essere dei sacerdoti e operano per quello che al momento sono: creatori di fumetti e di film fantasy, inventori di miti che hanno già nel mondo milioni di adepti. E l’azione di fede richiesta è onesta e dichiarata: compri, paghi, leggi, vedi. Non c’è l’inganno del sacrificio da offrire, dell’obolo da dare, dell’indulgenza da acquistare o dell’otto-per-mille da versare. Del resto sono già del 1971 i “New Gods”, il gruppo dei primi supereroi DC Comics inventati e disegnata da Jack Kirby, e a cui questa Lega di Giustizieri si ispira direttamente.

Tu lo conosci, Joker?

Il punto è che in questa rivoluzione in atto ci sono molti creatori con visioni diverse, differenti espressioni creative che immaginano mondi diversi che poi entrano in collisione fra loro, personaggi che in un mondo vivono e in un altro muoiono – e allora che si fa? Ecco il multiverso, il multi universo, i mondi paralleli dove possono esistere contemporaneamente i diversi scismi, cattolici protestanti e ortodossi che coesistono senza più darsi battaglia e ognuno raccontare il mondo che vuole, il Batman di Christian Bale che convive col Batman di Ben Affleck, il Joker di Heath Ledger che vivrà per sempre nonostante quello di Jack Nicholson, mentre il Joker di Jared Leto sfida dal multiverso il Joker di Joaquin Phoenix. Per dirne una: Harley Quinn qui è morta per mano dell’ex fidanzato Joker ma in un altro universo cinematografico, “Birds of Prey” è viva e vegeta. Ma questo multiverso è al momento un mondo ideale verso cui aspirare, chiusi in casa davanti ai nostri personali schermi, al riparo da virus pandemici, senza più gli scontri fisici e sanguinari dei crociati o il pericolo degli ordigni esplosivi nei bar, dove guardiamo combattere i nostri nuovi dèi che possiamo mettere in pausa quando vogliamo.

Superman: il mantello usato da Christopher Reeve è il più costoso tra  quelli per supereroi

Zack Snyder debutta come regista nel 2004 con “La notte dei morti viventi”, blockbuster remake del capolavoro horror dell’allora debuttante (1968) George A. Romero. Continua con un altro campione d’incassi e firma la regia di “300” dalla graphic novel di George Miller. Ma è nel 2013 che entra nell’universo DC Comics col suo Superman “L’Uomo d’Acciaio”. Prima di questo Superman ricordavamo i quattro film con Christopher Reeve degli anni ’80. Nel 2006 c’è stato il “Batman Returns” firmato da Bryan Singer in libera uscita dagli X-Men della Marvel, e benché generalmente apprezzato dalla critica, a parte il protagonista Brandon Routh, non ha incassato quanto sperato ed è rimasto un episodio unico. Si arriva dunque all’idea di un altro reboot e il pacchetto – con il beneplacito di Christopher Nolan fra i produttori, già regista della rilettura dark e decadente della trilogia di Batman con Chrstian Bale – viene affidato a Zack Snyder, che ne condivide la visionarietà: siamo in un’epoca in cui i supereroi perdono innocenza e purezza e si incupiscono come gli umani su cui dovrebbero vegliare. I supereroi ora soffrono come noi umani, hanno dubbi e sensi di colpa, sentono la loro inadeguatezza e patiscono anche fragilità sentimentali: se da un lato ci consola vederli uguali a noi, dall’altro non ci fanno più sognare l’alterità della perfezione dei muscoli dell’intelligenza e dei superpoteri: sognavamo di affrancarci nel loro Olimpo e invece sono scesi fra noi. Le maschere acquisiscono umana complessità e psicologica profondità. E’ come se Arlecchino soffrisse di disturbo della personalità o Colombina di scarsa autostima femminile: non ci sono più certezze, non c’è più un supereroe che risponde alle nostre domande perché troppo impegnato a dipanare i propri dubbi, il futuro è apocalittico e senza lieti fine, lo schermo non è più fatto di colori puliti ed è un grigio mondo polveroso e post apocalittico.

Who Are Zack Snyder's Kids? A Look at His Personal Life and Children
La famiglia Snyder, Autumn è la terza da destra

Dopo “L’Uomo d’Acciaio” Zack Snyder ci serve la morte di Superman in “Batman V Superman: Down of Justice” che è anche il debutto di Ben Affleck come Uomo Ragno, un Batman stazzonato e con la barba incolta che niente ha da invidiare al Cavaliere Oscuro di Christian Bale e Christopher Nolan. Ed eccoci al terzo capitolo, quel “Justice League” che ha causato tanti guai. Circa a metà lavorazione il regista ha lasciato il set a causa di un grave lutto personale: la figlia 20enne Autumn muore suicida per cause mantenute riservate. Il regista Joss Whedon, già nel novero degli sceneggiatori, viene scelto da Snyder per concludere le riprese e curare la post produzione, che in film di questa portata e di questo genere sono un fondamentale segmento di regia. Il progetto sfugge di mano e il risultato è un film bocciato su tutti i fronti. A quel punto, critica e fan, ormai pienamente consapevoli di quanto fosse accaduto alla lavorazione, hanno cominciato a chiedersi cosa avrebbe potuto essere il film che non è più stato – e si è crea una petizione, cui hanno aderito anche alcuni membri del cast e della produzione, per avere uno Snyder Cut, una versione rivista e corretta dal regista.

Roberto Recchioni's - Zack Snyder's Justice League - La Recensione

Ma la Warner Bros. dichiarò che non era prevista la distribuzione di nessuna versione alternativa del film e anzi era già in lavorazione il sequel. Salvo poi cedere alle enormi pressioni – che in termini economici erano potenzialmente gli enormi profitti che “Justice League” non aveva garantito – e annunciare nel maggio 2020, in piena pandemia, che ci sarebbe stata la director’s cut distribuita on demand da HBO Max nel formato di miniserie di quattro episodi da un’ora.

il-casanova-di-federico-fellini-locandina-italiana-264035 - Chiamamicitta

Che nella versione del regista, ora al timone dell’operazione, per la quale ha ricevuto carta bianca e anche altri soldi per girare nuove scene, è diventato questo film di quattro ore completamente nuovo, col suo nome nel titolo, anche più grosso del titolo, cosa che a mia memoria era solo accaduto per “Il Casanova di Federico Fellini” nel 1976, e solo dopo che Fellini aveva lavorato per decenni mentre Zach Snyder è arrivato a questo in quindici anni circa. (Se ci sono altri film col nome del regista nel titolo per favore fatemi sapere così li aggiungo.)

Zack Snyder's Justice League - Film (2021)

Molto del materiale pubblicitario è in bianco e nero e il film è stato rilasciato nel formato 4:3, il quasi quadrato molto in uso fino agli anni ’50, che è anche l’ultimo periodo glorioso del bianco e nero. Ma probabilmente questa ispirazione (che io direi glamorous) e l’onda pubblicitaria da cavalcare sono venute dopo. La ragione sterilmente tecnica è che il formato era l’ideale, anche per la grande risoluzione pixel, ad essere proiettato nelle sale IMAX della HBO; ma poi è stato mantenuto anche per la sola pubblicazione on demand. L’altra ragione è che Snyder voleva una cesura e un cambio stilistico con la precedente Justice League, e va detto che aveva cominciato a sperimentare questo formato, che affascina anche il suo amico Christopher Nolan, già girando alcune scene del precedente “Batman v Superman: Dawn of Justice” che però è stato rilasciato nel classico wide screen 2,39:1. Sull’argomento il regista ha dato questa dichiarazione: “Il mio intento era che il film, l’intero film, venisse riprodotto in un gigantesco rapporto di aspetto 4:3 su uno schermo IMAX gigante. I supereroi tendono ad essere, come figure, meno orizzontali. Forse Superman quando vola, ma quando è in piedi è più in verticale. Tutto è composto e ripreso in questo modo. Si tratta di un’estetica completamente diversa.”

Zack Snyder's Justice League, recensione - Multiplayer.it

Il regista, cioè l’autore, ovvero il creatore – come definirlo? – nel ridisegnare i suoi nuovi dèi si spinge oltre il semplice o semplificante o semplicistico? – come definirlo? – film di supereroi, fumetto in movimento, e ne fa un film drammatico con l’andamento largo e solenne dei classici, dove gli eroi si mischiano alle persone reali e si prendono tutto il tempo necessario per raccontare la loro storia, umana o sovrumana poco importa, conta solo la profondità del racconto, le relazioni, l’ambiente, la personalizzazione dei singoli drammi. Sono personaggi che potrebbero essere stati raccontati da David Lean o Ingmar Bergman, da Michelangelo Antonioni o Martin Scorsese, le cui battaglie diventano apocalittiche perché è in gioco il destino dell’intera umanità. Gli effetti speciali e le scene d’azione cedono il passo ai drammi individuali che a loro volta confluiscono in un dramma epico in cui fra i comuni mortali vivono i supereroi, ma anche un essere umano il cui superpotere è la ricchezza, Bruce Wayne-Batman, e un uomo che è mezzo macchina, Victor Stone-Cyborg: una diversità di generi che pacificamente convive in un mondo ideale.

Ann Sarnoff, prima donna a ricoprire la carica di amministratore delegato della Warner Bros. (una Sorella nel regno dei Fratelli) all’uscita di “Justice League” aveva escluso sia il director’s cut che un eventuale sequel, dichiarando: “Vogliamo voci diverse. Certi fan che vogliono solo una voce potrebbero essere delusi, ma chiediamo loro di essere pazienti e di vedere quello che abbiamo in ballo, dato che anche le altre voci hanno delle storie altrettanto avvincenti da raccontare”. I fatti l’hanno smentita. E’ notizia recentissima di quest’altra sua dichiarazione: “Apprezzo che io fan adorino il lavoro di Zack e siamo molto grati per i suoi numerosi contributi alla DC. Siamo davvero felici che abbia potuto dare vita alla sua visione della Justice League perché questo non era in programma fino a circa un anno fa. Con ciò arriva il completamento della sua trilogia. Siamo molto felici di averlo fatto, ma siamo molto entusiasti dei piani che abbiamo per tutti i personaggi DC multidimensionali che vengono sviluppati in questo momento.” Evidentemente Sister Bros. non ama Zack Snyder ma staremo a vedere se i fatti la smentiranno ancora una volta. Gli americani, maestri di sintesi, hanno coniato il termine Snyderverse per parlare dell’universo di Zack Snyder e il movimento è potente e le prospettive di monetizzarlo sono ingenti. L’unico ostacolo reale è la pandemia che sta tenendo nei cassetti grandi film come l’ultimo 007 ultimo di Daniel Craig, per evitare che vengano svenduti on line e in tv.

Interpreti e personaggi principali:
Ben Affleck: Bruce Wayne / Batman
Henry Cavill: Clark Kent / Kal-El / Superman
Amy Adams: Lois Lane
Gal Gadot: Diana Prince / Wonder Woman
Ray Fisher: Victor Stone / Cyborg
Jason Momoa: Arthur Curry / Aquaman
Ezra Miller: Barry Allen / Flash
Willem Dafoe: Nuidis Vulko
Jesse Eisenberg: Lex Luthor
Jeremy Irons: Alfred Pennyworth
Diane Lane: Martha Kent
Connie Nielsen: Ippolita
J. K. Simmons: James Gordon
Amber Heard: Mera
Billy Crudup: Harry Allen, padre di Barry
Joe Morton: Silas Stone
Zheng Kai: Ryan Choi
 Lisa Loven Kongsli: Menalippe

Intravediamo
Robin Wright come Antiope
e Joe Manganiello come Deathstroke.

Assassinio sull’Orient Express, sempre grandi star

Nel 1974 dirigeva Sidney Lumet (4 nomination agli Oscar e uno alla carriera nel 2005) un cast all stars con 11 interpreti nominati agli Oscar di cui 6 vincitori e uno alla carriera nel 2009 a Lauren Bacall; un cast che il regista riuscì a mettere insieme facendo firmare per primo Sean Connery, allora una punta di diamante dello star system. Ingrid Bergman rifiutò il ruolo della Principessa Dragomiroff e si offrì per quello della missionaria col quale vinse l’Oscar come non protagonista; nomination ebbero il regista e il protagonista Albert Finney. Un gran film che è un classico da rivedere. Come gran film è anche quello attuale e per il quale, conoscere l’identità dell’assassino, nulla toglie al piacere della visione, anzi!

Nel 2017 dirige Kenneth Branagh che interpreta anche il protagonista Hercule Poirot e mette il cappello sul prossimo film con un richiamo nel finale nel quale viene richiesto in Egitto per un delitto sul Nilo. “Assassinio sul Nilo” fece seguito nel ’78 all’Orient Express del ’74 con un nuovo regista, John Guillermin, che si era fatto notare per la regia del catastrofico “Inferno di Cristallo” altro filmone all stars ma di qualità inferiore, come di qualità inferiore fu il film dal romanzo della Christie; anche l’interprete di Poirot cambiò con l’interpretazione di Peter Ustinov, che a mio avviso fu un interprete più azzeccato.

Branagh, e la più moderna sceneggiatura di Michael Green lo supporta, tratteggia un Poirot meno macchiettistico di come l’ha creato l’autrice, con la sua precisione maniacale che però si stempera in un afflato di umanità che arricchisce e dà profondità al personaggio – ma per il quale si inventa degli spettacoli doppi baffetti! Anche lui dirige un cast all stars, anche se gli Oscar al seguito sono di meno per motivi anagrafici, e tecnicamente il film è più ricco di azione ed effetti speciali, per cui la bufera di neve che blocca il treno diventa una vera e propria spettacolare valanga. E’ ovvio e divertente fare adesso il confronto fra il vecchio e il nuovo cast.

L’ambiguo antagonista, che nel ’74 fu Richard Widmark che accettò il ruolo solo per poter lavorare con tutte quelle star, oggi è un sorprendente Johnny Depp che con gustoso e misurato ghigno con cicatrice incorporata si muove fuori dal seminato dei suoi personaggi sempre positivi e sbruffoni portando una ventata di freschezza al film e alla sua filmografia.

Si è detto di Ingrid Bergman premiata per il ruolo della missionaria svedese Greta Ohlsson che qui diventa spagnola, Pilar Estravados, con l’aderente interpretazione di Penelope Cruz che però rimane negli standard: il carattere riprende il nome di un personaggio di Agatha Christie che compare in “Il Natale di Poirot” messo in film nel 1994 ma di cui non rimane traccia nella memoria.

Si è anche detto di Sean Connery, che interpretava Arbuthnot, colonnello nel romanzo e nel film, che di innamora di miss Debenham durante l’azione. Oggi il personaggio cambia vistosamente, rendendo più moderna e dinamica la trama e rimanendo altresì credibile: Arbuthnot è un medico di colore, interpretato da Leslie Odom jr, già segretamente in amore con la bella e giovane Debenham, segretamente perché all’epoca dei fatti narrati, gli anni ’30 del Novecento, non si parlava di amori interraziali, esistenti ma stigmatizzati.

La bella e giovane Mary Debenham oggi è interpretata dalla pressoché sconosciuta Daisy Ridley mentre nel ’74 era nientepopodimeno che Vanessa Redgrave in azzeccatissima coppia con Sean Connery.

Ruolo chiave della vicenda è Mrs Hubbard, vedova americana dalla parlantina brillante e tagliente che da Lauren Bacall passa oggi a Michelle Pfeiffer: entrambe star di prima grandezza ormai sessantenni, entrambe totalmente in parte, con una mia personale debolezza, anche anagrafica, per la Pfeiffer che mostra una dolcezza in più rispetto alla Bacall: le auguro una candidatura agli Oscar, anche senza premio, che la possa rilanciare nello star business, dato che il suo ultimo film con buoni esiti al botteghino è “Chéri” di Stephen Frears del 2009. Ma vale la pena fare l’elenco dei film di grande successo che ha rifiutato perché non ha saputo valutare sulla carta (tra parentesi l’attrice che la sostituì): Thelma e Louise (Geena Davis), Basic Istinct (Sharon Stone, nomination Golden Globe), Il Silenzio degli Innocenti (Jodie Foster, premio Oscar), Insonnia d’Amore (Meg Ryan, nomination Golden Globe), Pretty Woman (Julia Roberts, nomination Oscar e Golden Globe), Evita (Madonna, Golden Globe) e altri ancora.

Anche il personaggio di Hector MacQueen, segretario tuttofare del cattivo Ratchett/Cassetti, subisce una interessante evoluzione. Nel ’74 era interpretato da un Anthony Perkins con ancora attaccate addosso le nevrosi dello “Psycho” di quattordici anni prima. Oggi è interpretato da Josh Gad, cicciottello comico ebraico-americano che qui fa un salto di qualità ben riuscito, certo cercando di allinearsi ai suoi colleghi comici cicciottelli ormai star mainframe come Jack Black o Jonah Hill.

Il maggiordomo passa da John Gielgud (nominato agli Oscar) a Derek Jacobi nella migliore tradizione dei maggiordomi inglesi.

Ma sul treno c’è un altro investigatore privato in incognito, altro ruolo chiave della vicenda, Cyrus Hardman che, già interpretato dal caratterista Colin Blakely, cambia nome di battesimo in Gerhard e lo fa Willem Dafoe, con una performance a mio avviso sotto tono rispetto all’impegno generale – o forse il ruolo, a tratti lievemente grottesco, non è adatto a lui.

L’anziana Principessa Natalia Dragomiroff che fu Wendy Hiller oggi entra nello schermo con lo sguardo assassino di Judy Dench che dà subito il carattere del personaggio, che poi però rimane tutto lì: un personaggio di supporto poco definito da interpretare proprio come un cameo. La sua dama di compagnia, la tedesca Hildegarde Schmidt passa da Rachel Roberts a Olivia Colman senza colpo ferire.

Ci sono poi i Conti Rudolph Andrenyi e la Contessa Helena Maria Andrenyi che se ne stanno in disparte chiusi nella loro cabina che, interpretati originariamente da due nomi come Michael York e Jacqueline Bisset qui vengono affidati agli sconosciuti Sergei Polunin, che nasce come ballerino russo, e Lucy Boynton, ex attrice bambina inglese, condannando di fatto questi due personaggi al bozzetto di fondo.

C’è poi Antonio Foscarelli, venditore di automobili un po’ sbruffone, ovviamente italiano nella fantasia di Agatha Christie, che fu interpretato dallo sconosciuto inglese Denis Quilley e che oggi diventa Biniamino Marquez, interpretato dal messicano Manuel Garcia-Rulfo, certo per coprire la quota hispanica della super produzione statunitensi.

Il capo carrozza Pierre Michel, che fu interpretato dal francese Jean-Pierre Cassell oggi è il tunisino-olandese Marwan Kenzari; mentre il capotreno, il belga Bouc, che in francese significa caprone, certo con qualche intenzionalità nell’autrice, conterraneo amico e assistente improvvisato di Poirot, cui oggi dà il volto l’aitante australiano Tom Bateman, nel ’74 era diventato un Mr Bianchi interpretato da Martin Balsam.

Il film è riuscitissimo. Le star non sono quelle di una volta ma neanche il pubblico lo è, ben che vada è invecchiato come il sottoscritto. E la trovata più azzeccata è quella della risoluzione finale del giallo, che nel primo film avveniva all’interno del lussuoso treno, come da racconto, quando Poirot riunisce tutti per svelare il nome dell’assassino: oggi, a causa del treno bloccato per la valanga, la scena è montata all’aperto, e i 12 personaggi coinvolti sono tutti seduti a un lungo tavolo come in un’ultima cena, per un ultimo resoconto dove al peccato segue, ancora una volta, il perdono.

Note di costume: il pubblico in sala era per lo più fatto di adulti e anziani. I pochi giovani erano un ragazzo solitario, come ero io che al calcio preferivo un pomeriggio al cinema, e ragazzine selfie-dipendenti che erano solo venute a vedere Johnny Depp restando deluse (è il loro punto di vista) dalla performance, e sorprese che la storia fosse scritta da Agatha Christie: chissà che si credevano, povere stelle!

Grand Budapest Hotel

Gran divertimento per gli occhi, per la mente e per gli appassionati dello star system – ma non per tutti, trattandosi di un film con uno stile assai particolare: ispirato alle opere di Stefan Zweig ha un linguaggio volutamente assai letterario quasi al limite della parodia, così come lo stile dei personaggi e la recitazione da vaudeville degli attori, ed è davvero una goduria vedere star da premio Oscar e caratteristi di lusso recitare in questa girandola che non perde mai un colpo. Del resto è sempre questo lo stile del regista Wes Anderson, il grottesco, e anche se non tutti i suoi film sono ben riusciti (sì a “I Tenenbaum” no ai successivi “Le avventure acquatiche di Steve Zissou” e “Il treno per Darjeeling”) vale sempre la pena pagare il biglietto per vedere qualcosa di decisamente diverso nel panorama cinematografico statunitense. Cast ricchissimo di star anche in ruoli di una sola battuta o poco più che, si vede, si sono tutti divertiti assai a indossare costumi e acconciature di personaggi bislacchi che però sono la sferzante critica di Zweig al suo mondo: la mitteleuropa che si sta preparando alle assurde guerre mondiali del razzismo e del fratricidio. Eccellente la sceneggiatura che procede per scatole cinesi: lo scrittore interpretato da Tom Wilkinson comincia a raccontarci la storia del Grand Budapest Hotel con lui da giovane, che è Jude Law, che raccoglie quella storia dal vecchio proprietario F. Murray Abraham, che comincia a sua volta a raccontare di quando era un giovane fattorino dell’albergo, che è Tony Revolori che sarà il vero protagonista accanto al suo mentore, l’azzimato direttore dell’albergo Ralph Fiennes col quale viene coinvolto nelle rocambolesche avventure che sono la struttura del film e il tessuto nel quale incontrare i più incredibili personaggi interpretati in ordine sparso da: Saoirse Ronan come fornarina e fidanzatina del giovane protagonista, Adrien Brody nel ruolo del riccone cattivo, Willem Dafoe come suo spietato killer, Jeff Goldblum occhialuto notaio, Harvey Keitel ergastolano, Bill Murray Jason Schwartzman Owen Wilson e Bob Balaban come vari portieri d’albergo, Edward Norton capitano della polizia imperiale, Tilda Swinton mirabilmente truccata da ottantenne, il francese Mathieu Almaric come fuggitivo tenutario di segreti e l’italiana Giselda Volodi come la sua sorella zitella dal piede equino vittima accidentale. Al di là della ricca carrellata di volti più o meno noti il divertimento sta nell’ironia sottile della sceneggiatura e degli scritti a cui si ispira, e alla prova di sensibilità artistica cui il film ci sottopone con il suo essere un prodotto hollywoodiano assolutamente atipico.