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BBB – Breve storia delle riviste di cinema in Italia

Le riviste di cinema esistono in Italia da quando il cinema esiste, prima strettamente legate al nuovo “fenomeno” poi via via sempre più slegate dalle notizie specifiche, titolo trama eccetera, per allargarsi a considerazioni più ampie, finendo in alcuni casi col fare da “palestra” a intellettuali e teorici insieme ai cineasti veri e propri: gli sceneggiatori e i registi; queste “palestre” a loro volta si sono sempre più differenziate dai semplici rotocalchi informativi che mischiavano pubblicità e divismo, e dalle riviste di critica che nei decenni si fecero sempre più militanti fino a spingersi all’indagine sociologica che il cinema, non a torto, consentiva, e ancora consente.

In questo link possiamo sfogliare on line la rivista grazie al sito Internet Archive.

1900-1910. Quelle che oggi vengono considerate i prototipi delle riviste cinematografiche derivano a loro volta dai primi materiali stampati che in un modo o nell’altro parlavano del cinema nell’epoca oggi detta “pre-cinema”: erano bollettini tecnico-scientifici che discettavano del nuovo fenomeno fra i quali va ricordato l’Optical Lantern and Cinematograph Journal pubblicato a Londra fra il 1904 e il 1907 e su cui già si parlava del valore educativo e incantatorio delle immagini in movimento. A partire da quegli anni, al diffondersi di una vera e propria industria cinematografica, sulla carta stampata si accompagnano sia le analisi estetiche e tecniche che le vere e proprie dichiarazioni di poetica e di stile dei primi cineasti autodidatti: è così che la stampa comincia ad accompagnare la fotografia in movimento.

Oltralpe esisteva già la pubblicazione Pathé-Journal della casa di produzione omonima, ma in Italia ricordiamo come data di nascita delle riviste di cinema il 1907 a seguito dello sviluppo delle nostre prime imprese cinematografiche: quelle prime pubblicazioni erano non più che cataloghi di titoli e trame rivolti agli esercenti delle sale, prodotti con finalità pubblicitarie dalle stesse case di produzione; ne abbiamo un esempio in Lux del 1908 rivista della SIGLASocietà Italiana Gustavo Lombardo Anonima, del napoletano Gustavo Lombardo, appunto, che fu prima distributore per le regioni centrali ma anche produttore in proprio fino a fondare nel 1928 la Titanus. Nel primo decennio del Novecento le riviste cinematografiche erano già molte ma poiché l’interesse storico per questo materiale è un fatto recente, si sono conservate poche solo copie poiché a lungo ritenute materiale di scarsa importanza.

Erano per lo più foglietti settimanali o quindicinali che annunciavano le uscite e le programmazioni nelle sale, con uno spazio dedicato ad attrici e attori, i quali utilizzavano quegli spazi per pubblicizzare la loro partecipazione a progetti in corso, come anche la propria disponibilità in veri e propri annunci di ricerca di impiego. Le notizie sui film erano accompagnate da fotografie e brevi sinossi delle trame, generalmente ad opera degli stessi produttori e registi, con indicazioni tecniche sull’uso di lenti e obiettivi e delle specifiche di stampa delle pellicole – altro modo con cui verranno chiamati i film, anzi le film: l’articolo femminile era traslato dal sostantivo femminile pellicola di cui film era la traduzione. Ma già cominciano ad affacciarsi su quelle riviste ciò che oggi consideriamo recensioni: ce ne sono su L’arte muta, che si dedica ai divi del momento analizzandone l’arte sia sul palcoscenico che sullo schermo; e una delle prime firme che diverranno importanti sarà quella di Anton Giulio Bragaglia, regista critico e saggista nonché poliedrico sperimentatore e personaggio dell’epoca, che scrive su Apollon – Rassegna di arte cinematografica. È possibile sfogliare on line la rivista Apollon n° 1 del 1916 questo link sul sito del Museo Nazionale del Cinema dove si trovano digitalizzate molte altre riviste d’epoca.

Ricordando che le più importanti e prolifiche case di produzione erano sorte a Torino, Milano, Roma e Napoli, da lì vengono anche le prime riviste cinematografiche:

Il Cinema-Chantant: giornale artistico internazionale Napoli 1907
Il Cinema-Teatro: notiziario internazionale dell’arte cinematografica Roma 1910 
L’illustrazione cinematografica: rivista quindicinale illustrata Milano 1912
L’Olimpo: quindicinale illustrato dei teatri di varietà, caffè-concerti, cinema, teatri di vita dell’ambiente Livorno 1913
Le Maschere: rivista illustrata d’arte, teatro e cinema Catania 1914
La Rassegna del Cinema: arte e letteratura cinematografica Roma 1917
Cinema music-hall: rivista mensile del varietà e della cinematografia Taranto 1920
Corriere del cinema e del teatro Torino 1920

e poco altro ancora, ricordando che ciascuna rivista non aveva distribuzione nazionale e che per lo più morivano dopo poche o addirittura una sola pubblicazione; fra quelle più fortunate e durevoli ci sono state la torinese La Vita Cinematografica (1910-1934) e la veneziana Cinemundus (1918-1946) che avrà una nuova serie fra gli anni 1952-1966.

1920. I ruggenti Anni Venti, The Roaring Twenties, come gli americani ce li hanno tramandati con la loro letteratura il loro cinema e la loro musica che esplose nel jazz, furono per loro un creativissimo decennio di espansione industriale che sarebbe imploso con la tremenda crisi del 1929 e del proibizionismo. In Europa, che era appena uscita dalla Prima Guerra Mondiale e dalla febbre spagnola, i ruggenti Anni Venti ebbero altre espressioni: Les Année Folles in Francia e nel francofono Canada, Goldene Zwanziger in Germania e Felices Años Veinte in Spagna, denominazioni che mettono l’accento sulla follia l’oro e la felicità; ma da noi fu un decennio che, pur risentendo di quelle caratteristiche, si presentò più complesso: come in Germania – dove alla fine del conflitto il marco, il papiermark, stampato in gran quantità per pagare le spese della perduta guerra finì col non valere più nulla e le banconote vennero addirittura usate per accendere il fuoco, che almeno scaldava – in Italia si sentiva altrettanto forte l’incertezza del dopoguerra e si crearono i presupposti di un esperimento sociale: il nascente Fascismo si proponeva con istanze di rivendicazione sociale e partecipazione di massa alla cosa pubblica, salvo poi pretendere di imporsi come pensiero unico e avere una svolta autoritaria e repressiva.

In quel clima il cinema continua ad espandersi perché affare redditizio, e le sue riviste diventano una realtà stabile facendosi libretti con più pagine e a pubblicazione regolare; ad esempio, nel 1923 a Bologna viene creato Eco del Cinema: periodico cinematografico mensile e a Firenze Cinema: pubblicazione settimanale mentre nel 1927 a Palermo si tenta la via della rivista di lusso con Serraglio: quindicinale del teatro e del cinema, e tutte si distinguono, secondo un criterio odierno, per approssimazione e incompetenza: praticamente latita la qualità critica e letteraria degli interventi e gli autori sono ancora autodidatti che con molta faccia tosta spacciano una professionalità ancora in divenire: vengono esaltati i titoli e si discute delle qualità tecniche. Escono anche le prime monografie divistiche, ad esempio su Francesca Bertini, Rina De Liguoro, Leda Gys, Pola Negri e il naturalizzato americano Rodolfo Valentino per restare sui nomi italiani – non per adesione politica a un certo pensiero contemporaneo ma solo perché qui si parla del cinema italiano; dunque le riviste di cinema diventano anche intrattenimento per il pubblico e via via si separano dalle riviste più tecniche che più specificamente si vanno rivolgendo agli addetti ai lavori.

Cominciano ad affermarsi sulla carta stampata anche, e parallelamente, i primi nomi che professionalmente si affermano nell’industria cinematografica: Alessandro Blasetti, che fu regista e sceneggiatore ma anche montatore oltre che critico cinematografico, che fonda nel 1926 Il mondo e lo schermo, poi semplificato in Lo schermo, che l’anno dopo trasforma ancora in cinematografo con l’iniziale eccezionalmente (per l’epoca) minuscola, cui fa seguire ancora Lo Spettacolo d’Italia che però avrà vita più breve. Sul finire dei Venti e scavallando il seguente decennio escono, fra l’altro, il rotocalco La Rivista Cinematografica e Mondana a Palermo nel 1927 e Cine romanzo a Milano nel 1929, entrambe a forte imitazione dei modelli americani ed entrambe avviano un nuovo modello editoriale: il rotocalco cinematografico, che si svilupperà nei decenni a seguire.

Il rotocalco, che prende il nome dalla tecnica rotocalcografica, nasce in seguito a quella nuova possibilità di stampa; fino a quel momento erano in uso le rotative a lastre di piombo che verranno sostituite da cilindri di rame che consentono di riprodurre le sfumature di colore, le mezzetinte, migliorando di molto la resa della fotografie; e poiché ricco di immagini il rotocalco avrà grande diffusione popolare anche fra quanti erano semi o totalmente analfabeti: farsi vedere mentre si sfoglia un rotocalco è un nuovo status sociale. Il primo rotocalco italiano proviene dal settimanale Il Secolo Illustrato che era stato fondato nel 1913 come supplemento al quotidiano Il Secolo, che Arnoldo Mondadori acquistò nel 1923 e che due anni dopo cominciò a stampare con la nuova tecnica. Ma il grande successo del genere rotocalco si deve proprio alle pubblicazioni cinematografiche. Del 1929 abbiamo detto è la rivista Cine-Romanzo, e seguirono: Films e Cinema Illustrazione presenta nel 1930; Stelle nel 1933.

1930. E da qui in poi i rotocalchi cinematografici si moltiplicheranno talmente che cercare di ricordarli tutti produrrebbe uno sterile elenco. Utile ricordare che i rotocalchi erano in genere settimanali di 16 pagine circa che inventarono il cineromanzo, ovvero la narrazione romanzata della trama del film, che se da un lato invogliava ad andare in sala dall’altro consentiva di immaginarsi al cinema a chi non poteva, con uno stile che riecheggiava i feuilleton ottocenteschi, mentre le vite dei divi venivano raccontate come vere e proprie favole di principi e principesse: vite favolose; cineromanzi che accompagnati da fotografie e didascalie saranno i capostipiti dei fotoromanzi che verranno.

1940. Nei primi anni Quaranta insieme al cinema neorealista arriva anche la prima pubblicazione di stampo neorealista: esce prima col nome di Taccuino che presto viene cambiato in Si gira che annovera fra i suoi collaboratori nomi ancora oggi noti: Vitaliano Brancati, Carlo Lizzani, Antonio Pietrangeli e Cesare Zavattini, fra gli altri. E nascono in quegli anni gli scritti d’autore, che spostano la semplice recensione verso una vera e propria critica, teorica ed estetica del mezzo, con spazio all’autore che esprime un suo stile e un suo linguaggio; qualcosa di così specialistico e intellettuale che non trovando più spazio sulle riviste popolari comincia a spostarsi su altri tipi di pubblicazioni: i primi libri sul cinema e più estesamente su altri tipi di riviste che mischiavano i discorsi sul cinema a considerazioni di tipo politico e sociale: L’Europeo, Oggi, Omnibus, Mondo.

La prima metà di quegli anni Quaranta sono anche gli anni della Seconda Guerra Mondiale alla fine della quale c’è da noi il crollo del fascismo, che se da un lato aveva dato un forte impulso all’industria cinematografica – intesa però come strumento di propaganda e di controllo delle masse – dall’altro aveva messo su una cinematografia, quella detta dei telefoni bianchi, che raccontava benesseri e felicità totalmente fasulli, favole senza nessun appiglio con la realtà; oppure si producevano drammi storici con l’intento di esaltare l’italianità. Da quel crollo di ideali e di cinema patinato o in costume nasce il neorealismo, che da un lato è un movimento di presa di coscienza e dunque di ideologia, e dall’altro è un necessario modello produttivo povero, che gira fuori dagli studi direttamente sulle strade e fra le macerie, prendendo dalla strada molti attori non professionisti ad affiancare quei professionisti che non hanno il birignao della recitazione sofisticata. E a parlare di cinema su quelle riviste ci sono anche Vittorio De Sica, Pietro Germi, Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Camillo Mastrocinque, Giuseppe De Santis, Michelangelo Antonioni.

Alla fine della guerra venne anche istituita una commissione per l’epurazione di registi e sceneggiatori che avevano collaborato col fascismo, e in realtà si arrivò solo a una blanda punizione e nomi come Goffredo Alessandrini, Carmine Gallone e Augusto Genina furono solo sospesi dall’attività, salvo poi rimettersi al lavoro pochi anni dopo: niente a che vedere con le feroci persecuzioni della contemporanea Hollywood che però se la prendeva coi comunisti, perché erano gli anni in cui si inaugurò la cosiddetta guerra fredda. Nel 1946 i nostri critici cinematografici, ormai diventati una realtà professionale, si sono organizzati nel sindacato SNGCI, Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, che pubblicherà il suo Cinemagazine che copia il nome dalla preesistente rivista francese. Mentre Ferrania, che produce pellicole e lampade, pubblica una propria rivista col nome dell’impresa.

Yvonne De Carlo che si infila fra Sophia Loren e Gina Lollobrigida per non perdere lo scatto al Berlin Film Festival del 1954

1950. Negli anni Cinquanta si assesta e si arricchisce il panorama delle riviste cinematografiche che cominciano anche a parlare di un nuovo fenomeno, la televisione, e ormai anche quasi tutti i quotidiani hanno le loro rubriche di cinema; arrivano inoltre le prime collane di libri sul cinema con monografie su registi e sceneggiatori, e dato l’ormai gran numero di pubblicazioni, e di penne specificamente addette, si registra uno strano corto circuito: le recensioni sulle riviste cominciano a parlare dei libri e della altre riviste, e viceversa, in un focus narrativo che si allontana dal principale oggetto del contendere: il cinema. La critica omaggia se stessa: quanto lontani si è dalle prime pubblicazioni con quegli scarni e ingenui bollettini, bollettini che però vengono ancora pubblicati dalla Lux Film e dalla Titanus, e si deve a quest’ultima testata e alla genialità del suo patron Gustavo Lombardo l’invenzione della rivalità fra Sophia Loren e Gina Lollobrigida cui tanti ancora oggi credono, e che ha fatto scuola fra i rotocalchi scandalistici che ancora oggi inventano rivalità e amori e tradimenti fino a scadere nel più becero pettegolezzo cui ormai si aggrappano solo quei disperati che vivacchiano ai margini dello show business, altro che Loren e Lollobrigida.

1960. Negli anni Sessanta, mentre aprono nuove testate, resistono in edicola Rivista del cinematografo, Bianco e Nero e Filmcritica, mentre Cinema Nuovo diretto da Guido Aristarco rallenta e da quindicinale diventa bimestrale. Altre riviste degne di nota sono Cineclub, vissuta fino al 1998, e Cineforum che è ancora in edicola e che nacque a Bergamo nel 1961 come bollettino della cattolica Federazione Italiana Cineforum che riuniva le associazioni culturali senza scopo di lucro sorte su tutto il territorio nazionale finalizzate alla diffusione e alla preservazione della cultura e dell’arte cinematografica, che fra le varie attività – dibattiti, conferenze, fondazioni di biblioteche e cineteche, produzione di film sperimentali – organizzavano le proiezioni di quei film che non trovavano spazio nella distribuzione regolare, oggi detta mainstream: tali luoghi di ritrovo si chiamarono Cine Club, poi cineclub o cineforum, copiati dai francesi Ciné-Club dagli inglesi Film Society e dai tedeschi Filmfreunden; cineclub che ebbero, appunto, la loro rivista omonima.

Ciak sul set di un film sperimentale fascista dei CineGuf.

Quei club erano guidati da un’ideologia politica sempre più spostata a sinistra e via via si perde la memoria dei primi sperimentali circoli cinematografici italiani degli anni Venti e Trenta e dei fascisti CineGuf. Coi cineclub viene anche lanciato il concetto giuridico di cinema d’essai o film d’essai che abbrevia la qualifica “Cinéma d’art et d’essai” (cinema d’arte e di prova) che si erano attestati in Francia sin dagli anni ’40 come sale in cui si faceva una programmazione di film sperimentali di derivazione avanguardista e indirizzati a un pubblico di nicchia, più colto; qui da noi questi cosiddetti cineclub arrivarono vent’anni dopo e la prima sala italiana ad avvalersi della qualifica legale di “Cinema d’essai” fu il Quirinetta a Roma nel 1960, cui seguirono il Cinema Centrale a Milano e il Nuovo Romano a Torino. Questa capillarizzazione dei club sfornarono subito una nuova generazione di spettatori più preparati che portarono al successo commerciale film d’autore come “La dolce vita” di Federico Fellini e “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, entrambi del 1960; cosicché i club, ora incalzati dalle sale mainstream che scoprivano il cinema d’autore, si riorganizzarono creando l’Associazione Italiana Amici Cinema d’Essai (AIACE) come stimolo verso un circuito di sale con una programmazione alternativa altrettanto mainstream.

1970-2023. Negli anni Settanta escono Edav Educazione Audiovisiva, ancora in edicola, e Cinema & Cinema che chiuderà i battenti nel 1994. Dagli anni Ottanta in poi possiamo dire di essere entrati nell’era odierna con testate che aprono e chiudono come nei decenni passati. Resistono le riviste specialistiche Immagine. Note di Storia del Cinema e Segnocinema, mentre fra le riviste più commerciali troviamo in edicola Nocturno, che si specializza nei film di genere horror e poliziesco arrivando ai film hard passando per l’exploitation; Best Movie che fondata nel 2002 è stata inizialmente distribuita gratuitamente nei cinema e che dal 2004 esiste in quattro versioni: continua la gratuita ma in versione ridotta, più completa la versione in edicola e solo in abbonamento con spedizione a casa la versione da collezione con copertina priva di didascalie, e infine la versione online dove è disponibile il download gratuito.

La parte del leone ce l’ha a tutt’oggi Ciak, fondata nel 1985 come mensile legato a TV Sorrisi e Canzoni e già l’anno dopo, nel 1986, ha dato vita al premio Ciak d’Oro, premio per il cinema italiano, che ha avuto anche le sue serate tv sulle reti Mediaset e che si inventa sempre nuovi premi – Ciak d’oro Stile d’Attore e Stile d’Autore o Premio speciale Aspettando il Festival, tanto per dirne un paio – che lasciano il tempo che trovano ma che comunque spargono a piene mani polvere di stelle.

Fra tutte queste avventure editoriali sul cinema, nel 1953 ci fu il curioso esperimento Lo Spettatore che visse di un solo numero e che come un cineromanzo monografico presentava il film a episodi “L’amore in città”. Andremo a darci un’occhiata, sia alla rivista che al film.

L’arbitro – in omaggio alla memoria di Lando Buzzanca

il film completo

Anche Lando Buzzanca ha preso la via dei più. Aveva compiuto 87 anni ed è stato professionalmente attivo praticamente fino alla fine: la sua ultima partecipazione cinematografica è del 2017 nell’opera prima di Cesare Furesi “Chi salverà le rose?” che è uno spin-off di “Regalo di Natale” di Pupi Avati, film che riprende il personaggio interpretato da Carlo Delle Piane al suo ultimo film; mentre l’ultima partecipazione in assoluto di Buzzanca è nel film tv del 2019 “W gli sposi” di Valerio Zanoli, ultimo film anche per Gianfranco D’Angelo e Paolo Villaggio: tristi conteggi quando i cast sono composti da vecchie glorie.

Lando (Gerlando) nasce a Palermo in una famiglia già nell’ambiente dello spettacolo a vario titolo: lo zio Gino Buzzanca aveva cominciato nel teatro di tradizione e poi ha avuto una lunga carriera cinematografica come caratterista; mentre il padre Empedocle Buzzanca, di mestiere proiezionista, si reinventò anch’egli come caratterista siciliano in alcuni film sulla scia delle carriere di fratello e figlio. Ma Gerlando ha altri obiettivi e 17enne si trasferisce nella capitale per studiare recitazione con Pietro Sharoff mentre per mantenersi campa di lavoretti, cominciando pure a fare piccole cose sia in teatro che al cinema: la classica gavetta, insomma. Il suo debutto ufficiale è in un film di grande successo, “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi che poi lo scritturerà di nuovo per “Sedotta e abbandonata”, e nel frattempo compare in diversi altri film con ruoli grandi e piccoli, e purtroppo pur di lavorare sceglie qualsiasi cosa ritagliandosi il ruolo del siciliano belloccio ma ingenuo se non addirittura tonto in commedie di serie B con qualche incursione nello spaghetti-western e un paio di film con Totò.

Unica perla in quel periodo è il ruolo da protagonista in “Don Giovanni in Sicilia” regia di Alberto Lattuada dal romanzo di Vitaliano Brancati, e in generale anche se la critica resta con lui severa, e a ragione, il pubblico comincia ad amarlo per quel che è: un simpaticone che accende le fantasie femminili senza però diventare davvero minaccioso per i loro mariti che lo trovano sì divertente ma non un modello da imitare né da invidiare o temere. Il vero successo arriva con la televisione dove nel 1970 al fianco di Delia Scala interpreta “Signore e Signora”, un varietà che indagando in chiave grottesca i costumi delle coppie sposate moderne, dell’epoca, è una sorta di sit-com ante litteram; e in risposta al successo televisivo comincia ad avere un suo seguito anche al cinema, fino al successo internazionale con “Il merlo maschio” del 1971 di Pasquale Festa Campanile, un film su voyerismo-esibizionismo che esponendo le grazie di Laura Antonelli è a tutt’oggi è un cult anche in diverse parti del mondo. È in quel periodo, forte del successo personale, che comincia davvero a scegliere i suoi film fra le proposte che gli arrivano sempre più numerose, mostrando però di prediligere il genere per cui i critici lo criticano severamente: la commedia di costume con apprezzabili intenti satirici e di blanda denuncia, ma sempre e inevitabilmente in bilico fra il cinema di serie A e quello di serie B. Pare siano sue le idee dei film “All’onorevole piacciono le donne” il cui titolo completo è “Nonostante le apparenze… e purché la nazione non lo sappia… All’onorevole piacciono le donne” diretto da Lucio Fulci, un maestro del cinema di genere e di tutti i generi, il cui protagonista si ispira all’allora presidente del consiglio Emilio Colombo e che grande scandalo creò; e nello stesso anno, il 1972, del più serio “Il sindacalista” diretto da Luciano Salce, film che omaggia la figura del sindacalista Giuseppe Di Vittorio.

Anche “L’arbitro”, anno 1974, trae ispirazione da un personaggio reale pur facendone chiaramente una bonaria divertita parodia che non suscita reazioni scomposte: l’arbitro siracusano Concetto Lo Bello che nel film diventa l’acese Carmelo Lo Cascio, un altro maschio siculo alle prese con la sua prestanza fisica messa seriamente in discussione e che, insieme allo stress di dover mantenere alti i suoi livelli di professionalità sportiva e l’integerrimo rigore morale, lo porta all’abuso di anfetamine e alla catartica – e comoda per un finale che non si sapeva dove condurre – pazzia. Il film è gradevolmente furbo: pur solleticando il gusto per la commedia sexy e introducendo lo scivoloso ma anche divertente tema della cacarella da febbre intestinale, non diventa mai volgare e si mantiene in bilico sul grottesco e sul satirico senza però mai graffiare. Furbo anche il tema calcistico che mostra riprese dal vero negli stadi e negli spalti, abilmente montate alla narrativa fittizia, con frammenti di vere partite – la Roma-Hellas Verona disputata l’anno prima e conclusa 1-0; in altri frammenti intravediamo in campo gli interisti Sandro Mazzola e Roberto Boninsegna, oltre alle partecipazioni straordinarie dei giornalisti e commentatori sportivi Maurizio Barendson, Nicolò Carosio, Alfredo Pigna e Bruno Pizzul; mentre il laziale Giorgio Chinaglia canta la canzone dei titoli di testa “Football Crazy” senza molta convinzione e con scarsa tecnica canora.

Nel cast brilla per avvenenza la londinese Joan Collins che diventerà una star hollywoodiana di media caratura nonostante i bei ruoli in bei film al fianco di importanti star maschili: viene sempre relegata nel ruolo dell’amante spesso frivola, e l’attrice si adegua anche ai film storici e in costume. Era arrivata in Italia nel 1960 girando a Cinecittà da protagonista “Ester e il Re” di Raoul Walsh, e poi girerà con Ettore Scola “La congiuntura”, e “L’amore breve” con Romano Scavolini in un periodo professionale principalmente europeo in cerca di un riscatto artistico che non raggiungerà. “L’arbitro” è il suo terzo film italiano e vi interpreta una giornalista sportiva, figura assai avanti coi tempi in quel mondo allora esclusivamente maschile, che fa perdere la testa all’arbitro: un ruolo di supporto al protagonista assoluto Lando Buzzanca, oggetto erotico suo malgrado – ma decisamente intenzionale per l’attore – che fa fatica a soddisfare anche la legittima moglie interpretata da una centratissima Gabriella Pallotta, attrice che aveva intrapreso alla grande la sua carriera lavorando con registi importanti ma che poi, essendosi un po’ persa per strada – succede, la fortuna ha un ruolo fondamentale nelle carriere artistiche – decise di smettere di lavorare due film dopo questo; qui è doppiata da Rita Savagnone.

Gabriella Pallotta, con gli occhiali per non fare concorrenza alla Collins, come moglie dell’arbitro che sta asciugando dopo una doccia e dal quale implora la sua razione di sesso settimanale.

Fa da importante spalla all’arbitro il suo guardalinee nonché amico complice e confidente interpretato dall’altro palermitano Ignazio Leone, anch’egli di scuola teatrale dialettale che aveva cominciato in palcoscenico al fianco della coppia destinata al successo Franco e Ciccio. A comporre il quartetto delle due coppie amiche c’è Marisa Solinas come moglie del guardalinee e amica della moglie dell’arbitro con la quale discetta di argomenti come la sessualità femminile e l’orgasmo, temi all’epoca centrali negli slogan delle femministe ma qui nel film relegati a sberleffo come ridicole opinioni da rotocalco femminile, nel film detto Metropolitan orecchiando il reale Cosmopolitan. Altro ruolo importante va al messinese Massimo Mòllica, attore regista e impresario, figura centrale del teatro della sua città. In un ruolo di contorno intravediamo il giovane Alvaro Vitali che presto sarà protagonista di quelle commedie davvero scollacciate e volgari cui Lando Buzzanca ha rinunciato quando a metà dei suoi anni Settanta la commedia satirica di costume, che lui aveva scelto come suo scenario ideale, cede il passo alla commedia sexy di bassa lega. Si darà alla radio dove in “Gran Varietà” creerà la maschera di Buzzanco come erede del suo personaggio tv di “Signore e Signora”.

Tornando al film, è diretto con sagace leggerezza da Luigi Filippo D’Amico, che fu nipote dello storico critico teatrale Silvio D’Amico, da un suo soggetto che ha sceneggiato insieme a Giulio Scarnicci, storico collaboratore della coppia Tognazzi-Vianello, Sandro Continenza, anch’egli braccio destro del Vianello televisivo, e dallo stesso Raimondo Vianello, sceneggiatore di lusso di tante commedie e fine intenditore del tema calcistico. Ne consegue che i dialoghi, che pretendono di essere siculofoni, restano romanocentrici nella costruzioni delle frasi e nel vocabolario; a inizio film Buzzanca pronuncia un improbabile “E che minchia mi dici che va tutto bene, ah?” dove anche l’ah, benché esclamato da un palermitano, risulta finto; inoltre l’arbitro indirizza un primo “figlio di mignotta” specificando che lo dicono a Roma, ma poi una volta sdoganata la mignotta in questo sicilianese da Cinecittà, essa torna nel linguaggio dell’arbitro di Aci Reale come un abituale intercalare. L’unica esclamazione linguisticamente davvero credibile è quando l’uomo, impegnato in un amplesso con la giornalista, al sentire il campanello della porta le dice “Futtitinni!”.

il trenino del liquid party

Fra le modernità che gli sceneggiatori si compiacciono di inserire nel film, e che restano passaggi alquanto appiccicati, c’è il liquid party, dichiaratamente importato dall’Inghilterra, sorta di fluido preludio a un’orgia che non ci sarà, un ridicolo trenino dove ci struscia l’un l’altro e definito dai partecipanti “un millepiedi” che l’arbitro prontamente commenta “e cinquecento culi!”; ovviamente c’è anche l’immancabile macchietta dell’omosessuale che fa l’occhiolino all’imbarazzato maschio alfa. Ci sono poi gli speciosi studi della giornalista sull’acido lisergico che compone l’allucinogeno LDS: momenti di trasgressione cinematograficamente all’acqua di rose, in cui il protagonista si ritrova suo malgrado perché nonostante le sue malefatte extraconiugali egli resta un provinciale dagli integerrimi principi. Sul piano strettamente pruriginoso Lando Buzzanca, mostrandosi come maschio sexy orgogliosamente oggetto – che in una lettura psicologica potremmo definire passivo-aggressivo perché nella sostanza resta sempre un maschio dominante e maschilista – bontà sua con la sua ripetuta nudità da ripetute docce sportive trova il modo di farci intravedere anche il culo in un’amplesso interrotto dove la compiacente Joan Collins ci concede altrettanto, ma assai più fugacemente, perché i centimetri di pelle dell’anglo-americana si misurano in dollari sonanti.

C’è anche il tema politico tratteggiato nella figura del figlio neofascista che, con metodi a dire il vero più sinistroidi e alternativi che fascistoidi e conservativi, contesta l’autorità paterna a suon di pernacchie e poi con morale finale: sembra che il personaggio sia stato scritto proprio per essere di sinistra ma stranamente è diventato di destra – forse proprio per volontà dello stesso protagonista che non ha mai nascosto la sua fede destrorsa e che, nel successivo periodo di declino della sua carriera, ha accusato i produttori e l’intero sistema cinematografico di boicottarlo per questo. Salvo poi diventare a sua volta oggetto di critiche da parte della destra che si è sentita tradita nell’occasione della messa in onda del film tv di Luciano Odorisio “Mio figlio” in cui l’ormai anziano attore interpreta un commissario di polizia che dovrà fare i conti con l’omosessualità del figlio, prima rifiutandola e poi finendo col comprenderla e accettarla; critiche anche queste inutili a dimostrazione del fatto che a voler leggere in chiave politica eventi che di per sé non ne hanno è sempre una grande e anche dannosa sciocchezza. Umana debolezza.

Nel 1965 ha vinto il Laceno d’Oro all’Attor Giovane al Festival del Cinema Neorealistico per “La Parmigiana” di Antonio Pietrangeli e nel 2008 il David di Donatello e il Globo d’Oro come protagonista di “I Viceré” di Roberto Faenza; e nel 2014 riceve anche la Colonna d’Oro alla carriera al Magna Graecia Film Festival di Catanzaro. L’importante è chiudere in bellezza.