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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

Comandante

Edoardo De Angelis è un regista napoletano, anzi un autore, da tenere d’occhio; e la napoletanità non è solo una nota biografica ma lo specifico della sua cinematografia. In una decina d’anni ha realizzato cinque film in una parabola crescente sia dal punto di vista dell’impatto su critica e pubblico che su quello prettamente stilistico. Si è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 2006 con il cortometraggio “Mistero e passione di Gino Pacino” dove racconta in napoletano stretto la storia surreale di un uomo che sogna di fare l’amore con Santa Lucia e che per il senso di colpa perde la vista: parabola tragica e grottesca; cortometraggio che va a finire in Serbia al “Küstendorf Film and Music Festival” dove, vincendo il premio della critica, incontra Emir Kusturica che lo supporterà nella realizzazione del primo lungometraggio, co-producendone nel 2011 l’opera prima “Mozzarella Stories”, Luca Zingaretti fra gli altri, una storia altrettanto grottesca e visionaria che continua a muoversi nell’ambiente partenopeo raccontando però una storia originalissima, che all’epoca pochi hanno visto ma che non passa inosservata alla critica; Francesco Alberoni scrisse sul “Corriere della Sera”: “Gli artisti spesso intuiscono il senso dei tempi. Lo ha fatto Edoardo De Angelis nel suo bellissimo e divertente film”. Un film che oggi varrebbe la pena recuperare.

Il talentuoso autore non perde tempo e con l’amico Pierpaolo Verga fonda la casa di produzioni “O’Groove” con la quale realizza nel 2014 il noir napoletano “Perez.”, Zingaretti protagonista, film col quale arrivano i primi riconoscimenti importanti: ai Nastri d’Argento viene candidato per il miglior soggetto e si aggiudica due premi, a Zingaretti va il Premio Hamilton Behind the Camera e a Simona Tabasco nel ruolo di sua figlia il Premio Guglielmo Biraghi; oltre al Globo d’Oro sempre al protagonista.

Nel 2016 dirige un episodio dei tre del collettivo “Vieni a vivere a Napoli” e l’intenso, tragico e doloroso, “Indivisibili”, che nella storia di due gemelle siamesi ritrova uno sprazzo di grottesco, ma ancora più amaro e feroce: le due gemelle si esibiscono come cantanti “fenomeno” nelle feste di paese, sfruttate dalla famiglia in un ambiente di squallida periferia partenopea, e arriva una caterva di altri riconoscimenti fra candidature, su cui sorvolo, e premi ricevuti: 6 David di Donatello, 6 Nastri d’Argento, 6 Ciak d’Oro, un Globo d’Oro, 4 premi minori al Festival di Venezia e altri 3 al Bari International Film Festival. Il 2018 è l’anno di un altro film di storie dolorose e di solitudini ancora ai margini del capoluogo campano, “Il vizio della speranza” e sono altri riconoscimenti fra cui finalmente quello al miglior regista, ma lontano, al Tokyo International Film Festival, che non è poco. Nel 2020 si dedica al teatro con una “Tosca” per il teatro San Carlo di Napoli, e la televisione realizzando per la Rai il primo di una trilogia delle commedie “in famiglia” di Eduardo De Filippo: “Natale in casa Cupiello” cui seguiranno “Non ti pago” e “Sabato, Domenica e Lunedì”. Il biennio 2021-22 lo dedica alla serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti” dal romanzo di Elena Ferrante.

E si arriva a questo “Comandante” con un triplo salto mortale: è il primo film che De Angelis gira lontano da Napoli, è il primo film italiano moderno ambientato in un sottomarino (c’è un precedente del 1955 che diremo) ed è il suo primo con un budget da film internazionale: 14 milioni e mezzo di euro con il pieno sostegno della Marina Militare che ha aperto alla produzione i suoi archivi con i diari di bordo di Salvatore Todaro, il personaggio protagonista interpretato da Pierfrancesco Favino sempre più a suo agio nel riprodurre le cadenze e i dialetti dei personaggi biografici che sempre più spesso interpreta. Alla sua uscita nell’autunno 2023 il film ha incassato poco più di 3 milioni restando assai lontano dal suo costo ma c’è ancora da rifarsi con i diritti tv – al momento è su Paramount+ – con lo streaming, i DVD, il mercato estero su cui non è ancora uscito e il probabile ritorno di fiamma nel pubblico di casa nostra dopo gli eventuali auspicabili premi nostrani.

il vero Salvatore Todaro

Pur iscrivendosi di diritto nel genere bellico, e nel sottogenere sottomarini, il film è crepuscolare, intellettuale, poetico. De Angelis continua la sua ricerca sui personaggi a disagio nel loro contesto, e con lo scrittore Sandro Veronesi che debutta come sceneggiatore, scrive un film con dialoghi e monologhi che hanno una cadenza da tragedia classica dove al protagonista si contrappone un coro, con momenti surreali, come quando tutti, comandante in testa, marciano cantando e ritmando “Parlami d’amore Mariù” come dedica d’amore alle donne che avevano lasciato a casa, e dedicata dal compositore Nino Bixio alla propria moglie, su testo di Ennio Neri per il film “Gli uomini, che mascalzoni…” diretto da Mario Camerini nel 1932 e per la voce del 30enne Vittorio De Sica; la canzone ebbe così tanto successo da divenire per tutti gli italiani un inno all’amore che successivamente fu cantata dai più grandi, anche della lirica.

Coraggiosi momenti surreali, nel film, e grotteschi persino, che si integrano perfettamente nella narrazione riuscendo a coinvolgere ed emozionare, perché il linguaggio alto e ricercato, poetico, da tragedia classica appunto, si sporca dei tanti dialetti che il sommergibile contiene nella sua varia umanità, così sintetizzato dal personaggio del comandante: “Questa è l’Italia unita. Arriva qui un livornese, un siciliano… sono più che stranieri, sono abitanti di due pianeti diversi, e lontani per lingua, cultura, temperamento… eppure proprio il crogiolo di tutti i dialetti, i piccoli manufatti e le grandi opere dell’ingegno, e le ottuse credenze pagane, la rivoluzione egualitaria del cristianesimo e le vecchie reliquie – si sono fusi… è il nostro tesoro. Proprio questo bordello, meraviglioso, e putrido, è l’Italia”: è un’altissima scrittura cinematografica che riesce a mettere insieme ispirazione letteraria e lingua parlata, con monologhi che potrebbero anche diventare repertorio da provino per attori e attrici – perché in un film necessariamente tutto al maschile non mancano le figure femminili: le brevi scene come cartoline ricordo della moglie del comandante, interpretata da Silvia D’Amico, e il monologo della donna che sul pontile guarda partire i marinai, monologo che è valso alla sua interprete Cecilia Bertozzi il Premio David Rivelazioni – Italian Rising Stars, un monologo recitato con voce fuori campo, come un pensiero, e che comincia: “Questo vento, io lo so dove li soffia tutti questi ragazzi, li soffia a morire…” giusto per dare qui il sapore del lirismo della scrittura di De Angelis e Veronesi, che dopo aver concluso il film hanno novellizzato la sceneggiatura per Bompiani.

Immagino che per questa sua scrittura che guarda dentro i cuori e le menti piuttosto che mostrare muscoli, il film potrà piacere più in Europa, e in Giappone dove l’autore è già stato premiato, che in quegli Stati Uniti che tanti film hanno dedicato ai sottomarini. Detto questo il film non manca di pathos e di tensione narrativa in un equilibrio assolutamente magistrale che esplora il limite fra la cieca obbedienza militaresca e la lungimirante pietas umana, con i tanti momenti riflessivi che si alternano a quelli d’azione e tensione: un gran film che secondo me non è stato compreso a fondo. Era in concorso al Festival di Venezia, anche come film d’apertura sostituendo il già programmato “Challengers” – il film americano di Luca Guadagnino la cui uscita è stata posticipata dalla Metro-Goldwyn-Mayer a causa dello sciopero degli attori – ma lì non ha ricevuto nessun premio, neanche minore; ricordiamo che il Leone d’Oro è andato a “Povere Creature” di Yorgos Lanthimos, mentre due Leoni d’Argento sono andati al giapponese Ryūsuke Hamaguchi per “Il male non esiste” e al nostro Matteo Garrone per “Io capitano” che si è aggiudicato anche il Premio Marcello Mastroianni per il debuttante senegalese Seydou Sarr, film che è anche candidato negli Stati Uniti come miglior straniero al Golden Globe e all’Oscar. Film che non ho ancora avuto l’opportunità di vedere. In ogni caso, da quello che leggo, troppa roba con cui confrontarsi, ma io resto un fan di questo film al quale auspico di rivalersi nei prossimi premi nazionali.

Il regista col protagonista

Riguardo ad alcune critiche sul web ne trovo un paio a firma femminile che ideologicamente, e per partito preso, accusano il film d’essere “testosteronico” e ironizzano sulle poche figure femminile come “prefiche”, senza minimamente aver compreso il film sul piano artistico e cinematografico: l’ideologia acceca ed è sciocco volere immaginare, e fin anche pretendere, figure femminili più importanti in una storia che non ne contiene: è come quel politically correct che pretende di rivedere storie e personaggi che appartengono a un’epoca in cui il politically correct non esisteva.

il Cappellini originale

Gran lavoro per lo scenografo Carmine Guarino, concittadino e collaboratore di De Angelis fin dal di lui debutto. Ha ricreato una copia a grandezza naturale del sommergibile Comandante Cappellini il cui nome completo era “Comandante Cappellini – Aquila III – U. IT. 24 – I. 503”. Tranne qualche rara immagine dello scafo non esistono fotografie dell’interno, che è stato costruito nel parco divertimenti Cinecittà World utilizzando come materiale di partenza la replica di un U-Boot costruita per il film statunitense del 2000 “U-571” diretto da Jonathan Mostow, mentre lo scafo esterno è stato costruito col supporto della Marina Militare e di Fincantieri nel bacino navale dell’Arsenale Militare di Taranto, nel cui mare ha poi navigato come una scatola vuota per le riprese esterne. Le riprese subacquee si sono svolte nel Mare del Nord al largo del Belgio da cui provengono alcuni dei personaggi e degli interpreti del film. Mentre gli effetti visivi, che hanno preso il 10% del budget, sono stati curati dall’americano Kevin Tod Haug, fedele collaboratore di David Fincher: un titolo su tutti “Fight Club”, 1999. La curiosità è che il Cappellini è comparso, sempre in copia più o meno conforme, nel 1954 nel film “La grande speranza” di Duilio Coletti; nel film tv anglo-tedesco “L’affondamento del Laconia”, un transatlantico inglese convertito al trasporto di truppe e prigionieri che fu affondato dai tedeschi nel 1942, con il Cappellini che fra altri soccorse i naufraghi; c’è poi un altro film tv del 2022 giapponese “Sensuikan Cappellini-go no boken” che però parte da un aneddoto per raccontare una storia di fantasia. E anche il film di De Angelis, come tanti altri film storici, è incorso in qualche errore o anacronismo: viene usato l’Inno dei Sommergibilisti che però fu creato un anno dopo la vicenda narrata.

Per comporre il cast l’autore partenopeo affida ai suoi fedeli i ruoli principali: il napoletano Massimiliano Rossi, fin qui sentito recitare solo in napoletano più o meno stretto, e col regista fin da “Mozzarella Stories”, è il comandante in seconda e intimo amico del protagonista col quale comunica – primizia assoluta – in dialetto veneto; e ricordiamo che il comandante Todaro era per nascita messinese ma trasferito a Chioggia con la famiglia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale; Gianluca Di Gennaro, nipote del cantante Nunzio Gallo, che ha cominciato a recitare da bambino vent’anni fa, qui alla sua prima collaborazione con De Angelis nel ruolo del marinaio Vincenzo Stumpo che dà la vita per salvare l’intero equipaggio, con un altro bellissimo monologo interiore mentre sott’acqua disincaglia il sommergibile da una mina inesplosa: “Andate voi, andate… tanto io sono morto… e che me ne fotte a me?” si conclude il suo monologo. A un altro giovane napoletano, Giuseppe Brunetti, va il ruolo del cuoco di bordo Gigino il Magnifico, già con De Angelis nel televisivo Rai “Natale in casa Cupiello” e anche nella serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti”, della cui scrittrice Elena Ferrante è stato anche nel cast della terza stagione della serie Rai “L’amica geniale” creata da Saverio Costanzo. I naufraghi belgi che il Comandante accoglie nel sommergibile sono interpretati da Johannes Wirix, che avendo studiato recitazione presso l’Accademia Silvio D’amico a Roma nell’ambito del Progetto Erasmus, recita anche in italiano e nel film fa da traduttore; Johan Heldenbergh interpreta il suo capitano e Lucas Tavernier è il marinaio belga infame, per usare un termine partenopeo.

Completano il cast Arturo Muselli, noto al pubblico televisivo per il suo ruolo nella serie Sky “Gomorra”; l’ex bambino Giorgio Cantarini che a 5 anni ha esordito come figlio di Roberto Benigni nel film premio Oscar “La vita è bella” aggiudicandosi come primo italiano, e come più giovane, il premio Young Artist Award scherzosamente detto Kiddie Oscar, e che tre anni dopo fu anche in un altro film da Oscar come figlio di Russell Crowe in “Il Gladiatore” di Ridley Scott, e oggi ventenne sta cercando una nuova collocazione artistica; per la rappresentanza siciliana c’è Giuseppe Lo Piccolo che abbiamo visto nell’opera prima di Giuseppe Fiorello “Stranizza d’amuri”. In un cameo l’87enne Paolo Bonacelli.

“Comandante”, titolo assoluto impegnativo ed esplicativo, è anche titolo di altri due film: il documentario del 2003 di Oliver Stone su Fidel Castro, e con l’articolo il fu un film con Totò del 1963. Questo di Edoardo De Angelis, oltre che a mio avviso bello, è anche importante in quanto film bellico biografico, e anche necessario, per conservare la memoria della storia e dei fatti, complessi e schizofrenici, che ci hanno condotto fin qui, a oggi. Dove noi siamo culturalmente più schizofrenici che complessi.

Stranizza d’amuri – opera prima di Giuseppe Fiorello

Lo dico subito e senza indugi: non ho mai amato Beppe Fiorello, ma per onestà devo dire che il suo debutto come regista mi ha più che convinto. Considero altri, gli attori, e senza andare all’estero o scomodare la vecchia guardia o addirittura i morti, mi basta citare Elio Germano, Pierfrancesco Favino, Alessandro Gassmann, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria… di certo ne dimentico qualcuno e certamente ne tralascio qualcun altro, i gusti sono gusti. Beppe Fiorello appartiene a quella categoria di attori che non hanno fatto scuole o seri apprendistati e ha solo avuto ottime frequentazioni ed eccellenti opportunità, dunque fortuna. In questo senso uno che si è inventato dal nulla ma che è cresciuto bene come attore è Valerio Mastandrea. Beppe da ragazzo faceva da tecnico nei villaggi turistici al fratello maggiore Rosario che era lo sfacciato simpatico intrattenitore e che tale è intelligentemente e prudentemente rimasto, sviluppando un personaggio arguto e incisivo; di certo a Rosario Fiorello non saranno mancate le occasione e le succulente offerte per farsi attore ma evidentemente è ben conscio dell’ambito in cui riesce meglio.

Fiorellino, è questo l’ambiguo nomignolo che si è scelto per debuttare ai microfoni di Radio Deejay, e subito a seguire debutta anche in tv sostituendo il fratello alla conduzione del programma “Karaoke” che importò da noi l’orrida esperienza d’intrattenimento sociale che da lì è dilagata anche nei bar e nei ristoranti, e che come “La corrida” ha riempito il piccolo schermo di dilettanti allo sbaraglio, aprendo un terribile Vaso di Pandora. Da buon dilettante allo sbaraglio co’ bullu (col bollo statale, patentato) – e qui sto facendo un richiamo al film dove il ragazzo gay è apostrofato puppu co’ bullo – Fiorellino portò allo sbaraglio il programma che chiuse i battenti. Ma ormai il ragazzo aveva assaggiato le lusinghe della facile fama costruita sul nulla e tentò la carriera musicale come frontman del gruppo pop Patti Chiari che nel 1997 si esibirono al Festibalbar per poi essere subito dimenticati, anche dal web che conserva tutto. Ma il seme del Fiorello attore era già stato seminato l’anno prima: Niccolò Ammaniti ce l’ha sulla coscienza. Si erano conosciuti a Riccione e lo scrittore gli propose di sottoporsi a un provino con Marco Risi che stava preparando il film “L’ultimo capodanno” dal suo libro “L’ultimo capodanno dell’umanità”, film che fu un fiasco, ma l’eroico Beppe aveva trovato la cornice adatta alla sua arte informale.

Fra gli attori teatrali di vecchia scuola si racconta questa parabola: C’era un ragazzo che non sapeva fare nulla ma era ricco di sogni di gloria; in tv vede i trionfi del pugile Nino Benvenuti e decide di farsi pugile ma dopo aver preso i primi pugni decide che non fa per lui. Poi vede i successi del motociclista Giacomo Agostini e decide di darsi al motociclismo ma cade malamente e si frattura varie ossa, e di nuovo decide che non fa per lui. Poi qualcuno lo porta a teatro e lì resta estasiato dagli scroscianti applausi con cui il pubblico omaggia gli attori e allora decide di diventare attore. Anche quel mestiere non fa per lui ma nel bene e nel male il pubblico applaude sempre e oggi quel ragazzo fa ancora l’attore.

Giuseppe Fiorello passa dal grande al piccolo schermo con “Ultimo – il capitano che arrestò Totò Riina” che aveva nel ruolo di protagonista un altro infiltrato nella recitazione, Raul Bova, che però di suo aveva un’indiscutibile avvenenza. L’anno dopo si e ci concede un cameo, nell’hollywoodiano girato in Italia “Il Talento di Mr. Ripley” di Anthony Minghella dove compare fra gli altri italiani anche il fratello Rosario. A quel punto non lo ferma più nessuno e si darà anche al teatro ma sulla sua pagina Wikipedia alla voce “Premi e Riconoscimenti”… no pardon, non c’è questa sezione sulla sua pagina.

Però il regista di oggi gli cresceva dentro. Nel 2007 dirige il video musicale della siciliana Silvia Salemi “Il mutevole abitante del mio solito involucro” e nel 2010 fonda la sua casa di produzione “Ibla Film” mentre Rosario fonda “R.O.S.A.” e insieme producono per i 150 anni dell’unità d’Italia il cortometraggio “Domani” dove fa recitare i suoi figli Anita e Nicola. Si fa dunque produttore e anche sceneggiatore dei progetti in cui recita e a quel punto arriva lo speciale tv autocelebrativo “Il racconto di Beppe Fiorello” firmato dal Vincenzo Mollica per Rai1: l’ego, si sa, va nutrito, e lui a 44 anni ha molto da raccontare di sé e della vita.

Nel 2016, Beppe con la sua casa di produzione opziona i diritti del romanzo del romano Valerio La Martire “Stranizza” che dopo essere uscito nel 2013 edito da “Bakemono Lab.” riceve il patrocinio di Amnesty International per essere rieditato da “David and Matthaus”, dunque sono passati sette anni perché il film prendesse forma, sette anni assai ben spesi. Il romanzo si ispira a una vicenda realmente accaduta nel 1980 nota alle cronache come delitto di Giarre, in provincia di Catania, un duplice delitto di matrice omofoba: le vittime erano Giorgio 25enne dichiaratamente gay e già vittima di bullismo omofobo e Antonio il suo ragazzo 15enne, entrambi uccisi con un colpo di pistola alla testa e ritrovati ancora mano nella mano, che è l’immagine idilliaca sulla quale si chiude il film.

Oggi la vicenda più che per l’amore omosessuale sarebbe stigmatizzata per l’età dei due e si parlerebbe di pedofilia ma quarant’anni fa il crimine era l’omosessualità, in una terra e in un’epoca in cui peraltro erano ancora normali le fuitine con le spose-bambine, quelle che oggi condanniamo in altre culture. L’esecutore del duplice omicidio non fu mai legalmente individuato anche se le indagini condussero al nipote 12enne quasi coetaneo di Antonio, che sarebbe stato incaricato dalle famiglie di compiere il delitto d’onore; interrogato dai carabinieri il bambino, cicciottello e sempliciotto, le cronache diranno che era un po’ ritardato, sostenne che invece erano stati i due innamorati a chiedergli di essere uccisi per l’impossibilità di vivere apertamente la loro relazione, salvo poi ritrattare adducendo che era stato costretto a suon di ceffoni dai carabinieri a dare quella confessione; di fatto non fu mai perseguito per la sua giovane età. Giornalisti e televisioni si affollarono a Giarre da tutta Italia scontrandosi però con l’omertà della comunità locale che non voleva essere associata a una storia di puppi, mentre l’intera opinione pubblica italiana cominciò a fare i conti col problema della discriminazione omofoba, termine che all’epoca neanche esisteva. Il Corriere della Sera titolò: “Derisi da tutto il paese due omosessuali siciliani si fanno uccidere da un ragazzo di 12 anni abbracciati” che è un po’ quello che fecero tutti i quotidiani italiani. Immediatamente il “F.U.O.R.I!”, Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario italiano attivo da Roma in su sin dagli anni ’70 che con quel punto esclamativo fa dell’acronimo una parola di senso compiuto che si associa all’inglese coming out, apre una sede in loco per far sentire la loro voce sul territorio, ma serve a poco: passata l’emergenza i giornalisti se ne vanno e la pace ritorna in provincia.

Marco Bisceglia

Ma se la stampa si distrae così non è per gli omosessuali militanti: dall’altro lato dell’Isola, a Palermo, c’era un prete dichiaratamente omosessuale e sostenitore dei diritti per le persone omo-affettive, Marco Bisceglia; egli era incorso nella sospensione a divinis per essere caduto nella trappola tesagli da due giornalisti del settimanale di destra “Il Borghese”, che fingendosi due cattolici omosessuali gli si rivolsero chiedendogli un “matrimonio di coscienza”; il prete, già sotto i riflettori della Chiesa per le sue posizioni non ortodosse, era divenuto assai cauto nelle manifestazioni pubbliche e acconsentì a una benedizione privata; venne fuori la cronaca dei due solerti giornalisti che nel loro brillante articolo misero insieme le parole “omosessuale” e “ripugnante” e lo scandalo fu servito; Bisceglia li querelò ma i due furono assolti in virtù del diritto di cronaca. Sospeso dal servizio attivo ma ancora religioso e combattente, cominciò a collaborare con l’ARCI, Associazione Ricreativa e Culturale Italiana, fondata nel 1957 a Firenze con l’intento di creare sul territorio, in quel dopoguerra della ricostruzione, dei circoli o case del popolo, di fede comunista e socialista, dunque antigovernativa. Il prete, con la collaborazione del 22enne Nichi Vendola, fondò l’ARCIGAY, la prima sezione dell’ARCI dedicata esclusivamente alla cultura omosessuale, che da Palermo si diffonderà prestissimo in tutta Italia. Anche le femministe lesbiche diedero vita al primo collettivo lesbico siciliano, “Le Papesse”. Per concludere la vicenda di Marco Bisceglia: negli ultimi anni si ammalò di AIDS e, allontanatosi dalle barricate della cultura progressista e omosessuale, fu reintegrato nelle funzioni presbiteriali dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e nominato Vicario Coadiutore della Parrocchia di San Cleto a Roma, dove morì nel 2001. Di lui resta, come messaggio laico, la sua rivoluzione per la rivalutazione del corpo, per la liberazione della vita sessuale di ciascuno dalle catene di una morale sessuofobica, colpevolizzante, repressiva, causa di tanta infelicità, che non contraddice la portata positiva del Cristianesimo: il senso del “sacro”, il senso dell’amore. Sacro tra virgolette, a significare dignità, nobiltà, rispetto.

Giuseppe Fiorello con Samuele Segreto.

Digressione dal film molto ampia e particolareggiata, come sempre del resto in questo blog, perché parlando di cinema mi piace contestualizzare i fatti e le persone per una lettura più sociale e umana che strettamente critica. Giuseppe Fiorello realizzando il suo primo film vola alto, come già da attore e produttore dei suoi progetti cine-televisivi aveva mostrato di prediligere un certo impegno, politico e morale. La storia che racconta il film non è la storia vera, ma solo una riuscitissima ispirazione. Così come il romanzo si prendeva delle libertà narrative rispetto alla vicenda reale, altrettanto Giuseppe Fiorello, con i suoi co-sceneggiatori Andrea Cedrola e Carlo Salsa, sviluppa una storia più personale così densa di dettagli e portatrice di emozioni così sincere da sembrare autobiografica, e sappiamo che non lo è; Beppe all’epoca del delitto di Giarre era un undicenne presumibilmente senza dubbi sulla sua identità sessuale, solo di un anno più piccolo del bambino accusato del duplice omicidio, e lui è venuto a conoscenza della vicenda solo in anni recenti, leggendo un articolo di cronaca che parlava del trentennale del delitto e che lo colpì moltissimo, e in quanto siciliano si è sentito co-responsabile del fattaccio e non lo ha più dimenticato, fino ad acquisire i diritti del romanzo che poi romanza e, come dice lui stesso: “Non si è mai scoperta la verità e allora mi sono affidato alla mia immaginazione. Ho immaginato un’estate di due ragazzi che si incontrano e fanno un percorso di vita insieme.”

Gabriele Pizzurro e Samuele Segreto

Colloca la vicenda nel 1982 dei mondiali di calcio, anno calcisticamente vittorioso per l’Italia che utilmente fa da sfondo a molti film che raccontano quegli anni, dando spessore a vicende umane e tensioni narrative; conoscendo bene i luoghi della sua giovinezza compone nel suo film una geografia fantastica che mettendo insieme diversi luoghi reali diventa narrativamente irreale, magica: si tiene lontano da Giarre per non turbare animi ancora dolenti, come ha spiegato, e mette insieme differenti periferie semi-rurali e paesini dove il folclore gioioso fa da contraltare a lavori duri e pericolosi: la cava di pietre e i fuochi d’artificio, con l’impressione sempre sospesa che qualcosa di brutto accadrà in quei luoghi e con quei lavori, ma nulla accade e la vita scorre tranquilla pur nei disagi interiori che non hanno voce. Se qualcosa di brutto deve accadere verrà fuori da quegli animi inquieti.

Gabriele Pizzurro, Simone Raffaele Cordiano e Antonio De Matteo, padre e figli.

E c’è Totò, il fratello piccolo di Nino, intorno al quale il neo-regista tesse una sapientissima tela di sguardi cinematografici che non raccontano nulla di specifico ma che ci insinua sensazioni e dubbi: ammira il fratello maggiore, gli vuole bene? o ne invidioso, e lo odia perché gli ruba attenzioni? e non dimentichiamo che il film si apre con lui che aiutato dallo zio spara a una lepre: il regista segna quel bambino con un battesimo alla polvere da sparo. Così, altrettanto, tutto il film, raccontando la specifica storia di un’amicizia che è anche la scoperta dell’amore adolescenziale, ha sguardi acuti su tutti i personaggi che racconta, scavando nelle loro espressioni, raccontando gesti minimi che hanno il sapore di un antico vissuto e danno spessore e controluce a un film dagli scenari luminosi in cui le ombre si stagliano più nette. Riguardo all’amore adolescenziale omo-affettivo il regista ha dichiarato: “L’adolescenza è quel tratto di vita che trovo divino, in cui ci si ama tra amici pur non essendo omosessuali. Io ho amato il mio amico Carmine, il mio amico Gianni, il mio amico Salvo, il mio amico Emanuele. Ci amavamo, veramente. L’amore adolescenziale va al di là di tutti i discorsi politici. Noi siamo veramente arretratissimi rispetto agli adolescenti. I miei figli si chiedono perché, quando si parla di omosessualità in tv, si usa un tono ‘diverso’. Per loro non è così… Anche del mio film hanno detto è una storia di coraggio. Ma è un peccato pensare che per amarsi ci voglia coraggio.”

La scena dello sberleffo omofobo.

Il neoregista non sbaglia neanche il cast, per comporre il quale guarda senza timore anche fuori dalla Sicilia; un cast da cui tiene fuori nomi e volti più o meno noti e ai debuttanti affianca eccellenti professionisti non ancora “bruciati” da troppe presenze cinematografiche: sono tutti bravissimi, quanto effettivamente lui non è mai stato nella sua carriera di attore. Come regista è bravissimo nel farli esprimere tutti in un credibile siciliano, tenendosi lontano dal finto “sicilianese” di tanti film e interpreti che non sanno cosa sia la lingua siciliana; qua e là affiorano accenti palermitani ma nell’insieme il dialetto di questo film è una sorta di lingua franca in assoluta armonia con le ambientazioni altrettanto di confine.

Luca Pizzurro

Gianni è interpretato dal 19enne palermitano Samuele Segreto che a otto anni ha cominciato a studiare danza e 12enne debutta come attore nel film di Pif “In guerra per amore” e da lì in poi alterna la danza e la recitazione fra programmi e serie tv con una partecipazione ad “Amici” di Maria De Filippi; qui è al suo primo ruolo da protagonista. Nino, l’altro coprotagonista, è il coetaneo romano Gabriele Pizzurro, figlio di Luca Pizzurro attore autore e regista che a Roma dirige il Teatro del Torrino dove a tre anni ha avviato il piccolo Gabriele in laboratori di recitazione per bambini: comprendo il desiderio genitoriale di trasmettere ai figli le proprie passioni ma sono più per il libero arbitrio e lasciare che un bambino sviluppi i suoi propri interessi… magari abbiamo perso un fisico nucleare o un eccellente artigiano ma non lo sapremo mai perché è stato plasmato un altro attore; di fatto il bambino a otto anni va in tournée con Alessia Fabiani nel musical “La bella e la bestia” dove interpreta il candelabro Lumière, quindi sempre bambino va avanti a musical e tournée e viene da chiedersi quando abbia trovato il tempo di andare anche a scuola; passa pure da una masterclass di recitazione all’altra fino a questo suo debutto assoluto nel cinema.

Bellissimi i ruoli delle due madri, magistralmente scritti e magistralmente interpretati: la consapevole e dolente Lina, interpretata dall’ericina (da Erice, Trapani) Simona Malato, che abbiamo già visto in “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, e la napoletana Fabrizia Sacchi, già con una lunga carriera di attrice teatrale televisiva e cinematografica, che interpreta Carmela, donna gioiosa che ama riamata, ma che sprofonda in una cupezza furente e feroce.

I ruoli maschili adulti vanno al casertano Antonio De Matteo, intensissimo padre di Nino, recentemente noto per un ruolo nel televisivo “Mare Fuori”; suo fratello, l’affettuoso zio Pietro, è interpretato con dosatissima ambiguità dal palermitano Roberto Salemi, anch’egli con una lunga carriera sui vari media; Franco, il patrigno di Gianni, è interpretato con la giusta ottusa durezza, e insieme ansia, dal palermitano Enrico Roccaforte, attore e regista che ha partecipato a diversi stage internazionali e ha all’attivo diverse serie tv: qui è cinematograficamente nel suo ruolo più di rilievo.

Il piccolo Totò è l’undicenne messinese Simone Raffaele Cordiano che già lo scorso anno aveva debuttato con “I racconti della domenica” di Giovanni Virgilio e ha all’attivo anche una partecipazione nel televisivo “Buongiorno mamma!”. La palermitana Giuditta Vasile interpreta la sorella maggiore e il ragusano Giuseppe Spata interpreta il suo giovane marito che al dolore del giovane cognato ferito dallo scandalo omofobo confida e consiglia un illuminante: “Quello che fai di nascosto lo puoi fare per cent’anni”. Fra gli altri ruoli di rilievo vanno annoverati gli omofobi tormentatori di Gianni: il palermitano Giuseppe Lo Piccolo, che è il più feroce, e il torinese Alessio Simonetti che è il bello capobranco con una segreta passione omoerotica per la vittima. La ragusana Anita Pomario, anche lei vista in “Le sorelle Macaluso”, interpreta la dolente ragazza in vendita davanti al bar. Divertente il personaggio muto dell’americano con tanto di cappello da cowboy e super-stereo in spalla, figura che appartiene alla memoria collettiva di tanti siciliani di provincia, forse vero americano immigrato per amore oppure paesano di ritorno che fa l’americano; è l’ultima interpretazione di Orazio Alba, amico e attore catanese prematuramente e improvvisamente scomparso in concomitanza all’uscita del film.

Nell’insieme un cast di attori per i quali vedrei bene un premio collettivo in qualche festival, e nello specifico il mio cuore batte per Simona Malato e Antonio De Matteo. Prevedo in ogni caso premi e riconoscimenti anche al regista esordiente, ma per Nastri d’Argento e David di Donatello se ne parla il prossimo anno, dato che i primi sono stati già assegnati e dei secondi sono già stati dati i candidati.

Di stranezza in stranezza il titolo del romanzo conduce Beppe al titolo di una canzone, “Stranizza d’amuri” di Franco Battiato, sul quale non è necessario spendere parole; la canzone parla della capacità dell’amore di sopravvivere in qualsiasi contesto, anche il più difficile, e racconta di una coppia di innamorati in mezzo a una guerra ma che, “nonostante l’orrore che li circonda, sentono che il loro sentimento non cede, non muore, rimane puro e stabile”. Beppe racconta che Battiato è stato la colonna sonora della sua giovinezze e va da sé che la canzone diventi la colonna sonora del film che prende il medesimo titolo, e di Battiato c’è anche “Cucuruccucù” a sottolineare il momento gioioso della relazione fra i due ragazzi. Mentre le musiche originali sono del modicano Giovanni Caccamo già collaboratore di Battiato, e del romano Leonardo Milani. E di stranezza in stranezza mi viene da considerare che quest’anno ben due film ne parlano: prima di questa “Stranizza d’amuri” c’è stato “La stranezza” di Roberto Andò a sottolineare il fatto che la stranezza, come sentimento e come modo di essere, appartiene ai siciliani.

Giuseppe Fiorello fra Giovanni Caccamo e Leonardo Milani.

Tornando al duplice delitto del 1980: Il 9 maggio 2022 il Comune di Giarre ha apposto una targa commemorativa dedicata alle due vittime all’ingresso della biblioteca comunale “Domenico Cucinotta”, e mi sono voluto chiedere che fine avesse fatto Francesco Messina, quel bambino cicciottello forse un po’ ritardato che le famiglie hanno mandato a compiere il delitto d’onore: oggi è in carcere per estorsione e ha all’attivo una lunga lista di precedenti penali: quel duplice omicidio ha fatto tre vittime, perché forse il bambino spinto all’omicidio dall’orgoglio omofobo di due famiglie avrebbe potuto avere altre occasioni di vita.