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Il grande passo

Il cinema della pandemia visto in casa. Il film è uscito in sala nell’agosto 2020 e stava registrando incassi tutti in salita che però sono stati troncati dal lockdown del successivo settembre. Precedentemente presentato, nel novembre 2019, al Torino Film Festival si era aggiudicato il premio Miglior Attore ex aequo ad entrambi gli interpreti. Coppia di interpreti che, lo confesso, era da qualche anno che aspettavo di vedere insieme, non foss’altro che per la loro stazza inusuale fra i protagonisti del cinema italiano, e immaginandoli in una commedia grottesca e surreale.

Giuseppe Battiston è Orson Welles all'Ambra Jovinelli

Ma a parte la fisicità i due non hanno nient’altro in comune. Giuseppe Battiston è un attore raffinato che viene e va dal teatro e che lavora di cesello sui suoi personaggi, una carrellata di tipi sempre diversi dal grottesco, appunto, al drammatico, e che fra David di Donatello e Nastri d’Argento ha già accumulato una bella serie di vittorie e candidature.

Stefano Fresi a Castelnovo Monti per "autori in prestito" Reggionline –  Quotidianionline – Telereggio – Trc – TRM |

Stefano Fresi, al contrario, è un interprete istintuale che funziona per la sua immediata simpatia e naturalezza non studiata, e la sua carriera procede con personaggi di bonaccione al posto sbagliato nel momento sbagliato. Non tutti sanno che nasce musicista, compositore e cantante, parte di un trio musicomico che si è fatto conoscere in teatro.

Giuseppe Battiston e Stefano Fresi migliori attori al Torino Film Festival  | RB Casting

Insieme fanno una coppia che cinematograficamente funziona a meraviglia, non certo per la sola fisicità quanto piuttosto per quella cosa impalpabile detta alchimia. Con il burbero e scontroso Dario di Battiston e il comunicativo pieno di buon senso Mario di Fresi, è evidente che il film è stato pensato e scritto per loro due, per sfruttarne al meglio le specifiche, sia interpretative, che regionali, dato che Mario è romano e Dario è veneto (ma in realtà l’interprete è friulano) e sono entrambi figli di un padre che è meglio perdere che trovare; i due fratellastri si ritrovano a causa di un incidente e il film prosegue sulla scia della nuova commedia italiana che i nuovi registi collocano nelle loro terre d’origine, o dove trovano i finanziamenti grazie allo sviluppo nell’ultimo ventennio delle Commissioni Cinematografiche Regionali, dette Film Commission, che con soldi pubblici finanziano il cinema con l’intento dello sviluppo culturale del territorio.

Stasera al cinema… Finchè c'è prosecco c'è speranza di Antonio Padovan |  gialloecucina

Antonio Padovan, veneziano che è andato a studiare cinema a New York, è tornato a casa e si è subito messo all’opera mostrando di avere imparato bene l’arte della scrittura cinematografica col suo primo lungometraggio “Finché c’è prosecco c’è speranza” del 2017, un noir con tanto di morti fra i vigneti veneti che lo ha imposto all’attenzione di pubblico e addetti ai lavori. Già in quel film era protagonista Giuseppe Battiston che torna in “Il grande passo” insieme ai colleghi Roberto Citran e Teco Celio come espressione di attori del nord-est italiano, e con un piccolo ruolo c’è anche lo scrittore Vitaliano Trevisan che Matteo Garrone nel 2004 ha fatto debuttare come protagonista del film “Primo amore”, una disturbante storia di anoressia e dipendenza psicologica. Completa il cast del nord-est la giovane Camilla Filippi anche lei debuttante per Matteo Garrone in “Estate romana” del 2000.

Con questo suo secondo lungometraggio Antonio Padovan dimostra di saper fare il cinema di intrattenimento con qualcosa in più, un gusto personale e un punto di vista interessanti, che andranno però verificati nei lavori futuri per capire se continuerà a sperimentare nuove soluzioni narrative della commedia imponendosi con uno stile proprio, facendosi un nuovo capofila, oppure si ripeterà restando un professionista del genere.

File:Pablito Calvo e Ludovica Modugno.jpg - Wikipedia
Pablito Calvo e Ludovica Modugno

Fra le attrici di lungo corso ci sono due romane. Ludovica Modugno, che qui interpreta la madre di Mario, che da bambina ha debuttato come doppiatrice nel 1956 dando voce italiana al Pablito Calvo di “Marcellino pane e vino”.

Gabriella Ferri e Luisa De Santis

Luisa De Santis, figlia del regista Giuseppe De Santis di cui basta ricordare “Riso amaro” (1949), nella prima metà degli anni Sessanta ha formato un duo canoro con Gabriella Ferri e come “Luisa e Gabriella” hanno un boom dopo essere apparse in tv con Mike Bongiorno cui segue un film musicarello.

Dopo lo scioglimento del sodalizio canoro continua come attrice sia in teatro, anche musicale, che tv e cinema, con un curriculum fatto di caratterizzazioni di tutto rispetto, oggi subito riconoscibile con il suo aspetto odierno di brillante settantenne, che confesso di aver conosciuto fuori dall’ambiente dello spettacolo come una donna di grande simpatia che come una gazza ladra è attratta da tutto ciò che brilla.

Addio a Flavio Bucci, fu Ligabue in tv - Spettacoli - Il Centro

L’altro nome di peso è Flavio Bucci nel ruolo del padre indegno di cui si parla nell’intero film e che vedremo sotto finale in una sola scena molto significativa. L’attore è visibilmente sofferente e nella camminata con cui appare sullo schermo si sorregge chiaramente ai colleghi che gli fanno da spalla, e poi continua la sua scena appoggiato a un muretto da cui si stacca con un mezzo giro e immaginiamo che salga le scale di casa solo attraverso lo sguardo del figlio Dario-Battiston in una delicata soluzione registica. Flavio Bucci muore a 72 anni, portati male purtroppo, il 18 febbraio 2020, di infarto. Il suo lungo percorso cinematografico era cominciato nel 1971 con “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri ma era divenuto noto al grande pubblico con il televisivo “Ligabue” del 1977. Con la sua faccia dai lineamenti forti e sostenuto da un indubbio talento venato di forti inquietudini è stato un jolly protagonista e caratterista di molto cinema d’autore e poi di interessanti messe in scena teatrali.

Il grande passo - Film (2019) - MYmovies.it

Pinocchio – Benigni uno e due

Pinocchio siamo tutti noi, sempre sospesi fra il bene e il male, i buoni propositi e le tentazioni, l’altruismo e l’autogratificazione. Non sorprende quindi l’affetto che proviamo per questo personaggio che per la maggior parte – io in primis – conosciamo dai derivati della storia originale, un racconto per l’infanzia ottocentesco che in pochi abbiamo letto per intero: “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” di Carlo Collodi.

Il primo a farne una storia per lo schermo, nel 1940, fu il cartoonist americano Walt Disney che per ispirarsi guardava spesso alle mitologie e alle favore europee, consapevole che tutta la cultura americana, veicolata dai popoli, venivano dal Vecchio Continente; nello specifico la sua famiglia veniva dalla Francia e Disney non è altro che l’anglicizzazione di D’Isigny. Forte del successo del suo primo lungometraggio “Biancaneve e i Sette Nani” produsse “Pinocchio” raddoppiando il budget, ma non ebbe altrettanto successo, soprattutto nella vecchia Europa. Fu però il suo primo film a vincere due Oscar, colonna sonora e canzone originale, e recentemente è stato inserito nella top ten dei capolavori cinematografici. Niente di strano che la favoletta rimaneggiata e adattata da Disney sia stato il nostro punto di riferimento e l’unico Pinocchio di immediata lettura per decenni.

Dobbiamo arrivare al 1972 per avere una produzione italiana col televisivo in sei puntate “Le avventure di Pinocchio” che, nel largo respiro della serie, rende merito al complesso racconto di Collodi: un’opera, così va definita, di eccellenza, che soppianta per sempre nel nostro immaginario il grazioso burattino disegnato da Disney: un capolavoro che rimarrà per sempre nei bambini di allora il punto di riferimento e di confronto per tutto quello che verrà. Anche la sigla di Fiorenzo Carpi resterà impressa nella nostra memoria.

La regia era di Luigi Comencini, Geppetto era Nino Manfredi, la Fata Turchina: Gina Lollobrigida, il Gatto e la Volpe: il duo comico Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Il Giudice: Vittorio De Sica, Lionel Stander: Mangiafuoco, Mario Scaccia e Jacques Herlin: i due dottori, Mario Adorf: il direttore del circo, e potrei continuare con una pletora di grandi caratteristi italiani dell’epoca. Pinocchio, interpretato dal bambino Andrea Balestra, è stato reinventato in un burattino di legno quando era monello, ma che si trasformava in bambino quando faceva il bravo. L’ambientazione era quella povera e rurale della provincia italiana fine Ottocento che restituiva la storia ai suoi luoghi naturali e a Pinocchio il suo accento toscano.

Nel 2002 arriva il “Pinocchio” di Roberto Benigni che con i suoi 45 milioni di euro di budget rimane il film italiano più costoso, prodotto dalla Melampo di Nicoletta Braschi, moglie e musa di Benigni. In concomitanza dell’uscita del “Pinocchio” di Matteo Garrone il film torna in tv dove lo rivedo senza neanche arrivare al finale, confermando e rafforzando l’opinione che ne ebbi allora: è un film egocentrico ed esorbitante, frutto del successo internazionale e degli Oscar per “La vita è bella” come miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Un successo che dà alla testa e per il quale ora Benigni guarda all’America e di cui copia gli sforzi produttivi e un certo stile narrativo. Non a caso il film si apre con la carrozza della Fata Turchina trainata da un esercito di topolini bianchi che sembra uscita da un film Disney. Poi prosegue con una riuscitissima sequenza in cui un ciocco di legno caduto da un carretto prende vita e rotola per le vie del paesello con una serie di gag da comiche del cinema muto. Ma non appena il Geppetto di Carlo Giuffrè finisce di creare il suo Pinocchio si capisce subito che è un Pinocchio “pro domo sua”: non c’è traccia del burattino di legno e Benigni recita il suo Pinocchio, con accento toscano, certo, ma con la vocina e la gestualità di un bambino che in un cinquantenne è davvero imbarazzante, per non dire irritante. Già all’inizio avevamo avuto un assaggio dell’andazzo con la Fata Turchina di Nicoletta Braschi che si atteggia e fa la vocina come una bambina che recita, male, alla recita scolastica. Si salva tutto il contesto: scenografia e costumi premiati col Nastro d’Argento e la musica sempre di Piovani. Si salva il corollario dei caratteristi: Kim Rossi Stuart: Lucignolo, Peppe Barra: il Grillo Parlante, il duo comico I Fichi d’India come Gatto e Volpe, Mino Bellei: Medoro, Corrado Pani: il Giudice, Alessandro Bergonzoni: il direttore del circo, Tommaso Bianco come Pulcinella e Stefano Onofri come Arlecchino fra i burattini del Mangiafuoco di Franco Javarone. Ovviamente il film è un successo al botteghino ma viene stroncato dalla critica e, cosa ancora peggiore, è un flop in quell’America per il quale era stato segretamente pensato.

Onestamente non sentivo la necessità di un altro Pinocchio ma quando ho saputo che il progetto era di Matteo Garrone sono rimasto in fiduciosa attesa. Avevo apprezzato moltissimo i suoi “L’imbalsamatore” del 2002 e “Primo amore” del 2004. Nel 2008 “spacca” con “Gomorra” dal libro di Roberto Saviano e che ispirerà la serie tv omonima da una cui costola prende vita il recente “L’Immortale”. Del 2018 è il premiatissimo “Dogman” ma questo “Pinocchio” si inserisce nel percorso avviato con “Il Racconto dei Racconti” ispirato al seicentesco “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile: siamo quindi alla radice della narrativa italiana. E, come quell’altro film, questo “Pinocchio” mi sembra, altrettanto, grandioso e imperfetto.

Ha il merito di riportare il racconto nell’Italia rurale fine ‘800 e di rimettere al centro della storia un burattino di legno. Anche la Fata Turchina torna alle sue origini e come nella storia di Collodi la sua prima apparizione è come fata bambina. Purtroppo la caratteristica di Garrone che ha fatto grandi altri suoi film, in questo genere favolistico risulta essere un difetto: parlo della sua mancanza di empatia coi personaggi, del distacco col quale li racconta, e come per il film tratto da Giambattista Basile questo che ritorna a Collodi è a tratti emozionante e anche pauroso, nell’ottica del bambini, ma assolutamente privo di trasporto emotivo, quasi troppo freddo e razionale nel trattare queste grandi favole: è meritevole l’intento di ridare vita ai classici italiani ma il suo approccio analitico, vincente altrove, toglie smalto alle storie.

Sbagliati il Gatto e la Volpe assegnati a Massimo Ceccherini e a Rocco Papaleo: è evidente che fra i due non c’è feeling e non scatta quella scintilla che c’era fra le coppie comiche di comprovata esperienza come Franco e Ciccio o i Fichi d’India; la francese Marine Vacht è un’intensa e dolcemente seduttiva Fata Turchina che da bambina è Alida Baldari Calabria; Gigi Proietti restituisce grandiosità e burbera umanità a Mangiafuoco e Paolo Graziosi ridà vita a Mastro Ciliegia; Massimiliano Gallo è il Direttore del circo; la cabarettista Maria Pia Timo è la Lumaca e Maurizio Lombardi è il Tonno filosofo che nuota dentro il gran Pesce-Cane (che in Disney è una balena) qui disegnato sui bestiari medievali; Teco Celio è il Giudice, Enzo Vetrano è il Maestro e Domenico Centamore è il pastore; il nano Davide Marotta è il Grillo Parlante in un insieme di compagnia di nani come intelligente scelta registica per la compagnia dei burattini. Il burattino è il bambino Federico Ielapi pesantemente truccato come fosse legno, da premiarne la paziente sopportazione, e sempre credibile nella sua naïveté. Geppetto, dopo la prima ipotesi di Toni Servillo, è naturalmente Roberto Benigni, con un “naturalmente” dal doppio significato: primo, per la sua toscanità, e secondo perché dopo essere stato un improbabilissimo Pinocchio qui è finalmente nel giusto ruolo che gli compete, per età e per divismo: è dimesso e misurato come la regia richiede ma qua e là, si vede, è più forte di lui, gli brilla l’occhio del monello che è.