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I mostri

Veicolo per due dei divi del momento anche amici nella vita: Ugo Tognazzi che veniva dalla rivista e Vittorio Gassman dal teatro classico, diversissimi quanto intercambiabili, in questo film esplorano la loro intima natura di interpreti: tendente all’esagerazione istrionica Gassman, più misurato e ambiguamente sottile Tognazzi, che per questo fu anche lodato dalla critica: “segna il punto più alto raggiunto da Tognazzi nel film a episodi”, “…in confronto al suo rapinoso, irresistibile, talvolta magari debordante collega [si presenta] come un ‘dritto’ di indole più conciliante e flemmatica. E lo è, magari, però i personaggi più mostriciattoli finiscono per essere poi proprio suoi”. “Nel corso di questo festival dei due emuli di Fregoli, bisogna dare la preferenza a Tognazzi, molto più sciolto, più sottile, più sfumato e più convincente di Gassman. Con lui, la satira è meno diretta. Essa s’insinua e raggiunge meglio lo scopo”.

I due attori nel film “La marcia su Roma” sempre diretti da Dino Risi

Il film del 1962 è stato selezionato fra i 100 da salvare della nostra cinematografia ed è un caposaldo della primissima commedia all’italiana che molto bene si espresse nei film a episodi, spesso firmati da registi diversi, in questo caso addirittura 20 di durata varia, e qui li dirige tutti Dino Risi, già regista affermato che ha scritto il film con Elio Petri che aveva da poco debuttato in regia col drammatico “L’assassino” ma che era sceneggiatore da più di un decennio; con Ettore Scola, anch’egli sceneggiatore da un decennio che debutterà come regista l’anno dopo con “Se permettete parliamo di donne”; e poi con gli sceneggiatori a tempo pieno Agenore Incrocci, Ruggero Maccari e Furio Scarpelli. Al montaggio quello che diverrà un altro regista di genere, Maurizio Lucidi, che come montatore continuava un mestiere di famiglia. Scene e costumi di Ugo Pericoli, musiche di Armando Trovajoli e produzione di Mario Cecchi Gori. Il successo è servito: la feroce critica sociale è piaciuta molto a pubblico e critica.

L’educazione sentimentale

È quella che un italiano medio impartisce al figlio scolaro elementare, fatta di luoghi comuni, proverbi e modi di dire, tutti all’insegna del fare truffaldino come stile di vita e della disonestà intesa come furbizia in un mondo di disonesti, perché i disonesti sono sempre gli altri: un atteggiamento – non solo tutto italiano – sempre corrente. La morale è che quel che si semina poi si raccoglie. Ugo Tognazzi apre il film con questo ritrattino folgorante educando il figlio Ricky Tognazzi (doppiato da un altro bambino, Roberto Chevalier) anche all’arte cinematografica: quello stesso anno il bambino recita di nuovo accanto al padre nell’episodio “Il pollo ruspante” diretto da Ugo Gregoretti nel film “Ro.Go.Pa.G.”. Come collega d’ufficio completa il cast Mario Frera non accreditato nei titoli, come pure la moglie del protagonista e madre del bambino che altri non era che Pat O’Hara, vera madre di Ricky e compagna di Ugo.

La raccomandazione

Vittorio Gassman, reduce dal suo “Il mattatore” prima in tv e poi al cinema diretto sempre da Dino Risi che su di lui aveva disegnato “Il sorpasso” l’anno prima, si prende in giro rifacendo sé stesso in una rilettura un po’ sopra le righe: è un prim’attore teatrale impegnato nell’Otello di William Shakespeare, come realmente lo era stato qualche anno prima in una storica messa in scena curata da lui stesso e in cui ogni sera si alternava con Salvo Randone nei ruoli di Otello e di Jago, spettacolo che è possibile recuperare nella sua versione televisiva su RaiPlay. Nell’episodio un collega meno noto e meno fortunato gli chiede una raccomandazione per un’altra produzione e il primattore, fra bizze in camerino infarcite di classiche sboronate, effettivamente telefona per fare la sua raccomandazione – che però si rivela falsa e ipocrita, e fingendo di negare ciò che invece afferma fa del collega un ritratto ingeneroso e disastroso. Nell’ingrato ruolo del collega si presta il caratterista cine-televisivo Franco Castellani.

Il mostro

Velocissimo, meno di un minuto questo flash che mette in burla la critica sociale. Il titolo di un quotidiano annuncia che un “mostro” ha ucciso i suoi cinque figli e si barrica in casa sulla Pontina, dove a seguire vediamo che la polizia lo va a prelevare. Musica di marranzano perché sia chiaro che il mostro è un immigrato del sud, e poi un fotoreporter fa uno scatto del povero mostro stretto fra i due poliziotti, uno a cui manca un incisivo e l’altro con un occhio storto: altrettanto mostri ma da barzelletta. Il tutto all’insegna di un politicamente scorretto ancora di là da venire nella coscienza civile e all’insegna del quale non avremo più di queste perle.

Come un padre

Come un padre, è come il giovane marito geloso considera l’amico un po’ più anziano nel cui appartamento piomba in piena notte per lamentare il presunto tradimento della moglie, chiedendo all’amico di intercedere, proprio come un padre, per accertarsi che i suoi siano solo timori e malate fantasie. Rassicurato il giovane amico, l’uomo torna a letto dove ad attenderlo c’è la giovane moglie di cui si è appena parlato. Tognazzi recita di sottrazione, con molta misura, dando spazio all’emergente Lando Buzzanca che nei decenni a venire sarà protagonista della commedia sexy all’italiana sempre con questo genere di personaggio, qui però doppiato dal padovano Carlo Reali che garbatamente rifà il suo accento siciliano.

Presa dalla vita

Gassman, come se non ne avesse abbastanza, in questo episodio si sdoppia e interpreta due di quei mostri che si muovono sui set cinematografici: un tuttofare che rapisce una vecchietta e poi il regista dalla chioma argentata che la utilizza nel film malgrado lei. Parabola, e anche un po’ denuncia, di tanti piccoli interpreti dell’appena concluso neorealismo dove gli attori venivano presi dalla strada, appunto, e qui si racconta anche contro la loro volontà. I sei sceneggiatori, o uno dei sei non si sa chi, si sono qui divertiti a ritrarre il regista come una copia di Federico Fellini.

Il povero soldato

Il povero soldato in licenza è venuto dalla provincia nella capitale dove si era trasferita la sorella, per riconoscerne il cadavere: la ragazza è stata trovata assassinata e i giornali cavalcano la notizia con tono scandalistico. Un amico lo accompagna nell’appartamento della ragazza, ex cameriera, come l’amico spiega cautamente, che si è evoluta: si era comprata una casa arredata con ogni confort ai Parioli… Il povero soldato, avvilito, ha trovato il diario della sorella con nomi e cognomi della Roma bene, calendario degli appuntamenti e tariffe in decine di migliaia di lire che lui finge di scambiare per incomprensibili numeri di telefono, e sempre avvilito triste e mortificato, va alla redazione di Paese Sera, quotidiano chiuso nel 1994, chiedendo tre milioni e mezzo per cedere le scottanti memorie che lui, nella sua ignoranza, considera un doloroso lascito sentimentale. Solo alla fine gli sfugge uno sguardo di calcolata furbizia. Con Quinto Parmeggiani come capo redattore.

Che vitaccia!

Qui il mostro è un povero baraccato della periferia romana che non ha neanche i soldi per comprare le medicine a uno dei tanti figli malati, salvo poi spendere gli ultimi spiccioli per andare allo stadio a vedere la squadra del cuore, ‘a Roma. Angela Portaluri è la moglie incinta, probabilmente sempre incinta data la numerosa prole. Le immagini della partita giocata allo Stadio Olimpico di Roma sono quelle reali della partita Roma-Catania giocata il 10 febbraio 1963 e terminata 5-1: Adelmo Prenna segnò l’unico gol del Catania mentre il suo compagno Remo Bicchierai segnò un improvvido autogol.

La giornata dell’onorevole

Sintetico spaccato dell’attività di un uomo politico in cui qualcuno ha voluto vedere Giorgio La Malfa e qualcun altro Giorgio La Pira, comunque di area cattolica poiché il personaggio vive in un convitto di frati domenicani; ma nell’aula parlamentare assistiamo al discorso di un altro mostro, fascista nello specifico, perché centro destra o sinistra sono tutti uguali. Nessuna azione mostruosa o delittuosa viene mostrata nell’episodio, in quanto già l’essere “onorevoli” è di per sé indice di mostruosità: ipocrisia, cinismo, opportunismo e sotterfugi sono il tessuto del mostro politico. Intorno a Tognazzi il vero generale in pensione Ugo Attanasio, suocero di Alberto Lattuada che lo aveva fatto debuttare come figurante, che qui interpreta un generale che fa anticamera; c’è poi il caratterista friulano Carlo Kechler (erroneamente Kecler nei titoli), il caratterista gay Franco Caracciolo come solerte fratino, che sarà nel corpo di ballo delle Ragazze Coccodè nel programma Rai 2 “Indietro tutta!” di Renzo Arbore nonché una delle Sorelle Bandiera in sostituzione di Tito LeDuc. Come figurante non accreditata Gabriella Ferri che a un pranzo sorride alle amenità dell’onorevole.

Latin Lovers (Amanti Latini)

La traduzione fra parentesi che oggi sarebbe superflua all’epoca aveva senso perché non erano in molti a conoscere l’inglese, giacché molti non conoscevano ancora neanche l’italiano. Altro brevissimo episodio, non parlato e accompagnato dalla canzone “Abbronzatissima” di Edoardo Vianello. In un’affollata spiaggia una donna, in quello scandaloso bikini che in quegli anni si andava diffondendo, scivola via dalle mani sinuose dei due amanti latini che le sono ai lati. E le mani dei due uomini continuano a cercare nel vuoto – trovandosi, e stringendosi in un’intesa omoerotica che nulla ha dei maschi latini. Politicamente scorretto ma divertente in quanto tale. La bella è Luciana Vincenzi che nel 1966 parteciperà a Miss Italia dove verrà incoronata solo con la fascia di Miss Cinema, senza però fare una grande carriera cinematografica.

Testimone volontario

Col sempre istrionico Gassman che come avvocato senza scrupoli sfarfalla intorno a Tognazzi che gioca per sottrazione il ruolo di testimone di un omicidio – il primo intimorendo e screditando il secondo. L’episodio appare incompleto perché ci si aspetta dall’abusato povero testimone una finale e risolutiva reazione. Qui il mostro è sicuramente l’avvocato ma gli sceneggiatori hanno perso la ghiotta occasione di fare anche del testimone un mostro esemplare. Nel ruolo della moglie di Tognazzi un’accorata Marisa Merlini, il giudice è Carlo Ragno.

I due orfanelli

Altra maschera esageratamente grottesca per Gassman come mendicante che si accompagna a un giovane cieco sfruttandolo; all’offerta di un oftalmico di poter curare gratuitamente il povero infelice, cambia zona per non perdere la sua personale fonte di sostentamento. Daniele Vargas è il dottore. Il titolo è un dichiarato omaggio, senza alcuna attinenza specifica nella trama, al film omonimo del 1947 con Totò, che a sua volta fu la parodia del muto del 1921 “Le due orfanelle” di David Wark Griffith dove si raccontava che una delle due era cieca: il magistrale cerchio di omaggi e citazioni si chiude. Nell’importante ruolo del cieco dagli occhi assai vivaci, anzichenò, un giovane inspiegabilmente non accreditato e in cui qualcuno ha voluto riconoscere Teo Teocoli.

L’agguato

Altro veloce episodio senza parlato: il pizzardone Tognazzi, in elegante divisa bianca estiva, si apposta dietro l’edicola di un giornalaio per multare gli incauti che si fermano in divieto di sosta per fare un acquisto al volo. Episodio sicuramente ispirato alle reali abitudini di certi tutori dell’ordine. Come vittime si prestano il produttore Mario Cecchi Gori e l’addetto stampa Enrico Lucherini. L’episodio si può inserire nel sottogenere denuncia sociale.

Il sacrificato

Sin dal cartello col titolo la musichetta del maestro Armando Trovajoli suggerisce un sirtaki greco in omaggio alla protagonista femminile Rica Dialina, già Miss Grecia 1954, che recitando con la sua voce in un convincentissimo italiano riesce a tenere testa al quasi monologante Gassman: sfruttatore seriale delle donne e dei loro sentimenti, ma che dice di sacrificarsi per il loro bene spingendole a farsi lasciare. Archetipo del maschio italico ancora in giro come mostro predatore. La francese Françoise Leroy, di cui non si conoscono altri film, è l’amante successiva.

“Vernissage”

Il termine francese del titolo, virgolettato, al contrario del precedente inglese “Latin lovers” non ha bisogno di traduzione perché evidentemente già all’epoca nel nostro uso comune. Siamo nell’Italia del boom economico in cui l’italiano medio firma pacchi di cambiali per regalarsi il nuovo necessario, in questo caso una fiammante Fiat 600. Dopo il felice acquisto Tognazzi telefona alla moglie e poi sistema sul suo nuovo cruscotto i magneti con San Cristoforo, patrono dei viaggiatori in genere, e un “pensa a noi” con foto di moglie e figlio. Uscito dal salone la prima cosa che fa con l’auto nuova è andare a caricare una prostituta: santa ipocrisia della classe media. Il cortometraggio è un chiaro rifacimento in chiave borghese dell’episodio “Che vitaccia!” ambientato nel sottoproletariato ma con medesima dinamica ego-consumistica: lì lo stadio qui la prostituita. Il titolo è nell’immediato incomprensibile e necessita di una rilettura assai più sottile: se per vernissage si intende una mostra d’arte qui l’arte messa in mostra è il consumismo: le auto nel salone e le prostitute sul viale. Nel ruolo della prostituta una giovane Isabella Biagini non accreditata.

La Musa

Si fa ma non si dice. Gassman torna a gigioneggiare nei panni femminili di una musa letteraria che come componente di giuria di un concorso letterario, assai caldamente spinge ad assegnare il premio ad un improbabilissimo debuttante, assai ruspante, nella cui camera d’albergo va a impartirgli gli ultimi preziosi consigli prima di spegnere la luce spingendo l’aitante giovanotto, fresco di doccia e in accappatoio, sul letto; sul nero del buio udiamo gli ultimi suoni: un bicchiere che cade e lei che chiede “Dove sei?” in un finale aperto in cui il giovanotto è forse riuscito a sfuggire alle grinfie dell’interessata musa. Si fa ma non si dice: molti concorsi erano o sono truccati? molti critici letterari erano o sono venduti? o solo interessati alle camere da letto? Si fa ma non si dice: l’innominato premio si ispira chiaramente al più importante premio letterario del momento, il Premio Strega, e il look del Gassman-Musa con quei fili di perle sull’abito nero dalla vertiginosa scollatura sulla schiena, rimanda molto alle vera musa dello Strega, la scrittrice Maria Bellonci, che però tacque sul film e non seguì nessuna polemica: è una dichiarata e “innocente” presa in giro e l’attore riporterà il personaggio nel televisivo “Studio Uno”, diretto da Antonello Falqui e condotto da Mina, alla quale il Gassman-Musa dichiarerà di essere la creatrice del “Premio Cerasella”: una divertente gag che forse arrivò come smentita: tutto è bene quel che finisce bene. Nel ruolo del giovane scrittore ruspante lo stuntman Salvatore Borgese qui nel suo primo ruolo parlato in barese e doppiato da Stefano Satta Flores.

Scenda l’oblio

Qui i mostri sono una coppia dell’alta borghesia che al cinema stanno vedendo la scena di un film neorealista in cui un plotone di soldati tedeschi ha appena fucilato degli inermi civili contro un muro, e quel “semplice muro con le tegoline sopra” è il modello che ispira lui per la loro nuova villa: un genere di mostri sempre fra noi. La di lui degna consorte è Luisa Rispoli, attiva in pochi film con piccoli ruoli in quegli anni Sessanta anche come Maria Luisa Rispoli.

La strada è di tutti

Velocissimo ritratto per Gassman come altro mostro sempre attuale sulle nostre strade: il flemmatico ma anche polemico pedone che faticosamente attraversa sulle strisce pedonali fra auto che “incollano”, poi sale sulla sua Fiat 600 dal look sportivo e diventa un altro di quei pirati della strada.

L’oppio dei popoli

L’oppio dei popoli, che secondo Karl Marx era la religione, qui è la televisione seguendo l’opinione di tanti intellettuali e, in questo caso specifico, di molti cineasti: perché la televisione toglieva spettatori al cinema e solo nei decenni più recenti i due mezzi sono diventati intercambiabili. Tognazzi si fa molto espressivo pur nella maschera inespressiva dello spettatore imbambolato davanti alla tv da cui proviene la lunga credibile traccia sonora di un film americano alla cui conclusione l’annunciatrice ricorda il titolo “Salto nello spazio” di Peter Baldwin, annunciando fra i programmi dell’indomani altre pesanti dosi di oppio al popolo: la ventesima puntata del romanzo sceneggiato “La cieca di Sorrento”, che però uscì come film diretto da Nick Nostro in quello stesso 1963; il primo titolo è d’invenzione e sembra un omaggio poiché Baldwin è realmente esistito come attore americano, interprete di film di fantascienza, adottato dal nostro cinema con un importante ruolo in “Era notte a Roma” di Roberto Rossellini, 1960; Baldwin poi sposò Emi De Sica, figlia di Vittorio De Sica col quale collaborò come aiuto regista prima di tornare negli USA dove si riciclò come regista televisivo negli anni ’70, dunque una sua regia nel 1963 è improbabile. Qui Tognazzi si ritrova nel medesimo triangolo amoroso di “Come un padre” ma stavolta nel ruolo del cornuto; la bella moglie in baby-doll sul cui primo piano si apre l’episodio accompagnato dalla voce di Nico Fidenco che la dice bella cantando “Tornerai… Suzie” è interpretata dalla francese (il film è in coproduzione) Michèle Mercier che diventerà famosa con il ciclo di film su “Angelica”. Il giovane amante è l’aitante Marino Masè che quell’anno fu protagonista per Jean-Luc Godard in “Les Carabiniers”. Sempre a proposito della televisione come oppio dei popoli alla fine ci viene detto che l’unico programma che il cornuto protagonista non guarda è “Tribuna politica” certo perché troppo attinente alla realtà.

Il testamento di Francesco

Ancora la televisione come scenario. L’episodio si apre col telegiornalista Riccardo Paladini, non nuovo a queste brevi partecipazioni cinematografiche, che nella sala trucco della Rai ripassa le notizie da leggere in video. Accanto a lui Gassman impersona un forbito personaggio che tormenta il truccatore con continue richieste, perché attentissimo all’immagine di sé che sta per dare in tv; e lì in diretta televisiva lo scopriamo essere un sacerdote che commenta le parole di San Francesco sulla vanità umana.

La nobile arte

Ironia sin dal titolo giacché nel pugilato di cui l’episodio tratta non c’è nulla di nobile: tolti gli ideali dei combattenti è solo questione di ingaggi e scommesse. I due attori concludono insieme il film con un episodio drammaturgicamente più complesso esibendosi in due caratterizzazioni che, pur spinte e grottesche, mantengono l’afflato umano delle grandi interpretazioni: personaggi che bene avrebbero potuto essere sviluppati in un lungometraggio a sé stante. Sono entrambi due ex pugili suonati, Tognazzi che si è fatto impresario e Gassman, ex campione d’Italia, che ora gestisce una trattoria sul litorale romano. Per necessità economica il primo e cedendo alle lusinghe della gloria il secondo, tornano in campo con l’amara conclusione che tutti già sappiamo. Gli altri interpreti: Lucia Modugno è la moglie di Gassman, il caratterista Mario Brega realmente appassionato di boxe è uno degli allibratori mentre il vero campione Ottavio Panunzi si presta a salire sul ring nel match finale.

Facendo i conti sono 20 episodi di cui 8 per ogni attore da protagonista e 4 con entrambi. Il film ebbe due sequel: “I nuovi mostri” nel 1977 sempre con Risi alla regia che stavolta si divise il compito con Mario Monicelli e l’Ettore Scola che qui è ancora sceneggiatore, mentre al cast principale si aggiungono Alberto Sordi, già maestro di mostruosità per suo conto e con una cinematografia tutta sua, e Ornella Muti. Segue il terzo capitolo “I mostri oggi” nel 2009, anno in cui i protagonisti originali non sono più fra noi e che si rivelerà non più che una inutile sequenza di barzellette.

Satyricon – ma non è Fellini

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Era il 1969. Si sparge la voce che Federico Fellini, già pluricandidato all’Oscar come sceneggiatore e regista, e ne riceverà uno onorario nel 1993, sta preparando il suo prossimo film dal Satyricon attribuito a Petronio Arbitro, e si scatenano gli appetiti. Dell’opera, che immaginiamo assai ampia poiché sono giunti fino a noi pochi frammenti relativi ai Libri XIV e XVI, si sa che è sporcacciona e soprattutto mette in cattivissima luce la bella società della Roma Imperiale, due ragioni per le quali probabilmente gli scritti sono stati distrutti già all’epoca, ma oggi ce n’è abbastanza per ricostruire il contesto e, soprattutto, far correre l’immaginazione.

Satiro - Nonciclopedia

Per Satyricon si intende una raccolta di racconti satireschi, ovvero dei satiri, deità minori che si accompagnano a Dioniso, quindi amanti del vino e delle orge, protettori della fertilità maschile e dediti alla lascivia, spesso raffigurati con una vistosa erezione. Come tale il Satyricon racconta le disavventure del giovane Encolpio che si accompagna al suo amato efebo Gitone e all’amico-nemico Ascilto, e insieme ne fanno, come si dice oggi, di ogni, passando dai riti priapei ai bordelli e alle orge, perdendosi e ritrovandosi in una fantasmagorica girandola di disavventure sempre licenziose e satiriche – facendo attenzione a non assimilare al termine satiro la satira, la cui etimologia viene dal latino satura lanx, ovvero il vassoio colmo di primizie da offrire agli dei; la satira era, e ancora dovrebbe essere, un genere di narrazione, e in generale di comunicazione, che si caratterizza per l’attenzione critica verso la società e i suoi protagonisti, mettendone a nudo le contraddizioni le debolezze e i vizi con l’intento di promuovere un cambiamento sociale attraverso una forma di denuncia che passa dal paradosso e dal grottesco mettendo in ridicolo persone e situazioni. Per queste sue caratteristiche eversive la satira non è mai stata amata dai tiranni ed è sempre indigesta a qualsiasi regime. Il Satyricon è satirico a cominciare dalla forma narrativa che imita e volgarizza l’Odissea, trasformando il viaggio esperienziale e iniziatico di Ulisse in un viavai grottesco e licenzioso di Encolpio fra riti iniziatici priapei, prostitute, matrone lascive, cene luculliane e disinvolti amori omosessuali. Figura centrale è l’arricchito liberto Trimalcione che ostentando con eccentricità la sua ricchezza, ma anche la sua ignoranza, è una dichiarata critica a certe personalità pubbliche dell’epoca.

Laceno d'Oro 2015, Alfredo Bini "ospite inatteso" - Avellino Zon
Alfredo Bini

Nessuno immagina cosa ne farà Fellini, anche se a guardare la sua immaginifica cinematografia è chiaro che straborderà in ricercate fantasie. Alfredo Bini, produttore stimato colto e coraggioso, spesso anche in controcorrente (e per le cronache rosa marito felice dell’attrice Rosanna Schiaffino) avvia questo suo progetto sul Satyricon dopo aver prodotto solo film colti e d’autore: ha debuttato producendo “Il bell’Antonio” da Brancati diretto da Mauro Bolognini e poi produce tutti i film di Pier Paolo Pasolini che vanno da “Accattone” a “Edipo Re”; non c’è quindi da stupirsi che l’opera di Petronio rientri nei suoi progetti. Affida la sceneggiatura a un maestro della commedia all’italiana, Rodolfo Sonego di cui basta ricordare un titolo fra tanti: “La ragazza con la pistola” regia di Mario Monicelli con Monica Vitti; e lo sceneggiatore cerca di restare il più fedele possibile ai frammenti disponibili, dando un senso logico alla vicenda e immaginando un contesto plausibile, con qualche caduta di stile qua e là dato il non facile spinoso argomento, congiunto alla necessità di confezionare un film che possa attirare il pubblico. Alla regia viene chiamato Gian Luigi Polidoro, curriculum da bravo documentarista – nel 1959 era stato candidato all’Oscar con un cortometraggio documentario – e che si era più recentemente messo in luce dirigendo Alberto Sordi in “Il diavolo”, scarso successo di pubblico ma vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino del 1963.

Don Backy come appare nel film, fra Ninetto Davoli e il modello caravaggesco

Il cast è in linea con questa scelta che oggi definiremmo populista: protagonista è il cantante Don Backy (all’anagrafe Aldo Caponi) già molto attivo come attore anche compositore delle musiche dei film, una faccia giusta a metà strada fra Ninetto Davoli e il modello di Caravaggio. L’infido Ascilto è Franco Fabrizi, un protagonista-antagonista del cinema dell’epoca che incarna il tipo del rubacuori di provincia, dell’amico inaffidabile ma seduttivo, sempre cinico e sempre fascinoso; e se Don Backy coi suoi trent’anni ben portati è bene in parte, Fabrizi coi suoi altrettanto ben portati 53 anni risulta meno credibile. Credibilissimo, quanto discutibile e discusso, il 14enne Francesco Pau nel ruolo della schiavetta da talamo Gitone che presto si rivela un maschietto che non disdegna le attenzioni delle matrone viziose.

La presenza nel cast del 14enne attirò gli strali della censura già allertata dal plot narrativo: il film fu sequestrato e seguirono varie controversie perché in effetti il ragazzo era stato coinvolto in scene sessualmente esplicite, esplicite nell’argomento non nell’azione, beninteso, ché i film mainstream con scene di sesso esplicito sono ancora lontane nel futuro. C’è da dire che il ragazzo debuttante è davvero bravo e mostra una consapevolezza seduttiva assai precoce e, guardata da questo punto di vista, anche abbastanza disturbante: attraversa le scene di seduzione, omo ed eterosessuali, con una naturalezza che può venire solo dall’incoscienza o da una precoce e innaturale maturità sessuale. Sta di fatto che il film fece parlare per il sequestro e le censure e le polemiche mettendo in ombra gli aspetti positivi che non mancano, ancorché in un film imperfetto: sceneggiatura frettolosa, recitazione approssimativa, regia che indulge troppo in una visionarietà di maniera sfornando una carrellata di tipi tutti con troppi ombretti e rossetti anche fra il volgo dei figuranti che affollano le scene. Di Francesco Pau si sa che fece altri tre film fino all’età adulta e poi sparì dal mondo cinematografico.

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Franco Fabrizi, Don Backy, Francesco Pau e Mario Carotenuto nei triclini della cena di Trimalcione
Satyricon | Filmscoop
Ugo Tognazzi – Trimalcione

Notevole l’ambientazione fra borghi, incastellamenti e passaggi perigliosi, molto tipici e pittoreschi, che viene voglia di sapere dove si trovano. Molto divertente la megera interpretata da un uomo brutto doppiato con voce chioccia femminile. Positiva la presa diretta per la franco-americana Tina Aumont, qui nel ruolo di Circe, che ebbe una proficua carriera nel cinema italiano fino a tutti gli anni ’70. Recita con la sua voce anche Graziella Granata nel ruolo della viziosa matrona Antonia, attrice bella e brava che ebbe una carriera circoscritta nel tempo fra gli anni 1959-1972. Nel ruolo di cerimoniere di Trimalcione, scheggia impazzita o checca impazzita che dir si voglia (non è una nota omofoba ma solo divertita) recita col suo accento spagnolo il mimo danzatore Tito Le Duc che ritroveremo in “Bordella” di Pupi Avati e soprattutto come componente del trio televisivo Le Sorelle Bandiera. Il film fa un decisivo salto di qualità quando entra in azione l’anziano caratterista Mario Carotenuto, volto noto della Rai e spalla di lusso in un centinaio di film, qui nel ruolo di Eumolpo, sedicente poeta più a suo agio come ruffiano e parassita, che a metà film conduce il terzetto alla Cena, maiuscola, dell’arricchito ex schiavo Trimalcione, interpretato con gusto dal sornione Ugo Tognazzi, unico nome di spicco nel cast: una presenza centrale di mezzora in un film di due ore che, insieme a Carotenuto, danno sostanza a questo film condannato all’oblio dalle vicende giudiziarie e, soprattutto, dall’arrivo nelle sale quattro mesi dopo dell’altro Satyricon, quello di Fellini, che sarà tutta un’altra storia e tutto un altro Satyricon.

Tornando al produttore Alfredo Bini va detto che con questo suo Satyricon chiude la sua gloriosa casa di produzione Arco Film fondata nel 1960 e dopo una ventina di film, certamente per il dissesto finanziario che il film gli ha procurato. Credeva molto in questo suo progetto, che idealmente si inseriva nel filone dei suoi film controcorrente, dall’impotenza virile narrata nel “Bell’Antonio” al debutto cinematografico dello scomodo Pier Paolo Pasolini, i cui film a tema religioso, “La ricotta” e “Il Vangelo secondo Matteo” gli costano guai giudiziari perché ritenuti blasfemi. Quando il suo Satyricon viene accusato di oscenità Bini risponde con il pamphlet “Appunti per chi ha il dovere civile, professionale e politico di difendere il cinema italiano” e, come produttore cinematografico, fonda altre case di produzione con le quali avvia, tranne pochi casi, la realizzazione di film di serie B, anche di genere erotico tipo “Il Decamerone nero”: quando l’arte non paga. Anche il suo matrimonio con Rosanna Schiaffino naufraga nel 1980 e nel 1983 chiude la sua carriera di produttore con uno scatto di orgoglio coproducendo il kolossal italiano “I paladini: storia d’armi e d’amore” ispirato a “Orlando innamorato” del Boiardo e “Orlando furioso” dell’Ariosto con regia di Giacomo Battiato. Ma la sua parabola umana è sempre più in discesa e a 82 anni è in miseria assoluta e riceve il vitalizio previsto dalla Legge Bacchelli, 400 euro al mese; scrivendo la sua biografia morirà due anni dopo. Per chi volesse approfondire è possibile leggere on line o scaricare il suo pamphlet in questo link:
https://ui.codk.site/download.php?file=appunti+per+chi+ha+il+dovere+civile%2C+professionale+e+politico+di+difendere+il+cinema+italiano+-+alfredo+bini


Bordella

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1976. Un unicum nella cinematografia di Pupi Avati: satirico, grottesco, surreale, demenziale e via dicendo, senza dimenticare che è anche stato vietato ai minori. Beh certo già il titolo deve avere allarmato i benpensanti tutori morali dell’epoca, inconsapevoli che era un’epoca che stava lì lì per esplodere una seconda volta dopo il recente ’68.

In quell’anno muoiono Agatha Christie e Mao Tse-tung mentre in Italia nasce il quotidiano La Repubblica e oltre oceano nasce la Apple di Steve Jobs mentre IBM sta lanciando sul mercato la prima stampante laser: prove tecniche di un futuro dagli sviluppi inimmaginabili. Sul nostro territorio nazionale gli attacchi terroristi dei brigatisti ci facevano rinchiudere in quelle case da dove le femministe, però, uscivano sempre più spesso a manifestare per le strade a favore della legge sull’aborto per la quale furono raccolte 700mila firme, definite all’epoca “firme delle puttanelle”, ma l’aborto rimane reato tranne quei casi eccezionali in cui è a rischio la salute della donna. In parlamento entrano per la prima volta i Radicali e il Partito Comunista Italiano è al 34% subito dopo la Democrazia Cristiana che è al 38%.

Risultato immagini per 1976 friuli

Il 6 maggio un violento terremoto scosse e distrusse gran parte del Friuli, e il 10 luglio scoppia il reattore di una fabbrica di prodotti chimici a Seveso, alle porte di Milano: una nube di diossina invade il territorio e le conseguenze saranno da film dell’orrore: prima cadono stecchiti gli insetti, poi gli uccelli, a seguire i polli non stanno più in piedi e i cani cominciano a impazzire mentre i gatti diventano feroci come tigri, prima di morire le mucche muggiscono a lungo di dolore e per ultime muoiono le capre.

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Al cinema esce “Taxi Driver” di Martin Scorsese mentre la Corte di Cassazione condanna al macero tutte le copie di “Ultimo tango a Parigi” del 1972 di Bernardo Bertolucci, che intanto esce di nuovo nelle sale col suo monumentale “Novecento” diviso in due film – grande novità nella nostra cinematografia più abituata ai cortometraggi e agli sketch dei film a episodi – e che ancora fu sequestrato a Salerno per oscenità e blasfemia ma poi rimesso in circolazione con un nulla di fatto. E’ anche l’anno del “Rocky” di Sylvester Stallone, del disturbante “L’inquilino del terzo piano” di Roman Polanski, dell’horror “Carrie, lo sguardo di Satana” di Brian De Palma e dei politici “Quarto potere” di Sidney Lumet e “Tutti gli uomini del presidente” di Alan J. Pakula. E chiudo la carrellata con un altro Pupi Avati che esce lo stesso anno: il giallo horror “La casa dalle finestre che ridono”.

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Il critico Giovanni Grazzini scrive: “Siamo spesso nel cabaret televisivo, nel paradosso goliardico. L’ambizione di Avati, di darci un’immagine emblematica della civiltà confusa degli anni Settanta, è poco adeguata alle sue virtù di narratore originale. Se è vero che la commedia all’italiana ci ha stancati, è dubitabile che film come “Bordella” possano proporsi quali modelli d’una nuova comicità internazionale.” Di fatto il film, un soggetto di Avati, di suo fratello Antonio e di Gianni Cavina cui si è aggiunto Maurizio Costanzo nella sceneggiatura, lo si potrebbe definire come un prodotto di cervelli in libertà. Si apre e si chiude con immagini di repertorio del potentissimo Henry Kissinger che con sapiente doppiaggio si fa promotore della multinazionale American Love Company gestita dal Mr Chips che manda il siculo-americano Eddie Mordace (doppiato però in pugliese da Carlo Croccolo) ad aprire una succursale a Milano. Di nuovo c’è che il bordello è per signore e vi si prostituiscono ruspanti giovanotti in una sequela di quadretti e siparietti ancora oggi divertenti quanto improbabili: si passa dal grottesco al burlesque maschile con numeri da musical e colpi di scena surreali in un film goliardico dove ogni interprete dà davvero il meglio di sé in assoluta libertà espressiva.

Gianni Cavina si disegna il ruolo del pugile suonato Adone Tonti con certi problemini di erezione che però non scoraggiano le donne con animo da infermiera e l’impeto da “io ti salverò!” ma che poi finisce per dare il meglio di sé con un pompiere travestito. Il venticinquenne Christian De Sica si lascia andare, è proprio il caso di dirlo, come aristocratico decaduto, tale Conte Ugolino Facchini, facendo forse il verso al Conte Max di suo padre Vittorio, ed è lui che apre le vie del musical con vezzi e mossette che nei decenni successivi faticherà a tenere a freno in una carriera lunghissima fatta di pochi alti e molti bassi. Il maniaco sessuale Ivanohe Zuccoli che nell’impresa mette a frutto il suo talento è un divertito e divertente Gigi Proietti, anche lui libero di fare e disfare quello che gli pare – in un film però sempre tenuto sotto controllo dal regista, pur nell’apparente anarchia generale. Lo statuario Luigi Montefiori, l’unico col physique du rôle, star dei B-movie italiani con lo pseudonimo di George Eastman, è il marinaio Silvano “Sinbad” Silingardi e chiude la squadra il caratterista polacco Vladek Sheybal qui nel ruolo di Francesco Brandani detto Checco ma anche checca dato che subito si traveste e fa il maestro di cerimonia in una casa bordello-bordella dove l’omoerotismo, divertito o reale, è più che palese.

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Non manca il personaggino di un massaggiatore assai gaio interpretato da Tito Le Duc, anche coreografo del film, noto come componente delle Sorelle Bandiera che in quegli anni avevano sdoganato, grazie a Renzo Arbore, il travestitismo in tivù. Le sciure milanesi apprezzano la bordella mentre Taryn Power, sorella minore della più famosa Romina, fa un’improbabile fanatica religiosa americana che viene a perseguitare i peccatori anche a Milano. Il potente Mr Chips che fa il verso al Hugh Hefner di Playboy è interpretato da Vincent Gardenia e il protagonista era Al Lettieri, morto d’infarto alla fine delle riprese e a cui il film è dedicato; ricordiamo che era un caratterista che raggiunse la notorietà con “Il Padrino” di Francis Ford Coppola.

Il film non poteva che fare scandalo già dal titolo, in un’Italia ultra cattolica, anche perché racconta una cosa per quei tempi sconvolgente: le donne hanno una loro sessualità anche al di fuori del talamo coniugale, e avrebbero dovuto lottare decenni per dichiararla liberamente. Anche se oggi persecuzioni e femminicidi raccontano di uomini fermi alla preistoria.

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Al Lettieri davanti a un manifesto di Adone il pugile sexy