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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

Gli occhiali d’oro – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Dopo “La lunga notte del ’43” e “Il giardino dei Finzi Contini” terzo e a tutt’oggi ultimo film dalla narrativa che Giorgio Bassani dedicò alla sua Ferrara e contestualmente al periodo fascista della città, essendo egli stesso uno di quegli ebrei che vissero sulla propria pelle le leggi razziali emanate nel 1938. Il giovane Bassani era all’epoca studente universitario a Bologna e gli fu concesso di proseguire gli studi, si sarebbe laureato l’anno dopo, mentre non erano più consentite le nuove iscrizioni agli ebrei, di pari passo all’epurazione del corpo docenti. L’io narrante, un universitario ebreo che è chiaramente l’alter ego dello scrittore, nel romanzo non ha un nome e nel film, scritto dallo stesso regista Giuliano Montaldo con Nicola Badalucco e Antonella Grassi, viene chiamato Davide Lattes, figlio di Bruno Lattes che a sua volta è il nome di uno dei personaggi che frequentano il giardino dei Finzi-Contini, romanzo dove a sua volta si cita la vicenda che viene raccontata in questo romanzo: se nel Bassani scrittore i rimandi e le autocitazioni sono frequenti, gli sceneggiatori ne prendono atto e proseguono sulla strada tracciata per restare fedeli allo spirito che anima quelle narrazioni: Ferrara come luogo eletto di una comunità che si autodefinisce “popolo eletto”. Nel romanzo e nel film procedono di pari passo le vicende dell’io narrante e del medico narrato: un omosessuale di mezza età che innamorandosi di un giovane arrivista crea scandalo e viene emarginato dalla benpensante società dell’epoca, emarginazione che procede specularmente a quella che lo studente subisce a causa della sua religione.

Nicola Farron e Philippe Noiret

Vidi il film al cinema alla sua uscita nel 1987 e già allora non mi convinse del tutto benché all’epoca non sapessi motivare chiaramente le mie impressioni: riferivo al mio gusto personale; rivisto oggi confermo e specifico: manca di pathos, è ben confezionato ma calligrafico. Manca l’atmosfera cupa dei tempi bui cui ci si avviava in quegli anni, che il debuttante Florestano Vancini aveva saputo infondere alla sua lunga notte del ’43, e soffre di quel patinato manierismo che si respirava nel giardino dei Finzi-Contini filmato da Vittorio De Sica. Detto ciò il film ebbe successo e si aggiudicò alcuni premi tecnici: a Venezia l’Osella d’Oro per i costumi di Nanà Cecchi e le scenografie di Luciano Ricceri, e poi David di Donatello alla musica di Ennio Morricone che comunque non è fra quelle che continuiamo ad ascoltare. Il cast, come nella migliore tradizione italiana dei decenni passati, è un’insalata di interpreti stranieri e italiani, qui giustificata dal fatto che si tratta di una coproduzione Italia Francia Jugoslavia; insalate per fortuna non più consentite alle produzioni italiane odierne in cui c’è l’obbligo della presa diretta dove gli eventuali interpreti stranieri devono recitare in italiano o fare ciò che sono, gli stranieri, e in cui all’eventuale necessario doppiaggio saranno gli stessi attori a usare la propria voce, a meno che non rinuncino personalmente; una battaglia, quella della voce-volto lanciata dall’impegnatissimo Gian Maria Volonté già alla fine degli anni ’70: un complesso argomento che meriterebbe un approfondimento a parte.

Rupert Everett e Valeria Golino

Davide Lattes, con la voce di Tonino Accolla, ha il volto di Rupert Everett fresco del successo del britannico “Another Country: la scelta” diretto dal polacco Marek Kanievska nel 1984; va da sé che viene scritturato dai nostri produttori e in quel 1987 è protagonista per Francesco Rosi in “Cronaca di una morte annunciata” e di questo film di Montaldo. L’anziano medico, doppiato da Sergio Rossi, è impersonato dal francese di casa in Italia Philippe Noiret, che in quella pratica di coproduzioni e finte produzioni italiane con attori stranieri, si accaparrò molti ruoli assai interessanti che sarebbero potuti andare ai nostri colonnelli: Gassman, Mastroianni, Manfredi, Sordi, Tognazzi. Protagonista femminile è l’emergente Valeria Golino che recita con la sua voce ingolata non del tutto gradevole all’epoca, viziati com’eravamo dalle voci perfette del doppiaggio, migliore attrice rivelazione l’anno prima premiata col Globo d’Oro per “Piccoli fuochi” di Peter Del Monte, e qui candidata inopinatamente (a mio avviso brava ma non da premio) come protagonista ai David di Donatello, insieme a Noiret: entrambi restarono a bocca asciutta perché i premi agli attori protagonisti andarono a Marcello Mastroianni e Elena Safonova per “Oci ciornie” di Nikita Sergeevič Michalkov. Il bel mascalzone di cui s’innamora il medico è impersonato da un altro emergente che poi non rispettò la promessa di una brillante carriera, Nicola Farron, che si esibisce in un nudo integrale sotto la doccia che ancora vale il limite di età alla visione del film su YouTube, anch’egli doppiato da Fabio Boccanera.

Il professor Amos Perugia di Roberto Herlitzka accompagnato all’uscita dall’ateneo dai suoi studenti mentre sullo sfondo si grida “Ebreo! ebreo!” e “Eia eia alalà”.

Altri nomi di spicco sono la centratissima Stefania Sandrelli come malefica pettegola e soprattutto Roberto Herlitzka perfettamente in ruolo essendo egli stesso un ebreo che bambino sfuggì al nazi-fascismo col padre che riparò in Argentina: qui nei primi dieci minuti del film interpreta il professore universitario epurato. I genitori del protagonista sono interpretati dal serbo Rade Markovic e dalla romana di nobili origini Esmeralda Ruspoli. Nel ruolo di uno studente universitario un giovane Luca Zingaretti. Il film, che di diritto si inserisce sotto l’etichetta Fascismo e Resistenza, è oggi considerato un caposaldo anche del filone film LGBT.

Di Giuliano Montaldo bisogna ricordare che come tanti dei suoi coetanei debuttò con un film legato al racconto del fascismo, “Tiro al piccione”, tema che continuerà ad esplorare in altri suoi riusciti lavori come “Gott Mit Uns” e “L’Agnese va a morire”. Nel 2007 è stato insignito del David di Donatello alla Carriera e nel 2018 vinse il David come attore non protagonista per “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni. Mentre il suo ultimo film da regista è “L’industriale” del 2011 con Pierfrancesco Favino. Oggi ha 93 anni.

IL SOSPETTO – omaggio a Francesco “Citto” Maselli

Sarò sincero, non sono mai stato un fan dell’appena scomparso 92enne Francesco Maselli e trovando su YouTube questo suo importante film che ho visto per la prima volta, confermo la mia posizione: il suo impegno politico e sociale prevarica l’attenzione per il pubblico, tant’è che i suoi film non hanno mai avuto grande riscontro al botteghino. Ci sono film di maestri coevi, Francesco Rosi Florestano Vancini ed Elio Petri tanto per citare i primi che mi vengono in mente, che pur indagando la politica e il sociale non derogano da quella che dovrebbe una delle regole portanti del cinema: la spettacolarità, che non sono solo botti e botte da orbi, ma soprattutto scrittura accattivante e ritmo coinvolgente: chi continuerebbe a leggere un libro che risulta ostico se non noioso sin dalle prime pagine?

Francesco Maselli è “nato bene” come si diceva una volta, in una famiglia di intellettuali romani: suo padre era un critico d’arte che ospitava nel suo salotto i bei nomi intellettuali e progressisti dell’epoca, ed era intimo amico di Luigi Pirandello che gli dava da leggere in anteprima i suoi manoscritti, e fu proprio Pirandello a tenere a battesimo Francesco affibbiandogli il nomignolo Citto. Il ragazzo si dimostrò anch’egli un intellettuale precocissimo: a sette anni aveva già imparato l’Amleto a memoria; e a tredici, durante l’occupazione tedesca della capitale, portava armi e cibo ai partigiani del Gap, Gruppo d’Azione Partigiana; e a seguire, a soli quattordici anni riuscì entrare nell’allora clandestino Pci, Partito Comunista Italiano. In quegli anni gira anche i suoi due primi cortometraggi in 8mm fra i 15 e i 17 e ancora 17enne viene accettato al Centro Sperimentale di Cinematografia da cui si diploma 19enne; sarà subito assistente di Luigi Chiarini, critico e teorico del cinema fra i fondatori del Centro, suo padrino professionale, oltre ad affiancarsi come aiuto di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti: insomma, il giovane Citto “nato bene” non ha dovuto sgomitare per lavorare coi migliori. Si comincia già a delineare il suo talento come documentarista che è in linea coi suoi impegni politici e civili e probabilmente proprio in questo tipo di cinematografia riesce a dare il meglio: perché essendo film dichiaratamente documento non hanno l’obbligo – ammesso che sia un obbligo – della spettacolarità, ovvero di dover piacere al grande pubblico. Perché questo sarà il nodo irrisolto di tutta la cinematografia di Citto Maselli: non riesce a piacere al pubblico di massa, tanto che per indagare questo aspetto andrà anche in analisi. Di fatto l’autore mette sempre in primo piano la politica che, di fatto, è la sua formazione emotiva, quella che ha formato l’adolescente; racconta i suoi personaggi e struttura i suoi film secondo una visione intimamente marxista, facendone dei casi-limite, esempi di un’umanità e di contesti sociali che finiscono con l’essere poco accattivanti e indigesti al botteghino.

Prendiamo ad esempio questo “Il sospetto” del 1975, che per non essere confuso col film omonimo del 1941 di Alfred Hitchcock “Suspicion” in originale, verrà distribuito come “Il sospetto di Francesco Maselli” (poi ci sarà un altro film omonimo nel 2012 del danese Thomas Vinterberg). Ambientato nella Torino del 1934, centro nevralgico di interessi politici della sinistra operaia per la gran massa di operai della Fiat, racconta di un dirigente del Partito Comunista Italiano in clandestinità perché si è nel bel mezzo del cosiddetto ventennio fascista.

Scorcio parigino del film

L’ambientazione è inappuntabile e accattivante, si fa grande sfoggio di auto d’epoca e di comparse bene acconciate, e la cinematografia di Giulio Albonico insieme al montaggio di Vincenzo Verdecchi scarnificano l’opera rendendola fascinosamente essenziale, senza sbavature e inutili compiacimenti – ma già alla base del progetto c’è una scrittura – sceneggiatura di Franco Solinas (già critico cinematografico per il quotidiano comunista l’Unità) da un soggetto dello stesso Maselli – che sembra non tenere conto degli spettatori: è scritto come se parlasse solo ai tesserati del partito, dando per scontati dettagli informazioni e utili raccordi che vengono a mancare a chi non è addentro a quelle specifiche dinamiche, col risultato che io spettatore “non iniziato” e non iscritto al Partito Comunista faccio fatica ad entrare nello spirito del film, della sua narrazione; è esemplare il finale del film con il lungo monologo-spiegazione del funzionario del partito fascista, che dà un senso all’intero impianto del film ma che nelle mani di altri cineasti sarebbe potuto diventare un confronto più serrato e drammaticamente vivo; e l’intera storia che contiene tutti gli elementi di un thriller – il sospetto che ci sia un traditore fra le fila dei comunisti e l’indagine per smascherarlo – viene invece condotta come un film a tesi che spiega solo le dinamiche interne al partito: le tesi appunto e i contrasti, i dirigenti in clandestinità e quelli in esilio all’estero, l’allontanamento ideologico dal Partito Socialista Italiano, le direttive imposte dall’alto e il sacrificio individuale.

Ne è protagonista il sempre centratissimo Gian Maria Volonté, anch’egli comunista attivissimo: proprio in quel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, carica da cui si dimise appena sei mesi dopo, motivando: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso” a dimostrazione che la purezza e l’integrità ideologica non possono andare di pari passo con l’attività politica sul campo che deve fare i conti con le varie realtà trasformando l’iniziale ideologia in fatti concreti. A latere bisogna sempre ricordare che quelli erano i cosiddetti anni di piombo (modo di dire derivato dal film omonimo del 1981 della tedesca Margarethe Von Trotta) del terrorismo di destra e sinistra che aveva fatto del territorio italiano un campo di battaglia, si suppone col supporto dei servizi segreti americani che temevano l’espandersi della comunista Russia nell’Europa Occidentale: già nel film si parla dell’Unione Sovietica come ideologico faro dell’umanità. E anche in tale contesto va collocata l’ispirazione politica di autore e protagonista.

Fanno da contorno a Volonté un insolito Renato Salvatori per chi lo ricorda brillante giovanottone che era arrivato al successo negli anni ’50 con la trilogia di Dino Risi dei “Poveri ma belli” e, nonostante fosse quasi sempre doppiato ebbe anche bei ruoli in film drammatici; ma per Salvatori quegli anni ’70 erano già gli anni del declino: aveva ceduto all’alcolismo e consequenzialmente veniva chiamato per ruoli meno impegnativi benché sempre tenuto in considerazione da amici e colleghi; morirà 55enne di cirrosi epatica. Nel ruolo della dirigente italiana in esilio a Parigi c’è la parigina Annie Girardot, amica di famiglia essendo l’ex moglie di Salvatori con il quale era rimasta in affettuosi rapporti: si erano conosciuti nel 1960 sul set di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, film che peraltro segnò l’apice della carriera di lui come interprete drammatico. Nel ruolo di un altro dirigente di partito c’è il torinese doc Felice Andreasi che era appena divenuto noto come ospite fisso del televisivo “Il poeta e il contadino” condotto da Cochi e Renato. Chiude il cast dei ruoli principali il sempre eccellente Pietro Biondi, l’unico ancora in vita fra gli elencati, nel ruolo del monologante agente dell’OVRA, la polizia politica fascista. Accreditato nel cast benché con un ruolo da figurante in campo lunghissimo c’è l’emergente Gabriele Lavia che già al cinema aveva avuto ruoli da protagonista: si suppone che il suo personaggio si sia perso in sala di montaggio.

protagonista e regista

L’occasione della scomparsa di Citto Maselli mi accende la curiosità sulla sua filmografia che non ho mai frequentato, con un focus sui lavori collettivi, i cosiddetti film a episodi, e quelli più onestamente politici e documentaristici. Nel 1981 Maselli ha confessato a Paese Sera: “Ho un’ambizione che non ho mai rivelato a nessuno, nemmeno a me stesso. È quella di essere dimenticato come regista e riscoperto, invece, come fotografo… La cosa più orribilmente sincera che abbia mai detto.” E inquadrati in quest’ottica i suoi film sono più fotografici che narrativi, nel senso che staticamente si focalizzano su personaggi e situazioni senza raccontarne lo sviluppo, la dinamicità, il divenire, e in questo modo congelando ogni afflato emotivo. Interessante la sua svolta negli anni ’80 con quattro film incentrati sulla donna: “Storia d’amore” del 1986 gran successo al Festival di Venezia dove l’autore vince il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria mentre alla protagonista Valeria Golino va la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Nel 1988 segue lo sperimentale “Codice privato” con Ornella Muti unica interprete del film, nominata ai David di Donatello, ai Nastri d’Argento agli European Film Awards e vincitrice del Ciak d’Oro. Del 1990 sono gli altri due film con protagonista Nastassja Kinski, “L’alba” e “Il segreto”, film però entrambi clamorosamente bocciati dalla critica senza dire che il pubblico li ha praticamente ignorati.

Francesco Maselli, oltre a essere cineasta non ha mai abbandonato l’attività politica dedicandosi in particolare alla scrittura saggistica e mantenendo il suo ruolo, fondamentale, come militante della sinistra italiana. Nel 2001 dette vita alla Fondazione Cinema nel Presente riunendo una trentina di autori rappresentativi di tutte le generazioni del cinema italiano, fra i quali: Francesca Comencini, Wilma Labate, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Ettore Scola e Pasquale Scimeca; fondazione che produrrà molti di quei documentari collettivi in cui ha dato il meglio di sé. Andiamo a riscoprirlo.

Marcel! – opera prima di Jasmine Trinca

Aprivo l’articolo precedente dicendo che un mondo guidato dalle donne potrebbe essere un posto migliore… ma qui continuo affermando che un mondo governato solo da donne sarebbe ben triste. E il senso del mio ragionamento si chiarirà più avanti.

Jasmine Trinca debutta 19enne, scelta tra circa 2500 ragazze da Nanni Moretti per il film “La stanza del figlio” che subito le frutta il Ciak d’Oro alla migliore attrice non protagonista, il Globo d’Oro alla migliore esordiente e il Premio Guglielmo Biraghi ai Nastri d’Argento, oltre alla candidatura al David di Donatello: un inizio di carriera coi fiocchi che prosegue alla grande: è protagonista in “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, film che viene premiato per l’intero cast dei protagonisti ai Nastri d’Argento: i quattro attori e le quattro attrici, dove Jasmine condivide il premio con Adriana Asti, Sonia Bergamasco e Maya Sansa. E da lì in poi non sbaglia un colpo accumulando riconoscimenti e premi, fino a varcare la soglia delle Alpi francesi per allargare le sue prospettive professionali a Parigi. Nel 2017 fa parte della giuria del Festival del Cinema di Venezia e nel 2022 è nella giuria del Festival di Cannes dove presenta in anteprima nella sezione Proiezioni Speciali questo suo primo lungometraggio di fiction. E che fiction: finzione allo stato puro, favola surreale.

Nei titoli di coda dedica con amore il film ai suoi genitori, anche se in verità il film è tutto dalla parte della genitrice, come il cortometraggio che l’ha preceduto. Di questo suo esordio la neo-autrice ha detto: “A noi donne prende una strana sindrome. Per accettare di assumere una cosa ci mettiamo vent’anni. Un esordio che arriva dopo tanti incontri come interprete, elaborazioni, esempi, con registe importanti per me. Ho deciso di ribaltare lo sguardo sulle cose. Mi sono detta: mi piacerebbe farlo anche a me. Questa trasformazione creativa del vissuto mi ha dato grande entusiasmo, rendendo tutto più leggero e intenso. Il lungometraggio è il proseguimento di un viaggio già iniziato con il corto in cui eravamo tutte coinvolte, a parte Giovanna Ralli che si è aggiunta. Lo stesso gruppo, costituito da persone molto legate. L’abbiamo scritto con Alba in testa come protagonista. Non ho mai immaginato di interpretarlo in qualche ruolo. È talmente impegnativa la regia. Abbiamo violato la regola che dice che i film non vanno fatti con barche, bambini e bestie. Di queste solo la bestia ci ha dato problemi. È stato un cane in tutti i sensi, ma abbiamo deciso di metterlo poi nel film. Era la madre che proietta su questo cane oltre all’amore molto altro”.

Di queste considerazioni due cose saltano subito all’attenzione: è il proseguimento di un viaggio iniziato con un cortometraggio, e il “tutte coinvolte” che dichiara la quasi totale femminilità del cast artistico e tecnico: una scelta precisa anche nella narrativa del film dove le figure maschili, che restano marginali, sono non essenziali, se non addirittura ridicole e vissute con fastidio: il compagno di giochi che la bambina mal sopporta, il nonno buono (Umberto Orsini) che però non dice una parola e fa sempre i solitari con le carte, un grottesco spasimante della madre (Dario Cantarelli), il borghese supponente (Giuseppe Cederna) della cugina stronza – perché le donne non sono tutte buone e ci sono anche le bambine bullette di quartiere. A questo punto tocca recuperare il cortometraggio di cui si parla.

Jasmine Trinca scrive il film con la stessa sceneggiatrice con cui ha scritto il corto, Francesca Manieri; la produttrice del corto Olivia Musini torna a produrre insieme alle francesi Bérénice Vincent e Laure Parleani; tornano Daria D’Antonio alla fotografia e Marta Passarini ai costumi; e Chiara Russo al montaggio con Ilaria Sadun alla scenografia completano il cast tecnico principale al femminile. Solo lo svedese Matti Bye compositore delle musiche è l’unico uomo coinvolto nel cast tecnico principale. Ovviamente c’è del metodo e benché appaia comprensibile che un’autrice voglia circondarsi di altre donne, il film tuttavia dichiara una profonda disistima per le figure maschili, e a questo punto viene da chiedersi perché.

Partendo dunque dal cortometraggio intitolato “BMM – Beeing My Mom” in cui vediamo una madre, Alba Rohwacher, la figlia, Maayane Conti, che con una pesante valigia come palese metafora di un bagaglio interiore, percorrono una Roma assolata e deserta (è girato nel 2020 in piena pandemia) Jasmine dichiara di aver sviluppato quello spunto in questo lungometraggio, e se il film corto non era parlato questo lungo rimane poco parlato, se non fosse per i monologhi della nonna (Giovanna Ralli) che favoleggia di un uomo meraviglioso e che ovviamente è morto. Paradossalmente il lungometraggio sarebbe stato più interessante, a mio avviso, se anch’esso avesse fatto a meno dei dialoghi, mantenendo il rigore stilistico del corto, perché quei pochi che ci sono non sono davvero essenziali.

Va dato merito a Jasmine della sua scelta stilistica in assoluta controtendenza: quella di non dover piacere a tutti i costi al grande pubblico… o forse è così sicura di sé da non volersene curare affatto. Sia come sia, il film è assai ambizioso e manca clamorosamente il bersaglio. Se da un lato l’autrice dimostra di avere assoluta padronanza tecnica del mezzo e un raffinato gusto visivo coi quali compone bellissime inquadrature – dall’altro dimostra di non avere padronanza della scrittura filmica, e sorprende che non abbia aiutato la collaborazione di una qualificata professionista come Francesca Manieri, la quale annovera il premio intitolato a Nora Ephron al Tribeca Film Festival per la sceneggiatura di “Vergine giurata” di Laura Bispuri più altre candidature ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento. Jasmine ha dichiarato di essersi ispirata a Charlie Chaplin (e qualcuno fra i critici nostrani ci ha voluto ritrovare anche Federico Fellini) e ai “Peanuts” di Charles M. Schulz per le scene dei bambini. Di fatto il film va da tutte le parti – intermezzi teatrali, fiere di paese, balli di gruppo – e allunga a dismisura i tempi, anche di sequenze secondarie e poco significative, col risultato che lo sbadiglio è sempre dietro l’angolo. Jasmine Trinca è talmente innamorata del suo racconto che non ne vede difetti e ridondanze: se si fosse trattato di un manoscritto avrebbe avuto bisogno di un rigoroso editing, e l’amica co-sceneggiatrice non è stata e severa dunque di nessun aiuto. Asservita è anche buona parte della critica ufficiale che è stata fin troppo generosa con questo bislacco debutto perché l’autrice è una cineasta giustamente amata e ben considerata: ma complimenti di circostanza e carezze affettuose non aiutano.

Alba Rohrwacher torna a indossare i panni della madre con la valigia e stavolta è una strampalata artista di strada che ama il suo cane Marcel più della figlia, e quando non è in giro si lascia andare a ragionamenti poetico-filosofici, quasi frasi da cioccolatino, e all’iperbole della divinazione. Mayaane Conti, che all’epoca del corto aveva otto anni e un bellissimo volto col quale amava muta la sua mamma altrettanto bambina, oggi ha undici anni e il suo volto rimasto bellissimo si è arricchito di una più matura espressività con la quale manifesta appieno le ombre di questo nuovo rapporto madre-figlia. Nella dilatazione sconclusionata della narrativa filmica, oltre ai già citati Giovanna Ralli e Umberto Orsini come nonni, lei logorroica lui taciturno, entrano nel cast altre amiche come Valentina Cervi, la cugina altoborghese e classista, Valeria Golino come analista e Paola Cortellesi che torna alle maschere dei suoi primordi e rifà una venditrice di gioielli paccottiglia in tivù: tutta roba che singolarmente ha un suo perché e una sua godibilità ma che tutta insieme è solo un minestrone mal riuscito. Per maneggiare il surreale ci vuole un gran mestiere perché anche nel surreale c’è bisogno di coerenza e unità narrativa, non bastano le belle inquadrature e le trovate bizzarre sparse qua e là come bricioline gettate a caso agli uccellini: Pollicino ci insegna che le bricioline vanno sparse con cura e attenzione se si vuole ritrovare la strada maestra.

L’immensità

Erano anni che aspettavo un film di Emanuele Crialese che già mi aveva rapito e incantato col suo debutto cinematografico “Respiro” dell’ormai lontano 2002 e di cui avevo visto i suoi altri due film: “Nuovomondo” del 2006 e poi “Terraferma” del 2011, e poi più nulla, nonostante con soli tre film si fosse imposto sulle platee internazionali, ricevuto premi e riconoscimenti, e fatto amare dal non facile e ondivago pubblico italiano. Con “Respiro” aveva in particolar modo conquistato la Francia dove a Cannes aveva vinto il Grand Prix e lo speciale Prix de la Jeune Critique, e poi il Nastro d’Argento alla protagonista Valeria Golino, il David di Donatello al produttore Domenico Procacci e altro ancora. Con “Nuovomondo” ha vinto a Venezia il Leone d’Argento – Rivelazione inventato per lui da quella giuria presieduta da Catherine Deneuve e mai più riproposto in seguito; a seguire non si contano altri premi fino alla candidatura a rappresentare l’Italia agli Oscar. Con “Terraferma” si riconferma a Venezia con il Leone d’Argento ufficiale con standing ovation. Nel 2014 l’autore è stato insignito del Premio Nazionale Cultura della Pace “per aver mostrato attraverso le sue opere, i suoi film e i suoi racconti un’umanità in viaggio alla ricerca di un luogo di vita dignitoso dove poter esprimere il proprio desiderio di appartenenza al consesso umano ed il proprio progetto vitale. Mostra un’umanità attenta ad affermare con forza il proprio essere nel mondo, a manifestare con semplicità e chiarezza la cittadinanza mondiale di ogni uomo, al di là di confini e frontiere artificiosamente costruiti. La dignità non ha carta d’identità o passaporto che possa negare il diritto di ognuno all’esistenza.” E da allora il silenzio.

La sua cinematografia in vent’anni conta solo quattro film più uno, e con quest’ultimo “L’immensità” ne possiamo parlare come di un corpo unico che, benché proiettato su diverse realtà, ha nella sua intima natura la sicilianità. Il più uno cui mi riferisco è in realtà l’opera prima di Crialese, il vero debutto con un lungometraggio del 1997, un film girato in America dove il ragazzo, dopo aver frequentato la Libera Università del Cinema di Roma, città dove era nato da genitori siciliani, va a laurearsi anche presso la New York University, prestigiosissimo istituto privato per ricchi rampolli. Grazie ai soldi di un’eredità e col supporto economico di alcuni amici entrati nella produzione, realizza quel suo primo film, distribuito anche in Italia ma che pochi possono dire di aver visto, e io non sono fra quelli, film oggi disponibile on demand; un film che per il già 32enne Crialese è ovviamente di formazione, sia artistica che umana, che racconta il suo personale punto di vista, punto di vista già frequentatissimo e affollatissimo, sugli immigrati che nella Grande Mela cercano affermazione e identità, o l’affermazione della propria identità. E’ anche l’inizio della sua amicizia e collaborazione artistica con l’altro siculo-newyorkese Vincenzo Amato che diverrà il suo attore feticcio innestato in tutti i suoi film, con l’eccezione di “Terraferma” dove gli obblighi produttivi gli hanno imposto la star televisiva Beppe Fiorello.

Quella sua opera prima americana pare che sia il compito bene eseguito di un regista in cerca di identità, ma che percorre la via del sentimentalismo giovanilistico con moti eversivi che però non graffiano, restando sul già visto, ponendo in campo però quei caratteri che benissimo metterà a fuoco successivamente: i personaggi che non vogliono lasciarsi ingabbiare nelle convenzioni sociali e che preferiscono bruciare nelle loro passioni, a cominciare dalla protagonista di “Respiro”, moglie e madre che mette a soqquadro l’intera isola di Lampedusa per dare forma a un malessere che non ha nome né ragione: che a chiamarla depressione è quanto mai riduttivo, trattandosi della ribellione creativa di una donna che non si riconosce nell’unica realtà in cui lei esiste, un mondo che gli uomini hanno immaginato al maschile, a loro immagine e somiglianza, e tutto quello che devia da quell’ordine costituito diventa incomprensibile. Per un ulteriore sguardo su questo tema rimando al mio articolo sul linguaggio inclusivo.

Benché romano di nascita Emanuele Crialese resta intimamente innestato sulle sue radici siciliane. Dopo Lampedusa, dove l’autore aveva vissuto per alcuni mesi di certo con l’intento di trovarvi ispirazione, si sposta cinematograficamente nella Sicilia interna, montuosa, quella rurale d’inizio secolo 1900, a Petralia Sottana in provincia di Palermo, uno dei tanti piccoli comuni da cui i contadini fuggirono in cerca di fortuna nel “Nuovomondo”; figura cardine è il personaggio di Vincenzo Amato ma per la coproduzione con la Francia entra nella storia Charlotte Gainsbourg come gentildonna inglese che fugge in America, raccontata da Crialese come simbolo dell’emancipazione femminile. L’emigrazione dei siciliani oltre oceano viene messa a confronto con l’immigrazione degli africani verso il nostro vecchio mondo in “Terraferma” che ispirandosi a “I Malavoglia” di Giovanni Verga racconta di una famiglia di pescatori siciliani di Linosa (mai nominata nel film), isola prossima alla più nota e drammaticamente frequentata Lampedusa e che insieme costituiscono un comune in provincia di Agrigento.

Dopo undici anni ecco il nuovo film che, non specificamente dichiarato, è un’autobiografia attraverso la quale Crialese parla della sua transizione di genere. A Venezia, dove il film era candidato al Leone d’Oro e al Queer Lion, detto volgarmente leone gay, una sezione creata nel 2007 che assegna il premio al “Miglior film con tematiche omosessuali & Queer Culture”; l’oro è andato al documentario americano “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitras e il queer al tedesco “Aus meiner Haut” di Alex Schaad. Della transizione di genere di Crialese si mormorava già dai suoi esordi ma è sempre rimasto opportunamente e giustamente un fatto privato sul quale, solo in occasione del film, in un’intervista l’autore ha specificato che non essendo un personaggio pubblico o una rock star non aveva senso parlare della sua vita privata. Chiuso argomento.

Quello che c’è da dire è tutto nel film, delicato emozionante e imperfetto. Gli nuoce, a mio avviso, la solita necessità produttiva di avere nel cast un nome di garanzia, in questo caso la sempre eccellente Penelope Cruz nel ruolo della madre, ruolo per il quale l’attrice ringrazia, e che costringe l’autore su equilibrismi narrativi che, benché assai ben risolti, tolgono però forza alla sua ispirazione primaria, in questo caso i tormenti di una dodicenne che già sa di essere un ragazzo nato per sbaglio in un corpo femminile e che si sottopone a innocenti rituali empirici, come tentare di mettersi in contatto con gli alieni dai quali crede di provenire o cercare un miracolo divino, per tentare di risolvere il suo dilemma esistenziale. Sono gli anni ’70 e la famiglia siciliana alto borghese che si trasferisce nella periferia romana è quella tipica di quegli anni, che ruota attorno a uno di quei capi famiglia più autoritari che autorevoli che verranno messi in discussione dalle nascenti rivoluzioni sociali di cui però nel film non c’è colpevole sentore né lontana eco. Sarà che la vita della famiglia si svolge tutta all’interno delle due anime in cerca della loro identità, madre e figli*, che trovano una più facile via di fuga nei lustrini in bianco e nero e nelle note accattivanti e melodiche dei programmi tivù del sabato sera. La sicilianità, poi, s’innesta giocoforza dello spagnolo che la Cruz porta con sé, aggiungendo al film sfumature non immediatamente necessarie.

Quello che avrebbe potuto essere a tutto tondo l’emozionante racconto di un ragazzo alla scoperta della sua identità e della sua sessualità, ancorché intrappolato in un corpo che non riconosce come suo, diventa il contraltare di un racconto parallelo che già avevamo visto e amato in “Respiro”, quello di una donna che esprime con una fantasia eversiva il suo male di esistere in un ruolo socio-familiare che non riconosce come suo. I due ruoli si sostengono e compenetrano a vicenda senza però riuscire a farsi complementari in un racconto uniforme; questo nonostante l’invenzione, fantasticheria del giovane protagonista, che fa di sua madre una stella pop di quel piccolo schermo in bianco e nero, prima Raffaella Carrà e poi Patty Pravo, e il film diventa a tratti anche musical, moltiplicando ispirazioni e stili, giungendo a un finale dove il lieto fine è più onirico che reale e il protagonista si esibisce finalmente in smoking cantando con la voce di Johnny Dorelli davanti alla platea di Canzonissima. Si sente che via via che è stato scritto e riscritto e adattato alle varie esigenze produttive, il film ha perso la freschezza e l’urgenza del racconto primario che ormai affiora a tratti, convincente nell’esecuzione ma meno convinto in fase di scrittura, con passaggi di un’autobiografia romanzata che rimangono oscuri perché se ne sono persi i riferimenti: l’incendio del salotto di cui la madre viene incolpata, e per il quale viene mandata a rieducarsi in una casa di cura, come e perché è realmente accaduto? e poi, l’avventuroso perdersi del gruppo dei ragazzini nei meandri del vecchio bunker militare sotterraneo, com’è che si conclude senza una vera morale della favola? Sono passaggi che nel minutaggio del copione devono aver ceduto il passo ad altre urgenze e non mi stupirei se fra qualche anno il film venisse sviluppato in una miniserie televisiva come è già accaduto per “A casa tutti bene” di Gabriele Muccino.

L’anno scorso ha trionfato a Venezia un’altra biografia d’autore, “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino che si è portato a casa il Leone d’Argento e ha veicolato il Premio Marcello Mastroianni al miglior esordiente Filippo Scotti. Ritengo che se Crialese fosse stato più libero nella composizione del suo film avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati ed è un peccato che l’esordiente Luana Giuliani non abbia avuto nessun riconoscimento. E va dato merito all’autore che ha sempre saputo scegliere con grandissima cura i giovani interpreti sempre presenti nei suoi film. Per questo delicatissimo ruolo ha indirizzato la sua ricerca verso ragazze che praticassero sport maschili, che in qualche modo avessero accantonato i vezzi tipici di quell’età per affrontare rudi prove fisiche, e la prescelta è stata questa piccola campionessa di minimoto, che già ben quattro anni fa, per un terzo della sua vita, ha incontrato Crialese e cominciato l’addestramento alla recitazione e al cinema, dovendo abbandonare lo sport per non mettere a rischio l’integrità fisica; e, racconta Luana, essendo in un’età di precoce crescita e cambiamento, le riprese sono state concentrate il più possibile in un breve periodo.

Francesco Casisa con Valeria Golino e Vincenzo Amato in “Respiro”

Anche gli altri bambini del film sono degli esordienti e fra tutti spicca il fratello minore, interpretato da un più che convincente Patrizio Francioni nel ruolo del figlio di mezzo, quello che più interiorizza e meno esprime, salvo poi liberare le sue frustrazioni in modo scatologico; un bambino che molto ricorda, per intensità espressiva, un altro bambino che vent’anni fa debuttava in “Respiro” e che oggi Wikipedia classifica come attore e criminale italiano: Francesco Casisa, palermitano del quartiene Zen, è coprotagonista accanto a Golino e Amato, e poi di nuovo con Crialese come figlio maggiore dell’emigrante in “Nuovomondo”; nonostante si fosse ben avviato alla carriera di attore anche con partecipazioni in tv, fra il primo e il secondo film ha messo a segno una denuncia per rapina, e poi è finito in ospedale per un grave incidente col motorino dopo aver fatto il parcheggiatore abusivo fuori da una discoteca: in coma per tre giorni ha perso tutti gli incisivi e i canini e Valeria Golino con Maria Grazia Cucinotta gli hanno pagato la ricostruzione dentistica; negli anni a seguire viene arrestato per il possesso di mezzo chilo di hashish e alcuni grammi di cocaina e poi di nuovo condannato sempre per traffico di stupefacenti si rende latitante andando a vivere a Parigi; successivamente gli viene revocata la condanna di custodia cautelare e può rientrare in Italia ma non in Sicilia; in quest’ultimo film interpreta il piccolo ruolo di un molestatore. Nel resto del cast la bambina Maria Chiara Goretti come sorellina minore ma già saggia, Penelope Nieto Conti come primo amore dell’adolescente, la mai abbastanza utilizzata dal cinema Alvia Reale come algida nonna paterna alto borghese, il coach di recitazione di Luana Carlo Gallo interpreta il ruolo dello zio, Elena Arvigo, Laura Nardi e Valentina Cenni come zie e cognate pronte a puntare l’indice.

Vincenzo Amato, che da Crialese era stato lanciato nel cinema italiano, pur con diverse partecipazioni anche sui set internazionali non è mai riuscito a sfondare davvero, segno che la sua espressività cinematografica è tutta nel segno dell’amico di gioventù. Palermitano di nascita, 18enne si trasferisce a Roma con la madre, la cantante folk Muzzi Loffredo che fu attrice per Francesco Rosi e Lina Wertmüller; Vincenzo, dieci anni dopo da Roma si trasferisce a New York dove fra le altre cose lavorerà il ferro battuto creando delle sculture, lavoro e residenza presso i quali ritorna quando non è sui set: “Da quando vivo all’estero sono diventato ancora più siciliano e più italiano. Ho avuto la stessa sensazione che hanno gli astronauti quando vedono la Terra dallo spazio: quando poi torni indietro riesci a vedere le cose in modo oggettivo. L’Italia mi manca molto, stando lontano e non avendo a che fare ogni giorno coi suoi aspetti negativi mi ricordo solo le cose belle.”

Del film resta da dire che il coinvolgimento autobiografico dell’autore resta una nota per gli addetti ai lavori e per gli spettatori professionisti; tutti gli altri, le coppie di anziani coniugi o le anziane amiche in pausa dal torneo di burraco – ché l’età media e l’estrazione sociale della platea di cui ho fatto parte erano proprio quelle – stanno vedendo un film ambientato negli anni Settanta, epoca che ben riconoscono e nella quale facilmente si introiettano, senza però capire il senso dell’operazione retrò: l’autore ha detto tante cose sul red carpet e nelle varie interviste ma nel film aleggia un’aria di reticenza, di pudicizia certo, che non spiega bene che cosa stia raccontando, e perché. Si apprezza sulla fiducia. A questo punto la cosa da fare sarebbe andare a rivedere tutta la breve filmografia di Emanuele Crialese. E poi, a tempo perso, possiamo andarci a vedere l’omonimo “L’immensità” del 1967 con Don Backy e Caterina Caselli.

5 è il numero pefetto – opera prima di Igort

Il fumettista Igort, Igor Tuveri, passa alla regia e trasforma in film la sua graphic novel omonima. Ma non è il primo fumettista a saltare lo steccato, prima di lui c’è stato Gipi, Gian Alfonso Pacinotti, che per il suo debutto cinematografico “L’ultimo terrestre” del 2011 sceglie di ispirarsi alla graphic novel di un altro autore ma in seguito, nei due successivi film, diventa anche attore. Igort, fumettista di fama internazionale, negli anni si è fatto le ossa nel cinema come sceneggiatore e dopo un documentario su Andy Warhol scrive a quattro mani col regista debuttante Leonardo Guerra Seràgnoli “Last Summer” e poi partecipa alla sceneggiatura di “L’Accabadora” di Enrico Pau dal romanzo di Michela Murgia.

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Il fumetto “5 è il numero perfetto”, dopo 10 anni di lavorazione – disegnare prende molto tempo – arriva alla stampa nel 2002 edito dalla Coconino Press che Igort ha contribuito a fondare, e diviene uno dei suoi best seller: praticamente da allora, e grazie anche alle sue fruttuose frequentazioni cinematografiche, Igort pensa di realizzare il film: impiegherà 13 anni in cui scriverà 10 differenti sceneggiature prima di arrivare alla pre-produzione; e dato che una cosa chiama l’altra e Igort vende molto, è stato pubblicato anche un libro sulla lavorazione del film: chiamasi merchandising. Detto questo, il film anche se non perfetto come il 5 del titolo, è comunque molto interessante perché trasportando il piatto bianco e nero dipinto di blu della pagina – allo schermo, arricchisce la storia di una fantasmagoria di colori e di azioni stilizzate, e omaggi stilistici che si fanno a loro volta stile proprio. Da buon cineasta provetto tradisce il fumetto per creare un’opera che viva di vita propria.

Palazzo D'Afflitto - Wikipedia
Palazzo d’Afflitto
Palazzo dello Spagnolo - Monumento - Palazzo
Palazzo dello Spagnolo

Per vivificare la sua visione si avvale dell’apporto di eccellenti professionisti e alla bellissima fotografia c’è il danese Nicolaj Brüel che con “Dogman” di Matteo Garrone ha vinto il David di Donatello, e ha poi continuato il sodalizio con “Pinocchio”. La scenografia di Nello Giorgetti è ricca di quei dettagli anni ’70 che la storia, ambientata nel 1972, richiede, e reinventa una Napoli dove l’iper realismo dei dettagli – la cabina col telefono a gettoni, la grande insegna Campari, la Seicento Multipla con le portiere controvento, la Bianchina, i manifesti pubblicitari – si fa scenario di un set immaginario dove anche i luoghi cult del cinema partenopeo – i vicoli antichi e la scenografia “naturale” dei palazzi che abbiamo visto in decine di film – diventano scenario immaginifico, nebuloso, assai lontana dalla Napoli iper-realistica dei recenti film di camorra. Anche i costumi di Nicoletta Taranta, il cui compito è stato quello di trasferire la bidimensionalità monocromatica del fumetto in costumi, tridimensionali funzionali colorati e reinventati mantenendo la linea della storia, contribuiscono a creare lo stile visivo del film. Per dirla in breve sono stati tutti candidati ai David di Donatello 2020.

Dick Tracy | COMICSANDO comic art blog
Dick Tracy di Chester Gould

Anche la scelta del cast è molto felice: professionisti ai quali potersi affidare a occhi chiusi, ma che dovevano rispecchiare le caratteristiche dei personaggi del fumetto per non deluderne i fan. Toni Servillo con naso posticcio e impermeabile è un Dick Tracy di una camorra che non c’è più, e sparatorie e scene di azione omaggiano sia Sergio Leone – che anche la musica del duo D-Ross & Startuffo riecheggia omaggiando Ennio Morricone – sia il kung-fu che in quegli anni ’70 arrivava da Hong Kong nei nostri cinema, e non è un caso se il protagonista, Peppino Lo Cicero, fa un salto in sala a vedere “Cinque dita di violenza”: un omaggio al cinema d’oriente e a quegli odierni cineasti che già erano interessati a portare in film la graphic novel di Igort: il cinese di Canton John Woo, il cinese di Hong Kong Johnnie To e il giapponese Takashi Miike – ricordando anche che Igort ha vissuto in Giappone e proprio lì ha cominciato a disegnare “5 è il numero perfetto”. L’imperfezione del film, per quel che mi riguarda, sta in una certa lentezza narrativa, necessaria in un plot che comincia come una storia di vendetta e diventa un percorso riflessivo, ma che a tratti sfugge di mano al regista che, in ogni caso, confeziona un’opera notevole.

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Vincenzo Nemolato

Affiancano Toni Servillo, Carlo Buccirosso, a mio avviso un po’ sottotono rispetto all’impianto complessivo, e una Valeria Golino dal grilletto facile in stile Nikita che è l’unica a portare a casa il David di Donatello: un ruolo più in azione che di interpretazione, e un premio che sa di contentino per gli altri mancati riconoscimenti. Lorenzo Lancellotti è Nino, il figlio di Peppino; Vincenzo Nemolato, che già di suo ha una faccia da fumetto e un talento sicuro, già visto con un importante ruolo in “Martin Eden”, è Mr Ics con parrucca rock’n’roll; Nello Mascia è il dottore e Gigio Morra il boss Don Lava; nel ruolo del gobbo che non era nel fumetto c’è Giovanni Ludeno, che nell’ultima stagione “1992-1993-1994” ha avuto un ruolo di rilievo nel pool di Mani Pulite sostituendo l’attore Domenico Diele che si è bruciato la carriera finendo in carcere con l’accusa di omicidio stradale, aggravato dal fatto che già aveva la patente sospesa per guida con uso di eroina, reiterando e aggravando il crimine; a interpretare l’afrocrinito guappo Ciro c’è Emanuele Valenti, visto recentemente nel cast Rai di “L’amica geniale” nel ruolo dell’untuoso padre di famiglia che insidia una delle due protagoniste. Nel finale del film, ambientato nell’immaginifico stato del Parador (Paraguay+Ecuador?) in Centro-America, il barbiere cui Peppino svela l’ultimo mistero del suo dramma personale è interpretato da Marcello Romolo, che recentemente è stato protagonista di puntata come morituro Papa Francesco II nel televisivo Sky “The New Pope” di Paolo Sorrentino. Nomi e volti non tutti noti al grande pubblico che contribuiscono alla riuscita dell’insolito film. Film insolito per cinema italiano, beninteso.

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