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Arrangiatevi – ovvero Totò, Peppino, i profughi istriani e le case di tolleranza

È il 1959 e proprio l’anno prima la legge a nome della senatrice Lina Merlin ha fatto chiudere le case di tolleranza, e con esse un mondo, e uno stile di vita del maschio italico che per anni ancora vivrà di nostalgie e rimpianti. L’unico onesto film che ha tentato (parzialmente fallendo) di indagare il punto di vista delle signorine è stato “Adua e le compagne” che arriverà l’anno dopo. Il soggetto è tratto da una commedia in vernacolo toscano, “Casa nova… vita nova” che due teatranti, Mario Di Majo e Vinicio Gioli (che avrà un piccolo ruolo nel 1982 in “La notte di San Lorenzo” dei Fratelli Taviani) hanno buttato giù con grande brio immortalando lo storico momento sociale, e che gli scaltri sceneggiatori Leo Benvenuti e Piero De Bernardi hanno prontamente sviluppato in un film che resta in bilico, come molti film di quegli anni, fra il morente neorealismo e la nascente commedia all’italiana.

Per la Cineriz (Cinema Rizzoli) chiude il pacchetto produttivo Manolo Bolognini fratello del regista Mauro Bolognini, un architetto passato al cinema che ancora deve contenere il suo gusto da esteta che svilupperà in corposi melodrammi da cinema d’autore, perché fin qui si è potuto cimentare solo in mélo sentimentali tardo neorealistici e in commedie di successo commerciale che gli hanno appuntato addosso l’attenzione dei produttori; sarà l’incontro artistico e culturale con Pier Paolo Pasolini che lo proietterà definitivamente verso il cinema cosiddetto di qualità, senza però voler qui nulla togliere alla qualità di tutto il resto; grazie a lui firmerà la regia di “La notte brava” che Pasolini ha sceneggiato da un suo racconto, “Il bell’Antonio” da Vitaliano Brancati e “La giornata balorda” da Alberto Moravia, entrambi sceneggiati sempre da Pasolini.

Attorno a Totò, nonno allettato in ospedale, la famiglia Armentano. Gli interpreti, da sinistra: Marcello Paolini, Maria Cristina Gajoni, Cathia Caro, Peppino De Filippo e Laura Adani. Sullo sfondo Giusi Raspani Dandolo come perno della famiglia di profughi istriani.

E Bolognini, da esteta con gusto melodrammatico, compone un cast – anche al doppiaggio – stiloso, e intorno ai nomi di punta Peppino De Filippo e Totò che la fanno da padroni, chiama nel ruolo della moglie la teatrale ed efficacissima Laura Adani che dà all’importante personaggio un melodrammatico tono alto borghese forse più adatto al già passato cinema dei telefoni bianchi che a questo tardo neorealismo: contaminazioni di stili e generi che si possono pienamente osservare solo nella lunga distanza del tempo. I ruoli delle figlie vanno a Maria Cristina Gajoni, una fotomodella che ha studiato recitazione al Piccolo di Milano prima di trasferirsi a Roma per fare il cinema e che per la somiglianza viene definita dai rotocalchi, sempre in cerca di etichette, la Brigitte Bardot italiana; in quel 1959 esce con un altro bel ruolo in un altro importante film, il dramma carcerario femminile “Nella città l’inferno” diretto da Renato Castellani con Anna Magnani e Giulietta Masina, che le fa avere il Nastro d’Argento come Migliore Attrice non protagonista; l’altra figlia è interpretata dalla francese Cathia Caro attiva in quegli anni nei peplum italiani che però abbandona il cinema già nell’immediato 1961 facendo perdere ogni traccia; di lei si sa che tentò il suicidio durante la sua tempestosa relazione col pugile Tiberio Mitri. Le due giovani attrici sono state doppiate dalle grandi professioniste Maria Pia Di Meo e Rita Savagnone, riconoscibilissime voci di dive hollywoodiane che, con l’aggiunta della recitazione elegante di Laura Adani, ci sembra di stare a vedere una di quelle sophisticated comedy con Audrey Hepburn o Shirley MacLaine, Elizabeth Taylor o Ingrid Bergman. I due figli sono interpretati dalla meteora Marcello Paolini (attivo solo in cinque film) e dall’ex attore bambino Enrico Olivieri che dopo un’intensa carriera lascia anche lui il cinema perché non gli offriva più interessanti prospettive. La famiglia di profughi istriani è guidata dalla sempre eccellente eclettica caratterista Giusi Raspani Dandolo come madre di famiglia, mentre il nonno che duetta a contrasto con Totò è un altro caratterista di rango, Achille Majeroni, qui al suo terzultimo film. L’ineffabile coppia di truffatori è genialmente affidata a un’altra brillantissima coppia d’arte e di vita, Vittorio Caprioli e Franca Valeri che con le loro maschere e le loro studiatissime moine riempiono la prima parte del film, e lei in particolare è talmente straordinaria che facendo da spalla al compagno gli ruba sempre la scena: pur restando in secondo piano l’attenzione va sempre a lei.

Oggi un cast del genere è impensabile, perché se da un lato è cambiato il modo di fare commedia, rovinato dalla deriva eroticomica degli anni ’80, dall’altro sono cambiati i temi che non sono più centrati sull’individuo, l’italiano medio con difetti vizi e manie, ma si è allargato all’intera società con sguardi su un mondo politico che ha perso autorevolezza e si presta agli sberleffi, e dunque la comicità si è fatta grossolana come scadenti barzellette, e gli interpreti cinematografici non sono più di buona scuola ma sono gli stessi che fanno i siparietti in tivù; non ci sono più le figure centrali degli italiani medi e mediocri da raccontare – gli ultimi dei quali sono stati appannaggio di Alberto Sordi – ma si racconta la mediocrità e la marcescenza di un’intera società, oltretutto internazionalizzata per le evidenti spinte sociali, e dunque c’è sempre meno gusto per un’elegante leggerezza tutta provinciale, anche un po’ ammiccante se necessario, e l’incattivimento è sempre dietro l’angolo a cominciare dal neo-neorealismo che si tinge di noir. Le periferie pasoliniane che all’epoca scandalizzavano i benpensanti e che oggi appaiono bucoliche, si sono incarognite tanto quanto gli stessi benpensanti che oggi sono pure cinici. Gli interpreti non mancherebbero, anche se ormai appartengono a una generazioni di 60enni, come Angela Finocchiaro o Claudio Bisio, Sabina Guzzanti o Antonio Albanese, tanto per citare i primi che mi vengono in mente, mentre la comicità dei più giovani, quella su cui dovremmo fare affidamento, è la comicità che ha fatto scuola su YouTube e oggi è degenerata su TikTok: giovani che si guardano l’ombelico (si diceva una volta) ma oggi è più diretto dire che si compiacciono davanti agli specchi delle loro camerette e usano come uno specchio lo schermo dello smartphone, e si proiettano (ma anche introiettano) sugli schermi (prima dei dispositivi e se poi gli va bene coi like quelli dei cinema) come protagonisti in cui l’italiano medio è in cortocircuito e fa ironia solo su se stesso, mai pungente e cattiva però, e l’interprete non ha più scuole di formazione né fascino cinematografico, ma solo sfacciata improntitudine, o peggio ancora inconsapevolezza di quello che vuole comunicare al mondo. L’unico autore di commedie che mi viene in mente, che si possa definire come erede di quegli anni e di quei generi, è Paolo Virzì. E accetto suggerimenti nei commenti per aggiornare questa sezione.

Ma torniamo al film. Stavolta Peppino, spalla in tanti film del principe è finalmente protagonista assoluto ed esprime assai bene il dolceamaro del ruolo tragicomico, mentre Totò, che solitamente con la maschera dà vita a personaggi senza un’età specifica, genericamente suoi coetanei ma anche più giovani, qui è impegnato in un inedito ruolo con un’identità precisa, il nonno, e da guest star fra brillare un personaggio comprimario. Peppino si disegna addosso il ruolo del padre di famiglia nella Roma carente di appartamenti dell’immediato dopo guerra, periodo in cui era stato istituito il Commissariato Alloggi dove andare a denunciare le case sfitte per farsele assegnare d’ufficio, e tutta la prima parte del film racconta con toni da commedia ancora intrisi di neorealismo la convivenza forzata della famiglia di Peppino Armentano – moglie, due figlie, due figli e nonno – con una famiglia di profughi istriani di medesima composizione, salvo che questi continueranno a fare figli e tredici anni dopo gli spazi sono davvero invivibili. Mentre Peppino si dà a suo modo da fare per cercare un’altra abitazione finendo nelle grinfie di un truffatore e della sua degna compagna ex prostituta appen’appena fuoriuscita dal sistema delle case di tolleranza chiuse per decreto legislativo – a casa il nonno Totò diventa il centro della narrazione, duettando amabilmente col nonno istriano, ed esprimendo una sincera umanità che non ha più bisogno dei suoi tic e delle sue mossette; attenzione però, perché anche quando duetta col fidato Peppino, Totò resta protagonista delle sue scene che continua a costruire a suo gusto al di fuori del copione scritto, ed è evidente che lo stesso Bolognini lo lascia libero di improvvisare anche in certi assolo – come quello col vespasiano – perché sono momenti che apportano, oltre alla ben nota comicità, anche profondità al personaggio.

Il film (incluso tra i 100 film da salvare) si apre con una voce da narratore da cinegiornale che millanta: “Il nostro racconto è realmente accaduto e come tutte le storie vere sembrerà incredibile…” In effetti le vicende sono tutte verosimili e credibili ma solo se prese una alla volta; di fatto fotografano diverse realtà: la crisi degli alloggi a fine guerra con famiglie che condividevano gli stessi spazi come nei racconti russi, il proliferare di piccoli truffatori in quella terra di nessuno dove c’era bisogno di tutto, ma anche – come si racconta nella seconda e più importante parte del film – il destino di quegli appartamenti che furono case chiuse, case di tolleranza, bordelli, lupanari, che svuotati da una legge che ha messo sulla strada migliaia di prostitute – donne che nella maggioranza dei casi non conoscevano altra vita, e dunque incapaci di reagire al cambiamento, e peggio ancora non accompagnate da quella stessa legge a nuove alternative e abbandonate a se stesse solo perché prostitute e dunque feccia della società – mentre gli appartamenti svuotati, di solito importanti e spaziosi, restavano sfitti perché il gretto provincialismo cattolico li bollava come luoghi di perdizione e quindi dannati per l’eternità, se non alle fiamme dell’inferno ai più immediati pettegolezzi e sberleffi. Che è ciò con cui deve fare i conti Peppino, prima da solo, e poi con l’intera famiglia quando tutti vengono a conoscenza dei fatti e del passato di quell’appartamento, e si sfiora la tragedia della separazione. Mentre alla moglie e madre sono affidati i toni melodrammatici, Peppino deve districarsi nel classico congegno da commedia degli inganni, mentre alle figlie sono affidati i ruoli da commedia sentimentale: una, già fidanzata con un pugile flirta anche con un giornalista che segue la vicenda, mentre l’altra fa gli occhi dolci a un aitante commilitone del fratello cicciotto che è lo scemo in commedia; e l’altro fratello, assai comodamente e italianamente, studia da prete. Momenti e ispirazioni diverse che ben convivono nel film confezionato da Mauro Bolognini, che piacque molto a pubblico e critica con qualche ingeneroso e specioso distinguo: “Si tratta di una farsa di tipo pochadistico. L’abilità di alcuni attori non vale a riscattare la mediocrità del lavoro” fu il giudizio del cattolico “Segnalazioni Cinematografiche”; “(Il film) è in partenza, un po’ fuori dagli schemi dei nostri film comici (…). Vero e umano poteva essere (…) il film, prendendo spunto da una situazione insolita ma non improbabile e legandosi alla satira di certo gallismo italiano. Purtroppo, dopo un inizio sincero e cordiale (…) Bolognini s’è andato a imprigionare nella farsa di grana grossa. (…)” è la sintesi della critica di Ernesto G. Laura su “Bianco e Nero”.

Al centro Giorgio Ardisson circondato da Laura Adani, Totò e Maria Cristina Gajoni

Ricordando che il set è una vera ex casa di tolleranza sita in Via della Fontanella 25 a Roma, come si specifica anche nel film, a due passi dal Vaticano, quindi di gran lusso, nelle riprese e nel successivo montaggio il regista incorre in qualche grossolano errore: per l’assolo inventato da Totò fa montare un vespasiano a ridosso del portone (paradossalmente questi pisciatoi pubblici erano ancora installati fino all’inizio di questo millennio su certi tratti del Lungotevere) salvo poi sparire in una successiva inquadratura; altrettanto, in una delle scene d’insieme sulla scalinata d’ingresso dell’appartamento, marito e moglie appaiono prima vicini e poi distanti all’interno della stessa sequenza.

Un giovanissimo Giuliano Gemma con esagerati pettorali fa da sfondo a Peppino

Assai interessante anche il resto del cast. Il figlio di Peppino, Luigi De Filippo, è uno dei commilitoni del giovane Armentano ed è doppiato dal ligure Sergio Tedesco; mentre Cesare Barbetti doppia l’altro militare piacione che è Angelo Zanolli, ennesimo attore che scivolando nel girone dei peplum si è perso per strada; c’è un altro belloccio del piccolo schermo, Mario Valdemarin, che era diventato famoso come concorrente esperto di film western a “Lascia o raddoppia?” ed è diventato divo dei fotoromanzi e attore di sceneggiati Rai fino agli anni ’80 con una discreta carriera nel cinema generalista, qui interpreta il giornalista che dà visibilità alla vicenda e fa palpitare il cuore di una delle ragazze Armentano; l’aitante Giorgio Ardisson debutta nel ruolo del pugile e a seguire si ritaglia una bella carriera lavorando anche all’estero come George Ardisson (col cognome piemontese gli viene facile) anche con ruoli da protagonista nel solito cinema generalista, peplum, spaghetti-western, poliziotteschi e pure erotici, ma quando chiese ai produttori di affidargli ruoli più impegnativi la sua carriera declinò, mentre un altro aitante giovanotto che nel film è solo un figurante nella scena in palestra, lo surclasserà divenendo un protagonista di tutto rispetto: è Giuliano Gemma. La giovane Adriana Asti, qui al suo secondo film, è una babysitter a Villa Borghese che non disdegna le divise militari.

A chiusura del film la battuta che è il titolo, indirizzata da nonno Totò alla finestra verso i militari ma anche ai civili che si affollano sotto casa credendo che abbia ripreso l’attività clandestina della sora Gina con le sue signorine: battuta che ha un ardito e nascosto seguito non detto, però, perché come si dice a Roma in questi casi: “Arrangiati con un cinque contro uno!” Il film completo è su YouTube.

Diabolik – 1968

1968. Il fumetto Diabolik nato sei anni prima è già un grande successo e dunque la trasposizione cinematografica fa gola ai produttori, soprattutto dopo che Kriminal, nato dopo Diabolik, è già diventato un film e un sequel è in allestimento nonostante il tiepido successo che, in ogni caso, ha portato a casa le spese con gli interessi: non c’è aspirazione al capolavoro ma l’obiettivo è piazzare un buon action-noir fra i tanti spaghetti-western e i film con Franco e Ciccio. Dino De Laurentiis, ancora per pochi anni padrone di Dinocittà a Roma prima di trasferirsi definitivamente negli USA, acquista i diritti dalle Sorelle Giussani e inizialmente, lui che è un grande scopritore di talenti a basso costo, affida la regia al debuttante Tonino Cervi figlio del divo Gino Cervi, ma qualcosa non funziona perché dopo appena una settimana il neo regista viene licenziato, probabilmente perché ha una forte personalità e vuole avere un maggior controllo sul film; tant’è che quello stesso anno debutta con uno spaghetti-western di cui è anche produttore e co-sceneggiatore con Dario Argento: “Oggi a me… domani a te”, che fu pure un successo, tanto da venire distribuito negli USA.

Mario Bava

Lo screzio deve aver irritato non poco De Laurentiis che non se lo aspettava e ora non ha un degno sostituto; si fa avanti un amico delle sciurette fumettiste, anche sceneggiatore dell’uomo mascherato, l’appassionato di cinema e specificamente di cinema horror Corrado Farina, già regista di cortometraggi amatoriali che hanno ricevuto consensi nei festival nazionali ed esteri; De Laurentiis però non se la sente di affidargli una macchina complessa e milionaria come Diabolik e Farina, per nulla offeso dai dubbi, gli consiglia come regista il re dell’horror Mario Bava. Il film necessitava di parecchi effetti speciali e Bava ne era maestro dato che aveva iniziato a lavorare nel cinema proprio come effettista, divenendo poi direttore della fotografia e operatore di macchina prima di passare alla regia: dunque conosceva molto bene il mestiere e nonostante la lunga e variegata carriera sapeva sempre mettersi al servizio dei progetti, poiché spesso abituato a lavorare con bassi budget in tempi stretti e cast non sempre all’altezza, e confezionando comunque film dignitosi anche se inevitabilmente di serie B – molti dei quali oggi divenuti del cult. Per De Laurentiis era il regista perfetto: gli offrì il budget più alto che il regista avesse mai avuto a disposizione, duecento milioni di lire, che per il produttore erano però spiccioli, abituato com’era a produrre kolossal hollywoodiani come “Guerra e pace” di King Vidor, “Barabba” di Richard Fleischer e “La Bibbia” di John Huston, tanto per citare i più noti; e Bava era così abituato a ottimizzare che i duecento milioni non li spese neanche tutti e De Laurentiis ne fu così contento che subito gli propose di firmare per il sequel, ma il regista gli diede un due di picche perché irritato dal fatto che il produttore gli aveva imposto di non girare scene troppo violente perché intimorito dalla censura, scene che Bava riteneva necessarie in quanto più fedeli al fumetto e alla sua visione del progetto. Il regista ha dichiarato: “Mi ha chiamato per dirigere il seguito. Gli ho fatto dire che sono ammalato, invalido a letto, permanentemente”. Come oggi sappiamo il film non fu un gran successo e non ci fu nessun sequel.

Era il momento di chiudere il cast. Con Mario Bava alla regia, che firmava anche la sceneggiatura a 4, decadde il nome del francese Jean Sorel che era stato scelto da Tonino Cervi e De Laurentiis fu felice di sostituirlo con l’americano John Phillip Law che già aveva sotto contratto per il contemporaneo “Barbarella” di Roger Vadim che stava subendo dei ritardi nella lavorazione, così con un piccolo incentivo spostò l’attore da un set all’altro – Mario Bava però alla fine non ne fu contento perché ritenne l’attore troppo insulso. Come Eva Kant la prima scelta era stata una sconosciuta modella in quanto amichetta di qualcuno della produzione, però dopo appena una settimana di girato fu licenziata perché evidentemente non sapeva recitare, non sapremo mai il suo nome, e al suo posto arrivò sul set nientemeno che Catherine Deneuve: una francese per il francese Jean Sorel che era stato fatto fuori, dato che era una coproduzione Italia-Francia, girata però in lingua inglese guardando al mercato internazionale. Ma anche la Deneuve durò pochi giorni perché non voleva girare le scene di nudo e si era scontrata col regista. C’era bisogno di un’attrice più disponibile e venne chiamata l’austriaca Marisa Mell (Marlies Theres Moitzi sulla carta d’identità) già regina della dolce vita romana da quando Mario Monicelli l’aveva importata per il suo “Casanova ’70”, film che però era del ’65…. sarà che andava di moda portarsi avanti con gli anni, forse anche auto consegnarsi una patente di innovatori, dato che già nel 1962 era uscito “Boccaccio ’70” e quello stesso 1968 usciranno “Montecristo ’70” “Manon ’70” e “Gangsters ’70”. Per l’onore e i soldi della Francia scese in campo il divo Michel Piccoli come Ispettore Ginko, mentre per il nostro Adolfo Celi fu addirittura creato un personaggio ex novo, il cattivo Ralph Valmont, dato che Celi si era appena messo in luce nel cinema internazionale come cattivo in “Agente 007: operazione tuono” (1965) cui erano seguiti altri importanti ruoli oltreoceano – qui però l’attore è doppiato da Emilio Cigoli, la nota voce profonda con un leggero birignao di John Wayne. John Phillip Law fu doppiato da Giancarlo Maestri, Michel Piccoli da Gigi Proietti e Claudio Gora da Roberto Villa. Non si ha notizia della doppiatrice di Marisa Mell.

Il film di Mario Bava è ispirato al fumetto “Sepolto vivo” e si chiude con un finale aperto che lascia presupporre un sequel come un seguito c’è nel fumetto, e benché il film sia vecchio più di mezzo secolo, rispetto al Diabolik odierno dei Manetti Bros. è senz’altro più spettacolare e ancora godibilissimo perché è un gioiellino assai visuale di cinema pop molto in tendenza con l’avanguardia artistica dell’epoca che era optical, psichedelica e neo-futurista; è molto colorato e per questo assai distante dal fumetto, non perché il fumetto sia in bianco e nero ma perché è denso di atmosfere cupe che nel film diventano un esplosivo caleidoscopio. Distanti dal fumetto anche i due personaggi principali che, in questa sceneggiatura, diventano comprimari del vero protagonista: Ginko. Il Diabolik di John Phillip Law è funzionale, con un trucco che lo fa assomigliare molto al personaggio, anche se per lui il regista inventa addirittura una tuta bianco argento; mentre Marisa Mell, che potenzialmente poteva essere molto somigliante a Eva Kant, sembra però spiazzata e spiazzante, come fuori parte e non a suo agio; indossa sempre lisce parrucche biondo cenere e mai l’iconico chignon, look che la rende iper-moderna ma poco Eva; inoltre, in linea con lo stile, indossa striminziti e coloratissimi abitini nude-look che la signora dei fumetti, benché assai sensuale, non indossava – tuttalpiù qualche vertiginosa scollatura. I due performano scenette sexy con dei nudi vedo-non-vedo e sembrano più provenire dal mondo del “Barbarella” in contemporanea produzione che dai fumetti delle Sorelle Giussani.

L’ispettore Ginko interpretato da Michel Piccoli fece molto discutere perché per molti fan non somigliava affatto al personaggio mentre le stesse creatrici intervennero in difesa (e ci mancherebbe!) dell’attore dichiarando: “Ginko si riconosce per quello che fa, non per il suo volto” e Michel Piccoli lo fa con grande naturalezza, da attore quotato che interpreta un centrato commissario di polizia in un noir, a prescindere dal criminale cui dà la caccia che solo accidentalmente è l’iconico Diabolik e solo casualmente il film è un concentrato di pop art, e la sua interpretazione pervade l’intero film divenendone il vero protagonista. Il cattivo di Adolfo Celi è da antologia e a lui vanno le battute migliori del film. Riuscitissima anche l’interpretazione dell’attore brillante inglese Terry Thomas nei panni del ridicolo ministro delle finanze, doppiato da Renzo Palmer che poi lo sostituisce in figura sulla poltrona da ministro nel film, mentre l’ex ministro delle finanze si ricicla come ministro dell’interno nelle porte girevoli dei palazzi della politica, nella finzione filmica ispirata alla pratica reale. Claudio Gora è l’immancabile ispettore di polizia sempre al seguito del ministro, mentre in ruoli minori sono da segnalare il camionista raggirato da Eva Kant interpretato da Carlo Croccolo, l’anziana lady vittima del furto clamoroso che è Caterina Boratto, Lidia Biondi come poliziotta e Lucia Modugno come prostituta, mentre l’ex pugile Tiberio Mitri è uno sgherro del cattivo Valmont. La colonna sonora fu firmata da Ennio Morricone ma rimase inedita e venne pubblicata in due CD solo nel 2001; l’unico brano che si affacciò sul mercato discografico fu “Deep Down” come lato B di un 45 giri interpretato da Christy (Maria Cristina Brancucci), il cui lato A era “Amore amore amore amore” tratto dalla colonna sonora del film “Un italiano in America” di e con Alberto Sordi: strano destino per una canzone di Morricone.

Come già detto la forza del film è, oltre che nel ritmo, nella parte visiva e va rivelato che Mario Bava, già creatore di effetti speciali e direttore della fotografia, ha inventato per il film degli straordinari effetti visivi: il famoso rifugio-caverna di Diabolik era in realtà un set vuoto e quando Law arrivò per girare la scena con Eva e la Jaguar, rimase sorpreso non vedendo nulla, così chiese al regista dove fosse la scenografia e Bava lo condusse dietro la macchina da presa mostrandogli cosa aveva preparato: pezzi di plastica e vetro colorati che in proiezione sarebbero diventati la scenografia fisicamente inesistente: se non è genio questo! De Laurentiis fu ovviamente piacevolmente sorpreso da quei semplici ma efficaci effetti visivi a costo prossimo allo zero, e compiaciuto dichiarò: “Dirò alla Paramount che questo set ci è costato 200.000 dollari!“. Anche le scene all’interno dell’appartamento seguono la stessa linea creativa.

Con 200 milioni di budget di cui una parte non spesa, il film incassò appena 265 milioni ma ci fu poi un ulteriore ritorno dal mercato estero dove il film, che piacque molto più che in Italia, uscì col titolo “Danger: Diabolik”. La rivista francese Cahiers du Cinéma scrisse: “Gli effetti anamorfici, gli sbandamenti di ordine percettivo in ogni inquadratura, la costante discontinuità spazio temporale, concorrono alla costruzione di un universo dalla bellezza prorompente, improbabile e autoritaria“. E il severissimo americano Roger Ebert, commentò: “Forse perché è meno pretenzioso, Diabolik ha avuto più successo di Barbarella, ed è anche più divertente“. E concludo col mio ben più modesto parere: è molto più divertente del nuovo Diabolik dei Manetti Bros. Il film è disponibile su YouTube.