È il 1959 e proprio l’anno prima la legge a nome della senatrice Lina Merlin ha fatto chiudere le case di tolleranza, e con esse un mondo, e uno stile di vita del maschio italico che per anni ancora vivrà di nostalgie e rimpianti. L’unico onesto film che ha tentato (parzialmente fallendo) di indagare il punto di vista delle signorine è stato “Adua e le compagne” che arriverà l’anno dopo. Il soggetto è tratto da una commedia in vernacolo toscano, “Casa nova… vita nova” che due teatranti, Mario Di Majo e Vinicio Gioli (che avrà un piccolo ruolo nel 1982 in “La notte di San Lorenzo” dei Fratelli Taviani) hanno buttato giù con grande brio immortalando lo storico momento sociale, e che gli scaltri sceneggiatori Leo Benvenuti e Piero De Bernardi hanno prontamente sviluppato in un film che resta in bilico, come molti film di quegli anni, fra il morente neorealismo e la nascente commedia all’italiana.
Per la Cineriz (Cinema Rizzoli) chiude il pacchetto produttivo Manolo Bolognini fratello del regista Mauro Bolognini, un architetto passato al cinema che ancora deve contenere il suo gusto da esteta che svilupperà in corposi melodrammi da cinema d’autore, perché fin qui si è potuto cimentare solo in mélo sentimentali tardo neorealistici e in commedie di successo commerciale che gli hanno appuntato addosso l’attenzione dei produttori; sarà l’incontro artistico e culturale con Pier Paolo Pasolini che lo proietterà definitivamente verso il cinema cosiddetto di qualità, senza però voler qui nulla togliere alla qualità di tutto il resto; grazie a lui firmerà la regia di “La notte brava” che Pasolini ha sceneggiato da un suo racconto, “Il bell’Antonio” da Vitaliano Brancati e “La giornata balorda” da Alberto Moravia, entrambi sceneggiati sempre da Pasolini.
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E Bolognini, da esteta con gusto melodrammatico, compone un cast – anche al doppiaggio – stiloso, e intorno ai nomi di punta Peppino De Filippo e Totò che la fanno da padroni, chiama nel ruolo della moglie la teatrale ed efficacissima Laura Adani che dà all’importante personaggio un melodrammatico tono alto borghese forse più adatto al già passato cinema dei telefoni bianchi che a questo tardo neorealismo: contaminazioni di stili e generi che si possono pienamente osservare solo nella lunga distanza del tempo. I ruoli delle figlie vanno a Maria Cristina Gajoni, una fotomodella che ha studiato recitazione al Piccolo di Milano prima di trasferirsi a Roma per fare il cinema e che per la somiglianza viene definita dai rotocalchi, sempre in cerca di etichette, la Brigitte Bardot italiana; in quel 1959 esce con un altro bel ruolo in un altro importante film, il dramma carcerario femminile “Nella città l’inferno” diretto da Renato Castellani con Anna Magnani e Giulietta Masina, che le fa avere il Nastro d’Argento come Migliore Attrice non protagonista; l’altra figlia è interpretata dalla francese Cathia Caro attiva in quegli anni nei peplum italiani che però abbandona il cinema già nell’immediato 1961 facendo perdere ogni traccia; di lei si sa che tentò il suicidio durante la sua tempestosa relazione col pugile Tiberio Mitri. Le due giovani attrici sono state doppiate dalle grandi professioniste Maria Pia Di Meo e Rita Savagnone, riconoscibilissime voci di dive hollywoodiane che, con l’aggiunta della recitazione elegante di Laura Adani, ci sembra di stare a vedere una di quelle sophisticated comedy con Audrey Hepburn o Shirley MacLaine, Elizabeth Taylor o Ingrid Bergman. I due figli sono interpretati dalla meteora Marcello Paolini (attivo solo in cinque film) e dall’ex attore bambino Enrico Olivieri che dopo un’intensa carriera lascia anche lui il cinema perché non gli offriva più interessanti prospettive. La famiglia di profughi istriani è guidata dalla sempre eccellente eclettica caratterista Giusi Raspani Dandolo come madre di famiglia, mentre il nonno che duetta a contrasto con Totò è un altro caratterista di rango, Achille Majeroni, qui al suo terzultimo film. L’ineffabile coppia di truffatori è genialmente affidata a un’altra brillantissima coppia d’arte e di vita, Vittorio Caprioli e Franca Valeri che con le loro maschere e le loro studiatissime moine riempiono la prima parte del film, e lei in particolare è talmente straordinaria che facendo da spalla al compagno gli ruba sempre la scena: pur restando in secondo piano l’attenzione va sempre a lei.
Oggi un cast del genere è impensabile, perché se da un lato è cambiato il modo di fare commedia, rovinato dalla deriva eroticomica degli anni ’80, dall’altro sono cambiati i temi che non sono più centrati sull’individuo, l’italiano medio con difetti vizi e manie, ma si è allargato all’intera società con sguardi su un mondo politico che ha perso autorevolezza e si presta agli sberleffi, e dunque la comicità si è fatta grossolana come scadenti barzellette, e gli interpreti cinematografici non sono più di buona scuola ma sono gli stessi che fanno i siparietti in tivù; non ci sono più le figure centrali degli italiani medi e mediocri da raccontare – gli ultimi dei quali sono stati appannaggio di Alberto Sordi – ma si racconta la mediocrità e la marcescenza di un’intera società, oltretutto internazionalizzata per le evidenti spinte sociali, e dunque c’è sempre meno gusto per un’elegante leggerezza tutta provinciale, anche un po’ ammiccante se necessario, e l’incattivimento è sempre dietro l’angolo a cominciare dal neo-neorealismo che si tinge di noir. Le periferie pasoliniane che all’epoca scandalizzavano i benpensanti e che oggi appaiono bucoliche, si sono incarognite tanto quanto gli stessi benpensanti che oggi sono pure cinici. Gli interpreti non mancherebbero, anche se ormai appartengono a una generazioni di 60enni, come Angela Finocchiaro o Claudio Bisio, Sabina Guzzanti o Antonio Albanese, tanto per citare i primi che mi vengono in mente, mentre la comicità dei più giovani, quella su cui dovremmo fare affidamento, è la comicità che ha fatto scuola su YouTube e oggi è degenerata su TikTok: giovani che si guardano l’ombelico (si diceva una volta) ma oggi è più diretto dire che si compiacciono davanti agli specchi delle loro camerette e usano come uno specchio lo schermo dello smartphone, e si proiettano (ma anche introiettano) sugli schermi (prima dei dispositivi e se poi gli va bene coi like quelli dei cinema) come protagonisti in cui l’italiano medio è in cortocircuito e fa ironia solo su se stesso, mai pungente e cattiva però, e l’interprete non ha più scuole di formazione né fascino cinematografico, ma solo sfacciata improntitudine, o peggio ancora inconsapevolezza di quello che vuole comunicare al mondo. L’unico autore di commedie che mi viene in mente, che si possa definire come erede di quegli anni e di quei generi, è Paolo Virzì. E accetto suggerimenti nei commenti per aggiornare questa sezione.
Ma torniamo al film. Stavolta Peppino, spalla in tanti film del principe è finalmente protagonista assoluto ed esprime assai bene il dolceamaro del ruolo tragicomico, mentre Totò, che solitamente con la maschera dà vita a personaggi senza un’età specifica, genericamente suoi coetanei ma anche più giovani, qui è impegnato in un inedito ruolo con un’identità precisa, il nonno, e da guest star fra brillare un personaggio comprimario. Peppino si disegna addosso il ruolo del padre di famiglia nella Roma carente di appartamenti dell’immediato dopo guerra, periodo in cui era stato istituito il Commissariato Alloggi dove andare a denunciare le case sfitte per farsele assegnare d’ufficio, e tutta la prima parte del film racconta con toni da commedia ancora intrisi di neorealismo la convivenza forzata della famiglia di Peppino Armentano – moglie, due figlie, due figli e nonno – con una famiglia di profughi istriani di medesima composizione, salvo che questi continueranno a fare figli e tredici anni dopo gli spazi sono davvero invivibili. Mentre Peppino si dà a suo modo da fare per cercare un’altra abitazione finendo nelle grinfie di un truffatore e della sua degna compagna ex prostituta appen’appena fuoriuscita dal sistema delle case di tolleranza chiuse per decreto legislativo – a casa il nonno Totò diventa il centro della narrazione, duettando amabilmente col nonno istriano, ed esprimendo una sincera umanità che non ha più bisogno dei suoi tic e delle sue mossette; attenzione però, perché anche quando duetta col fidato Peppino, Totò resta protagonista delle sue scene che continua a costruire a suo gusto al di fuori del copione scritto, ed è evidente che lo stesso Bolognini lo lascia libero di improvvisare anche in certi assolo – come quello col vespasiano – perché sono momenti che apportano, oltre alla ben nota comicità, anche profondità al personaggio.
Il film (incluso tra i 100 film da salvare) si apre con una voce da narratore da cinegiornale che millanta: “Il nostro racconto è realmente accaduto e come tutte le storie vere sembrerà incredibile…” In effetti le vicende sono tutte verosimili e credibili ma solo se prese una alla volta; di fatto fotografano diverse realtà: la crisi degli alloggi a fine guerra con famiglie che condividevano gli stessi spazi come nei racconti russi, il proliferare di piccoli truffatori in quella terra di nessuno dove c’era bisogno di tutto, ma anche – come si racconta nella seconda e più importante parte del film – il destino di quegli appartamenti che furono case chiuse, case di tolleranza, bordelli, lupanari, che svuotati da una legge che ha messo sulla strada migliaia di prostitute – donne che nella maggioranza dei casi non conoscevano altra vita, e dunque incapaci di reagire al cambiamento, e peggio ancora non accompagnate da quella stessa legge a nuove alternative e abbandonate a se stesse solo perché prostitute e dunque feccia della società – mentre gli appartamenti svuotati, di solito importanti e spaziosi, restavano sfitti perché il gretto provincialismo cattolico li bollava come luoghi di perdizione e quindi dannati per l’eternità, se non alle fiamme dell’inferno ai più immediati pettegolezzi e sberleffi. Che è ciò con cui deve fare i conti Peppino, prima da solo, e poi con l’intera famiglia quando tutti vengono a conoscenza dei fatti e del passato di quell’appartamento, e si sfiora la tragedia della separazione. Mentre alla moglie e madre sono affidati i toni melodrammatici, Peppino deve districarsi nel classico congegno da commedia degli inganni, mentre alle figlie sono affidati i ruoli da commedia sentimentale: una, già fidanzata con un pugile flirta anche con un giornalista che segue la vicenda, mentre l’altra fa gli occhi dolci a un aitante commilitone del fratello cicciotto che è lo scemo in commedia; e l’altro fratello, assai comodamente e italianamente, studia da prete. Momenti e ispirazioni diverse che ben convivono nel film confezionato da Mauro Bolognini, che piacque molto a pubblico e critica con qualche ingeneroso e specioso distinguo: “Si tratta di una farsa di tipo pochadistico. L’abilità di alcuni attori non vale a riscattare la mediocrità del lavoro” fu il giudizio del cattolico “Segnalazioni Cinematografiche”; “(Il film) è in partenza, un po’ fuori dagli schemi dei nostri film comici (…). Vero e umano poteva essere (…) il film, prendendo spunto da una situazione insolita ma non improbabile e legandosi alla satira di certo gallismo italiano. Purtroppo, dopo un inizio sincero e cordiale (…) Bolognini s’è andato a imprigionare nella farsa di grana grossa. (…)” è la sintesi della critica di Ernesto G. Laura su “Bianco e Nero”.
Ricordando che il set è una vera ex casa di tolleranza sita in Via della Fontanella 25 a Roma, come si specifica anche nel film, a due passi dal Vaticano, quindi di gran lusso, nelle riprese e nel successivo montaggio il regista incorre in qualche grossolano errore: per l’assolo inventato da Totò fa montare un vespasiano a ridosso del portone (paradossalmente questi pisciatoi pubblici erano ancora installati fino all’inizio di questo millennio su certi tratti del Lungotevere) salvo poi sparire in una successiva inquadratura; altrettanto, in una delle scene d’insieme sulla scalinata d’ingresso dell’appartamento, marito e moglie appaiono prima vicini e poi distanti all’interno della stessa sequenza.
Assai interessante anche il resto del cast. Il figlio di Peppino, Luigi De Filippo, è uno dei commilitoni del giovane Armentano ed è doppiato dal ligure Sergio Tedesco; mentre Cesare Barbetti doppia l’altro militare piacione che è Angelo Zanolli, ennesimo attore che scivolando nel girone dei peplum si è perso per strada; c’è un altro belloccio del piccolo schermo, Mario Valdemarin, che era diventato famoso come concorrente esperto di film western a “Lascia o raddoppia?” ed è diventato divo dei fotoromanzi e attore di sceneggiati Rai fino agli anni ’80 con una discreta carriera nel cinema generalista, qui interpreta il giornalista che dà visibilità alla vicenda e fa palpitare il cuore di una delle ragazze Armentano; l’aitante Giorgio Ardisson debutta nel ruolo del pugile e a seguire si ritaglia una bella carriera lavorando anche all’estero come George Ardisson (col cognome piemontese gli viene facile) anche con ruoli da protagonista nel solito cinema generalista, peplum, spaghetti-western, poliziotteschi e pure erotici, ma quando chiese ai produttori di affidargli ruoli più impegnativi la sua carriera declinò, mentre un altro aitante giovanotto che nel film è solo un figurante nella scena in palestra, lo surclasserà divenendo un protagonista di tutto rispetto: è Giuliano Gemma. La giovane Adriana Asti, qui al suo secondo film, è una babysitter a Villa Borghese che non disdegna le divise militari.
A chiusura del film la battuta che è il titolo, indirizzata da nonno Totò alla finestra verso i militari ma anche ai civili che si affollano sotto casa credendo che abbia ripreso l’attività clandestina della sora Gina con le sue signorine: battuta che ha un ardito e nascosto seguito non detto, però, perché come si dice a Roma in questi casi: “Arrangiati con un cinque contro uno!” Il film completo è su YouTube.