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La stranezza

Quest’anno ben due film su Luigi Pirandello. Il primo, “Leonora addio” di Paolo Taviani è uscito a inizio anno e “La stranezza” di Roberto Andò ha visto la luce a ottobre al Festival del Cinema di Roma e nelle sale si è subito piazzato al primo posto degli incassi, mentre il film di Taviani, spiace dirlo, non ha avuto altrettanta fortuna. Dunque non è Pirandello che porta la gente al cinema e, tocca dirlo, neanche Andò, un autore rinomato e premiato dalla critica ma mai abbastanza dal pubblico: questo è il suo primo vero successo commerciale, cui certamente seguiranno i dovuti premi.

Roberto Andò è un intellettuale palermitano che deve praticamente tutto alla sua amicizia con Leonardo Sciascia al quale dedica questo film; fu l’altro siciliano eccellente, scrittore assai rappresentato al cinema e in teatro, a spingerlo alla scrittura e a introdurlo nel mondo del cinema, dove Andò sarà assistente di Francesco Rosi, Giacomo Battiato e Federico Fellini fra i grandi italiani, e Michael Cimino e Francis Ford Coppola fra gli americani venuti a girare in Sicilia. Così va imparando il mestiere col meglio del panorama cinematografico mentre apprende l’arte della messinscena a teatro, sempre con progetti di alto livello culturale e debutta con un testo che gli è stato affidato nientemeno che da Italo Calvino e Andrea Zanzotto e messo in scena con i bozzetti di Renato Guttuso: meglio di così!… Impiegherà una decina d’anni per realizzare il suo primo lungometraggio, “Diario senza date” una docu-fiction ambientata in quella sua Palermo, i cui misteri indaga attraverso testimonianze e interviste vere e inventate; mentre il suo primo lungometraggio totalmente di finzione narrativa è una finzione che racconta la realtà ispirandosi alla biografia di un altro siciliano eccellente, Giuseppe Tomasi di Lampedusa con “Il manoscritto del principe”; dopo una serie di film i cui protagonisti sono sempre degli intellettuali, perché quello è il suo mondo e il suo immaginario, torna con questo scherzo biografico su Luigi Pirandello e fa tombola.

Abbandona i suoi più congeniali toni pensosi e ai tormenti personali e sempre inevitabilmente intellettuali del Pirandello, colto nel periodo in cui sta scrivendo i “Sei personaggi in cerca d’autore”, contrappone una favola ironica e grottesca degna del miglior cinema sul teatro e del miglior cinema di ambientazione siciliana: una coppia di teatranti amatoriali mette in scena un dramma che ovviamente si rivolge in farsa e la cui interazione fra teatranti e pubblico si rivela di grande ispirazione per il tormentato autore che non sa dare forma ai suoi personaggi-fantasma. “La stranezza”, titolo quanto mai efficace perché misteriosamente accattivante, è detta nel film dalla balia del Pirandello bambino che era vittima di parossismi estatici e creativi che la balia illetterata poteva descrivere solo come stranezza, una stranezza che nel presente narrativo diventerà la stranissima, per l’epoca, “Sei personaggi in cerca d’autore, commedia da fare” che debutterà al Teatro Valle di Roma, oggi minuziosamente ricostruito in studio con l’impiantito e le poltroncine di legno, il 9 maggio del 1921, e sarà un clamoroso insuccesso, con pochi sostenitori che verranno alle mani con molti dei buggeratori che accoglieranno l’autore gridandogli “Manicomio! manicomio!”, invettiva specifica speciosa e ad arte, sicuramente lanciata per prima da qualcuno che conoscendo la personale tragedia di Pirandello voleva colpirlo nell’intimo: due anni prima l’autore era stato costretto a far rinchiudere in un manicomio la moglie pazza.

A essere onesti quel pubblico non aveva tutti i torti: abituato al teatro classico e ai drammi borghesi, improvvisamente si trova ad assistere a un’ardita sperimentazione che mette in discussione l’intero impianto teatrale, la concezione dei personaggi e il ruolo degli attori. Avevano imparato a conoscere e apprezzare Pirandello sin dal suo grande successo letterario “Il fu Mattia Pascal” pubblicato nel 1904 prima a puntate sulla rivista Nuova Antologia e poi in volume, un successo determinato proprio dai lettori prima che dalla critica che si era mostrata tiepida; una disattenzione che ferì nell’intimo l’autore, che di rimando se la prese pubblicamente con coloro che, osannati dalla medesima critica, egli non riteneva degni: Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli, alla cui uscita delle opere dichiarò di detestarli nel modo più assoluto, e ancor di più gli brucerà l’essere ignorato da D’Annunzio mentre Pascoli beffardamente lo apostrofò “Pindirindello”. Passeranno pochi anni e Pindirindello avrà la sua rivincita vincendo il Premio Nobel per la letteratura.

Oggi sorprende e fa sorridere che grandi nomi che abbiamo studiato sui libri di scuola siano stati esseri umani con tutte le umane debolezze annesse. In ogni caso lettori e pubblico teatrale avevano fin lì amato Pirandello, a cominciare dalle sue prime prove sceniche che si rifacevano alla classica narrativa siciliana: “Cecè” “Liolà” “Pensaci, Giacomino!” fra gli altri; nella sua seconda fase, l’Agrigentino si discosta da quello che in qualche modo rinnovava il teatro di tradizione dell’Isola, e si avvia verso i drammi borghesi con incursioni nel grottesco anche di tono drammatico, e nell’umoristico, ad esempio: “Così è (se vi pare)” “Il berretto a sonagli” “L’uomo, la bestia e la virtù”. A quel punto, ed è questo il periodo sul quale si concentra il film di Andò, Pirandello dà un’ultima svolta, quella decisiva, al suo teatro col dirompente “Sei personaggi in cerca d’autore”, una fase poi definita di teatro nel teatro: ricordando che egli fu regista delle sue messe in scena, rendendosi conto che la rappresentazione non poteva essere soltanto parola ma anche spettacolo visivo, tornò di fatto al teatro shakespeariano con la tecnica del palcoscenico multiplo, ovvero spazi scenici diversi in cui gli attori agiscono contemporaneamente; inoltre viene mostrato il teatro come work in progress, lo diciamo oggi, il teatro che racconta se stesso.

La scena nella scena, il palcoscenico multiplo dei “Sei personaggi”
La quarta parete fa parte della sospensione dell’incredulità esistente tra l’opera di finzione e lo spettatore. Il pubblico di solito accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali.

E ancora, Pirandello rimuove l’immaginaria quarta parete, concettualmente codificata da Denis Diderot (metà ‘700) per far comprendere la necessità di una recitazione più realistica, dove l’azione scenica si completa nel suo spazio e nel suo tempo che prescinde da quello reale in cui è il pubblico; di fatto la quarta parete era un concetto già noto sin dai tempi dell’antica Roma, tanto che il commediografo Plauto (250 a.C.) fu fra i primi a romperla facendo comunicare gli attori direttamente col pubblico in un’azione dichiaratamente di finzione per entrambe le parti, con dialogo e interazione molto apprezzati dal pubblico popolare e che sarà connaturata nella Commedia dell’Arte dove con gli a parte i personaggi si rivolgono direttamente al pubblico per metterli in guardia su quanto sta per accadere o per sollecitarne personali simpatie. Dunque, dopo quasi tre secoli, Pirandello rompe di nuovo la quarta parete in un teatro ormai sterilmente imborghesito e lo fa a tutto tondo, facendo agire i suoi personaggi fra il pubblico in sala che, dato il contesto e la consuetudine, non poteva comprendere: Manicomio! manicomio!

Raccontano i biografi di Pirandello su Pirandelloeweb.net di come una volta dei muratori che lavoravano davanti alle finestre della casa dello scrittore, sospendessero il lavoro per contemplare, stupiti e affascinati, quanto avveniva nel suo studio: Pirandello si era messo “a parlare da solo, gesticolare, strabuzzando gli occhi, e facendo le più strane facce del mondo”. Quegli operai avranno pensato di aver sorpreso il drammaturgo, evidentemente pazzo, in un momento di delirio; In realtà egli era impegnato in uno dei suoi frequenti colloqui coi personaggi, di cui parla nella novella omonima che si può leggere o ascoltarne la lettura nel link dato. Scrisse la commedia fra l’ottobre del 1920 e il gennaio del 1921 avendo come fonte narrativa anche le altre sue novelle “Personaggi”, “La tragedia di un personaggio”.

Foto di gruppo della compagnia del 1921, al centro Dario Niccodemi seduto, alla sua sinistra sono riconoscibili Vera Vergani e Jone Frigerio.
Pirandello con Dario Niccodemi

Dario Niccodemi fu accortamente anche un impresario che produsse Pirandello, ma era principalmente un drammaturgo che scriveva commedie sentimentali e ironiche ambientate nell’alta società borghese, il cui successo di punta fu “La nemica”, opera che Lev Tolstoj disse di preferire ai lavori dello stesso Pirandello o ai romanzi di Giovanni Verga. Egli aveva appena costituito la sua compagnia nella quale era prima attrice Vera Vergani, sentimentalmente e direi opportunamente a lui legata, e prim’attore era Lugi Cimara che con la Vergani formò un’affiatata coppia scenica, e mai sapremo quanto affiatata fu anche in privato: chiacchiere di antichi corridoi; altro attore di punta era Luigi Almirante, forte carattere espressivo che ebbe un suo personale successo proprio con le opere pirandelliane a partire da questi “Sei personaggi” in cui interpretò il Padre, con Jone Frigerio nel ruolo della Madre, l’acclamatissima Vergani come Figliastra e Cimara come Figlio. Nonostante il contrastato esordio romano, l’impresario Niccodemi non si fece intimorire e portò lo spettacolo a Milano dove fu degnamente acclamato: in questo link la critica dalla rivista Comoedia dell’ottobre 1921. Più tardi, nel 1925, Pirandello aggiunse una prefazione nella quale spiegava la genesi e le intenzioni del dramma, per meglio disporre il pubblico alla comprensione.

Roberto Andò ci accompagna in un viaggio immersivo nel disorientamento di un Pirandello in lutto per la morte della vecchia balia, distrutto dalla follia della moglie e tormentato dai suoi fantasmi-personaggi che ancora non sa come portare in scena – e lo fa regalandosi e regalandoci una leggerezza narrativa che scivola su tutto il racconto drammatico come un balsamo lenitivo: si sorride, si ride anche, mentre si palpita e ci si emoziona per questo Pirandello così misteriosamente umano ed empatico.

Lo interpreta un Toni Servillo sempre in gran spolvero quando c’è da rendere dei personaggi realmente esistiti: è stato Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi e Ennio Doris per Paolo Sorrentino (“Il divo” e “Loro”), Giuseppe Mazzini e Eduardo Scarpetta per Mario Martone (“Noi credevamo” e “Qui rido io”), e Paolo VI in “Esterno notte” di Marco Bellocchio. Gli fanno da contraltare la coppia Ficarra e Picone, Salvatore Ficarra e Valentino Picone, che si esibiscono come cabarettisti a partire dal 1993; nel 2000 partecipano separatamente con piccoli ruoli in “Chiedimi se sono felice” film del trio Aldo Giovanni e Giacomo, e già dal 2002 avviano la loro personale sequenza di film di derivazione cabarettistica; in questo “La stranezza” sono per la prima volta protagonisti di una commedia, grottesca sì ma dai risvolti drammatici, in cui benché sempre facendo coppia sono altro e meglio del loro standard, già alto: il loro ultimo film pre-pandemia “Il primo natale” era in testa nella classifica del botteghino.

Il resto del nutrito cast è una felicissima carrellata di facce perfette, cinematograficamente parlando, facce che altrettanto felicemente corrispondono ad interpreti di razza, e si intuisce un minuzioso lavoro di casting. Renato Carpentieri interpreta il Giovanni Verga che Pirandello va ad omaggiare per i suoi ottant’anni, e al quale rivolge i suoi dubbi esistenziali e creativi. Aurora Quattrocchi è la vecchia balia, e la catanese Donatella Finocchiaro, già protagonista per Andò in “Viaggio segreto” del 2006, qui interpreta in una sola intensa scena muta la moglie pazza di Pirandello. A conclusione dei personaggi che ruotano attorno a Pirandello va senz’altro nominato il suo storico suggeritore Battaglia interpretato da Antonio Ribisi La Spina. Altro centratissimo interprete di una scena muta, perché muto è il personaggio, è l’ultima grande maschera del teatro catanese, Tuccio Musumeci, nel ruolo del suocero di Nofrio (Picone) sempre in mezzo sulla sua sedia a rotelle e con uno sguardo sempre preventivamente punitivo. Rosario Lisma è il corrotto impiegato comunale la cui vicenda è una storia nella storia.

In primo piano Antonio Ribisi La Spina
Cartolina ricordo della compagnia filodrammatica

Fra gli attori amatoriali della “Compagnia Filodrammatica Siciliana Principato e Vella” spiccano la puntuta Marta Lìmoli, del cui personaggio non sappiamo le vicende ma che potrebbe essere una sartina come una bidella come la moglie del farmacista, e il bonaccione Franz Cantalupo anche becchino per la coppia dei capocomici impresari funebri: entrambi attori provenienti dalla scuola catanese che benissimo hanno saputo mimetizzarsi, anche linguisticamente, in un cast girgentino-palermitano: è cosa nota che siciliani dell’est e dell’ovest hanno cadenze e musicalità diverse e che non sempre sono in grado di fingersi gli uni per gli altri. Nella compagnia amatoriale spicca anche Brando Improta che è Fofò, il torvo trovarobe innamorato di Santina, la sorella del gelosissimo Bastiano (Ficarra) che però finirà col fare coppia col di lui amico Nofrio che per lei lascerà la famiglia e romperà la storica amicizia col collega d’impresa funebre e d’arte. Santina è interpretata da Giulia Andò, figlia del regista e col quale ha praticamente solo lavorato, e forse meriterebbe di spiccare il volo dal nido. Visibilmente appesantita ma per questo efficacissima nel ruolo della prostituta che allieta i momenti intimi di Bastiano, è Tiziana Lodato, un’altra catanese che fu protagonista ventenne al suo debutto in “L’uomo delle stelle” di Giuseppe Tornatore. Completano il cast dei filodrammatici Laura Giordani, già vista in “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, Aldo Failla protagonista di una divertente gag, Adele Tirante e Alberto Molonia.


Adele Tirante, Laura Giordani, Franz Cantalupo e Aldo Failla nella compagnia amatoriale

Nella catartica messa in scena dei “Sei personaggi” Filippo Luna è il direttore di scena, Luigi Lo Cascio il capocomico, Fausto Russo Alesi il Padre, Galatea Ranzi la Madre, Giordana Faggiano la Figliastra e Paolo Briguglia il Figlio, in una inappuntabile e coinvolgente ricostruzione storica di quell’evento, col pubblico che venne alle mani e Pirandello che dovette fuggire insieme alla figlia. I due teatranti amatoriali venuti dalla Sicilia ad assistere allo spettacolo rimangono chiusi nel teatro vuoto e non sapremo che ne sarà di loro perché non importa: sono ulteriori fantasmi che hanno animato la stranezza creativa di Luigi Pirandello in un’invenzione narrativa che veicola un momento biografico e storico. Nel complesso un film di cui sentiremo ancora parlare, con diversi piani di lettura e di un autore in stato di grazia che, va detto, l’ha scritto con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso. Premi in arrivo per tutti.

Il cast del ricostruito Teatro Valle

Mimì metallurgico ferito nell’onore

1972. Con questo successo di pubblico e critica comincia il fruttuoso sodalizio, che li porterà all’Oscar, tra la sceneggiatrice regista Lina Wertmüller e Giancarlo Giannini, insieme a Mariangela Melato.

accadde…oggi: nel 1992 muore Maria Signorelli, di Giuseppina Volpicelli |  daniela e dintorni
Maria Signorelli con i suoi burattini

Lina – all’anagrafe Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich, romanissima, figlia di un potentino, con un cognome che le arriva da lontane radici aristocratiche elvetiche – viene dall’accademia teatrale del russo italianizzato Pietro Sharoff e poi, per alcuni anni, sarà animatrice e regista del teatro dei burattini di Maria Signorelli; un’impronta, questa dei burattini, che segnerà il suo stile sempre intriso di una visione grottesca della vita in cui i suoi personaggi si muovono, agiscono e parlano, come burattini: più maschere che personaggi realistici, più rappresentazione di un tipo in senso assoluto che tipi di complessa umanità. Farà anche teatro, radio e televisione dove debutterà nel 1964 come co-sceneggiatrice e regista di “Il giornalino di Gian Burrasca” con Rita Pavone, che fra l’altro lancerà la canzone “Viva la pappa col pomodoro” parole della Wertmüller e musica di Nino Rota.

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Nel cinema sarà aiuto di Federico Fellini (“La dolce vita” e “8 1/2”) e debutta come regista cinematografica nel 1963 con “I basilischi”, un ritratto di accidiosi giovani di provincia, molto ispirato a “I vitelloni” del maestro, che se non le vale l’attenzione del pubblico attira però l’interesse della critica: premiata al Festival di Locarno e poi anche a Taormina e Londra. Dirigerà di nuovo Rita Pavone in “Rita la zanzara” e “Non stuzzicate la zanzara” e poi lo spaghetti-western con Elsa Martinelli “Il mio corpo per un poker” nascondendosi sotto lo pseudonimo Nathan Witch. Nel 1972 la svolta con “Mimì metallurgico” che le frutta la nomination Palma d’Oro al Festival di Cannes e consacra Giannini e la Melato: David di Donatello a lui e David speciale a lei, Nastri d’Argento e Globo d’Oro a entrambi come rivelazioni, e Grolla d’Oro solo per lui.

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Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, Mimì e Fiore, con i coloratissimi maglioni che lei fa e vende. Nei titoli: i costumi della Sig.na Melato sono di Enrico Job. Che è scenografo e marito di Lina Wertmüller.

Il film inaugura la felicissima accoppiata Giannini-Melato benché il protagonista sia solo lui, che interpreta il catanese Carmelo Mardocheo, diviso fra tre donne: la moglie Rosalia, la concubina milanese Fiore e l’amante napoletana Amalia. la storia, una commedia grottesca in cui i personaggi sono, come detto, delle marionette, o delle macchiette cinematograficamente parlando, si regge tutta sull’espressività dello spezzino cresciuto napoletano Giancarlo Giannini.

Mimì Metallurgico | ciaksicilia
Giannini con Agostina Belli con una folta parrucca nera che la rende quasi irriconoscibile

La sceneggiatura, brillante, accattivante, parte da una Catania grottesca dove si parlano ben tre dialetti: quello autoctono dei caratteristi locali, quello stilizzato e teatrale del prim’attore Turi Ferro che mette a servizio la sua maschera per interpretare diversi ruoli di mafiosi, tutti imparentati fra loro, tutti riconoscibili da tre nei a triangolo sulla guancia destra, simboleggianti il triangolo della Sicilia: riuscito simbolo della tentacolare mafia che insegue dovunque il povero protagonista. Il terzo dialetto è quello che io, da catanese, chiamo sicilianese, un dialetto costruito al cinema da autori e attori che siciliani non sono, finto e inesistente, quanto urticante per le orecchie sicule doc.

MIMÌ METALLURGICO FERITO NELL'ONORE movie seduction scenes |  re-edit/rescore – serenagiannini
Giannini stretto fra le braccia di Elena Fiore

Purtroppo Giannini parla il catanese che gli è stato scritto come meglio può, e non è il solo dato che gli fa da spalla come amico comunista il torinese Luigi Diberti. Così sul piano linguistico la sceneggiatura fa acqua da tutte le parti ed è evidente che Lina non si è preoccupata più di tanto della credibilità, del resto la sua è una commedia grottesca. La catanese moglie di Mimì si chiama Rosalia e tutti i catanesi sanno che nessuna catanese si chiama Rosalia, dato che Santa Rosalia è la protettrice di Palermo mentre la protettrice di Catania è Sant’Agata e a Catania ci sono (c’erano, a dire il vero) tante Agata. Mimì, ferito nell’onore, si preoccupa che possa passare per frocio e ricchione, termini romano e napoletano, ma tutti sanno che a Catania si dice puppu e jarrusu. E lo stesso Mimì, zittendo la napoletana Amalia si lascia scappare un napoletanissimo statte szitta! Per il resto il film è un intelligente affresco di fatti sociali dell’epoca, alcuni mai debellati: la mafia appunto, il voto di scambio, l’emigrazione interna di lavoratori da sud a nord, il caporalato, le manifestazioni e le contestazioni, il tutto filtrato attraverso il colorato caleidoscopio di Lina Wertmüller che si farà stile personale.

DAVID COPPERFIELD sceneggiato RAI di grande successo del 1965
Giancarlo Giannini con Anna Maria Guarnieri in “David Copperfield”

Giancarlo Giannini aveva raggiunto la popolarità nel 1965 col televisivo “David Copperfield”, regia di Anton Giulio Majano che nel 1971 lo dirigerà di nuovo in “E le stelle stanno a guardare”. Il suo incontro con Lina W. è dovuto grazie ai due musicarelli con Rita Pavone la Zanzara, ma sul grande schermo si impone nel 1970 con “Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca)” di Ettore Scola, nel quale mette a punto il personaggio dell’operaio fulminato e instabile che tornerà a interpretare molte volte, soprattutto con Lina W.

Fuori Cinema | Film in TV (ma da vedere) _ lunedì 30 marzo | Il Cinema  Ritrovato Festival
Mariangela Melato con Massimo Foschi in “Orlando Furioso” di Luca Ronconi

Mariangela Melato ha studiato pittura all’accademia di Brera e poi ha lavorato come vetrinista alla Rinascente per pagarsi le lezioni di recitazione. Raggiunge la fama interpretando Olimpia nel grandioso “Orlando Furioso” allestito da Luca Ronconi. Al cinema riceve la consacrazione con “La classe operaia va in paradiso” del 1971 col quale vince da protagonista il Nastro d’Argento e il David speciale cumulativo dei due film, La Classe Operaio e Mimì Metallurgico. Anche lei come Giannini avrà un successo internazionale e negli ultimi anni tornerà signora del teatro. Muore 71enne nel 2013 per un tumore al pancreas.

Agostina Belli con Alessandro Momo

Anche Agostina Belli aveva lavorato alla Rinascente di Milano, ma come segretaria negli uffici, e chissà se si erano mai incontrate con Mariangela Melato. Grazie alla sua indubbia bellezza ottiene delle particine nei musicarelli in voga all’epoca, e in alcuni polizieschi; ma il primo ruolo con cui riesce a farsi davvero notare è questo di Rosalia moglie di Mimì. Il ruolo migliore della sua carriera arriverà nel 1974 con “Profumo di donna” di Dino Risi, dove recita con Vittorio Gassman (che non le renderà facile l’impegno) e la giovane rivelazione Alessandro Momo che morì quasi 18enne in un incidente motociclistico alla fine delle riprese; per questa interpretazione verrà insignita del Globo d’Oro alla migliore attrice rivelazione, e in seguito riceverà molte proposte di cinema di qualità che declinerà tutte, preferendo una carriera più facile nella commedia all’italiana e nelle commedie sexy, forse consapevole dei suoi limiti: infatti la sua voce è stata sempre doppiata da altre attrici professioniste, pratica che all’epoca era ordinaria.

Mimì metallurgico ferito nell'onore | Giffetteria

La caratterista napoletana Elena Fiore, qui in un grottesco nudo sicuramente con controfigura, è la terza donna di Mimì, non desiderata ma voluta per ragioni d’onore. Lavorerà ancora con la regista e Giannini in “Film d’amore e d’anarchia” e “Pasqualino Settebellezze”. L’ultimo film in cui ha lavorato è “Il Marchese del Grillo” del 1981. Oggi è 92enne e non si hanno più sue notizie.

Tuccio Musumeci con Giancarlo Giannini

Anche Luigi Diberti, qui nel ruolo dell’amico Pippino, viene dal teatro e il suo primo ruolo importante è quello di Ruggero, ancora nell’ “Orlando Furioso” di Ronconi. Con ruoli da comprimario e caratterista avrà una lunga carriera equamente divisa fra teatro cinema e tv. L’altro amico di Mimì è l’integerrimo, in senso mafioso, Pasquale, interpretato dal caratterista etneo Tuccio Musumeci, oggi ottantenne primattore del teatro catanese. Un film importante questo Mimì, per la regista e per gli interpreti, e anche per la cinematografia italiana dove irromperà questo genere nuovo di commedia amara, venata di grottesco, e in cui non manca l’impegno sociale, che si pone a metà strada, e sempre in bilico, fra la commedia all’italiana e il cinema politico, in un’Italia vittima del terrorismo. Film di quello stesso anno sono “Il caso Mattei” di Francesco Rosi, “Il caso Pisciotta” di Eriprando Visconti e “Nel nome del padre” di Marco Bellocchio. Ma anche “Roma” di Fellini e poi tanti polizieschi e tutta una serie di Decameroni e di Canterbury e fimetti sexy al limite della pornografia. Erano anni di piombo e almeno al cinema ci si voleva divertire.