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Maria Stuarda, Regina di Scozia – con l’omaggio a Glenda Jackson nell’occasione della sua scomparsa

Il 15 giugno 2023 Glenda Jackson se n’è andata a 87 anni e per omaggiarla con qualcuno dei suoi migliori film c’è davvero poco sul mercato italiano di piattaforme web e canali televisivi. L’ideale sarebbe stato rivederla in una delle sue due interpretazioni che le valsero l’Oscar: “Donne in amore” del 1969 diretto da Ken Russell o “Un tocco di classe” del 1973 diretto da Melvin Frank. Ma molti altri titoli avrebbero potuto rappresentarla: da “L’altra faccia dell’amore” sempre di Russell del 1970 a “Domenica, maledetta domenica” di John Schlesinger del 1971, a “Una romantica donna inglese” di Joseph Losey del 1975: una carriera strepitosa che ha cavalcato intensamente tutti gli anni Settanta e Ottanta prima di ritirarsi nel 1992 per dedicarsi alla carriera politica dove per 23 anni ininterrotti è stata deputata parlamentare per il Partito Laburista. E devo confessare che come spettatore ho sentito la sua mancanza.

Glenda Farrell

Glenda May Jackson deve il suo primo nome alla passione che sua madre aveva per l’attrice holliwoodiana Glenda Farrell che in quel 1936, anno di nascita della nostra, era una brillante star del nuovissimo cinema sonoro, ma oggi dimenticata; e la Jackson con la sua popolarità ha contribuito a diffondere quel nome nel mondo: attualmente in Italia si contano circa 500 Glenda: nome di origine gallese che significa “buona e santa” ma che attualmente non gode più di molta popolarità. La giovane Glenda era la maggiore di quattro figli in una famiglia di operai che faticava ad arrivare a fine mese; cominciò a calcare le scene da adolescente, e doveva essere davvero brava se vinse una borsa di studio alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra dove si trasferì dalla provincia, per poi debuttare professionalmente in teatro; ma sul finire di quegli anni ’50 non riuscì più a mantenersi col lavoro di attrice e passò da un lavoretto all’altro, impieghi che in futuro definì “una serie di lavori che distruggono l’anima”.

Debuttò al cinema nel 1963 con un piccolissimo ruolo nemmeno accreditato e poi per quattro anni si unì alla compagnia teatrale di Peter Brook che metteva in scena il suo “Teatro della Crudeltà” con la Royal Shakespeare Company: la meno che 30enne Glenda vi interpretò la detenuta di un manicomio che a sua volta interpretava Charlotte Corday, l’assassina di Jean-Paul Marat nel dramma “Marat/Sade” di Peter Weiss: roba d’altissimo livello che andò a Parigi e Broadway facendo discutere pubblico e critica, e da cui l’autore nel 1967 ne sviluppò il film omonimo in cui Glenda riprese i suoi ruoli. Nello stesso anno fu anche Ofelia nell’Amleto messo in scena da Peter Hall, un’Ofelia che secondo la critica era l’unica vista fino a quel momento in grado di interpretare lei stessa il principe Amleto. Si arriva al 1969 e al suo ruolo da protagonista nel controverso “Donne in amore” di Ken Russell che le valse il primo Oscar, appunto.

Del 1971 è questo film storico dove interpreta Elisabetta I, un ruolo amato dalle dive di tutto il mondo, a partire dal dramma teatrale “Mary Stuart” o “Maria Stuarda” italianizzato, che il tedesco Friedrich Schiller scrisse nel 1800 e che sin dal titolo pone come protagonista Maria di Scozia in drammatico contrasto con Elisabetta d’Inghilterra, la prima descritta come vittima sacrificale e la seconda come gelida macchinatrice, ruoli ambitissimi che nelle storiche versioni italiane ha visto confrontarsi Sarah Ferrati ed Elena Zareschi nel 1958, Anna Proclemer e Lilla Brignone nel 1965, e Valentina Cortese con Rossella Falk per la regia di Franco Zeffirelli nel 1983 che fecero scintille dentro e fuori la scena. E ad entrambe le regine, separatamente, sono stati dedicati film sin dall’epoca del muto: è del 1895 il cortometraggio “The Execution of Mary, Queen of Scots” diretto dall’americano Alfred Clark e prodotto dall’inventore Thomas Edison, ed è il primo film storico e il primo a utilizzare effetti speciali: l’attrice sul ceppo viene sostituita da un manichino che viene decapitato, e la scena fu così realistica che impressiono moltissimo il pubblico che credette che un’attrice si fosse sacrificata per il ruolo. Edison produsse nel 1913 un altro “Mary Stuart” meno cruento e più in linea con le produzioni più rassicuranti.

Del 1936 è “Maria di Scozia” diretto svogliatamente da John Ford, veicolo per la star Katharine Hepburn che si rifà al dramma teatrale dell’americano Maxwell Anderson, e vede nel ruolo di Elisabetta Florence Eldridge, moglie di Fredrich March che nel film interpreta il Conte di Bothwell, storico amante di Elisabetta. Fra le curiosità di questo film c’è che Ford fece girare alcune scene al suo aiuto britannico Leslie Goodwins che però non venne accreditato, e la stessa Hepburn fece la sua unica esperienza da regista dirigendo una scena che Ford voleva tagliare perché non gli piaceva, e fu aiutata nell’impresa dal coprotagonista March: il regista li lasciò giocare a fare i registi e alla fine montò la scena nel film dietro personalissime pesanti pressioni: all’epoca aveva una storia con la Hepburn. Per quel ruolo si era proposta Ginger Rogers ma la produzione RKO la rifiutò ritenendo che la sua immagine non fosse in linea con il ruolo. Dopo questo film del 1971 “Maria Regina di Scozia” è di nuovo sullo schermo nel 2018, regia di Josie Rourke con le odierne dive Saoirse Ronan e Margot Robbie. Assai più corposo è invece l’elenco dei film dedicati a Elisabetta I a cominciare dal muto del 1912 “Les Amours de la reine Élisabeth” con Sarah Bernhardt, passando per i due film con Bette Davis “Il conte di Essex” diretto da Michael Curtiz nel 1939 e “Il favorito della Regina” del 1955 diretto da Henry Coster; non sorvolando sull’Elisabetta en travesti di Quentin Crisp in “Orlando” diretto da Sally Potter nel 1992 e chiudendo l’incompleto elenco con dittico interpretato da Cate Blanchett e diretto da Shekhar Kapur: “Elizabeth” 1998 e “Elizabeth: the Golden Age” del 2007.

Il film del 1971, che ciclicamente passa sulla meritevole Cine34 e che ha come primo nome Vanessa Redgrave nel ruolo del titolo, ha ancora un suo fascino narrativo esponenzialmente aumentato dal fascino delle due interpreti, considerando però che come tutti i film storici ha delle inesattezze. La vicenda delle due regine, che può apparire lineare è in realtà molto complessa e la stessa narrazione contiene tante sotto storie diverse da cui si possono trarre sempre diversi punti di vista narrativi. Nello specifico Maria viene qui raccontata come una donna innamorata dell’amore e che per amore commette diversi errori – messa in contrasto con Elisabetta che pur concedendosi amanti prestanti non si è mai concessa l’amore: doveva aver tenuto in mente la sorte di sua madre Anna Bolena, una delle mogli di Enrico VIII che fu regale uxoricida seriale. E poi c’è il sempre presente contrasto politico-religioso cavalcato dalla Chiesa Cattolica contro il Protestantesimo.

L’inesattezza storica da sempre perpetrata sin dal dramma di Schiller è l’incontro tra le due regine, che il drammaturgo tedesco racconta come segreto e dunque verosimile anche se non vero, e da lui in poi c’è sempre un incontro più o meno segreto fra le due regine perché un confronto diretto fra due protagoniste di tale portata è un elemento spettacolare irrinunciabile, con buona pace dell’accuratezza storica che da sempre molto sopporta. Negli altri ruoli di rilievo del film Patrick McGoohan interpreta Giacomo Stuart il fratello traditore di Maria, Trevor Howard è Sir William Cecil il consigliere di Elisabetta; il 25enne in rapida ascesa Timothy Dalton, che più avanti vestirà i panni di 007, qui è decolorato biondo e interpreta in modo assai convincente il vanesio Lord Henry Darnley che la lungimirante Elisabetta invia alla corte di Maria perché la regina scozzese se ne innamori e lo sposi, detto fatto: succede che anche nel privato che il bel Dalton fa girare la testa alla Redgrave di nove anni più anziana, in un’epoca in cui la differenza di età contava. Nigel Davenport interpreta l’ambiguo Conte di Bothwell e Ian Holm interpreta il cortigiano italiano Davide Rizzio, altrove Riccio.

Ma torniamo alla nostra Glenda Jackson. Lasciò la recitazione nel 1991 e l’ultimo film che ha girato prima di dedicarsi completamente alla carriera politica, da persona seria, è stato il prequel di quel “Donne in amore” che le aveva dato fama circa vent’anni prima, sempre tratto dai romanzi di David H. Lawrence e sempre diretto dal suo amico Ken Russell nel 1989.

Glenda si era interessata alla politica sin da giovanissima: a 16 anni si era iscritta al Labour Party, un’alleanza di area socialista corrispondente al nostro centro-sinistra, e qualche anno dopo, già attrice, fu una delle figure pubbliche che legò il suo nome all’Anti-Nazi League, mentre da parlamentare fu un’accanita avversaria della Lady di Ferro Margareth Thatcher e del suo governo conservatore, tanto da farle dichiarare che vi si sarebbe opposta “con qualsiasi cosa fosse legale”; e quando il governo passò al Partito Laburista con Tony Blair, lei fu nominata sottosegretario con delega ai trasporti londinesi. Ma da sensibile politica con anima profondamente radicata nella Sinistra divenne critica anche nei confronti del suo stesso primo ministro allorché Blair alzò i costi delle tasse universitarie, finché nel 2005 non lo sfidò frontalmente dichiarando di volersi candidare contro di lui. E va da sé che era anche anti monarchica. Poi nel 2011 annunciò il suo ritiro dalla carriera politica presumendo che il Parlamento eletto l’anno prima sarebbe durato fino al 2015: “Avrò quasi 80 anni e per allora sarà il momento che qualcun altro abbia il seggio”. Era stata circa 23 anni nella politica attiva e lo scorso anno si tolse un altro sassolino dalla scarpa dichiarando che quando lei era stata eletta in Parlamento nel 1992, quell’assemblea non si era dimostrata accogliente nei suoi confronti in quanto donna.

come Re Lear

Nel 2015 tornò a recitare per la gioia di molti fans, prima in radio e poi in palcoscenico interpretando il “Re Lear” di William Shakespeare, lei che da giovane era stata indicata come possibile Amleto; interpretazione per la quale la critica scrisse: “Glenda Jackson è straordinaria come Re Lear. Senza se e senza ma. Tornando sul palco all’età di 80 anni, 25 anni dopo la sua ultima esibizione, ha compiuto una di quelle imprese dell’ultima ora per lo sforzo umano, e di cui sicuramente si parlerà per gli anni a venire.”

E nel 2019, dopo 27 anni di assenza, tornò a recitare nel dramma televisivo “Elizabeth is missing” dove interpreta un’ottantenne con l’Alzheimer, film per il quale vinse il BAFTA e l’Emmy Award. Ha fatto in tempo a girare un ultimo film per il cinema tornando a fare coppia con Michael Caine, di tre anni più vecchio dunque 90enne, con cui aveva girato “Una romantica donna inglese”, oggi nel film sulla terza età “The Great Escaper” che dovrebbe uscire entro quest’anno: un’occasione da non mancare per tornare al cinema in sala.

La passeggiata – opera prima di Renato Rascel

Opera prima e anche unica dato che fu un clamoroso insuccesso per l’artista che volle fare il passo più lungo della gamba, ma andiamo con ordine.

Su YouTube il film completo… anzi no, incompleto: manca il vero finale

Renato Rascel nato Renato Ranucci nel 1912, dunque quest’anno sono 110 anni dalla nascita, fu un figlio d’arte che casualmente nacque a Torino dove i genitori romani erano in tournée: il padre cantante d’operetta e la madre ballerina. Il bambino crebbe a Roma affidato a una zia dati i continui spostamenti dei genitori, e poiché il frutto non cade mai lontano dall’albero, Renatino già a dieci anni canta nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina, poiché crescendo nel rione Borgo a ridosso del Vaticano frequentava la Scuola Pontificia Pio IX; e sempre in quegli anni preadolescenziali si esibisce addirittura alla batteria di un complessino jazz di dilettanti, e a seguire debutta come attore bambino sotto la direzione del padre che nel frattempo era divenuto direttore di una compagnia filodrammatica. Ma papà Ranucci, che sulle sue spalle aveva la consapevolezza di quanto potesse essere dura una carriera artistica, interruppe lì l’esperimento attoriale del ragazzino e tentò di avviarlo verso mestieri più tradizionali, ancorché umili: garzone di barbiere, muratore e anche apprendista calderaio; ma il danno era già fatto, il ragazzo aveva già assaggiato il velenoso brivido dell’esibirsi in pubblico, ed essendo anche talentuoso, ancora tredicenne venne scritturato come musicista presso un locale capitolino, e due anni dopo entra a far parte di un complesso musicale e lì un impresario teatrale, notando la sua simpatica esuberanza, lo spinge ad esibirsi in improvvisazione estemporanee durante le pause del complesso, numeri di arte varia e balletti inventati lì per lì che divertono molto la platea con la sua freschezza naïf. Nasce così l’arte varia di Renato Rascel: attore, comico, ballerino, musicista, cantante, cantautore e più avanti conduttore televisivo e anche giornalista. La sua comicità sarà di un segno nuovo rispetto al classico panorama dell’epoca, dove la risata era strappata grazie a doppi sensi sessuali più o meno espliciti, e comunque sempre di grana grossa; lui, che ancora bambino aveva imparato a improvvisare, crea un personaggio originale, una nuova maschera: un omino dall’aria candida che esprime una comicità più ingenua – ma anche finta ingenua all’occorrenza – attraverso monologhi surreali ricchi di ardite sperimentazioni linguistiche che lasciano molto indietro la comicità fin lì fatta di più grevi qui pro quo; le sue esibizioni verbali sono invenzioni estemporanee con repentini cambi di prospettiva che spiazzano il pubblico, che sulle prime non lo comprende, e anche fisicamente si impegna con pantomime grottesche al limite dell’acrobatico, possedendo nella piccola statura doti atletiche non comuni.

Scatola vintage madreperlata di cipria Diadermina della Rachel

Ventenne, all’inizio degli anni Trenta e già con un lungo tirocinio in compagnie di varietà di second’ordine, il giovanotto decide di scegliersi un nome d’arte, e come si usava all’epoca ispirandosi al favoloso e favoleggiato varietà d’oltralpe con quei nomi scivolosi ed eleganti: sceglie il nome di una cipria francese che usava in camerino, la Rachel con pronuncia rascèl, ma poiché quel nome, stampato sui manifesti veniva erroneamente letto così com’era scritto, all’italiana, Rachel con accento sulla A e dunque pronunciato ràkel, Renato pensò bene di italianizzare il segno CH in SC, quantunque il nome finì con l’essere pronunciato sempre Ràscel. Italianizzazione che però non bastò a quei dettami fascisti emanati da Achille Starace secondo i quali tutti i nomi tronchi dovevano finire con una vocale per essere italianizzati, e gli fu intimato di cambiare il nome in Rascèle, ma il giovanotto pare che non si fece passare la mosca sotto al naso e replicò: “Cambiate prima Manin in Manino e poi ne riparliamo!” e da lì in poi i suoi rapporti col regime non furono dei più cordiali.

È del 1939, dunque a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, l’invenzione di “È arrivata la bufera” in cui, all’interno di quei versi surreali, il ritornello “È arrivata la bufera / è arrivato il temporale / chi sta bene e chi sta male / e chi sta come gli par” fa presagire l’arrivo di ben altra bufera, e in quattro versi tutta l’espressione dei vari comportamenti sociali e politici. E i burocrati fascisti, che come tutti gli estremisti d’ogni fede mancano di fantasia e ironia, lo braccano ripetutamente perché si ostinano a voler leggere nei testi bizzarri delle sue canzoncine chissà quali significati nascosti ed eversivi; stiamo parlando di titoli come “Torna a casa che mamma ha buttato la pasta” e “La canzone della zanzara tubercolotica“. Ma Renato Rascel si prenderà la sua rivincita nel film a episodi “Gran varietà” del 1953 diretto da Domenico Paolella, in cui fa la parodia di uno di quei burocrati nell’episodio “Il censore” in cui interpreta se stesso e in doppio ruolo il censore fascista, di certo partecipando alla sceneggiatura anche se non accreditato.

Aveva debuttato come attore cinematografico nel 1942 in “Pazzo d’amore”, un film che Vittorio Metz, anche regista, scrisse per lui dopo averlo visto al varietà, ma con scarsi risultati, dato che il film è piuttosto goffo e non mette a fuoco la comicità di Rascel, che inspiegabilmente è anche doppiato, forse perché al momento del doppiaggio l’attore era impegnato in tournée, cosa che all’epoca e in quegli ambienti accadeva sovente. Con la successiva caduta del fascismo e l’occupazione nazista di Roma, Rascel e la sua novella sposa, la showgirl Tina De Mola, sono costretti a darsi alla macchia perché invisi al regime e riparano, ovviamente dati i trascorsi del ragazzo Renato Ranucci, in Vaticano. Con gli anni ’50 continua la sua attività sia teatrale che cinematografica con una punta di diamante nel 1952: “Il cappotto” diretto da Alberto Lattuada e tratto dal racconto omonimo di Gogol è la sua prima interpretazione drammatica che gli frutterà il Nastro d’Argento ma anche la delusione per avere sfiorato il premio come migliore attore a Cannes, che quell’anno andò a Marlon Brando per “Viva Zapata!” di Elia Kazan, e scusate se è poco.

A quel punto, e siamo nel 1953, Rascel si mette in testa di voler continuare su quella strada per accreditarsi come un vero attore, uno di quelli seri e drammatici da premi prestigiosi, e per dare continuità al suo nuovo percorso appena iniziato si focalizza su un altro racconto di Gogol, “La prospettiva Nevskij”, con l’intento di assumerne anche la regia, ahilui, perché la strada si fa tutta in salita dato che per i produttori lui rimane un attore comico, da varietà, casualmente passato al drammatico e, soprattutto, ben diretto da un vero regista: che ora anche lui aspirasse alla regia non era credibile, anche perché Rascel non era scrittore né men che meno sceneggiatore e per scrivere il film aveva messo insieme una corposa squadra di tutto rispetto coinvolgendo i professionisti che avevano partecipato al progetto di “Il cappotto”: il neoregista Franco Rossi che aveva debuttato l’anno prima col poliziesco “I falsari” scritto da Ugo Guerra, e da cui Rascel si farà affiancare nella sua regia per la parte tecnica: era consapevole dell’inesperienza; lo stesso Ugo Guerra, anch’egli a inizio carriera e che si affermerà come sceneggiatore e produttore; e gli scrittori e drammaturghi Diego Fabbri, Turi Vasile e Giorgio Prosperi; ma fu col coinvolgimento del veterano Cesare Zavattini che riuscì a chiudere il pacchetto vincente e si assicurò la produzione della cattolica – guarda un po’ – Film Costellazione che con lungimiranza aveva già in produzione un altro regista debuttante, Antonio Pietrangeli con “Il sole negli occhi”, e la lavorazione del film prese il via, con la vicenda di nuovo trasferita da San Pietroburgo a Roma e con tante di quelle libertà narrative da far dire alla critica dell’epoca che il film non aveva più nulla a che vedere col racconto di Gogol che, per chi lo volesse leggere, lo trova a questo link.

Il racconto russo si apre con una lunga descrizione della più importante via di Pietroburgo, la Prospettiva Nevskij appunto, brulicante di varia umanità nella quale l’autore sceglie i suoi protagonisti. Rispettando l’ispirazione il film italiano viene intitolato “La passeggiata”, ma impropriamente perché nel film non c’è nessuna introduzione descrittiva di qualsivoglia centrale via romana altrettanto brulicante di varia umanità, e l’unica passeggiata che vi si racconta è quella che avviene alla fine del film, in calesse, sull’Appia Antica. E da lì in poi il racconto sviluppato da Rascel e dalla sua squadra di sceneggiatori vive di vita propria, con il clamoroso errore di aver voluto inserire in una vicenda drammatica dei momenti di comicità surreale, fatti di pantomime, il cui accostamento immediato e dichiarato è quello con Charlie Chaplin, senza però averne la grandezza narrativa e senza padroneggiare il linguaggio cinematografico: se con Charlot i momenti surreali si integravano nel dramma, qui rimangono siparietti a sé stanti. A questo si aggiunge il problema della censura, assai pressante all’epoca: passando dal fascismo al catto-centrismo della Democrazia Cristiana non era cambiato praticamente nulla nell’imposizione di direttive morali, e gli sceneggiatori si autocensurano già in sede di scrittura scegliendo di non raccontare la tossicodipendenza del protagonista, e di fare della prostituta e delle sue volgarità una elegantissima e forbita dama, un po’ principessa delle favole e un po’ fata madrina, alla quale vengono pure immillati afflati di maternità insoddisfatta e dolente; ma per la censura il punto più scabroso sul quale intervenne con uno specifico divieto fu il suicidio del protagonista alla fine della storia, quando il poverino non riesce a realizzare il suo sogno d’amore e si suicida: giammai un suicidio poteva essere raccontato al cinema, ché se durante il Ventennio di vent’anni prima era da pusillanimi senza nerbo, in quell’oggi era perverso e anti cristiano.

La prostituta del film, assai sui generis e molto gran dama, è interpretata da una bravissima Valentina Cortese, già diva del cinema e del teatro, che recita con grande naturalezza, assai moderna, un personaggio assai improbabile nella scrittura. Paolo Stoppa, altro divo cine-teatrale dell’epoca sempre caratterista al cinema, rifà uno dei suoi tanti riusciti cliché come preside del collegio dove il protagonista insegna. Altri volti riconoscibile da chi ha superato gli anta sono Francesco Mulè come altro insegnante e l’elegante Tino Bianchi, volto assai noto degli sceneggiati Rai, qui come politico affascinato dalla folgorante bellezza della prostituta in libera uscita come donna dei sogni d’ognuno.

All’inizio del film programmato dalla meritevole Cine34 – che facendo passare film d’ogni genere sia vintage che vecchi e stravecchi ha il merito di proporre vere rarità – c’è un cartello che spiega: “La copia del film che state per vedere è il risultato di un lavoro di ‘collazione’ basato sulle due copie d’archivio 35mm conservate dalla Cineteca Nazionale, di cui una a colori e con sottotitoli in inglese, e l’altra in bianco e nero. La prima copia di un ‘autarchico ed inconfondibile Ferraniacolor’ – corrisponde ad una versione breve del film – forse accorciata per la distribuzione estera oppure ‘mutilata’ per ragioni di censura a noi sconosciute. Il taglio dei 20 minuti del finale sono stati quindi ricollocati proprio nel punto dove il protagonista viene cacciato dal collegio, scena che concludeva il film… Nel proseguimento in bianco e nero – Paolo interpretato da Renato Rascel – prosegue la sua vicenda d’amore con la prostituta Lisa interpretata da Valentina Cortese… Il lavoro di ricostruzione è stato realizzato dalla Cineteca Nazionale.” La versione disponibile su YouTube è quella breve, mutila, mentre per la versione completa bisogna stare al passo con la programmazione tv di Cine34 che ripropone ciclicamente tutti i film che ha in repertorio, e anche se un film imperfetto e velleitario vale la pena vederlo come documento d’epoca, e opera unica di un personaggio altrettanto unico come Renato Rascel.

Che, va detto, acquisì anche fama internazionale con la sua canzone “Arrivederci Roma” che spopolerà in America, tanto da spingere un produttore di Hollywood a metterlo in coppia col tenore italo-americano Mario Lanza e nel 1957 viene confezionato il film “The Seven Hills of Rome”, con Marisa Allasio nel cast e Roy Rowland alla regia, che da noi verrà distribuito col titolo della canzone di Rascel che Lanza canta nel film, e a seguire sarà un successo che canteranno anche Dean Martin, Johnny Mathis, Perry Como, Nat King Cole… In quello stesso anno Rascel viene contattato dal cantant’attore francese Tino Rossi che gli chiede l’autorizzazione a incidere in francese quella canzone, e poiché da cosa nasce cosa con stima reciproca, Renato Rascel finì con lo scrivere tutta la partitura musicale dell’operetta “Naples au baiser de feu” da un racconto di Auguste Bailly che già era diventato un film americano come “La fiamma e la carne” di Richard Brooks con Lana Turner; e quando l’operetta andò in scena a Parigi, il piccolo grande Renato Rascel salì sul podio nell’inusuale ruolo di direttore d’orchestra.

E nel 1960 vince a Sanremo con “Romantica” cantata in doppio con Tony Dallara, la cui versione da cantante urlatore avrà più successo di quella sussurrata e romantica dell’autore Rascel, che se ci rimane male come cantante è però contento di incassare i diritti d’autore; per quella canzone viene però accusato di plagio da tale Nicola Festa, veterinario e musicista, autore di “Angiulella” dalla quale a suo dire Rascel avrebbe copiato: a dirimere la disputa musical-legale venne addirittura interpellato Igor Stravinski che emise sentenza a favore del nostro. Il suo ultimo impegno come attore sarà nel 1977 con un piccolo ma significativo ruolo nella miniserie tv “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli. Tutto il resto saranno partecipazioni nei varietà televisivi dove sempre più anziano riproporrà i suoi successi di sempre. Muore 79enne in conseguenza a un’arteriosclerosi.

Moby Dick la balena bianca

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Ho un ricordo assai personale di questo film grandioso che devo aver visto due volte o più nella televisione in bianco e nero di quando ero bambino e ragazzo, e oggi che lo rivedo dopo decenni, a colori, rimane immutata la fascinazione, riaccendendo quelle emozioni che sono depositate in me profondamente. Il capitano Achab di Gregory Peck, un personaggio che mi ha intimorito e attratto al contempo, intrappolato fra i cordami degli arpioni infitti sul corpo dell’enorme balena bianca che lo trascina via per sempre nei flutti senza che la vendetta umana sia compiuta, è rimasto impresso nella mia memoria di cinefilo insieme a tanti altri momenti di tanti altri film diversi.

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L’idea di rivedere oggi il film a colori, io assai più maturo e disincantato, mi suscitava il timore della delusione per una antica emozione che non avrei più ritrovato. Ma non è così, il film è potente ancora oggi, dinamico e moderno, e quel colore polveroso, grigiastro e a tratti cupo, aggiunge un’emozione nuova.

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L’unica delusione è l’invecchiamento che subisce il doppiaggio italiano dell’epoca con toni troppo enfatici; anche nella lingua originale che oggi è possibile selezionare, qua e là affiora un’enfasi evidentemente tipica dello stile recitativo dell’epoca, ma sempre in misura assai più contenuta della versione italiana che arriva a rendere ridicolo il personaggio del selvaggio Queequeg mettendogli in bocca solo verbi all’infinito: io fare questo tu dire quello noi andare là, senza neanche un tentativo di accento per caratterizzare l’alterità del personaggio, mentre nell’originale, l’interprete che era austriaco, parla un inglese molto semplificato e con un vago quanto indefinito accento straniero.

La storia del film è nota, come il romanzo di Herman Melville da cui è tratto con molte libertà, e la più importante è l’ultima scena: la spettacolare morte di Achab trascinato via sul corpo della balena, che nel romanzo accade a un altro importante personaggio completamente ignorato nel film, il misterioso parsi Fedallah, mentre Achab muore trascinato negli abissi perché impigliato per il collo alla corda dell’ultimo rampone che ha scagliato contro Moby Dick.

Moby Dick, definito balena anche nel romanzo, è in realtà un capodoglio, come i due avvenimenti che hanno ispirato il romanziere: nel primo un enorme capodoglio affonda una baleniera, il secondo è l’uccisione del mostruoso e tristemente noto capodoglio albino Mocha Dick; e vale la pena ricordare che il nomignolo Dick non è solo il casuale diminutivo di Richard, perché nello slang inglese sta anche per cazzo e associato a un altro nome proprio, Mocha o Moby che sia, diventa un insulto tipo Moby Testadicazzo.

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Detto questo, Melville semplifica la natura del cetaceo perché la balena è narrativamente più comune, a cominciare dalla balena che inghiotte Giona, racconto biblico al centro dell’omelia dell’ex baleniere Padre Mapple che nel romanzo e nel film benedice e terrorizza i marinai, per finire col racconto della balena che inghiotte Pinocchio. La differenza fondamentale fra i due cetacei sta nella dentatura: la balena, del sottordine dei misticeti, è fornita solo di fanoni, lamine che filtrano l’acqua trattenendo i minuscoli organismi marini di cui si nutre; il capodoglio, del sottordine degli odontoceti, ha invece quei veri e propri denti che hanno potuto staccare la gamba di Achab.

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Sulla lavorazione del film circola una leggenda metropolitana secondo cui il modello della balena realizzato in gomma dalla Dunlop, lunga 23 metri, pesante 12 tonnellate e munita di 80 batterie ad aria compressa che la facevano galleggiare e muovere mediante congegni idraulici, si staccò dagli ormeggi e prese il largo perdendosi nella nebbia, poi probabilmente affondando per esaurimento dell’energia; da lì in poi il 90% delle riprese fu fatto utilizzando diversi modelli, anche parziali, di varie dimensioni.

bradbury huston
John Huston e Ray Bradbury

Ma i problemi nacquero fin dalla stesura della sceneggiatura, per la quale il regista e anche produttore John Huston aveva ingaggiato lo scrittore Ray Bradbury, innovatore del genere fantascientifico, già noto nel mondo con le sue “Cronache marziane” e con “Fahrenheit 451”. La collaborazione fu conflittuale sin dall’inizio, con lo scrittore che dice al regista che “non era mai stato in grado di leggere quella dannata cosa” e che prosegue anche con liti sui set già allestiti e operativi, tipici dei due galli nello stesso pollaio: Huston stimava Bradbury che ne ricambiava la stima, ma col il suo carattere forte e e la visione autoritaria del lavoro non poteva fare a meno di metterne in discussione il lavoro e ci furono molte scintille.

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1949. Walter e John Huston con i loro Oscar per “Il tesoro della Sierra Madre” diretto dal figlio, il padre come Miglior Attore non protagonista e il figlio premiato per la sceneggiatura.

Non tutti sanno che lo stesso John Huston inizialmente avrebbe voluto interpretare Achab dato che il romanzo era da sempre una sua passione; aveva probabilmente visto i due precedenti film, il muto “Il mostro del mare” del 1926 con John Barrymore, che poi reinterpretò Achab nel remake sonoro del 1930 “Moby Dick, il mostro bianco”. Ma prima che a se stesso come interprete, e fra i tanti ruoli basta ricordare che interpretò anche Noè nel suo “La Bibbia” del 1966, John Huston avrebbe voluto avere in quel ruolo suo padre, Walter, morto per un aneurisma a 67 anni nel 1950, nella stessa villa di Beverly Hills e nel giorno in cui lui, John, stava festeggiando il suo 44° compleanno insieme ai suoi amici, fra i quali Spencer Tracy. Da qui l’attaccamento emotivo al personaggio.

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Dopo l’uscita del film Gregory Peck litigò col regista perché scoprì di non essere stato la prima scelta per quel ruolo e che anzi era stato imposto come nome di punta (a quel tempo aveva già accumulato quattro candidature all’Oscar) dai finanziatori che partecipavano alla produzione. Un peccato d’orgoglio che Peck scontò fino alla fine: anni dopo, essendosi reso conto di avere esagerato, cercò di riappacificarsi col regista, il quale però, ferito nell’intimo per il forte significato che quel film aveva avuto per lui, rifiutò di incontrarlo e non si parlarono mai più. Solo in tempi recenti è giunto un messaggio pacificatore dalla figlia del regista, l’attrice Anjelica Huston che quattrenne aveva incontrato Peck vestito da Achab sul set, e che ha dichiarato che suo padre aveva sempre adorato l’attore nonostante tutto. Dell’attore si sa che non restò contento di quella sua interpretazione: probabilmente aspirava all’Oscar ma l’intero film fu ignorato. Nonostante questo fu un grande successo e oggi è inserito dal National Board of Review nella lista dei dieci migliori film del 1956; se non l’Oscar vinse il nostro Nastro d’Argento come Miglior Film Straniero e altri premi secondari.

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L’io narrante del film, come nel romanzo, è il marinaio avventuriero Ismaele in cui Herman Melville riversa molte delle sue reali esperienze, che si presenta con il noto “Chiamatemi Ismaele” che nei riferimenti culturali del romanziere, non immediatamente leggibili, è come dire: chiamatemi vagabondo, dato che l’Ismaele biblico, figlio della schiava Agar, è stato scacciato dal padre Abramo insieme alla madre nel deserto. Stesso riferimento biblico per il nome Achab, riportato nel film, che nel Primo Libro dei Re è colui che “commise molti abomini, seguendo gli idoli” e che nella narrazione commetterà l’abominio di condurre tutti i suoi uomini alla morte nell’inseguire il suo idolo, la balena bianca.

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Lo interpreta Richard Basehart, un ottimo attore che non è mai diventato una star assoluta, e che per un periodo ha vissuto in Italia dove ha seguito la sposina Valentina Cortese conosciuta sul set di “Ho paura di lui” di Robert Wise; Il matrimonio non durerà molto ma nel frattempo ha avuto l’opportunità di lavorare con Federico Fellini in “La strada” e “Il bidone” accanto a Giulietta Masina. Friedrich Von Ledebur è Queequeg; Leo Genn è il primo ufficiale Starbuck, e Harry Andrews è il secondo Stubb.

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Orson Welles sul set del suo Moby Dick

Nel ruolo del predicatore, una sola scena ma molto significativa, un altro maestro del cinema statunitense, Orson Welles, che Valentina Cortese ricorda sempre con un bicchiere di whisky in mano e sempre alla ricerca di finanziamenti per i suoi film, non stupisce quindi che accettasse quelle partecipazioni straordinarie pur di fare cassa. Ma c’è di più: Welles è fresco reduce di una sua riduzione teatrale di Moby Dick andata in scena a Londra, dove era ovviamente Achab, esperienza da cui in futuro avrebbe tentato invano di farne un film nel 1971, che purtroppo rimase incompiuto, purtroppo anche per noi spettatori: un film sperimentale in cui lui leggeva il romanzo davanti a un blue screen su cui sarebbero state proiettate delle immagini che non sapremo mai.

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La mia giovanile impressione di Gregory Peck nel ruolo di Achab, mi diede la confusa sensazione – ero uno spettatore assai giovane – che l’attore, a differenza di tutti quegli altri divi hollywoodiani che passavano nella tivù in bianco e nero – Spencer Tracy, Clark Gable, James Sterwart, Gary Cooper – fosse un attore con un lato oscuro, come il personaggio che aveva interpretato. Nei film americani dell’epoca, western commedie drammi, quei protagonisti erano sempre i buoni e i finali erano quasi tutti positivi, mentre lui, Gregory Peck, con Achab aveva mostrato i tormenti di un’animo esasperato e distruttivo che, con segrete fascinazione e paura, trovavo assai più congeniali alla mia natura. Poi da ragazzo divenni adulto e cominciai ad andare al cinema da solo, a scegliermi i miei film, e mentre gli altri divi americani morivano o si ritiravano, lui, Gregory Peck continuava a interpretare quei suoi personaggi problematici se non addirittura agghiaccianti: il noir demoniaco “Il Presagio” 1976; la controversa figura del generale in “Mac Arthur, il generale ribelle” 1977; il nazista Joseph Mengele in “I ragazzi venuti dal Brasile”; fino al suo ultimo film, il remake di “Il promontorio della paura” del 1991 regia di Martin Scorsese, film di cui era stato protagonista nel 1962 con Robert Mitchum nel ruolo del cattivo, e adesso entrambi, Peck e Mitchum, in ruoli secondari nel remake, anche con Martin Balsam che nell’originale era il capo della polizia e nel remake un giudice. Così, oggi, anche rivedendo Gregory Peck nel rassicurante “Vacanze romane” resto sempre sul chi vive.