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FILM EROTICI DI EXPLOITATION E COMMEDIE SEXY – 2

QUI LA PRIMA PARTE
L’ARTICOLO CONTIENE FOTO E ARGOMENTI
CHE POTREBBERO URTARE CERTE SENSIBILITÀ

Dicevamo che il sesso al cinema esiste fin dai primordi ma il vero e proprio exploit commerciale avviene negli anni ’60-’70 riflettendo nei film la liberazione-ribellione che già avveniva nella società: erano anni in cui (semplificando molto) si è ridisegnato il modo di stare insieme in società e il modo di esprimere l’individualità anche attraverso la sessualità. Personalmente in quegli anni ’70 ero un adolescente che se da un lato non si rendeva pienamente conto di quello che gli accadeva intorno nella realtà sociale e politica, nell’intimo era però scosso da tempeste ormonali che non potevano restare indifferenti davanti a locandine cinematografiche che nei titoli avevano ammiccanti poliziotte soldatesse e liceali, infermiere e dottoresse, insegnanti e supplenti, zie nonne e matrigne, oltre a tutto l’ambaradan che si rifaceva anche solo a sfioro alla letteratura licenziosa del Tre-Quattrocento del Boccaccio e dell’Aretino.

Avevo la curiosità ma non avevo l’età, anche se in certi cinema di periferia chiudevano entrambi gli occhi; però ero un adolescente già appassionato di cinema che frequentava diversi cineclub arrivando a vedere anche tre film in un solo pomeriggio, cineclub dove si dava il caso che fra corazzate Potëmkin e retrospettive di Ingmar Bergman capitassero certi film d’autore, come il visionario Alejandro Jodorowsky o il cupo Walerian Borowczyk, che filmavano in forma autorale l’altrimenti vietato erotismo, con il secondo che sfiorava anche la pornografia – ma erano leciti film da cineclub, senza censure di stato, e lì compresi che i film erotici erano sperimentazioni d’autore, che occasionalmente potevano usare la chiave del grottesco o del surreale ma sempre concentrati sull’aspetto drammatico e torbido delle vicende: insomma i film erotici erano sempre serissimi, finivano male e il sesso era spesso mortale.

Sotto l’ampio paracadute del cinema erotico d’autore si affollarono tanti altri cineasti che produssero film erotici più seriosi che seri, più commerciali e autocelebrativi che sperimentali com’è il caso della coppia più teatrale che cinematografica Gabriele Lavia con Monica Guerritore; lei era stata avviata al genere da Salvatore Samperi, autore che aveva debuttato con il ribelle “Grazie zia” che suo malgrado divenne capostipite del cinema erotico nel sottogenere famiglia; la Guerritore ebbe dapprima da Samperi un ruolo secondario in “Peccato veniale” del 1974 per poi essere protagonista dieci anni dopo nel decisamente commerciale “Fotografando Patrizia” cui il marito regista Lavia fece subito seguire i propri “Scandalosa Gilda” e “Sensi”, sensi che poi si acquietarono un po’ per tutti perché il genere aveva ormai fatto il suo tempo e l’erotismo si spostava verso la più scanzonata e anche becera commedia sexy all’italiana. Ovviamente quel cinema erotico più o meno d’autore, benché per certi aspetti dirompente sul piano sociale e politico, era comunque specchio del suo tempo, gli anni Settanta, e la figura femminile nonostante le rivendicazioni femministe rimaneva donna-oggetto: oggetto del desiderio e oggetto-soggetto di quella filmografia.

Fra le attrici star di prima grandezza ci fu Laura Antonelli che lavorò con veri autori del genere come Samperi appunto, e poi Pasquale Festa Campanile, Dino Risi, Giuseppe Patroni Griffi e Luchino Visconti, per poi passare alla commedia sexy. E ci fu Lilli Carati che poi si perse nel porno per pagarsi la dipendenza da droga.

Sylvester Stallone sul set di un soft-porn

Ma anche Paola Senatore, Ilona Staller, Moana Pozzi Karin Schubert cominciarono le loro carriere in quei film erotici prima di passare definitivamente al porno, e a tal proposito va ricordata la produttiva pratica dell’epoca di montare due film differenti con lo stesso girato: l’hard e il soft, ovvero il pornografico vero e proprio con i dettagli anatomici che nulla lasciano all’immaginazione, e l’erotico che accende la fantasia senza mostrare la macelleria, che perdendo le istanze creative era ormai solo soft-porn dove i dettagli scabrosi erano tagliati per montare un film che potesse anche passare, con molta faccia tosta, per erotico d’autore. Entrambe queste produzione nostrane hanno sempre avuto grande seguito nei Paesi dell’America Latina. Mentre negli Stati Uniti una star indiscussa come Sylvester Stallone cominciò la carriera fra le lenzuola di queste doppie produzioni.

Negli anni Ottanta esplose la Serena Grandi veicolata dall’indiscusso maestro dell’erotico Tinto Brass che spogliò anche la non più giovanissima Stefania Sandrelli che con “La chiave” rilanciò la sua carriera prima di finire definitivamente nei ruoli di mamma.

Senza però dimenticare che anche Ornella Muti e Florinda Bolkan ebbero i loro ruoli nel cinema erotico.

E si registrarono i debutti erotici della valletta Sabina Ciuffini in “Oh, mia bella matrigna” e della modella africana Zeudy Araya in “La ragazza dalla pelle di luna” oltre alle performance da Lolita di Romina Power prima di darsi alle canzonette.

Ci furono fra le altre Femi Benussi, Agostina Belli, Nadia Cassini e Gloria Guida che altrettanto passarono dai film erotici drammatici non più d’autore alle commedia sexy.

Le star di sesso maschile furono decisamente Lando Buzzanca e il prematuramente scomparso Alessandro Momo; per il resto gli attori erano di passaggio e intercambiabili, spesso stranieri, altrettanto spesso bellocci senza passato né futuro, qualche volta interpreti di rango che venivano dal palcoscenico.

Fra gli autori non va dimenticato Pier Paolo Pasolini che dedicò l’ultima parte della sua produzione cinematografica all’erotismo d’autore cominciando proprio con quel “Decameron” che diede la stura a tutte le altre produzioni più o meno boccaccesche. Altrettanto va ricordato Bernardo Bertolucci che al genere specifico si dedicò con “Ultimo tango a Parigi” “The Dreamers”.

Gianfranco D’Angelo fra le ballerine del televisivo “Drive In” andato in onda su Italia 1 dal 1983 al 1988.

Sul finire degli anni ’70 si affievolì la moda del film erotico, d’autore o meno, e nelle sale cinematografiche arrivò la commedia sexy all’italiana che era nata già dalla fine degli anni ’60 e anch’essa destinata all’asfissia più o meno a metà degli anni ’80. Oltre al riciclo di interpreti del più necroforo cinema erotico ci fu spazio per volti e culi nuovi, stavolta tutto all’insegna della spensieratezza e della comicità, dalla più sottile a quella più grossolana: spensieratezza e grossolanità che furono anche la cifra politica del nuovo che avanzava nella figura di Silvio Berlusconi i cui varietà delle sue televisioni erano intercambiabili con le atmosfere e i cast delle commedie sexy. E trattandosi di comico stavolta i divi furono maschi, quelli che venivano dall’avanspettacolo e dal teatro e dal cabaret, oltre a quelli che pur non avendo nessuna specifica preparazione attoriale recitavano solo con la loro naturale maschera: Alvaro Vitali e Bombolo.

Lando Buzzanca e Aldo Maccione primeggiarono anche per la prestanza fisica, non perfetta ma accettabile perché il principale oggetto da esporre era la donna; e fra gli attori di rango Renzo Montagnani accettò qualsiasi ruolo per poter pagare le cure mediche al figlio gravemente infermo. Un vero e proprio divo del genere fu il cantante Johnny Dorelli che tenne banco per un ventennio e sposò la più giovane collega Gloria Guida che dopo il matrimonio abbandonò lentamente il cinema per darsi alla famiglia, seguita anche da lui che essendo di 18 anni più anziano aveva fatto il suo tempo come attore a tempo pieno da commedia sexy.

Dalla vecchia guardia si riciclarono Carlo Giuffrè e il caratterista di lusso Mario Carotenuto mentre fecero fortuna Gianfranco D’Angelo, Pippo Franco, Lino Banfi e Enzo Cannavale.

Mentre fra gli attori che furono punte di diamante della più castigata commedia all’italiana che occasionalmente si affacciarono nella commedia sexy vanno elencati: Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Massimo Boldi, Diego Abatantuono e Teo Teocoli.

Accanto a cotanti comici fra le attrici solo poche mantennero lo status di protagoniste assolute: le riciclate dall’erotico Laura Antonelli, Zeudi Araya, Agostina Belli e Gloria Guida che però se la dovettero vedere con la tedesca già con carriera internazionale Barbara Bouchet; e poi c’è il caso a parte di Carmen Villani che nata cantante è diventata attrice di commedie scollacciate sotto la direzione del marito Mauro Ivaldi che a lei e al genere sexy dedicò la sua intera cinematografia prima della sua prematura scomparsa a 42 anni.

Fra le tette e i culi più esposti nella commedia sexy vanno ricordate: Orchidea De Santis, Lory Del Santo, Silvia Dionisio, Rosa Fumetto, Eva Grimaldi, Daniela Poggi, Pamela Prati, Anna Maria Rizzoli, Carmen Russo, Jenny Tamburi e Marilù Tolo.

Mentre fra le straniere che si accasarono nel sexy italiano ci furono le giovani Ewa Aulin, Annie Belle, Sylvia Kristel e Laura Gemser che se la dovettero vedere con le più mature e agguerrite Maria Baxa, Senta Berger, Sylva Koscina, Dagmar Lassander, Marisa Mell e molte altre.

Ci furono anche delle star internazionali che vennero a esibirsi nella commedia sexy all’italiana: Ursula Andress che restò in Italia, Carroll Baker e Joan Collins.

La commedia all’italiana aveva generato i suoi diversi sottogeneri fra i quali quello che definirei lo storico addomesticato, ovvero film di ambientazione storica con molte libertà narrative che veicolavano la creativa di autori che avevano molto da dire; fra questi film si annoverano: “L’armata Brancaleone” del 1966 di Mario Monicelli, il “Satyricon” del 1969 di Federico Fellini e il “Decameron” del 1971 di Pier Paolo Pasolini. E furono film, ognuno sperimentale e inventivo a suo modo, il cui successo generò scopiazzature e parodie che vanno a comporre il sottogenere decamerotico o boccaccesco della commedia sexy. Ma c’è da dire che lo sfruttamento commerciale del fenomeno coincise all’epoca con le rivoluzioni in atto sul piano sociale, culturale e politico: con quei film avvenne una riappropriazione popolare di quei testi del Trecento e Quattrocento italiano che il retaggio scolastico borghese aveva fin lì tenuto sugli scaffali in alto perché ritenuti troppo licenziosi e dunque temuti come eversivi dai poteri alti, Stato e Chiesa; testi che veicolando un messaggio di libertà sessuale furono gettonatissimi in quegli anni di contestazione: nuovi vangeli senza chiesa e senza stato. Dell’immediato 1972 sono i primi sensazionali film di sottogenere: “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda” di Mariano Laurenti “Quando le donne si chiamavano madonne” di Aldo Grimaldi e a cascata venne tutto il resto. Gli altri sottogeneri furono le poliziotte, le caserme, le dottoresse e le infermiere, la scuola, la famiglia e tutta la serie di Pierino con Alvaro Vitali che insieme ai matti e ai carabinieri affollano il filone dei film barzelletta. Senza dimenticare che molti di questi film sexy erano a episodi, più o meno scollacciati e più o meno d’autore.

La produzione dei film erotici d’autore pur rallentando è sempre viva in sottotraccia in tutta la cinematografia internazionale, di cui l’ultima sperimentazione è quella del danese Lars Von Trier che essendo recidivo aveva già mostrato il sesso senza censure in “Idioti” del 1998, in “Antichrist” del 2009 e nel soporifero dittico “Nimphomaniac” del 2013, che quell’anno in fatto di scandalo e creatività d’autore restò indietro a “La vita di Adèle” del franco-tunisino Abdellatif Kechiche che con le sue scene di sesso lesbico si aggiudicò ben tre Palma d’Oro al Festival di Cannes: all’autore e alle due protagoniste Adèle Exarchopoulos Léa Seydoux; e vale la pena commentare che benché acclamato da tutta la stampa con l’eccezione del conservatore Le Figaro, è stata criticata la scena di sesso eterosessuale perché si intravede l’erezione di Jérémie Laheurte, paventando addirittura la pornografia: perché permane l’ipocrita voyeurismo dei maschi etero che ben sopportano la visione di due donne che fanno sesso ma che si scandalizzano se davanti agli occhi gli balena un cazzo ancorché per un secondo. Anche il francese Patrice Chéreau con “Intimacy” ha filmato il suo sesso esplicito d’autore nel 2001 vincendo l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, e pure l’inglese Michael Winterbottom con “9 songs” nel 2009 ha fatto il suo film erotico senza censure.

Restando sull’argomento cazzi al vento ci sono poi film che pur non inserendosi nel filone erotico improvvisamente sbandierano erezioni d’autore, anzi d’attore, guadagnandosi la collocazione d’ufficio nel genere erotico: Vincent Gallo nel suo “The Brown Bunny” del 2003 si fa fare un estemporaneo pompino da Chloë SevignyElio Germano esibisce la sua serissima erezione nel serissimo “Nessuna qualità agli eroi” del 2007 di Paolo Franchi; mentre nella già anche troppo scanzonata commedia “Libera uscita” del 2011 di Peter Farrelly al protagonista Owen Wilson viene sventolata in faccia l’erezione nera di un figurante.

Il nudo femminile è rassicurante, direi quasi ecumenico, perché se l’attrice è su di giri lo sa solo lei ma per gli attori è un altro discorso: l’erezione al cinema la concepiamo solo nei porno e veder sbandierata l’intimità erotica di attori famosi o meno è il superamento di uno steccato che molti sperimentatori auspicano: far cadere la separazione fra il genere porno e il mainstream che a volte, come dimostrano certi anatemi e certe polemiche, è più ipocrisia che reale difesa del senso del pudore collettivo: siamo adulti e sappiamo distinguere fra pornografia ed erotico d’autore. Così se ogni tanto capita di vedere improvvise erezioni a sorpresa, come uno di quei pupazzi a molla, Jack in the Box, che può divertire o fare paura, be’ non è niente di che: è solo pura evasione. O pura eversione.

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L’ARTICOLO CONTIENE FOTO E ARGOMENTI
CHE POTREBBERO URTARE CERTE SENSIBILITÀ

Dicevamo che il sesso al cinema esiste fin dai primordi ma il vero e proprio exploit commerciale avviene negli anni ’60-’70 riflettendo nei film la liberazione-ribellione che già avveniva nella società: erano anni in cui (semplificando molto) si è ridisegnato il modo di stare insieme in società e il modo di esprimere l’individualità anche attraverso la sessualità. Personalmente in quegli anni ’70 ero un adolescente che se da un lato non si rendeva pienamente conto di quello che gli accadeva intorno nella realtà sociale e politica, nell’intimo era però scosso da tempeste ormonali che non potevano restare indifferenti davanti a locandine cinematografiche che nei titoli avevano ammiccanti poliziotte soldatesse e liceali, infermiere e dottoresse, insegnanti e supplenti, zie nonne e matrigne, oltre a tutto l’ambaradan che si rifaceva anche solo a sfioro alla letteratura licenziosa del Tre-Quattrocento del Boccaccio e dell’Aretino.

Avevo la curiosità ma non avevo l’età, anche se in certi cinema di periferia chiudevano entrambi gli occhi; però ero un adolescente già appassionato di cinema che frequentava diversi cineclub arrivando a vedere anche tre film in un solo pomeriggio, cineclub dove si dava il caso che fra corazzate Potëmkin e retrospettive di Ingmar Bergman capitassero certi film d’autore, come il visionario Alejandro Jodorowsky o il cupo Walerian Borowczyk, che filmavano in forma autorale l’altrimenti vietato erotismo, con il secondo che sfiorava anche la pornografia – ma erano leciti film da cineclub, senza censure di stato, e lì compresi che i film erotici erano sperimentazioni d’autore, che occasionalmente potevano usare la chiave del grottesco o del surreale ma sempre concentrati sull’aspetto drammatico e torbido delle vicende: insomma i film erotici erano sempre serissimi, finivano male e il sesso era spesso mortale.

Sotto l’ampio paracadute del cinema erotico d’autore si affollarono tanti altri cineasti che produssero film erotici più seriosi che seri, più commerciali e autocelebrativi che sperimentali com’è il caso della coppia più teatrale che cinematografica Gabriele Lavia con Monica Guerritore; lei era stata avviata al genere da Salvatore Samperi, autore che aveva debuttato con il ribelle “Grazie zia” che suo malgrado divenne capostipite del cinema erotico nel sottogenere famiglia; la Guerritore ebbe dapprima da Samperi un ruolo secondario in “Peccato veniale” del 1974 per poi essere protagonista dieci anni dopo nel decisamente commerciale “Fotografando Patrizia” cui il marito regista Lavia fece subito seguire i propri “Scandalosa Gilda” e “Sensi”, sensi che poi si acquietarono un po’ per tutti perché il genere aveva ormai fatto il suo tempo e l’erotismo si spostava verso la più scanzonata e anche becera commedia sexy all’italiana. Ovviamente quel cinema erotico più o meno d’autore, benché per certi aspetti dirompente sul piano sociale e politico, era comunque specchio del suo tempo, gli anni Settanta, e la figura femminile nonostante le rivendicazioni femministe rimaneva donna-oggetto: oggetto del desiderio e oggetto-soggetto di quella filmografia.

Fra le attrici star di prima grandezza ci fu Laura Antonelli che lavorò con veri autori del genere come Samperi appunto, e poi Pasquale Festa Campanile, Dino Risi, Giuseppe Patroni Griffi e Luchino Visconti, per poi passare alla commedia sexy. E ci fu Lilli Carati che poi si perse nel porno per pagarsi la dipendenza da droga.

Sylvester Stallone sul set di un soft-porn

Ma anche Paola Senatore, Ilona Staller, Moana Pozzi e Karin Schubert cominciarono le loro carriere in quei film erotici prima di passare definitivamente al porno, e a tal proposito va ricordata la produttiva pratica dell’epoca di montare due film differenti con lo stesso girato: l’hard e il soft, ovvero il pornografico vero e proprio con i dettagli anatomici che nulla lasciano all’immaginazione, e l’erotico che accende la fantasia senza mostrare la macelleria, che perdendo le istanze creative era ormai solo soft-porn dove i dettagli scabrosi erano tagliati per montare un film che potesse anche passare, con molta faccia tosta, per erotico d’autore. Entrambe queste produzione nostrane hanno sempre avuto grande seguito nei Paesi dell’America Latina. Mentre negli Stati Uniti una star indiscussa come Sylvester Stallone cominciò la carriera fra le lenzuola di queste doppie produzioni.

Negli anni Ottanta esplose la Serena Grandi veicolata dall’indiscusso maestro dell’erotico Tinto Brass che spogliò anche la non più giovanissima Stefania Sandrelli che con “La chiave” rilanciò la sua carriera prima di finire definitivamente nei ruoli di mamma.

Senza però dimenticare che anche Ornella Muti e Florinda Bolkan ebbero i loro ruoli nel cinema erotico.

E si registrarono i debutti erotici della valletta Sabina Ciuffini in “Oh, mia bella matrigna” e della modella africana Zeudy Araya in “La ragazza dalla pelle di luna” oltre alle performance da Lolita di Romina Power prima di darsi alle canzonette.

Ci furono fra le altre Femi Benussi, Agostina Belli, Nadia Cassini e Gloria Guida che altrettanto passarono dai film erotici drammatici non più d’autore alle commedia sexy.

Le star di sesso maschile furono decisamente Lando Buzzanca e il prematuramente scomparso Alessandro Momo; per il resto gli attori erano di passaggio e intercambiabili, spesso stranieri, altrettanto spesso bellocci senza passato né futuro, qualche volta interpreti di rango che venivano dal palcoscenico.

Fra gli autori non va dimenticato Pier Paolo Pasolini che dedicò l’ultima parte della sua produzione cinematografica all’erotismo d’autore cominciando proprio con quel “Decameron” che diede la stura a tutte le altre produzioni più o meno boccaccesche. Altrettanto va ricordato Bernardo Bertolucci che al genere specifico si dedicò con “Ultimo tango a Parigi” e “The Dreamers”.

Gianfranco D’Angelo fra le ballerine del televisivo “Drive In” andato in onda su Italia 1 dal 1983 al 1988.

Sul finire degli anni ’70 si affievolì la moda del film erotico, d’autore o meno, e nelle sale cinematografiche arrivò la commedia sexy all’italiana che era nata già dalla fine degli anni ’60 e anch’essa destinata all’asfissia più o meno a metà degli anni ’80. Oltre al riciclo di interpreti del più necroforo cinema erotico ci fu spazio per volti e culi nuovi, stavolta tutto all’insegna della spensieratezza e della comicità, dalla più sottile a quella più grossolana: spensieratezza e grossolanità che furono anche la cifra politica del nuovo che avanzava nella figura di Silvio Berlusconi i cui varietà delle sue televisioni erano intercambiabili con le atmosfere e i cast delle commedie sexy. E trattandosi di comico stavolta i divi furono maschi, quelli che venivano dall’avanspettacolo e dal teatro e dal cabaret, oltre a quelli che pur non avendo nessuna specifica preparazione attoriale recitavano solo con la loro naturale maschera: Alvaro Vitali e Bombolo.

Lando Buzzanca e Aldo Maccione primeggiarono anche per la prestanza fisica, non perfetta ma accettabile perché il principale oggetto da esporre era la donna; e fra gli attori di rango Renzo Montagnani accettò qualsiasi ruolo per poter pagare le cure mediche al figlio gravemente infermo. Un vero e proprio divo del genere fu il cantante Johnny Dorelli che tenne banco per un ventennio e sposò la più giovane Gloria Guida che dopo il matrimonio abbandonò lentamente il cinema, seguita da lui che essendo di 18 anni più anziano aveva anche fatto il suo tempo come attore brillante e disimpegnato.

Dalla vecchia guardia si riciclarono Carlo Giuffrè e il caratterista di lusso Mario Carotenuto mentre fecero fortuna Gianfranco D’Angelo, Pippo Franco, Lino Banfi e Enzo Cannavale.

Mentre fra gli attori che furono punte di diamante della più castigata commedia all’italiana che occasionalmente si affacciarono nella commedia sexy vanno elencati: Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Massimo Boldi, Diego Abatantuono e Teo Teocoli.

Accanto a cotanti comici fra le attrici solo poche mantennero lo status di protagoniste assolute: le riciclate dall’erotico Laura Antonelli, Zeudi Araya, Agostina Belli e Gloria Guida che però se la dovettero vedere con la tedesca già con carriera internazionale Barbara Bouchet; e poi c’è il caso a parte di Carmen Villani che nata cantante è diventata attrice di commedie scollacciate sotto la direzione del marito Mauro Ivaldi che a lei e al genere sexy dedicò la sua intera cinematografia prima della sua prematura scomparsa a 42 anni.

Fra le tette e i culi più esposti nella commedia sexy vanno ricordate: Orchidea De Santis, Lory Del Santo, Silvia Dionisio, Rosa Fumetto, Eva Grimaldi, Daniela Poggi, Pamela Prati, Anna Maria Rizzoli, Carmen Russo, Jenny Tamburi e Marilù Tolo.

Mentre fra le straniere che si accasarono nel sexy italiano ci furono le giovani Ewa Aulin, Annie Belle, Sylvia Kristel e Laura Gemser che se la dovettero vedere con le più mature e agguerrite Maria Baxa, Senta Berger, Sylva Koscina, Dagmar Lassander, Marisa Mell e molte altre.

Ci furono anche delle star internazionali che vennero a esibirsi nella commedia sexy all’italiana: Ursula Andress che restò in Italia, Carroll Baker e Joan Collins.

La commedia all’italiana aveva generato i suoi diversi sottogeneri fra i quali quello che definirei lo storico addomesticato, ovvero film di ambientazione storica con molte libertà narrative che veicolavano la creativa di autori che avevano molto da dire; fra questi film si annoverano: “L’armata Brancaleone” del 1966 di Mario Monicelli, il “Satyricon” del 1969 di Federico Fellini e il “Decameron” del 1971 di Pier Paolo Pasolini. E furono film, ognuno sperimentale e inventivo a suo modo, il cui successo generò scopiazzature e parodie che vanno a comporre il sottogenere decamerotico o boccaccesco della commedia sexy. Ma c’è da dire che lo sfruttamento commerciale del fenomeno coincise all’epoca con le rivoluzioni in atto sul piano sociale, culturale e politico: con quei film avvenne una riappropriazione popolare di quei testi del Trecento e Quattrocento italiano che il retaggio scolastico borghese aveva fin lì tenuto sugli scaffali in alto perché ritenuti troppo licenziosi e dunque temuti come eversivi dai poteri alti, Stato e Chiesa; testi che veicolando un messaggio di libertà sessuale furono gettonatissimi in quegli anni di contestazione: nuovi vangeli senza chiesa e senza stato. Dell’immediato 1972 sono i primi sensazionali film di sottogenere: “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda” di Mariano Laurenti “Quando le donne si chiamavano madonne” di Aldo Grimaldi e a cascata venne tutto il resto. Gli altri sottogeneri furono le poliziotte, le caserme, le dottoresse e le infermiere, la scuola, la famiglia e tutta la serie di Pierino con Alvaro Vitali che insieme ai matti e ai carabinieri affollano il filone dei film barzelletta. Senza dimenticare che molti di questi film sexy erano a episodi, più o meno scollacciati e più o meno d’autore.

La produzione dei film erotici d’autore pur rallentando è sempre viva in sottotraccia in tutta la cinematografia internazionale, di cui l’ultima sperimentazione è quella del danese Lars Von Trier che essendo recidivo aveva già mostrato il sesso senza censure in “Idioti” del 1998, in “Antichrist” del 2009 e nel soporifero dittico “Nimphomaniac” del 2013, che quell’anno in fatto di scandalo e creatività d’autore restò indietro a “La vita di Adèle” del franco-tunisino Abdellatif Kechiche che con le sue scene di sesso lesbico si aggiudicò ben tre Palma d’Oro al Festival di Cannes: all’autore e alle due protagoniste Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux; e vale la pena commentare che benché acclamato da tutta la stampa con l’eccezione del conservatore Le Figaro, è stata criticata la scena di sesso eterosessuale perché si intravede l’erezione di Jérémie Laheurte, paventando addirittura la pornografia: perché permane l’ipocrita voyeurismo dei maschi etero che ben sopportano la visione di due donne che fanno sesso ma che si scandalizzano se davanti agli occhi gli balena un cazzo ancorché per un secondo. Anche il francese Patrice Chéreau con “Intimacy” ha filmato il suo sesso esplicito d’autore nel 2001 vincendo l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, e pure l’inglese Michael Winterbottom con “9 songs” nel 2009 ha fatto il suo film erotico senza censure.

Restando sull’argomento cazzi al vento ci sono poi film che pur non inserendosi nel filone erotico improvvisamente sbandierano erezioni d’autore, anzi d’attore, guadagnandosi la collocazione d’ufficio nel genere erotico: Vincent Gallo nel suo “The Brown Bunny” del 2003 si fa fare un estemporaneo pompino da Chloë Sevigny; Elio Germano esibisce la sua serissima erezione nel serissimo “Nessuna qualità agli eroi” del 2007 di Paolo Franchi; mentre nella già anche troppo scanzonata commedia “Libera uscita” del 2011 di Peter Farrelly al protagonista Owen Wilson viene sventolata in faccia l’erezione nera di un figurante.

Il nudo femminile è rassicurante, direi quasi ecumenico, perché se l’attrice è su di giri lo sa solo lei ma per gli attori è un altro discorso: l’erezione al cinema la concepiamo solo nei porno e veder sbandierata l’intimità erotica di attori famosi o meno è il superamento di uno steccato che molti sperimentatori auspicano: far cadere la separazione fra il genere porno e il mainstream. Del resto una semplice erezione, non in attività diciamo così, perché dovrebbe essere considerata esclusivamente pornografica? Così se ogni tanto capita di vedere improvvise erezioni a sorpresa, come uno di quei pupazzi a molla, Jack in the Box, che può divertire o fare paura, be’ non è niente di che: è solo pura evasione. O pura eversione.

Chi lavora è perduto – opera prima di Tinto Brass

Il giovane Tinto Brass in un ritratto di Ugo Mulas

Anni ’60, cinema e lavoro. Dopo “La giornata balorda” ecco il film d’esordio del trentenne Tinto (Giovanni) Brass, con un cognome di origini austriache. Nato a Milano è cresciuto a Venezia e in quella città con quella parlata colloca questo suo primo film, subito censurato per ragioni politiche e siamo ancora lontani dalla deriva erotica del suo cinema. Come “La giornata balorda” è una coproduzione franco-italiana e francese è l’attore protagonista, ma la coproduzione non è soltanto un affare commerciale quanto davvero una conseguenza culturale avendo avuto Brass proficue frequentazioni oltralpe: si era laureato in giurisprudenza con la tesi “Rapporti di lavoro con imprese della produzione cinematografica”, perché nel cinema vedeva già il suo futuro, e trascorse un biennio come archivista presso la “Cinémathèque” di Parigi dove ebbe modo di avvicinarsi anche agli ambienti della nascente Nouvelle Vague che influenzerà i suoi primi film.

Come assistente del documentarista olandese Joris Ivens e del nostro Roberto Rossellini deve avere imparato molto se al suo debutto fa tutto da solo e scrive dirige e monta il suo primo film, oltre a fare da controfigura al protagonista nella voga durante la regata, e a doppiare con accento veneto il romano (di Frascati) Tino Buazzelli. Era il 1963 e il suo film si intitolava “In capo al mondo” e, cosa abbastanza nuova per l’epoca, recava un claim in veneto abbastanza vistoso: “Mondo can, mondo boia, se crepa de fam, se crepa de noia. Mondo boia, mondo can, che ernia per un toco de pan”, che in pratica è la filosofia spicciola su cui è costruito il film. La censura intervenne subito bollando così il lavoro: “Il film, oltre a essere offensivo del buon costume sessuale, è altamente offensivo di quello morale e sociale, è distruttore di tutti i valori spirituali, è scurrile nel linguaggio” e impose all’autore dei pesanti tagli. Che fece Tinto Brass? cambiò titolo e non tagliò nulla, operazione di re-styling tutta esteriore che gli fu resa possibile dall’insediamento del governo di centro-sinistra in quegli anni, con preciso riferimento al ministero dello spettacolo in mano ai socialisti. E fece di più: se il titolo “In capo al mondo” poteva significare tutto e il contrario di tutto, re-intitolando il suo film “Chi lavora è perduto” rende più esplicito il messaggio che contiene e si fa beffa dell’istituzione della censura.

La guerra è finita da meno di vent’anni e gli adulti dell’epoca l’hanno vissuta insieme al regime fascista: queste radici sono presenti nel film; gli anni della contestazione, il ’68, sono di là da venire ma Tinto, che ha viaggiato e ha sentito gli umori che serpeggiavano oltre l’arco alpino, anticipa i tempi con un’opera sperimentale e assolutamente nichilista. Il suo film è un monologo, non autobiografico come ha precisato in seguito, ma certamente significativo del suo sentire. Il protagonista si chiama Bonifacio, come il figlio dell’autore, e il film si apre mentre scappa correndo via da un colloquio di lavoro, con la voce dell’esaminatore che lo insegue col timbro grottesco di un personaggio da cartone animato, mentre lui snocciola una filastrocca a mo’ di sberleffo. E per tutto il film, un one day movie, vaga per una Venezia estiva ricordando eventi della sua vita che vediamo in flash back o fotografando col suo sguardo la realtà che lo circonda, e che commenta, snocciolando nel mezzo tre parole chiave che sono il suo credo: erotomania, pornomorale, abortocredo.

Scena del film "Chi lavora è perduto" - Regia Tinto Brass - 1963 - Gli attori Pascale Audret e Sady Rebbot scherzano tra loro in una stanza
Una scena del film

Il monologo come voce fuori campo del personaggio è recitato da Tonino Micheluzzi, che fu ultimo erede delle compagnie del teatro di tradizione veneto, e solo qua e là le scene sono dialogate, nei ricordi, nelle fantasie grottesche e negli incontri odierni. Si parte dall’infanzia quando il bambino al catechismo era carezzato con troppa insistenza dalla mano moscia, che immaginiamo anche sudaticcia, del prete, e il protagonista si chiede, osservando una confessione, che senso ha quella cosa. Poi passando da un cimitero fra le tombe ancora aperte viene redarguito da un guardiano perché sta fumando, e le tombe non sono posacenere, e il nostro allora si chiede che differenza ci sia fra cenere e ceneri. Già basta questo a sconvolgere la censura. Ricordando la sua relazione con Gabriella, Bonifacio fa l’elogio del sesso senza amore e le scene che vediamo, benché oggi vediamo molto di più nelle serie tv, sono per l’epoca davvero sensuali, carnali, avvolgenti: i baci sono a labbra aperte e umide e c’è una naturalezza, anche una scompostezza, non ancora usuale per gli schermi dell’epoca: Tinto Brass è ancora ben lontano dal divenire il maestro del cinema erotico italiano, ma è subito chiaro sin da questo suo primo film – erotomania, pornomorale, abortocredo – che ha una sua precisa visione del corpo e del libero uso che ognuno ne deve fare, e del libero linguaggio col quale un cineasta lo può raccontare, e non casualmente parla anche di aborto.

Bonifacio-Tinto è in guerra contro tutto, è comunista – suo maestro di partito è il Claudio interpretato da Tino Buazzelli – ma è soprattutto un nichilista che non trova valore in nulla e a nulla sembra dare valore, e spende la sua giornata a bighellonare per la città osservando le persone che vivono le loro vite senza senso. E in questo è anche il guardone che Tinto sarà esplicitamente un paio di decenni più tardi: il protagonista spia col cannocchiale una donna discinta alla finestra, ma si aggira in spiaggia spiando anche i bagnanti, e le riprese sono rubate su soggetti reali, persone in costume in pose scomposte, coppiette che si appartano fra i cespugli dell’entroterra, un gruppo di reduci della guerra che espongono gli arti mancanti e le storpiature rimaste; lui stesso fa il bagno nudo liberandosi delle mutande come ultimo vincolo con la società in cui si sente alieno. Non sa se il colloquio di lavoro è andato bene ma soprattutto non sa se accetterà quel lavoro, perché come ammonisce il nuovo titolo “chi lavora è perduto” anche in una repubblica democratica fondata sul lavoro, come recita il primo comma della nostra costituzione che lui manda al macero; e non può non ricordare la scritta beffardamente tragica sui cancelli dei lager tedeschi: il lavoro rende liberi.

Il film, oggi selezionato fra i 100 film film italiani da salvare, non è facile da seguire per il suo profluvio di pensieri spesso in un veneto stretto, per il montaggio alla ricerca di soluzioni sperimentali e molto frammentato, un film già molto dinamico nelle riprese con l’ampio uso di zoom e carrellate, e che sin dalle prime immagini risulta ardito e poco convenzionale, anche oggi che abbiamo visto di tutto. Tinto Brass anticipa i tempi ed è già un contestatore con un film che è l’apologia dell’insofferenza al potere, qualsiasi esso sia. E non si può non considerare che alla sua opera prima fa un film assolutamente personale, che ha l’urgenza di dire la sua visione della realtà senza preoccuparsi di dover piacere, di essere accettato e premiato, tutt’altro… E’ vero, quelli erano altri tempi, la società stava cambiando i propri modelli culturali e un giovane cineasta non poteva non tenerne conto (tanto quando quelli meno giovani, beninteso) ma facendo un arditissimo parallelo col cinema odierno c’è da osservare che i registi di oggi alla loro opera prima non confezionano altro che un compito bene eseguito con l’intento di farsi accettare nel sistema: non mancherebbero gli spunti per odierne contestazioni sociali ma oggi non ci sono più debuttanti che hanno il coraggio di dire che sono dei ragazzacci e che il mondo fa schifo. Per lo meno non nel cinema nostrano.

Sady Rebbot è l’attore francese che presta volto e fisicità al protagonista di Tinto Brass, e che forse a causa di questo personaggio poco allineato e a tratti anche irritante non avrà una carriera in Italia, al contrario di tanti altri suoi colleghi, vedi il Jean Sorel di “La giornata balorda”; era già stato protagonista per Jean-Luc Godard in “Questa è la mia vita” e avrà una buona carriera in patria, passando anche per il doppiaggio e la televisione; è morto di cancro 59enne. Stesso discorso per l’altra francese, Pascale Audret, che interpreta la Gabriella del trascorso di Bonifacio, e la cui carriera resterà entro in confini nazionali. Anche lei morirà prematuramente in un incidente stradale, 63enne. Stessa morte prematura per l’altro nome di punta, Tino Buazzelli, equamente diviso fra teatro cinema tv e radio, scomparso a 58 anni per una patologia infiammatoria del sistema linfatico. L’eclettico Franco Arcalli – che non accreditato collabora alla sceneggiatura del film che Brass ha firmato insieme all’altro eclettico Giancarlo Fusco – qui interpreta l’amico finito al manicomio proprio a causa del suo pensiero non allineato alla morale vigente; Brass lo introduce anche al lavoro di montatore e come tale, oltre che come sceneggiatore, avrà una brillante carriera collaborando con grandi registi in importanti film. Altri interpreti sono Piero Vida e Nando Angelini.

L’ottantottenne Tinto Brass ha scelto di abbandonare il cinema serio, o serioso come lui dice, per dedicarsi quasi completamente al cinema erotico: non era più tempo di contestazioni e, seguendo certamente una sua personale passione, l’unico modo di fare contestazione ed eversione è stato per lui l’erotismo, fino alla deriva dell’eros fine a se stesso nel soft porn dove si compiace di mostrare molte vagine mentre gli uomini sfoggiano solo falli di silicone: ci spinge ad immaginare un mondo erotico dove nel suo harem lui è l’unico reale beneficiario mentre i suoi figuranti non sono altro che eunuchi dalla virilità fittizia… ma questa è un’altra materia per altre riflessioni. Cinematograficamente aveva già ampiamente sperimentato con “Salon Kitty”, 1975, nel cast Helmut Berger e Ingrid Thulin, e “Caligola”, 1979, con Malcom McDowell, John Gielgud, Peter O’Toole e altri interpreti eccellenti: il primo denso delle atmosfere morbose già viste in Luchino Visconti o Liliana Cavani, il secondo come personalissima ricostruzione storica e oggi considerato come uno dei più malfamati film cult. Segue “Action”, una sorta di grottesca riflessione sul rapporto fra pornografia e cinema, e poi si dedica completamente al cinema non serio o serioso denudando una non più giovane Stefania Sandrelli in “La chiave” dal romanzo di Tanizaki Jun’ichirō. Dal successivo “Miranda” liberamente ispirato a “La locandiera” di Goldoni che crea il fenomeno Serena Grandi, e si libera dalle limitazioni che gli attori di rango impongono, è tutto un percorso in discesa in cui il discorso eversivo resta sempre più sullo sfondo, messo in ombra dalla gioiosa carnalità delle sue interpreti, dive di un cinema per guardoni in cui lui stesso si mette in scene come tale in diversi camei. Si prende una sola pausa nel 1988 con l’interessante “Snack Bar Budapest” interpretato da Giancarlo Giannini. Sulla recente pandemia ha dichiarato: “State a casa e dedicatevi ai giochi erotici. Meglio morire godendo che di coronavirus. Il sesso è vita. Bisogna scegliere di vivere senza avere indecisioni. Ho 88 anni e non ho più tempo per cambiare idea”. Il suo ultimo film “Monamour” è del 2005 e da allora praticamente non esce più di casa e sta lavorando insieme alla moglie alla sua autobiografia: ne leggeremo di tutti i colori.

Con la moglie Caterina Varzi

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