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I soliti ignoti – e per la prima volta sullo schermo Claudia Cardinale e Tiberio Murgia

Questo film del 1958 è un caposaldo del cinema italiano ma partiamo da più lontano nel tempo e nello spazio, dalla Hollywood dei primi anni ’50 che con film come “Giungla d’asfalto” di John Huston dal genere thriller, o noir per dirla alla francese, sviluppa il sottogenere caper movie detto anche heist movie, ovvero film dove una banda di malviventi organizza un colpa grosso; e se heist è comprensibile in quanto significa rapina, caper è meno chiaro perché letteralmente significa cappero ma in realtà è stato coniato fra i malavitosi italo-americani che hanno anglicizzato l’italiano capriola con riferimento ai salti mortali e a tutte le acrobazie che dovevano fare per sfuggire alle forze dell’ordine. Sta di fatto che il genere piacque molto al pubblico, e fra i principali caper movie bisogna ricordare “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick mentre in Francia ci fu il grande successo di “Rififi” di Jules Dassin, e scavalcando gli anni ’60 in Italia Marco Vicario diresse il dittico “Sette uomini d’oro” e “Il grande colpo dei sette uomini d’oro” al servizio di sua moglie Rossana Podestà; del 1969 è il francese “Il clan dei siciliani” di Henri Verneuil con Jean Gabin, Alain Delon e Lino Ventura; per tornare a Hollywood con “La stangata” di George Roy Hill del 1974 starring Paul Newman e Roibert Redford; poi primeggia il corale “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992 fino al trittico di Steven Soderbergh iniziato con “Ocean’s Eleven”, con George Clooney capo brigata, che a sua volta era il remake di “Colpo grosso” del 1960 di Lewis Mileston col Rat Pack Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr. Insomma ce n’è per tutti i gusti.

Aldo Reggiani, Loretta Goggi e Arnoldo Foà protagonisti dello sceneggiato Rai

Ma torniamo in Italia alla fine degli anni ’50. Il genere imperante era il neorealismo nato sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, e ancora resistevano i generi peplum (e vale la pena ricordare il debutto cinematografico di Sergio Leone con “Il colosso di Rodi”) e cappa e spada (nessun film italiano memorabile, supplisce lo sceneggiato Rai “La freccia nera” diretto da Anton Giulio Majano dal romanzo di Robert Luis Stevenson) mentre il cinema spensierato dei telefoni bianchi che imitava le commedie sofisticate hollywoodiane era stato sostituito dalla commedia rosa o sentimentale che abbandonando le ambientazioni scintillanti e irrealistiche si era adattato alla nostra realtà con gli operai e le commesse “Poveri ma belli” di Dino Risi del 1957.

Scena da “I cadetti di Guascogna”, in primo piano da sinistra Riccardo Billi, Mario Riva, Carlo Campanini, Carlo Croccolo e seduto sulla branda Walter Chiari

Sul piano del film comico, film per ridere, si era fermi alle pellicole che derivavano dai palcoscenici dell’avanspettacolo e del varietà (ad esempio “I cadetti di Guascogna” che vide il debutto di Ugo Tognazzi e Carlo Croccolo) con interpreti che da lì venivano con le loro maschere e le loro gag (Mario Riva, Riccardo Billi, Carlo Campanini, Macario, Renato Rascel) di cui Totò era il più prolifico esponente, non amato dalla critica colta per quei suoi filmetti senza spessore. In questa brulicante vivacissima realtà si muoveva un gruppo di soggettisti e sceneggiatori che sentivano l’urgenza di raccontare la realtà, la loro realtà, quella realtà di quel preciso momento storico, il dopoguerra e il boom economico, mettendone in evidenza tutte le contraddizioni, l’impossibilità di conciliare il vecchio con il nuovo, l’ipocrisia e l’effimero: una realtà che autori come Pier Paolo Pasolini (“Accattone”) o Bernardo Bertolucci (“La commare secca”) presero di petto, mentre scrittori dalla penna più leggera e ironica e spesso caustica, e forse per questo più incisiva (ricordiamo l’adagio latino “castigat ridendo mores”) come Age & Scarpelli qui autori del soggetto e sceneggiatori insieme a Suso Cecchi D’Amico e allo stesso regista Mario Monicelli, che aveva esordito come braccio destro di Pietro Germi e fu poi regista di Totò che aveva sdoganato in un ruolo drammatico nella co-regia con Steno “Guardie e ladri” che valse all’attore l’ambito Nastro d’Argento e che lo convinse che poteva abbandonare il genere avanspettacolo che lo aveva reso ricco e famoso, ma con la media di cinque film l’anno in cantiere, il successo del pubblico e le pressioni dei produttori, passò ancora qualche anno fino a che concluse la sua carriera lavorando con Pasolini: “Uccellacci e uccellini”, “La terra vista dalla luna” nel film a episodi “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel film a episodi “Capriccio all’italiana”.

Monicelli e Totò durante una pausa sul set

Quando il gruppetto di amici si riunì per buttare giù una nuova sceneggiatura non sapevano che stavano cominciando a scrivere una pagina della storia del cinema. Partirono dall’idea di fare una parodia di quel genere tanto di moda, il caper movie, e presero come modello il noir “Rififi” tanto che il primo titolo pensato per il film in scrittura fu “Rufufù”, ma non erano autori da fermarsi al semplice parodistico e come altra ispirazione ebbero il racconto di Italo Calvino “Furto in una pasticceria”.

Memmo Carotenuto con Gassman

Poi c’era la realtà sociale in cui il gruppetto voleva collocare storia e personaggi, e pur condividendo con Pasolini il degrado della periferia romana in cui il boom sarebbe tardato ad arrivare e ancora si sarebbe vissuto di espedienti, i loro ladruncoli non hanno l’innocente cattiveria degli accattoni e dei ragazzi di vita pasoliniani, ma risentendo della leggerezza della Commedia dell’Arte (che i nostri ovviamente conoscono) sono Arlecchino e Brighella e Pulcinella i cui espedienti per procurarsi il tozzo di pane rimangono fallimentari e grotteschi, come certi capitomboli del fanfarone Er Pantera, ma sono qui intessuti dell’umanità di persone reali che soffrono e addirittura – novità assoluta in commedia – muoiono tragicamente, come il personaggio motore della storia interpretato da Memmo Carotenuto. Il risultato è un dolce-amaro, un grottesco patetico venato di tristezza, qualcosa di talmente simile alla vita reale da portare al cinema folle di spettatori che ridevano insieme delle loro stesse sventure, e però non mancano le battute folgoranti come quando Capannelle chiede a un ragazzino di un certo Mario e quello gli risponde che lì nel quartiere ce ne sono cento; sì ma questo è stato in galera, specifica Capannelle, sempre cento sono, risponde il ragazzino.

Tiberio Murgia nell’atrio del cinema dove si proietta il Kean di e con Vittorio Gassman in un corto circuito di citazioni

A scrittura ultimata sarebbe stata fondamentale la scelta del cast. I produttori, Franco Cristaldi in testa, avrebbero voluto scritturare i soliti noti che venivano dal varietà e dall’avanspettacolo, a cominciare da Alberto Sordi nel ruolo del pugile suonato Peppe er Pantera per il quale Monicelli e gli altri sceneggiatori – che avevano creato tutti i personaggi intorno ad un baricentro realistico, senza vezzi e gag, corredandoli però di un patrimonio di battute e situazioni brillanti e folgoranti sulle quale si sarebbe dovuta giocare tutta la comicità del film – si erano impuntati su Vittorio Gassman, in quale venendo dal teatro impegnato nel cinema aveva per lo più interpretato ruoli da cattivo, e con la sua aria da intellettuale non dava ai produttori nessuna garanzia di successo come attore comico, ma alla fine dovettero cedere alle argomentazioni di Monicelli & company, che con l’aiuto del truccatore Romolo De Martino crearono per Gassman un pesante trucco che con una parrucca gli abbassava l’attaccatura sulla fronte, e accentuando il profilo del naso e rendendo le labbra leggermente calanti lo ridisegnarono proprio come quel pugile suonato di periferia che avevano immaginato sulla carta, e l’invenzione poi della sibilante balbuzie completò il personaggio, sdoganando Gassman in un mondo ancora per lui inesplorato. Va segnalato che nel film viene omaggiato ritraendo la locandina del suo “Kean – genio e sregolatezza” che aveva diretto e interpretato a teatro e poi diretto e interpretato anche sullo schermo con l’importante contributo tecnico di Francesco Rosi.

Nel calibratissimo cast Renato Salvatori (doppiato da Marcello Prando) entrò come secondo nome (in percentuale di misura più piccola rispetto a Gassman) e come segno di continuità con la commedia rosa di cui era protagonista, anche qui protagonista di una storia amorosa ovviamente assai contrastata. Il caratterista Memmo Carotenuto, fratello di Mario, faccia da duro e voce roca è al terzo posto nei titoli di testa e probabilmente nel suo ruolo più significativo. Con le lettere che continuano a rimpicciolirsi segue Rossana Rory (Rossana Coppa sui documenti) già fotomodella e foto-attrice per “Sogno” che qui è l’unica componente femminile della banda e anche nel suo ruolo più importante (doppiata da Monica Vitti): nonostante l’impegno, andò a studiare recitazione presso la londinese Royal Academy of Dramatic Art, non riuscì a sfondare e pochi anni dopo, dopo aver partecipato a “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, si ritirò dalla carriera artistica. Segue nei titoli la 17enne in rapida ascesa Carla Gravina qui al suo terzo film e che aveva debuttato 15enne in “Guendalina” dello scopritore di Lolite Alberto Lattuada. Dopo di lei nei titoli di testa viene la non ancora ventenne Claudia Cardinale (doppiata dalla palermitana Lucia Guzzardi) qui al suo debutto cinematografico italiano e per la quale vale la pena spendere qualche parola in più.

Era nata a Tunisi da genitori altrettanto tunisini per nascita ma di discendenza siciliana. Va ricordato che la Tunisia era un protettorato francese e durante la Seconda Guerra Mondiale (Claudia nata nel ’38 era ancora bambina) l’Italia mussoliniana con la Germania hitleriana occuparono Tunisi con gravi e diverse conseguenze per tutta l’enclave italiana che lì viveva; nello specifico il padre di Claudia che aveva mantenuto rapporti con la famiglia d’origine in Sicilia, non aveva preso la nazionalità francese mantenendo quella italiana, e se in quel frangente ciò poteva giocare a suo favore agli occhi del regime, nei fatti tutti quegli italiani d’Africa furono vittime di un diffuso e paradossale sentimento italiano anti-italiano, con italo-tunisini che sposarono la causa fascista, altri che restarono fedeli alla Francia e altri ancora che volevano restare neutrali come fu per la famiglia Cardinale. Superato il disagio della guerra l’adolescente Claudia parlava solo arabo tunisino, francese e il siciliano trapanese appreso in famiglia, e come tutte le ragazze della sua generazione era una fan della Brigitte Bardot esplosa con “E Dio creò la donna” di Roger Vadim, star con la quale duetterà anni dopo, nel 1971, nel brutto western “Le pistolere” di Christian-Jacque. In ogni caso il cinema la attendeva: a diciotto anni partecipò a un cortometraggio documentaristico che omaggiava l’intraprendenza delle donne tunisine nell’immediato dopoguerra: “Les Anneaux d’or” di René Vautier che al Festival di Berlino vinse l’Orso d’Argento.  Bastò l’unico primo piano di quel film per farla diventare una celebrità locale ed essere richiesta dal regista Jacques Baratier che la volle per un ruolo secondario in “I giorni dell’amore”, ruolo che accettò con riluttanza perché aspirava a quello della protagonista nel quale la produzione volle un’attrice di pura nazionalità tunisina; protagonista maschile il giovane egiziano Omar Sharif in un film candidato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes che per la nostra riluttante Claudia fu il primo vero impegno come attrice cinematografica, per il quale in ogni caso aveva ottenuto la dicitura in cartellone “e la partecipazione di” essendo ancora in pratica una sconosciuta. Claudia avrebbe duettato da protagonista con Sharif nel 1991 in “Mayrig” del franco-armeno Henri Verneuil, che l’anno dopo ebbe il seguito “Quella strada chiamata paradiso”, film che raccontano il genocidio armeno che però hanno avuto scarsa diffusione.

Momentaneamente accantonata la non del tutto per lei soddisfacente, benché di qualità, esperienza cinematografica, la giovane scalpitava e non sapeva come uscire dall’impasse della sua vita borghese tunisina, così non le parve vero quando a Tunisi si tenne la “Settimana del Cinema Italiano” organizzata da “Unitalia FilmRivista trimestrale dell’Unione nazionale per la diffusione del film italiano all’estero”, durante la quale vinse – “in modo del tutto involontario e inconsapevole” recitano le cronache – il concorso “La più bella italiana di Tunisia” dove probabilmente si era iscritta in modo del tutto altrettanto involontario e inconsapevole: ma la ragazza, come vedremo, era fortemente motivata e consapevole.

Claudia Cardinale in quel fatale 1957 a Venezia

Il premio del concorso consisteva in una vacanza spesata alla Mostra del Cinema di Venezia in cui seppe mettersi in mostra agli occhi dei tanti pigmalioni, registi e giornalisti e soprattutto produttori lì presenti, Franco Cristaldi in testa. Dicono sempre le cronache che accettò l’invito da parte del produttore Salvatore Argento (padre del regista Dario Argento) e del giornalista Lidio Bozzini l’offerta di fermarsi a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, che la ragazza accettò – non si sa a che titolo: chi pagava cosa e per cosa? Probabilmente oggi è lecito immaginare che i due fossero i prestanome del produttore Cristaldi, che di 14 anni più anziano della ragazza e già sposato, non si poteva esporre in quell’epoca in cui il divorzio era illegale in un Paese ultra cattolico in cui le relazioni extraconiugali creavano scandalo e condanna sociale: oggi sappiamo che Franco Cristaldi e Claudia Cardinale avevano già cominciato una relazione. Ma gli studi di recitazione e dizione, sua insegnante al Centro fu Tina Lattanzi, misero in evidenza la sua scarsa attitudine sia alla recitazione che all’apprendimento e dopo appena un trimestre abbandonò l’impresa per tornare a Tunisi… ma dato che la sua fotogenia era indiscutibile e la sua relazione con Cristaldi solida, si fece di necessità virtù e fu dato eco sulla stampa, con copertina sul settimanale “Epoca”, a quel suo inconcepibile rifiuto di continuare la carriera cinematografica: anche gli handicap se ben gestiti posso diventare vantaggi nelle mani di un solido ufficio stampa. Del suo stile recitativo, una volta diventata famosa, coerentemente dirà: “Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica.”

Moglie e marito, produttore e protagonista, sul set di “La tenda rossa” diretto da Michail Kalazotov

Ancora di quell’intenso periodo è un’altra pagina che resterà oscura nella vita dell’attrice: la gravidanza del suo primogenito Patrick che partorirà a Londra, lontano da occhi indiscreti, dopo la fine della lavorazione del film. Durante la lavorazione ha tenuto segreta la gravidanza, come segreta rimarrà la genesi: verrà raccontato in seguito che rimase vittima di uno stupro da parte di uno sconosciuto ma alla luce dei fatti è lecito pensare che il figlio fosse del produttore e che l’invenzione dello stupro servisse anche, ancora una volta, a far di necessità virtù – ma questa è mia personale speculazione essendo a tutt’oggi la vicenda narrata così come fu data sin dall’inizio. E se dal lato professionale questo ruolo di siciliana illibata ritagliato su di lei la portò all’immediato successo, sul piano privato fu per lei un periodo assai difficile: era consapevole che la relazione con Cristaldi non poteva essere ufficiliazzata e soffriva lo stereotipo dell’immagine della giovane avventura del produttore attempato. Con l’avvio della sua carriera la famiglia la raggiunge a Roma e durante i primi anni mostrerà in pubblico suo figlio presentandolo come un fratellino.

In seguito, anni dopo, dichiarerà di non essersi mai sentita davvero la compagna di Cristaldi, quanto piuttosto un trofeo da tenere sotto vetro, una “Cenerentola gratificata dalla sua generosità” per l’aiuto dato nel difficile momento della gravidanza segreta e per, va da sé, l’impegno profuso per costruirle una carriera e un’immagine professionale adeguata; ma per il resto si era sentita in trappola: per il doppio legame, personale e professionale, si sentiva schiacciata e costantemente sotto controllo attraverso lo staff – il responsabile stampa, la segretaria e l’autista personali – che facevano riferimento a Cristaldi che probabilmente aveva perso la testa per la ragazza e finì col rinchiuderla in una gabbia dorata, una torre d’avorio, sempre ricordandole e rinfacciandole che lui l’aveva creata e che dunque gli apparteneva. Conducevano sempre vite separate, tranne qualche breve viaggio, e anche dopo il matrimonio che nel 1966 lui organizzò negli Stati Uniti avendo ottenuto l’annullamento della precedente unione dalla Sacra Rota, lei non lo chiamò mai Franco ma sempre e solo Cristaldi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel 1975, allorché Claudia si era innamorata del regista Pasquale Squitieri conosciuto sul set di “I guappi”. Col matrimonio Cristaldi aveva adottato legalmente il primogenito dell’attrice. E sarebbe ancora lunga la narrazione su Claudia Cardinale se non fosse che devo rientrare nei ranghi del film che l’ha lanciata.

il gruppo dei ladruncoli al completo: Totò, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Di spalle l’agente di controllo per il Dante Cruciani di Totò, attore non accreditato.

Al suo nome seguono nei titoli di testa i primi tre insieme dopo i nomi da solisti: Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e Gina Rovere, lei nel ruolo secondario della moglie in galera di Marcello Mastroianni, è una caratterista romana che avrà i suoi ruoli più importanti nei prossimi “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il napoletano Pisacane viene invece dalla gloriosa filodrammatica partenopea e aveva cominciato a fare cinema già in gioventù all’epoca del muto per poi proseguire come caratterista generico e qui è al suo primo personaggio importante, quel Capannelle che gli porterà talmente fortuna e fama da venire accreditato nelle produzioni future anche come solo Capannelle; il suo riuscitissimo accento bolognese è dovuto al doppiaggio del friulano Nico Pepe.

I debuttanti Claudia Cardinale e Tiberio Murgia come sorella e fratello.

Il sardo Tiberio Murgia è al suo debutto cinematografico diventando siciliano col doppiaggio del napoletano Renato Cominetti e anche il suo personaggio ha talmente fortuna che proseguirà la carriera continuando a essere scritturato come siciliano. Prima di approdare al cinema ha un passato rocambolesco: di famiglia povera emigra in Belgio per andare a fare il minatore a Marcinelle dal cui disastro scampa perché si era dato malato per stare con la moglie di un collega di cui era divenuto amante, ma l’intera storia è oggi ritenuta falsa perché viene da un articolo della rivista “Gente” di genere scandalistico-propagandistico per favorire la carriera del neo-attore. Di fatto Murgia fu veramente minatore in Belgio e poi lavapiatti in un ristorante di Roma dove fu notato da un assistente di Monicelli e da lì si avviò la sua carriera di caratterista siciliano.

Va dato merito al regista e al suo staff di co-sceneggiatori l’avere inserito nel cast dei coprotagonisti due piccoli caratteristi, Carlo Pisacane di antica scuola teatrale e Tiberio Murgia preso dalla strada: due personaggi veramente costruiti a tavolino che nulla avevano e avranno a che fare col carisma dell’interprete; due facce che già da sé erano maschere, ma personaggi creati col supporto di altri due professionisti a dare loro la voce: in pratica per ogni personaggio due attori, uno davanti e l’altro dietro la macchina da presa, perché senza quelle voci e quegli accenti le due maschere non sarebbero mai esistite. Pratica oggi irrealizzabile per fortuna, per la dignità professionale degli interpreti, ma che allora era prassi comune se si pensa che anche molti dei protagonisti venivano doppiati e la cosa non creava scandalo. Qui c’è Renato Salvatori che praticamente sarà sempre doppiato in tutta la sua carriera e se ciò non fosse stato consentito probabilmente si sarebbe impegnato a studiare recitazione e dizione laddove la fotogenia non sarebbe bastata più; per molti anni Claudia Cardinale fu doppiata, però si è battuta per recitare con la sua voce, e anche Totò che verso la fine era ormai quasi cieco e aveva come doppiatore ufficiale Carlo Croccolo. I titoli di testa continuano col resto dei generici fra i quali bisogna ricordare Elisa Fabrizi che è un errore di trascrizione trattandosi in realtà di Elena Fabrizi, sorella di Aldo Fabrizi, che dopo la scomparsa del fratello diverrà nota come Lella Fabrizi o più semplicemente Sora Lella, attrice intrattenitrice e proprietaria di una trattoria sull’isola Tiberina a Roma. I titoli si concludono “con” Marcello Mastroianni le cui lettere riprendono la misura massima che Gassman aveva avuto in apertura, “e con la partecipazione straordinaria” di Totò. Non è accreditato il prevalentemente radio-televisivo Mario Feliciani nel ruolo del commissario di polizia che tornerà nel sequel dell’anno dopo messo in cantiere a tambur battente.

Sul momento nessuno si rese conto di cosa era accaduto: il fatto più evidente fu il clamoroso successo del film che fu distribuito praticamente in tutto il mondo: negli USA e nel Regno Unito col titolo “Big Deal on Madonna Street” e lì avrebbe avuto grande risonanza soprattutto fra gli addetti ai lavori tanto che nei decenni a seguire avrebbero realizzato ben due remake; mentre in Spagna fu ripreso il primo titolo provvisorio “Rufufù” e in Francia si optò per “Le Pigeon” il piccione, vai a capire perché, mentre in Argentina e Brasile fecero una fedele traduzione del titolo: “Los desconocidos de siempre” e Os eternos Desconhecidos“.

Dovette passare qualche anno perché ci si rendesse conto che “I soliti ignoti” era diventato il capostipite di un nuovo genere cinematografico: la commedia all’italiana. Che era un po’ quello che era successo secoli prima nel teatro quando dalla Commedia dell’Arte si passò alla commedia brillante borghese dove i caratteri avevano perso la fissità delle maschere per diventare esseri umani a tutto tondo con i loro chiaroscuri. Da quel film in poi tutti dovettero fare i conti con quel modo di scrivere e realizzare pellicole brillanti e in un paio di decenni si realizzarono grandi film, molti dei quali a episodi, fino a che la commedia all’italiana non morì verso la fine degli anni Settanta stretta fra le spire della commedia sexy. Mario Monicelli fu candidato agli Oscar nella categoria Miglior Film Straniero e vinse lo spagnolo Festival di San Sebastian; ai Nastri d’Argento vinse Vittorio Gassman come miglior protagonista e l’intera squadra degli scrittori fu premiata per la miglior sceneggiatura.

L’anno dopo uscì il sequel “Audace colpo dei soliti ignoti” con Nanni Loy che prese il controllo dell’impresa, e un secondo tardivo nostalgico seguito si ebbe nel 1985 diretto da Amanzio Todini: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Del 2020 è l’adattamento teatrale andato in scena al Teatro La Pergola di Firenze, diretto e interpretato da Vinicio Marchioni su copione di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli. Altro adattamento teatrale ma in musical fu quello che Bob Fosse realizzò nel 1986, “Big Deal”, che non vide praticamente nessuno: 6 anteprime e 69 repliche, a Broadway. Due i remake americani, dicevamo: il primo è “Crackers” del 1984 diretto da Louis Malle con Donald Sutherland e Sean Penn, mentre del 2002 è “Welcome to Collinwood” diretto dai fratelli Anthony & Joe Russo e prodotto da George Clooney che si è collocato nel ruolo che fu di Totò. Nel 2000 Woody Allen fece un’importante citazione-omaggio nel suo “Criminali da strapazzo”. Un altro importante omaggio è nel film “A/R Andata + Ritorno” del 2004, terza regia di Marco Ponti.

Fra le curiosità: il film sarebbe dovuto uscire col titolo “Le Madame” che era il soprannome con cui i criminali chiamavano i poliziotti e che venne rigettato dalla censura perché non si poteva ironizzare sulle forze dell’ordine. La Via delle Madonne in cui viene tentato il colpo, ripreso dal titolo americano, in realtà non esiste, trattandosi della scalinata di Via della Cordonata che scende su Via delle Tre Cannelle, dietro Piazza Venezia. La ragazza che litiga col fidanzato sotto il lucernario su cui restano appesi i ladruncoli è l’ungherese Edith Bruck, scampata ai campi di concentramento nazisti, che si era stabilita a Roma dopo aver tentato di rientrare in patria, dove non aveva più nessuno, per poi di trasferirsi in Israele nel 1948 a ridosso della formazione del nuovo stato, immaginato “di latte e miele”, come scriverà, ma percorso da altri insopportabili conflitti. Come ancora oggi è. A Roma frequenta ovviamente l’ambiente intellettuale dove conosce e poi sposerà il poeta-regista Nelo Risi, fratello di Dino, e debutterà come scrittrice nel 1959 con “Chi ti ama così” scrivendo in lingua italiana, una lingua non sua, come spiegherà, che le consente il necessario distacco per descrivere la sua esperienza nei campi di concentramento. Ultima curiosità: i nomignoli Capannelle e Ferribotte erano stati orecchiati nella vita reale: a Capannelle c’è l’ippodromo di Roma ed era il soprannome di un assiduo scommettitore sulle corse dei cavalli, caratteristica che nel personaggio del film non c’è, mentre Ferribotte è la storpiatura di ferry boat, il traghetto che i siciliani prendevano per raggiungere il continente e come molti ancora lo chiamavano: ferribotte o ferribotto. Entrambi i personaggi torneranno nel prossimo sequel mentre solo Ferribotte sopravvivrà vent’anni dopo.

Edith Bruck

Il film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

C’è ancora domani – opera prima di Paola Cortellesi

Opera prima col botto grazie al concorso di diversi elementi: la popolarità dell’autrice già attrice acclamata in commedie di grande successo dove era giunta con la fama acquisita sul piccolo schermo come tuttofare di talento: ironica conduttrice, camaleontica imitatrice ed eccellente cantante: Mina l’ha definita come delle più belle voci italiane. Poi quasi a sorpresa la svolta drammatica, perlomeno per il pubblico televisivo perché al cinema si era già cimentata benché per un pubblico di nicchia, come interprete di Maria Montessori nella miniserie omonima del 2007 su Canale 5.

Altro elemento che contribuisce al successo del film è l’argomento drammaticamente attuale della violenza sulle donne, rivisto in chiave di commedia però, perché al cinema ci si va per rilassarsi e sognare e perché quello è il terreno su cui la nostra si è meglio espressa; e da questo punto di vista il film è molto furbo, laddove la furbizia è segno di intelligenza, e l’intelligenza segno di sensibilità. Poi c’è l’inattesa svolta politica e sociale che eleva il film a un livello decisamente superiore, sorprendendo ed emozionando le platee che col passaparola fanno la fila al botteghino facendo guadagnare all’opera prima diversi record: con un incasso di un milione e 600mila euro si è dapprima piazzato nella prima posizione del box office nel week end di fine ottobre, guadagnandosi anche il record di migliore esordio dell’anno; al momento con 25 milioni di euro oscilla fra il primo e il terzo posto giocandosela con “Napoleon” di Ridley Scott starring l’amatissimo Joaquin Phoenix post-Joker, e “La ballata dell’usignolo e del serpente” che è il prequel della saga fantasy “Hunger Games”: due blockbuster americani messi nell’angolo da una debuttante italiana. Inoltre è il film col più alto incasso degli ultimi tre anni scalzando dal podio Aldo Giovanni e Giacomo di “Il grande giorno” che fu il primo grande successo post Covid; e notizia del 28 novembre scorso, è al 31º posto dei film con maggiori incassi in Italia di sempre. Alla Festa del Cinema di Roma, dove il film è stato presentato, ha vinto il Premio Speciale della Giuria, quello come Migliore Opera Prima e i premio del pubblico. Insomma, Paola Cortellesi, secondo le regole del mercato è diventata un’intoccabile di cui tutti vorrebbero toccare il lembo del mantello da super-eroina.

Girato in bianco e nero con la fotografia di Davide Leone si apre con il formato 4:3 dei film del dopoguerra cui dichiaratamente si ispira omaggiando il neorealismo; ma l’omaggio dura cinque minuti perché poi lo schermo si allarga nel moderno 16:9 mentre la camminata della protagonista va in ralenti e la canzonetta d’epoca viene sostituita da musica attuale e da “Aprite le finestre” cantata da Fiorella Bini si passa a Daniele Silvestri, Fabio Concato, Lucio Dalla e altri con le musiche originali di Lele Marchitelli. Da qui in poi, pur mantenendo col montaggio secco e pulito di Valentina Mariani lo stile retrò, cui contribuiscono appieno i costumi di Alberto Moretti, il trucco di Ermanno Spera e le scenografie di Massimiliano Paonessa e Lorenzo Lasi, il neorealismo resta formalmente nello stile visivo mentre il film diventa commedia moderna che nulla ha però a che vedere con la commedia italiana di genere, la stessa che l’attrice frequenta con successo, perché l’autrice non è di quella sui generis: la sua commedia passa dal grottesco dello schiaffo di prima mattina senza ragione al surreale della coreografia che stempera nel fantastico la violenza domestica – bellissima intuizione – momenti che la critica ufficiale ha stigmatizzato come ingenuità narrative ma che per me sono segni precisi dello stile della neo-autrice che li maneggia con grande maestria senza farli percepire come corpi estranei alla sua commedia grottesca che ha il momento clou nel funerale del patriarca: grottesco e surreale che con grandissimo equilibrio narrativo e interpretativo di tutto il cast si ferma un attimo prima di diventare il troppo che storpia: segno di una maturità artistica che inscrive la Cortellesi già fra i maestri della commedia italiana: c’è Ettore Scola, c’è Luigi Comencini, c’è  Lina Wertmüller.

“La storia del film è inventata, ma c’è moltissimo dei racconti della mia famiglia. Molte delle storie da cui ho tratto ispirazione sono di mia nonna. È anche il motivo per cui ho immaginato l’opera in bianco e nero. Quando ti tornano in mente le immagini del passato a Roma non sono mai a colori. I cortili romani in cui tutto veniva messo in piazza. Si viveva insieme, non c’era discrezione, però era bello. La Roma di “C’è ancora domani” è molto lontana dalla Roma di oggi. La vita sociale era diversa.” Già sceneggiatrice – ha cominciato collaborando col marito regista Riccardo Milani – ha scritto questo suo primo film con l’amico di lunga data Furio Andreotti che conobbe ai corsi di recitazione di Beatrice Bracco (corsi frequentati anche da Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria e Claudia Gerini fra tanti altri) e Giulia Calenda, figlia di Cristina Comencini per il ramo cinema e del gionalista-scrittore Fabio Calenda per il ramo scrittura.

E da qui in poi siamo a rischio spoiler – che in italiano dicevamo anticipazione o rivelazione. Nella storia immaginata dall’autrice coi suoi due sceneggiatori, sono in primo piano la violenza domestica e il patriarcato, con un’attenzione quasi maniacale ai dettagli per collocare il film nell’immediato dopoguerra: c’è la polizia militare americana a pattugliare le strade e ci sono i mutilati, che furono tanti e per i quali sorsero nelle nostre città fra la fine della Prima Guerra Mondiale fino a tutto il ventennio fascista le Case del Mutilato, enti a sostegno dei soggetti e delle loro famiglia, spazi oggi riconvertiti ad altro uso. C’è un amore di gioventù della protagonista che porta la nostra attenzione volutamente fuori strada, e c’è il militare americano nero che viene da chiedersi dove conduca quel personaggio, e presto lo scopriremo.

Ma soprattutto c’è una lettera che la protagonista riceve a suo nome, una lettera da tenere segreta e da nascondere, e che l’astuzia narrativa ci fa credere una lettera d’amore per la quale Delia prepara la fuga insieme alla vecchia fiamma. Ma a sorpresa la lettera si rivela essere la sua prima carta elettorale perché siamo alla vigilia del suffragio universale, il voto alle donne in Italia per il referendum del 2-3 giugno 1946 che sancì il passaggio dalla monarchia alla repubblica. E la fuga della nostra donna verso il suo primo voto diventa in parallelo la liberazione dal patriarcato e dalla violenza domestica – e anche se sappiamo che nella realtà ciò non è mai avvenuto e le donne continuano a morire per mano degli uomini che dicono di amarle, il film ci regala nel finale la sua bella dose di speranza che fa partire nella platea cinematografica timidi applausi.

Paola Cortellesi, altrimenti molto espressiva, sceglie per la sua Delia una maschera sospesa con le sopracciglia sempre un po’ alzate con l’espressione di una che sembra voler dire: ma che ci faccio qui? e di maschera in maschera anche Valerio Mastrandrea tratteggia il suo marito violento un po’ credendoci e un po’ no anche lui sempre in bilico sul baratro del troppo che storpia. Centratissima la giovane figlia adulta di Romana Maggiora Vergano che dopo un po’ di sana gavetta si è fatta notare nel televisivo “Christian” su Sky e qui tratteggia con grande partecipazione emotiva la figlia che vorrebbe ribellarsi al patriarcato ma che accecata dall’amore non vede il suo personale pericolo dietro l’angolo. Il vecchio patriarca allettato, ferocemente proattivo, è il sempre ottimo Giorgio Colangeli che qui fa scuola di romanesco sboccato ai due nipoti minorenni e incontenibili resi dai debuttanti Gianmarco Filippini e Mattia Baldo. Vinicio Marchioni è l’amore di gioventù, Emanuela Fanelli è la sincera amica del cuore, Gabriele Paolocà il fruttivendolo suo marito, il militare americano è il nero Yonv Joseph che si è fermato a Roma per studiare musica al Conservatorio di Santa Cecilia e alla Scuola di Musica Popolare di Testaccio e va da sé è diventato anche attore; il caratterista Lele Vannoli è il soccorrevole (anche troppo) vicino di casa e la professionista di lungo corso Paola Tiziana Cruciani presta la sua maschera sempre più intensa, col passare degli anni, alla merciaia; Francesco Centorame è il fidanzato della figlia che si rivelerà anch’egli frutto di lombi patriarcali: il padre lo interpreta Federico Tocci e la madre borghesuccia snob ma anch’ella vittima è Alessia Barela; le vicine di casa, in un contesto sociale in cui non esisteva il concetto di privacy, sono Priscilla Micol Marino, Maria Chiara Orti e Silvia Salvatori che è quella più avvelenata, che in romanesco sta per velenosa, e che solo per questo si distingue sulle altre.

Paola Cortellesi dedica questo suo primo film a Lauretta, la sua bambina di dieci anni, che quasi casualmente ha fatto la comparsa nel film lamentandosi di star perdendo un giorno di scuola perché del cinema, come ha detto sua madre, non gliene frega un granché. Staremo a vedere, se ci saremo ancora.

Il giorno e la notte

Durante il primo lockdown c’è chi ha messo in pausa la propria vita accettando stoicamente quello che stava accadendo; c’è chi si è lamentato per tutto il tempo e chi ha negato ad oltranza l’evidenza dei fatti; poi c’è stato chi è andato fuori di testa, chi in maniera ironica e spiritosa e chi in modo molto cupo e drammatico; e alla fine, fra tutti, qualcuno è riuscito a vedere in quello stato di innaturale sospensione del tutto un’opportunità per continuare a vivere e fare quello che sapeva fare, creare, per riscrivere quella realtà. Daniele Vicari è un cineasta, e da cineasta e creativo ha continuato a ragionare durante quella prima quarantena, creando un’opportunità da quello che per tutti era un immenso ostacolo.

Dapprima è critico cinematografico, poi realizza i suoi primi cortometraggi finché insieme agli altri registi-sceneggiatori Guido Chiesa, Davide Ferrario, Davide Leotti e Marco Simon Puccioni, realizza il documentario “Partigiani” sulla lotta al nazi-fascismo nel comune di Correggio. Da lì in poi continuerà a realizzare in proprio tutta una serie di altri documentari dedicati al tema del sociale finché debutta nel 2002 come regista del lungometraggio fictional “Velocità massima” per il quale viene premiato come Miglior Regista Esordiente col David di Donatello. Continua a dividersi con successo fra documentari e fiction fra i quali è da ricordare “Diaz – Don’t clean up this blood” sui fatti della violenza della Polizia di Stato sugli inermi manifestanti al termine del G8 di Genova nel 2001.

In apertura dei titoli di testa passano questi cartelli che spiegano l’operazione: “Questo film è stato realizzato durante il lockdown che in Italia si è protratto da marzo a maggio 2020. I membri della troupe hanno lavorato a distanza, senza mai essere sul set, attraverso un metodo di lavoro comune. Gli interpreti hanno fatto le prove, predisposto le scenografie, i costumi, il trucco, l’illuminazione ed effettuato le riprese. Tutte/i abbiamo lavorato per realizzare un sogno che il virus sembrava aver cancellato: pensar e fare cinema nonostante tutto.”

L’autore immagina che un attacco chimico terroristico a Roma costringe tutti a restare chiusi in casa e monta sapientemente annunci radio-televisivi di finzione a spezzoni reali in cui l’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte raccomandava a tutti di rispettare la quarantena: quella reale da Covid diventa così un espediente narrativo. Nove persone vengono sorprese dal lockdown: chi da solo in casa, chi forzatamente in coppia e trattandosi di quattro coppie c’è necessariamente un terzo incomodo da qualche parte. Fra gli interpreti ci sono perlopiù coppie anche nella vita reale: Francesco Acquaroli e Barbara Esposito che recitano la coppia dei separati in casa messi in ulteriore crisi dalla quarantena; lui esprime il momento recitativamente più intenso di tutto il film, quando vorrebbe dire all’ex moglie convivente forzata che la ama ancora ma è un uomo che non sa usare le parole e interpreta tutta questa sua impotenza, e il dolore, solo con la mimica: da grande attore. Dario Aita ed Elena Gigliotti sono l’altra coppia reale che si mette in discussione artisticamente, interpretando una coppia di attori, già sopra le righe rispetto alla gente comune, che scoppia per divergenze artistiche. i componenti della coppia formata da Vinicio Marchioni e Milena Mancini recitano i ruoli di buoni amici con qualcosa in più, e a farne le spese è il marito fictional di lei interpretato da Giordano De Plano: tutti e tre molto romaneschi. La palermitana Isabella Ragonese e il veronese Matteo Martari sono la coppia artistica che non si è potuta riabbracciare e portano avanti il loro dialogo attraverso le videochiamate. Eccetto il laboratorio del corniciaio-restauratore e l’agriturismo, tutte le location sono le reali abitazioni degli interpreti e davanti a tanta realtà, benché artisticamente organizzata, non c’è scenografia che tenga.

Elena Gigliotti, Matteo Martari, Dario Aita, Vinicio Marchioni, Isabella Ragonese, Giordano De Plano
Milena Mancini, Barbara Esposito, Francesco Acquaroli

Come vedremo dagli spezzoni in coda tutte le riprese sono state fatte con smartphone dagli stessi interpreti, secondo le indicazioni di regia ovviamente, e solo in alcuni casi si notano dei discretissimi movimenti di camera a rilevare che c’era un’altra persona a realizzare il video. Le storie, la narrazione, hanno tutte qualcosa di già visto e sentito ma non dispiace perché è evidente il senso dell’operazione, della sperimentazione: dare un senso a un periodo in cui ogni cosa aveva perso senso, e da questo punto di vista il film è anche commovente per l’adesione totale degli interpreti e di tutto il cast tecnico che non vediamo. Bellissimo il finale in cui il regista ci mostra alcuni scorci della Roma deserta di quei giorni, in cui per strada c’erano solo militari e senzatetto, a dimostrazione del fatto che Daniele Vicari sa guardare con occhio attento la società e la realtà anche quando sta realizzando un film di narrativa, un sogno per professionisti che hanno saputo dare forma a un sogno anche nel momento peggiore della loro, della nostra, vita.

Il film è disponibile su RaiPlay.

I predatori – opera prima di Pietro Castellitto

Mi piace parlare di opere prime. Perché quando ritroviamo vecchi film di autori già affermati ne possiamo osservare i primi passi col senno di poi, in questo blog fra gli altri ci sono Bernardo Bertolucci, Clint Eastwood, Federico Fellini, Stanley Kubrick, Sergio Leone, Ettore Scola, Steven Spielberg; nel caso di attori famosi che passano alla regia è interessante vedere questo loro nuovo punto di vista, cosa li ispira, se si inserisce nel loro percorso di autocelebrazione anche come interpreti protagonisti o piuttosto non sia invece la necessità di esprimere la propria visione di cinema. Nel caso di opere prime assolute, invece, è intrigante cercare di intuire che regista sarà, o vuole essere, il/la debuttante, e cercare di immaginarne il percorso futuro.

Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini: “Per noi la famiglia è tutto” |  People
Qui una foto in posa della famiglia Castellitto-Mazzantini di quando il ragazzo era ancora più ragazzo
Giselda Volodi

Pietro Castellitto, come sappiamo, è doppiamente figlio d’arte, e se dal padre attore e regista Sergio ha imparato il cinema, dalla madre scrittrice e drammaturga Margaret Mazzantini (a sua volta figlia dello scrittore e storico del fascismo Carlo Mazzantini) sembra avere imparato la scrittura: in ogni caso si presenta già come una sintesi, e di successo, dei differenti talenti genitoriali, andando oltre gli specifici di entrambi; e non finisce qui perché Pietro è anche nipote d’arte (oltre che del nonno materno) da parte di zia, essendo sorella della mamma l’attrice Giselda (Mazzantini) in arte Volodi. Ha debuttato 13enne diretto dal padre nel film tratto dal romanzo della madre “Non ti muovere” e fra i successivi quattro film in altri due è stato diretto sempre da suo padre e sempre su sceneggiature della madre: una bottega a conduzione familiare che all’inizio non ha avuto il sostegno della critica tanto che il giovane Castellitto si è più volte definito in varie interviste un attore fallito. Ma il ragazzo ha fatto, come si dice, di necessità virtù, perché convinto di voler continuare nel mestiere del cineasta, al contrario degli altri suoi tre fratelli che non mostrano gli stessi interessi. Così, messa in pausa la recitazione, si è dedicato allo studio e alla scrittura per giungere a questo secondo fortunato momento della sua carriera: 30enne, come attore interpreta Francesco Totti nella miniserie Sky “Speravo de morì prima” e quasi in contemporanea realizza questo film con cui va oltre il padre e la madre, perché scrive dirige e interpreta con una sicurezza stilistica e interpretativa che finalmente gli dà credibilità in autonoma, disgiunta dalla famiglia; per la sceneggiatura vince a Venezia il Premio Orizzonti e a seguire il David di Donatello come regista esordiente.

Il film è un corale che si inserisce nel meglio della commedia italiana, senza mai scadere nel banale, nel volgare o nel già visto, pur restando in linea con illustri predecessori. Mette a confronto due tipiche famiglie romane: quella alto borghese dalle idee liberali e progressiste ma che mostra un gretto conservatorismo radicato nell’animo, un mondo cui ci si può ribellare solo idealmente solo rappando – e quella più rumorosa e generosa, più progressista e liberale nei fatti dove si permette al rampollo dodicenne di allenarsi al tiro di precisione con un fucile automatico; una tipica famiglia borgatara, di Ostia, laddove il borgo è anche notoriamente enclave di nazifascisti dai traffici naturalmente e necessariamente illeciti, perché dietro una legale armeria nascondono un traffico illegale di armi e una collusione con il crimine organizzato. Ma contrariamente a quanto ci si aspetta, e a quanto il nostro cinema ci ha abituato, le due realtà non collidono, non arrivano allo scontro, e il confronto che mette in scena Pietro Castellitto si svolge tutto sul piano morale, non a caso li chiama tutti predatori sin dal titolo, così come Victor Hugo intitolò “I miserabili” una storia che metteva a confronto le miserie fisiche e le miserie dell’animo.

I Predatori”, l'opera prima di Pietro Castellitto a Venezia 77 | RB Casting
La tavola dei borgatari: solare e colorata, all’aperto, iconica nella rappresentazione frontale e che si apre al nostro sguardo come ad eventuali nuovi arrivi
Cinema, Pietro Castellitto debutta alla regia con "I predatori" - Gazzetta  del Sud
La tavola degli intellettuali: al chiuso in un ristorante di lusso dai colori cupi, circolare e dunque autoconclusiva e chiusa all’esterno, ma che diventa anche palcoscenico di accesi scontri verbali per il pubblico intorno

La coralità e la diversità sociale fanno subito pensare a “Ferie d’agosto” di Paolo Virzì del già lontano 1996 – ma ancora vicino per le questioni che racconta, ancora irrisolte; e non è un caso se anche lì il capofamiglia dei borgatari fascistoidi è il titolare di un paio di armerie: la cronaca reale ispira la finzione. Ma “I predatori” richiama alla mente anche le coralità e i confronti intellettuali di diversi film di Ettore Scola e si inserisce di diritto nel filone della commedia italiana di taglio sociale, quella alta, che sa far pensare ma anche sorridere senza ricorrere alle facili scorciatoie di battute ad effetto, dove la comicità è fra le righe e assai corrosiva, e si sorride per la finezza con cui sono delineati personaggi e situazioni, personaggi e situazioni complessi che si offrono a differenti letture stratificate.

Il film si apre con una serie di inquadrature che piano piano ci introduce allo spazio in cui vedremo agire la varia umanità e nell’antefatto riconosciamo subito il predatore dichiarato, quello che si ammanta del fumo di una sigaretta elettronica, che lo nasconde e in cui sparisce, il truffatore che con modi garbati e affettuosi raggira l’anziana e poi sparisce per tutto il film, lasciando il campo agli altri predatori, quelli non immediatamente riconoscibili, che scopriamo un po’ alla volta senza capire cosa li lega, qual è il nesso della storia, che come in un thriller pacato si scopre un po’ alla volta e che dalla frammentarietà del puzzle iniziale si apre a scene drammaticamente complesse, molto parlate, girate in uniche sequenze di taglio teatrale grazie alla bravura degli interpreti, che anche quando si esprimono in romanesco non biascicano e sono comprensibili. Fra essi l’autore si ritaglia il personaggio di un nerd, che in americano è molto più sintetico e molto più significante del nostro secchione sfigato, un appassionato di Nietzsche con seri problemi comportamentali, che già di suo meriterebbe un premio all’interpretazione. Per il resto non fa sconti a nessuno: racconta i retroscena e il sottobosco in cui si muove il nazifascismo romano con sede a Ostia, ma è impietoso anche col mondo benestante e intellettuale da cui realmente proviene e nel cui racconto si colloca: autocelebrativi e immorali, con un significativo e divertente spaccato sul mondo del cinema nella figura della madre regista. Pietro Castellitto chiude almeno due cerchi: nel film il predatore truffatore che apre il film torna nel finale a sorriderci col suo fascino poco rassicurante, e nel suo percorso artistico e professionale chiude il cerchio dell’apprendistato fatto all’ombra della famiglia e si consacra in proprio autore di talento.

I predatori - Film (2020) - MYmovies.it

Battiti

Il canale Sky Arte oltre al merito di esistere ha anche quello di passare, di tanto in tanto, qualche cortometraggio, ovvero film della durata massima di 30 minuti, che generalmente non hanno distribuzione nelle sale e fra i quali si trovano, a volte, vere perle di cinematografia. Non è questo il caso.

Vinicio Marchioni è un quarantenne che deve accantonare gli sport estremi perché ha problemi di cuore: non può più fare sforzi, deve ridefinire la sua vita e in questo lo vediamo assistito da una solerte educatrice emotiva, efficiente quanto castrante, che lo aiuta a controllare i battiti del suo cuore… ma poi la frequentazione prende il sopravvento sulla pratica paramedica e i battiti del cuore diventano improvvisamente sentimentali. Che bello. Se non fosse che queste tematiche erano in voga nei fotoromanzi anni ’70. E se proprio bisogna raccontare questi battiti del cuore, oggi, allora sarebbe meglio rivolgersi alle adolescenti piuttosto che ai quarantenni: il contesto è superficiale e le aspirazioni artistiche sembrano davvero quelle di trenta-quarantenni con la sindrome di Peter Pan. Erica Del Bianco è la coprotagonista e completa il cast la lituana Ruta Papartyte che altrove è una responsabile casting e non un’attrice.

Storia banale scritta male da Alessia Rotondo, inutilmente prodotto da Claudia Di Lascia, questo cortometraggio ha la supervisione artistica del regista Silvio Soldini che evidentemente non aveva niente di meglio da fare. Il lavoro del regista Michele Bizzi è soddisfacente ma resta la domanda: davvero non aveva sottomano una sceneggiatura più interessante? Fatte le opportune ricerche suppongo che il trend sia questo perché trovo notizie di un suo film del 2013, “La strada verso Olympia” con la medesima attrice protagonista: stavolta la disgraziata è lei perché si risveglia dal coma e si ritrova inchiodata sulla sedia a rotelle, e il suo più grande desiderio qual è? ma andare al concerto dei Pooh all’Olympia di Parigi!… Basta così, è troppo!