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Edipo Re

Il film completo

Dopo il salto in avanti con “Medea” torno alla cronologia della filmografia di Pier Paolo Pasolini con l’altra sua tragedia classica che si colloca subito dopo la favola sociale “Uccellacci e uccellini” ma a cui pensava da anni, ancora prima di realizzare il suo debutto con “Accattone” in cui ha fatto debuttare come protagonista Franco Citti, fratello di poco minore di Sergio Citti, entrambi imbianchini, Sergio che tranne apparizioni occasionali resterà al fianco di Pasolini prima come dizionario vivente romanesco e poi via via come assistente alla regia e co-sceneggiatore fino al suo debutto come regista. Per Pasolini è un’opera molto personale perché si confronta con una sua “ansia autobiografica” e con il complesso cui il personaggio di Edipo, assassino del padre e sposo di sua madre, ha dato il nome: “In Edipo io racconto la storia del mio complesso di Edipo. Il bambino del prologo sono io, suo padre è mio padre, ufficiale di fanteria, e la madre, una maestra, è mia madre. Racconto la mia vita mitizzata, naturalmente resa epica dalla leggenda di Edipo”.

Carlo Alberto Pasolini

Di fatto il padre, militare fascista, fu per lui e per sua madre una figura ingombrante perché pare che non fosse marito e padre affettuoso, oltre al fatto che di ritorno dalla guerra d’Africa soffriva di quella che oggi definiamo stress post traumatico da combattimento ma che all’epoca era non più che un disagio mentale cui si accompagnava la violenza. È dunque quasi consequenziale che il giovane Pier Paolo, intellettuale precoce, si immedesimasse nel personaggio della tragedia perché di certo deve aver desiderato di cancellare il padre dalla loro vita, avendo per la madre un amore sacro, scevro da pensieri immediatamente incestuosi, che espliciterà nella poesia “Supplica a mia madre”.

È difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame

d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile….

Scrive un film, come anche sarà “Medea”, più visivo che parlato, asciugando al massimo i dialoghi, che nella tragedia teatrale sono tutto, e inserendo qua e là dei cartelli da cinema muto con importanti battute che così divengono come una sorta di titolo della scena che segue: una visione assai personalizzata della tragedia che se da un lato riporta il linguaggio cinematografico agli albori, quando essendo muto è ancora fotografia in movimento – dall’altro piega e asserve il racconto alle sue necessità, che sono: critica alla borghesia e santificazione del proletariato in prima istanza, e poi necessità di adattare la narrazione al cast che intende impiegare, e qui sta la debolezza del suo gusto artistico che sottende la sua personalissima passione per i proletari; aveva dichiarato che solo i sottoproletari possono rappresentare se stessi, e prendendo per buona l’istanza – anche non necessariamente condividendola – la tradisce clamorosamente chiamando Franco Citti a impersonare Edipo. È vero che nella sua calligrafia cinematografica lui ricolloca i personaggi nel suo schema forzatamente dualistico: i proletari e i borghesi, facendo degli uni e degli altri delle emanazioni sociali di quel mondo moderno cui lui appartiene ma che di certo non appartengono al mondo antico da cui quei personaggi provengono: una forzatura che diviene il suo stile; con la nevrotica complicazione, quasi schizofrenica, che lui è un borghese, appassionato di proletariato, che vede nel suo mondo di origine il male assoluto mentre nei semplici, che osserva e che studia e che cerca di imitare perché ama, vede la purezza, il bene supremo: una sorta di personalissima Arcadia intrisa dell’affascinante brutalità e della beata ignoranza dei suoi “Ragazzi di vita”.

Su questa sua linea narrativa assegna il personaggio dell’eroe tragico a un non-attore che s’è inventato lui, che se poteva andar bene come “Accattone” in questo ruolo è decisamente fuori parte: perché se solo un proletario può rappresentare se stesso, secondo quale giudizio un proletario può rappresentare un personaggio classicamente tragico fin lì interpretato a teatro solo da attori di rango? Pasolini fa di Edipo un altro accattone: benché figlio legittimo dei regnanti di Tebe, Laio e Giocasta, e cresciuto a Corinto da altri due regnanti, Polibo e Merope, questo Edipo resta rozzo come rozzo è l’interprete, e l’autore lo colloca nelle periferie archetipe in cui ben trasfigura le baraccopoli e i pratoni fuori Roma dei suoi primi film; ma si fa fatica a credere che questo Edipo col volto di Franco Citti possa pronunciare, o anche solo pensare, parole come responso o costruzioni verbali come se io avessi immaginato, e anche se doppiato da Paolo Ferrari questo linguaggio alto resta assai poco credibile ritagliato sull’interprete, perché gli è alieno tanto quanto l’intera tragedia nella quale mima una disperazione visibilmente appiccicata dalla mimica suggerita dall’autore: mani sul volto a nascondere espressioni disperate che Franco Citti non ha – ma che poi, e onestamente va riconosciuto, recupera nel finale dove si dispera e suda vero sudore proletario nel comprendere l’orrore del personaggio, personaggio che con orrore comprende la sua tragedia; ma data l’evidente inadeguatezza dell’interprete, laddove Edipo fa discorsi un po’ più lunghi, come quando regalmente si rivolge al popolo con parole assai forbite, Pasolini lo filma in campo lunghissimo alternandogli i primi piani muti e, essi sì assai espressivi, di Giocasta che chiusa in casa lo ascolta, interpretata da una davvero regale e levigatissima – sembra quasi una pittura di Tamara di Lempicka – Silvana Mangano che illumina il film con la sua sola presenza.

Silvana Mangano, che meriterebbe una chiacchierata a parte, all’epoca di questo film è già 37enne e vanta una lunga variegata carriera anche con incursioni internazionali; è moglie del produttore Dino De Laurentiis e in questo periodo esprime disagi professionali e personali; già dal decennio precedente ha via via abbandonato i ruoli basati sulla sua statuaria fisicità per la quale ha cominciato a provare un certo dichiarato imbarazzo, forse anche consapevole del fatto che nel cinema si stava imponendo la nuova diva, benché più giovane di lei di soli quattro anni, Sophia Loren; così cerca ruoli diversi nel cinema cosiddetto d’autore, e in quel 1967 lavora per la prima volta con Pasolini e Luchino Visconti nel film a episodi “Le streghe” firmato dai due insieme a Vittorio De Sica e Franco Rossi e costruito dal marito su di lei che è protagonista di tutti gli episodi; per Pasolini sarà subito dopo Giocasta in questo “Edipo Re” e poi di nuovo ancora nell’inedito ruolo, per lei, di una madre borghese frustrata in “Teorema”; mentre per Visconti dipingerà ritratti esemplari in “Morte a Venezia” “Ludwig” e “Gruppo di famiglia in un interno”. Sul piano personale si sente insoddisfatta, soffre di una grave insonnia, e forse teme di essere anche intrappolata, o probabilmente non abbastanza presente, nel ruolo di moglie e madre; e a più riprese ha pensato di abbandonare la recitazione.

Come Laio l’autore fa debuttare il bel 21enne Luciano Bartoli dallo sguardo acuto e tagliente che nell’antefatto del film, vestito da militare come il padre dell’autore, guarda il figlio neonato con un distacco e una durezza agghiaccianti mentre la didascalia del cartello da film muto recita: “Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tutto quello che ho. La prima cosa che mi ruberai sarà lei, la donna che io amo. Anzi già mi rubi il suo amore.” E se il giovane debuttante regge bene il primo piano non si può però non notare la troppa differenza di età con la diva che interpreta sua moglie. Dopo questo debutto Bartoli prosegue con una carriera fatta di secondi ruoli nei poliziotteschi con interessanti incursioni anche nel cinema internazionale e nelle produzioni tv.

Antefatto dunque, o prologo, cui segue un epilogo alla fine del film, entrambi ambientati nelle epoche di Pasolini: gli anni ’20 della sua nascita e gli anni ’60 della sua maturità che sono gli stessi anni in cui si gira il film. Nel prologo racconta la nascita borghese di Edipo, che il padre affida a un servo perché se ne disfaccia, e col viaggio del servo comincia il pellegrinaggio nelle terre di nessuno, le distese desolate del Marocco come Grecia antica in cui si sposta l’azione. Nell’epilogo, l’Edipo consapevole della sua tragedia, accecatosi, come un mendicante vaga dal sagrato di una chiesa a una zona industriale, luoghi del benessere e dell’ipocrisia borghese che Pasolini mantiene nel mirino, ed è accompagnato da Angelo che nella tragedia era Ànghelos, una specie di servo tuttofare, un po’ messaggero un po’ angelo custode, affidato al più convincente Ninetto Davoli che recita con la sua voce, giocoso e palpitante insieme, mentre tutti gli altri proletari del film Pasolini li fa doppiare con accenti regionali, per ribadire la loro provenienza sociale. Nel mezzo si svolge la narrazione della tragedia, affidata a sequenze mute e narrazioni scritte, con un lungo peregrinare, anche noioso c’è da dire perché si perde il senso del racconto, di Edipo in cerca di una verità che lo spingerà verso il suo dolente destino: uccidere accidentalmente suo padre e sposare inconsapevolmente sua madre, vittima di un disegno perverso degli dèi.

E in questa sua rilettura socio-antropologica della tragedia di Sofocle, Pasolini risolve l’importante passaggio dell’incontro con la Sfinge in un paio di frettolose battute: perché nella sua visione, direi ansia, di fare indagine sociale, l’incontro col misterico, così come per lui ateo è il rapporto con la religione, non ha significanza e dunque butta via tutto, l’acqua sporca insieme al bambino, come si dice; e paradossalmente, anzi forse proprio a sberleffo, recita lui stesso il ruolo di un gran sacerdote.

Ancora una volta affida all’amico scrittore Francesco Leonetti un ruolo significativo e qui interpreta il servo che Laio ha incaricato sbarazzarsi del neonato. Al padre di Ninetto, Giandomenico Davoli fa recitare il sostanzioso ruolo del pastore che salva il bambino. Per gli altri tre ruoli significativi chiama tre grandi, ognuno a suo modo: Alida Valli che qui è la regina madre adottiva Merope, nella vita è stata una diva di sfolgorante bellezza, dote che la accomuna alla Mangano, ma che già 46enne è in un periodo in cui si sta reinventando dandosi al teatro e a ruoli assai diversificati, percorso nel quale la più giovane Silvana Mangano la seguirà.

Il divo del teatro di sperimentazione Carmelo Bene è anch’egli al suo debutto come attore di cinema, un genere espressivo dove fra regie proprie e provocazioni continuerà a far clamorosamente parlare di sé, ma in definitiva il cinema per lui resterà una parentesi nella sua vulcanica attività: qui interpreta Creonte, fratello di Giocasta.

L’americano Julian Beck, per gentile concessione del Living Theather, come si legge nei titoli di testa, è invece l’intenso veggente Tiresia: scelte assai interessanti da parte di Pasolini che sperimenta con esponenti del teatro sperimentale che lui ricolloca come quintessenza dell’imborghesimento sociale – alla faccia degli artisti sperimentatori la cui ricerca artistica andrebbe nel suo stesso senso.

Il film è stato in competizione a Venezia per il Leone d’Oro che però è andato a “Bella di giorno” di Luis Buñuel; ai Nastri d’Argento vincono il produttore, lo scenografo Luigi Scaccianoce e vanno senza premio i candidati Danilo Donati per i costumi, Giuseppe Ruzzolini per la miglior fotografia a colori, dato che all’epoca c’era ancora il premio separato per il bianco e nero, e per la regia Pasolini, con il premio che è andato a Elio Petri per “A ciascuno il suo” che porta a casa anche il premio al protagonista Gian Maria Volonté, mentre – curiosità – il premio alla protagonista non è stato assegnato e c’erano candidate solo Sophia Loren per “C’era una volta” di Francesco Rosi e Monica Vitti per “Ti ho sposato per allegria” di Luciano Salce: le due signore, rivali a distanza, devono esserci rimaste assai male!

Produce per l’ultima volta Alfredo Bini, il quale se da un lato come produttore dei difficili film pasoliniani è stato premiato, dall’altro gli si sono prosciugati i conti bancari dato che quei film non hanno mai avuto successo commerciale. Bini aveva fatto debuttare lo scomodo autore con “Accattone” e l’intesa fu subito perfetta dato che Pasolini, digiuno di tecniche cinematografiche, accoglie tutti i consigli del produttore che dichiarerà: “È proprio dal conflitto tra il regista e il produttore che nasce la professionalità, perché un fiume che non ha nessun argine non è più navigabile, porta solo distruzione.” Per Bini questo “Edipo Re” è l’opera più riuscita di Pier Paolo e i progetti che seguiranno, “Teorema” e “Porcile”, non lo entusiasmeranno, tanto che dirà: “I film di Pasolini sono capaci di parlare tra le lingue del mondo. Io l’ho abbandonato quando ho cominciato a sentire odore di morte. Ma anche: “Io e Pasolini subimmo una lunga sequenza di carognate. La reazione alle nostre opere fu durissima, e mi investì personalmente. Pasolini aveva in sé un valore artistico oggettivo: era l’uomo che più irritava il quieto stagno italiano nel pieno del boom economico. La sua opera era la spia e insieme l’analisi di un momento preciso che stava cambiando la nostra società, il momento in cui le generazioni che erano uscite dalla guerra si avviavano verso una società consumistica che confondeva sviluppo e progresso. A cambiare totalmente erano le nostre stesse radici: il fatto di mettere in modo inequivocabile la società italiana di fronte a questo cambiamento, e forse anche a un suo tradimento, non poteva essere accettato. Non era accettabile che un marxista, pederasta e dunque già esecrabile, facesse la morale a tutti.