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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

Diabolik – dal primo fumetto all’ultimo film

Tanto per cominciare lo pronunciamo tutti, anche nel film, Diabòlik, seguendo l’accentatura dell’italiano diabolico, mentre secondo le intenzioni delle autrici e secondo il sito ufficiale – http://www.diabolik.it – la pronuncia dovrebbe essere Diabolìk seguendo l’accentatura del francese diabolique, ma vabbè, vox populi vox dei.

Creato nel 1962 dalle sorelle Angela e Luciana Giussani, di fatto fu inizialmente ideato da Angela, bella signora milanese che dopo aver calcato le passerelle come modella, sposa l’editore Gino Sansoni e comincia a lavorare nella di lui casa editrice Astoria Edizioni che si era specializzata nelle riviste chiuse, pubblicazioni con la copertina chiusa che contenevano materiale per adulti, racconti foto e fumetti, che per essere lette bisognava tagliarne la copertina: dunque non era possibile darci un’occhiata veloce in edicola e andavano comprate; ovviamente la produzione non era tutta lì e la signora Angela si occupò di una collana per ragazzi, salvo poi volere una propria casa editrice per avviare progetti tutti suoi, e dato che era stata regolarmente assunta si licenziò e con la liquidazione creò l’Astorina, sorta di costola dell’Astoria la cui sede venne creata all’interno del vasto appartamento che già ospitava l’Astoria. La signora comincia l’avventura editoriale pubblicando giochi in busta e importando dagli Stati Uniti un fumetto su un pugile, Big Ben Bolt, al quale poi affianca un nuovo progetto ispirato da un romanzo che aveva trovato in treno, Fantômas, un noir rigorosamente francese pubblicato in avventure seriali su uno spietato criminale abilissimo nei travestimenti e dotato di intelligenza diabolica. Nasce così l’italiano Diabolik, con un nome fantasy che non proviene da nessuna lingua, un anglo-francese maccheronico: da noi, a quell’epoca, aggiungere una kappa significava conferire una nota di pericoloso esotismo a nomi altrimenti troppo italiani e dunque banali; sono gli anni in cui vengono creati anche Satanik e Kriminal, il meno noto Zakimort e a seguire arrivano le parodie: Cattivik di Bonvi e il film “Arriva Dorellik” interpretato dal cantantattore Johnny Dorelli e diretto da Steno.

Il primo numero di Diabolik è interamente scritto da Angela Giussani con i disegni del misterioso Angelo Zarcone detto “il tedesco” perché portava in redazione il biondissimo figlioletto avuto da una relazione con una tedesca, che inoltre andava in giro indossando pantaloncini e zoccoli proprio come un turista tedesco. All’epoca disegnava per l’adulta Astoria il fumetto sexy “Alboromanzo Vamp” e, com’era in uso, gli autori, scrittori e disegnatori, non si firmavano per non essere rintracciati dal fisco; oltre a questo, di Zarcone si sa poco perché era un tipo assai sfuggente: l’editore Sansoni doveva appostarsi sotto la pensione nella quale viveva per costringerlo a farsi consegnare le tavole, puntualmente sempre in ritardo; mentre a sua insaputa stava disegnando anche la nuova creatura d’esordio della di lui consorte, solo che, appena consegnato il lavoro sparì senza lasciare traccia e inutili furono le ricerche. L’albo uscì il 1° novembre del 1962 con la copertina disegnata da Brenno Fiumali, e quando due anni dopo vennero ristampati a grande richiesta i primi 17 numeri, Marchesi ridisegnò il numero uno del misteriosamente scomparso Angelo Zarcone.

Nel 1982, a vent’anni da quel numero uno, le sorelle Giussani ingaggiarono addirittura l’investigatore americano Tom Ponzi per trovarlo, ma senza successo; solo nel 2005 Brenno Fiumali incontra Zarcone, non si sa come e dove, e in seguito ne disegnerà a memoria il volto, mentre la ragione della sua sparizione resterà un mistero, poi indagata dal regista Giancarlo Soldi nel docufilm “Diabolik sono io” in cui si ipotizza un incidente cui è seguita un’amnesia dissociativa – ma oltre le ipotesi la verità resterà un enigma. I Manetti Bros. autori di questo film del 2021, sono presenti come testimonial ed esperti di Diabolik nel docufilm visibile a pagamento su YouTube; qui di seguito il trailer.

Il numero 1

Angela Giussani, con piglio da moderna imprenditrice, condusse un’informale indagine di mercato osservando in prima persona i pendolari alla stazione ferroviaria non lontana da casa: i lavoratori durante lo spostamento leggevano per lo più romanzi gialli, di facile presa; e anche nella rivista allora per eccellenza, Grand Hotel, le storie che avevano più seguito erano quelle a tinte forti, per non dire che i titoli di maggior successo della casa editrice del marito erano quelli con copertine sessualmente allusive e titoli morbosi: dunque erano quelle le tracce su cui muoversi e di suo, la signora, ebbe la brillantissima intuizione del formato tascabile, che entrasse appunto nelle tasche e nelle borse, formato che avrà moltissimi epigoni, di lettura facile e veloce ma che soprattutto doveva costare poco, 150 lire, meno di 2 euro odierni. Il numero 1 non è lo sperato successo commerciale e per il numero 2, pensando anche al risparmio, chiama la sorella Luciana alla co-scrittura della storia che, sparito Zarcone, fa disegnare all’amica modista Kalissa Giacobini. Ed è nel fatidico numero 3, “L’arresto di Diabolik” che entra in scena e nella vita del criminale la fascinosa Eva Kant che deve l’invenzione del suo cognome al filosofo Immanuel Kant su cui Angela aveva fatto la sua prima tesina al diploma magistrale.

È dal 14esimo numero che Luciana viene ingaggiata stabilmente nella creazione degli albi e nella conduzione della casa editrice, e insieme racconteranno di essersi ispirate per la creazione di Diabolik a un fatto di cronaca nera accaduto a Torino nel 1958: un 27enne venne trovato nel suo letto in una pozza di sangue con i segni di diciotto coltellate sul petto; le indagini presero anni creando un mistero che appassionò l’opinione pubblica, fino a che l’assassino non inviò un biglietto al commissariato di polizia in cui si firmava Diabolich, a sua volta probabilmente ispirato dal Diabolic protagonista del romanzo “Uccidevano anche di notte” del giallista Italo Fasan che si firmava Bill Skyline. Il fantomatico Diabolich non fu mai catturato e alla sua vicenda pare si sia ispirato anche l’americano Assassino dello Zodiaco. Realtà e finzione che si ispirano a vicenda, perché forse gli psicopatici assassini hanno bisogno da dare un senso alto, un significato superiore, alle loro azioni, mentre scrittori ed editori hanno bisogno della cruda realtà per rendere più scandalosamente emozionanti le loro storie. E col terzo numero arrivarono i guai giudiziari: l’editrice, per promuovere la sua nuova creatura, ebbe l’idea di distribuire copie omaggio ai ragazzi delle scuole medie, ma questo venne visto come un tentativo di traviare la sana gioventù; ne seguì un processo nel quale Angela Giussani fu assolta perché nella copertina Diabolik compariva con i polsi incatenati e davanti a una ghigliottina a monito per le sue indicibili colpe. Resta da svelare come fu creato il nome dell’Ispettore Ginko: fu semplicemente inserita una K, tanto per non cambiare, all’interno del nome Gino, che era Gino Sansoni marito di Angela.

Il primo film su Diabolik è del 1967 diretto dal maestro degli effetti speciali Mario Bava, che non fu un gran successo commerciale ma che negli anni è divenuto, come spesso accade, un cult. Bisogna aspettare più di mezzo secolo perché un’altra produzione cinematografica si metta in moto su idea dei Manetti Bros., Marco e Antonio, anche direttori della fotografia, produttori e sceneggiatori oltre che registi: registi di genere, appassionati di cultura pop anni ’70 e di horror misto a un gusto dissacrante che vira nella commedia grottesca, un po’ alla Quentin Tarantino de noantri, e nelle loro prime produzioni mischiano generi che tutti insieme non hanno fatto presa al botteghino anche perché i nostri, pur essendo dei cineasti rifiniti, non hanno il genio e la visione dei maestri. E questo loro Diabolik ne è la prova.

Scrivono la sceneggiatura con Michelangelo La Neve, loro amico e assiduo collaboratore che fu anche – fu perché è morto 62enne in questo 2022 – sceneggiatore di fumetti come Dylan Dog, Martin Mystère oltre che Diabolik. Nel cast la scelta più infelice, anzi di più, disastrosa, è quella di Luca Marinelli che interpreta il suo Diabolik leggendolo in chiave psicoanalitica e dimenticandosi di avere a che fare con una maschera, un personaggio da fumetto nato nei primi anni ’60, a cui la profondità psicologica è sconosciuta e aliena; ne fa un lugubre psicopatico che a tratti si muove anche come un automa, e gli manca del tutto la caratteristica primaria: quel fascino magnetico foriero di tanti pericoli che il nostro uomo mascherato dagli occhi di ghiaccio possiede; e a dirla tutta Marinelli è anche poco somigliante e appare anche ridicola l’attaccatura a punta sulla fronte. Più centrati e somiglianti i comprimari: Miriam Leone è fascinosa come abbiamo sempre percepito Eva Kant, ma il lavoro migliore lo fa Valerio Mastrandrea come Ginko perché ha dalla sua una recitazione asciutta che non cerca a vuoto facili effetti che non ci sono. Miriam Leone passa l’esame perché fa quello che le riesce meglio, essere credibile, senza però mai arrivare a una vera interpretazione da attrice raffinata che controlla i suoi mezzi espressivi inserendo nel personaggio sfumature che non ha: è bella e fa la bella che sa essere ambigua e seducente, tutto il resto non le compete. Basta guardare l’interpretazione del cameo di Claudia Gerini per capire di che parlo, una vera attrice che interpreta – lei sì – una maschera in commedia, un personaggio inesistente creato da Eva Kant con una maschera di lattice: una sciura milanese con la R moscia che accende lo schermo per la breve durata del suo intervento, e quando Eva Kant si leva la maschera e torna Miriam Leone finisce l’incanto.

Il film, che segue il plot del fumetto n° 3, è un buon prodotto ma non un capolavoro, laddove ai Bros. non è dato creare capolavori: manca un’idea specifica, una chiave di lettura autorale, e si rimane nel film di genere, a tratti anche noioso perché troppo parlato senza avere dialoghi particolarmente brillanti. Se i Fratelli avessero saputo azzardare avrebbero potuto realizzare un film in un tagliente bianco e nero per richiamarsi alle tavole originali del fumetto o, sempre in quest’ottica, montare una serie di inquadrature ferme come fosse appunto una sequenza di tavole disegnate, salvo creare un movimento esasperato nelle scene di azione – invece muovono la cinepresa come se stessero girando né più né meno che un film per la tivù.

Notevolissima, invece, la colonna sonora degli storici collaboratori dei fratelli registi, Pivio (Roberto Pischiutta) e Aldo De Scalzi, che in ogni circostanza del film creano sempre la giusta atmosfera in puro stile anni Sessanta; si aggiungono due canzoni originali di Manuel Agnelli che è l’unico a vincere su 11 candidature ai David di Donatello. Ma sono notevoli anche l’ambientazione tutta in stile italiano, come nei fumetti, con scritte e insegne in italiano nonostante la collocazione sia nella fantasiosa Clerville: un pastiche fantasy pensato e voluto dalle Sorelle Giussani, che colloca le azioni in un immaginario paese estero senza allontanarsi dalla cultura popolare italiana; scenografia di Noemi Marchica, costumi di Ginevra De Carolis, trucco e parrucco di Francesca Lodoli.

Fra gli altri interpreti il ruolo più corposo, quello dell’ambiguo vice ministro innamorato di Eva Kant, è andato a un altro fedelissimo dei fratelli, l’Alessandro Roia (alterimenti Roja) assurto alla notorietà come Dandi nella serie tv “Romanzo criminale” e, proprio perché i Fratelli non pensano a dirigere gli attori, anche lui fa del suo meglio senza convincere del tutto nonostante il personaggio sia molto ben scritto e accattivante. Centrati, invece, tutti gli altri ruoli assegnati a caratteristi di lungo corso che nei loro curriculum hanno anche dei ruoli da protagonisti: Serena Rossi è l’ignara prima compagna di Diabolik che nel fumetto finirà al manicomio, Vanessa Scalera è la compiacente segretaria del vice ministro e Luca Di Giovanni è il cameriere di cui Diabolik indossa la maschera e che è costretto a replicare l’automa a cui Luca Marinelli ha dato vita (si fa per dire!); Roberto Citran è l’azzimato direttore d’albergo, Antonino Iuorio l’ebete direttore del carcere, Daniela Piperno l’adeguata (dis)funzionale direttrice di banca; Urbano Barberini nel piccolo ruolo di un politicante e Pier Giorgio Bellocchio (figlio del regista Marco) interpreta un poliziotto nel tempo libero che gli rimane dall’impegno principale, quello di produttore esecutivo per la Mompracem dei Manetti e per Rai Cinema.

Anche questo film è incappato nelle chiusure della pandemia: la prima uscita era prevista per il 31 dicembre 2020 ed è stata posticipata di un anno, e nonostante la distribuzione accidentata ha avuto ottimi incassi, tanto da far mettere in cantiere addirittura due sequel che gli autori hanno pensato durante il lockdown. Luca Marinelli però è fuori gioco, non si sa se per coscienziosa scelta personale o scelta della produzione: la versione ufficiale è che aveva altri impegni. E a indossare la calzamaglia di Diabolik sarà l’italiano naturalizzato canadese Giacomo Gianniotti che è assurto alla notorietà come dottor Andrew DeLuca nella serie “Grey’s Anatomy” dove era doppiato da Marco Vivio; ma dato che Gianniotti parla anche l’italiano, sentiremo la sua vera voce nei Diabolik numero due e tre? A proposito di voci: quelle di Marinelli e Mastrandrea hanno all’inizio un impatto negativo perché troppo leggere: siamo abituati, viziati, a sentire i personaggi in calzamaglia e in genere quelli iconici con le voci pastose e profonde dei nostri doppiatori, anche riconoscibili di film in film e di serie in serie; ma mentre Mastrandrea nel corso del film risulta accettabile perché convincente è la sua interpretazione, il tenorile biascichio di questo primo Diabolik risulta davvero penoso: archiviato. E ricordandoci che è del 1968 il primo film su Diabolik diretto da Mario Bava, per il futuro non ci resta che attendere.

Giacomo Gianniotti