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La zona d’interesse – un Oscar quasi scontato

Quasi scontato perché i membri dell’Academy che votano i vincitori sono da sempre assai sensibili ai tema della Shoah, non a caso nel 1999 hanno premiato con l’Oscar al miglior film straniero “La vita è bella” di Roberto Benigni, dunque arrivano assai riduttive se non inopportune le rozze semplificazioni alla Massimo Ceccherini che nel difendere il “suo” “Io Capitano” in quanto co-sceneggiatore ha detto in tv: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.”

Quelli, non vincono sempre, ma vincono spesso perché nell’industria cinematografica statunitense ci sono stati molti autori fuggiti in passato dalle persecuzioni naziste, che hanno lasciato una grande eredità sia simbolica che effettiva in termini generazionali: gli ebrei vincono spesso perché in quel settore sono tanti. Ma non vincono sempre e basta come esempio su tutti il grande Steven Spielberg che è stato preso in considerazione e premiato solo quando ha affrontato direttamente il tema con “Schlinder’s List” nel 1994 dopo trent’anni di onorata carriera costellata da molti capolavori.

Tornando a parlare di “Io capitano” di Matteo Garrone, il film italiano ha una cosa in comune con questo film vincitore: il punto di vista, un nuovo punto di osservazione. Garrone per raccontare il tema dell’immigrazione si addentra in Africa a filmare i punti di partenza, partendo proprio da racconti reali; Jonathan Glazer per il suo film sceglie di raccontare l’orrore dei campi di concentramento dal punto di vista banalmente umano, e per la sua umana banalità anche orribilmente feroce, dei nazisti: ci fa vedere che erano persone reali, ordinari nella ricerca dello status, della crescita sociale, e delle proprie soddisfazioni personali fatte di piccole lecite cose: la piscinetta su un prato perfettamente falciato, la serra sul retro della graziosa e altrettanto banale villetta, il benessere quotidiano semplificato da uno stuolo di silenziosi servitori, i bei figli da crescere in quella pace idilliaca, quasi arcadica: solo che il tutto si svolge a ridosso del muro del campo di concentramento di Auschwitz e la bella e perfetta famigliola è quella del comandante Rudolf Höß (scritto anche Höss) realmente esistito come creatore del campo e poi condannato e giustiziato nel 1946 come criminale di guerra.

L’inglese Jonthan Glazer, che ha scritto anche la sceneggiatura ispirandosi a un romanzo, ha debuttato nel 2000 con un film che lo ha subito portato alla ribalta, il gansteristico grottesco “Sexy Beast” da cui è nata una serie tv recentemente uscita su Paramount+. Cambia genere e prosegue, continuando a collezionare riconoscimenti, col fantasy-psicologico “Birth – Io sono Sean” e poi col fantascientifico “Under The Skin”, e oggi con questo suo quarto film cambia ancora una volta genere, ma non stile: nel film precedente aveva usato delle telecamere nascoste realizzando una sorta di candid camera, e qui accresce in modo esponenziale lo stratagemma tecnico: col direttore della fotografia, il polacco Łukasz Żal (già due volte candidato all’Oscar per i film di due suoi connazionali che erano sempre nella sezioni miglior straniero) piazza nell’appartamento minuziosamente ricostruito dallo scenografo inglese Chris Oddy più di dieci telecamere comandate da remoto come in una casa del “Grande Fratello”, senza l’invasiva presenza di nessun altro supporto tecnico o umano, utilizzando la luce naturale, di modo che gli attori potessero recitare muovendosi liberamente, anche improvvisando qua e là quando si aveva a che fare coi bambini o il cane, realizzando una serie di campi lunghi o medio lunghi senza alcun movimento di camera o di obiettivo: il risultato del materiale montato è quello di una raggelante casa di bambole dove i personaggi sono seguiti come insetti al microscopio, pochi i piani americani e pochissimi i primi piani. E il racconto filmico è su diversi livelli, come un palcoscenico teatrale diviso in più parti: mentre è centrale l’azione dei personaggi principali, di lato o sullo sfondo si muovono discreti e silenziosi i personaggi secondari che fanno funzionare il ben oliato marchingegno domestico: gli untermenschen, uomini e donne di razza inferiore, le serve cooptate fra le locali ragazze polacche e gli uomini di fatica fra i prigionieri del campo.

Questo studio quasi entomologico della famiglia crea un distacco emotivo sul pubblico, tanto che nessuno dei personaggi risulta simpatico – quando è risaputo che molti personaggi negativi di cinema e teatro diventano beniamini del pubblico: qui il male non è spettacolarizzato e reso accattivante ma semplicemente raccontato attraverso un’analisi distaccata; e se la distanza dai personaggi è raggelante non c’è però distanza dal film, che coinvolge e suscita sorpresa, dolore, indignazione, ansia – perché quei personaggi, com’è nelle intenzioni dell’autore, possono essere chiunque di noi perché noi siamo – noi più la circostanza in cui ci troviamo: la famiglia del comandante Höss si è trovata in quelle circostanze, in parte senza poter scegliere, com’è il caso dei figli, che però da adulti hanno poi difeso la memoria del padre celebrandolo come un eroe morto in guerra avendo compiuto soltanto il proprio dovere: dunque anche i bambini da adulti hanno fatto la loro banale scelta scegliendo di non scegliere.

La scena bucolica che apre il film

Il film comincia a schermo nero per un tempo che sembra interminabile mentre udiamo i rumori di fondo che sentiremo per l’intero film: per Jonathan Glazer anche noi pubblico siamo cavie, da abituare all’esercizio di stile che verrà, ovvero l’ascolto di quello che accade in sottofondo piuttosto che le banali conversazioni in primo piano – e qui il film si aggiudica il suo secondo meritatissimo Oscar per il miglior sonoro: il sound designer Johnnie Burn ha prima stilato un documento di ben 600 pagine in cui ha raccolto gli eventi più rilevanti accaduti nel campo di Auschwitz, insieme alle testimonianze dirette dei soravvissuti e una mappa del campo per meglio determinare le distanze e gli echi dei suoni; a quel punto ha impiegato ancora un anno per costruire una libreria sonora che includeva i suoni di macchinari, dei crematori, delle fornaci, di stivali, di spari e urla di dolore; la sua meticolosità si è spinta al punto da inserire le voci dalle proteste parigine del 2022 per ricreare gli echi delle voci dei francesi che in quel preciso momento storico erano stati deportati-importati nel campo; mentre per le voci delle guardie ha inserito quelle degli ubriachi che urlano per strada nel quartiere Reeperbahn di Amburgo: come ha giustamente considerato Glazer il suono è un altro film, probabilmente il vero film.

Era candidato anche per il miglior regista e la miglior sceneggiatura non originale dal romanzo omonimo di Martin Amis: la zona d’interesse è, a cominciare dalla Polonia di Auschwitz, tutto l’est russo in cu Adolf Hitler avrebbe voluto espandersi. Nel romanzo lo scrittore pur ispirandosi alla figura reale di Höss cambia il nome e ne fa una narrazione di fantasia. Glazer, partendo dal romanzo, ha ovviamente cominciato a fare le sue ricerche concentrandosi sempre più sulla figura reale del comandante nazista, e decidendo di togliere il filtro della finzione narrativa ha riesumato il vero personaggio e la sua famiglia aggiungendo dettagli storici e biografici che nel libro non c’erano, come la figura della suocera venuta in vacanza, genericamente e serenamente razzista nei confronti degli ebrei che stanno bene dove stanno, al di là del muro, fino a quando non si rende conto di quello che realmente accade nei forni crematori e scappa lasciando solo un biglietto alla figlia. Seguendo le note di Glazer, il suo lavoro è stato quello di costruire un film che demistificasse i nazisti ormai quasi sempre descritti come mitologicamente malvagi, raccontando l’Olocausto non “come qualcosa di sicuro nel passato” ma come “una storia del qui e ora” e facendo un riferimento diretto, anche nel discorso di accettazione dell’Oscar, a quanto sta accadendo in Medio Oriente: l’orrore delle persecuzioni e la capacità di infliggere sofferenze non si è mai eradicata dall’animo umano qualsiasi sia la fede religiosa o politica che la muove.

Con una produzione anglo-polacca e la decisione di girare il film nelle lingue originali dei luoghi descritti, tedesco polacco e yiddish, è stato contattato l’attore tedesco Christian Friedel che era assai restio avendo già rifiutato in passato di interpretare personaggi nazisti e avendo invece impersonato un oppositore attentatore alla vita di Hitler in “Elser – tredici minuti che non cambiarono la storia” di Oliver Hirschbiegel del 2015; fu però positivamente colpito dal nuovo approccio del regista e rendendosi disponibile suggerì per il ruolo della moglie la collega Sandra Hüller con cui aveva già felicemente lavorato, e poiché anche lei non era disponibile a interpretare figure naziste le fu inviato solo un estratto della sceneggiatura, un dialogo fra moglie e marito, senza alcun riferimento al reale contesto, che convinse l’attrice a leggere la sceneggiatura completa e a incontrare il regista… a quel punto fece scritturare anche il suo Weimaraner nero per interpretare Dilla, il cane della famiglia Höss, mentre Medusa Knopf fu scritturata per interpretare sua madre.

Momento d’oro per l’attrice dato che agli Oscar era personalmente candidata come protagonista per un altro film di produzione francese e girato in francese e inglese, “Anatomia di una caduta” di Justine Triet, regista già premiata in patria con la Palma d’Oro a Cannes, e che si è aggiudicata anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale insieme al suo compagno di vita Arthur Harari. Ma anche “La zona d’interesse” aveva trionfato a Cannes aggiudicandosi il Grand Prix Speciale della giuria, il Cannes Soundtrack Award e il FIPRESCI della critica cinematografica.

Insieme all’uso delle telecamere in stile “Grande Fratello” e al tappeto sonoro come film nel film, Glazer si spinge verso la ricerca sperimentale inserendo anche un paio di sequenze girate con una termocamera, una particolare telecamera di sorveglianza utilizzata dai militari e ufficialmente classificata come arma.

Telecamera termica con le quali rievoca le incursioni notturne di una ragazza che lascia delle mele dove i prigionieri le possano trovare. Anche queste sequenze, le uniche che danno un filo di speranza nel film, sono nate dalle ricerche dell’autore e si ispirano ad Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk che l’autore incontrò nel 2016 poco prima che l’ottantanovenne morisse: all’età di 12 era stata membro dell’Esercito Nazionale Polacco e andava in bicicletta per lasciare nei dintorni del campo, laddove i prigionieri venivano condotti per lavorare, le mele; come è raccontato nel film, ha scoperto uno spartito musicale scritto da un prigioniero, che poi la giovane attrice Julia Polaczek eseguirà al pianoforte in una scena girata nella vera casa di Aleksandra; e anche l’abito che indossa e la bicicletta che usa sono gli originali appartenuti alla protagonista reale, alla quale Glazer ha dedicato il film nel discorso di accettazione del premio. Il brano musicale era stato scritto da Joseph Wulf che poi sopravvisse al campo e fu uno dei primi a testimoniare le atrocità che aveva vissuto.

Sotto finale il comandante del campo accusa dei dolori allo stomaco – gastrite? rigurgiti di coscienza? – e il film fa un ardito salto in avanti, al Museo di Auschwitz da cui l’autore ha avuto completa collaborazione, mentre le donne delle pulizie preparano prima dell’apertura al pubblico; poi si torna al nazista sperduto negli squadrati meandri del palazzo del potere nel cui buio sta per discendere definitivamente.

Incidentalmente, il 19 maggio 2023 il film è stato presentato al Festival di Cannes ricevendo una standing ovation di sei minuti, mentre Martin Amis, l’autore del romanzo, moriva 73enne nella sua casa in Florida, da accanito fumatore per un cancro all’esofago. Da registrare anche che il discorso del regista che accomunava l’Olocausto a quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza, facendo intendere che gli oppressori sono oggi gli ebrei, ha fatto infuriare molti a cominciare dal suo produttore esecutivo Danny Cohen che si è dissociato dichiarando che molti membri della comunità ebraica gli hanno confidato che le parole di Glazer hanno riaperto vecchie ferite nella loro storia etnica nonostante il film sia un capolavoro sulla Shoah: di fatto, è la mia opinione, piuttosto che continuare a ricattare il mondo con “le vecchie ferite” sarebbe necessario riflettere sulle nuove, e sulle nuove responsabilità.

Io capitano – l’Oscar che non c’è

Matteo Garrone non ce l’ha fatta agli Oscar 2024, come non ce l’ha fatta ai Golden Globe dove era altrettanto candidato, e a mio avviso non poteva farcela perché la concorrenza al Miglior Film Internazionale (ex Miglior Film Straniero) era di altissima qualità, nulla togliendo all’italiano. L’Italia, che in ogni caso mantiene il più alto numero di candidature in quella sezione, mancava esattamente da dieci anni quando nel 2014 fu presente con “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che si portò a casa la statuetta insieme al Golden Globe: Sorrentino come nemesi di Garrone? andiamo con ordine.

I due astri nascenti, diversissimi, si ritrovano a confronto in quel di Cannes nel 2008, Garrone con “Gomorra” dal libro inchiesta Roberto Saviano che poi ha moltiplicato pani pesci puntate e pubblico con le 5 stagioni della serie tv Sky, e Sorrentino con “Il Divo” sul mefistofelico Giulio Andreotti; entrambi erano in concorso per la Palma d’Oro che però restò in casa andando a Laurent Cantet per “La classe – Entre le murs” ma i nostri vennero premiati con le pergamene del Grand Prix Speciale della Giuria (quell’anno presieduta da Sean Penn con Sergio Castellitto come italiano fra i giurati) a “Gomorra” e il Premio della Giuria per “Il Divo”, tenendo presente che i due riconoscimenti sono lo stesso premio con due diverse diciture ed è il più importante dopo la Palma d’Oro: insomma due premi apparentemente diversi per non assegnare un ex-aequo. Da lì in poi la stampa ha inventato, o chissà forse solo registrato, una concorrenza diretta fra i due – che non analizzerò per non dilungarmi come al mio solito.

Tornando a oggi, qualsiasi sia la concorrenza vera o presunta fra i due (per certo non sono amici), entrambi sono assai stilosi e di Matteo Garrone si può certo affermare che il tema sociale, insieme al tema del magico e del favoloso, sia parte integrante del suo cinema, con radici coltissime nel favolistico di casa nostra o comunque europeo in generale, e dunque quanto di più lontano dal fumettistico fantastico ed effettistico statunitense: cosa, questa, che lo allontana dal pubblico d’oltreoceano più abituato agli effetti speciali e ai trucchi prostetici che alle atmosfere conturbanti e noir della nostra narrativa fantastica.

Partito ai suoi esordi con stile e contenuti decisamente neo-realistici si fa notare da critica e pubblico con “L’imbalsamatore” (2002) che gli valse il David di Donatello per la sceneggiatura, ma il film collezionò molti altri premi fra attori e produzione: già in questo film usa per il ruolo del protagonista l’attore nano Ernesto Mahieux come elemento di collegamento alla sua visione fantastica della narrativa cinematografica.

Anche il successivo assai disturbante “Primo amore” (2004) liberamente ispirato al romanzo “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini è una favola nera dove l’orco è uno psicopatico ossessionato dalle donne magrissime che spinge la protagonista alla fame in una relazione di amore malato. Segue il “Gomorra” del successo internazionale e dopo realizza “Reality” (2012) dove il protagonista si fa accecare dalle favole moderne e ingannatrici dei reality show, un film con cui torna all’indagine sociale e in cui scatena visivamente la sua vena surreale e grottesca.

Arriva il raffinatissimo, e per questo anche poco digeribile e poco digerito dal grande pubblico, “Il racconto dei racconti” (2015) che schierando un cast internazionale in una coproduzione con Francia e Regno Unito (per cui Garrone anche produttore ha messo un’ipoteca sulla sua casa) è stato distribuito anche col titolo “Tale of Tales”, dalla raccolta di fiabe seicentesche “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile; il film si concentra su tre racconti la cui narrazione si incrocia e incastra, e nell’insieme è un materiale enorme che potrebbe essere raccontato meglio in una coraggiosa produzione televisiva se solo Garrone si lasciasse tentare dalla serialità, cosa che ha fatto Sorrentino in Sky con “The Young Pope” e “The New Pope”, così tanto per dire. Il film di due ore e un quarto lascia un retrogusto amaro in bocca: quello del non perfettamente riuscito – ma la visione fantastica di Matteo Garrone è al suo fulgore massimo.

Ancora con i debiti da pagare accantona il suo successivo grandioso film su Pinocchio e rispolvera un vecchio progetto più a basso costo (4 milioni di euro contro i 15 del precedente) col quale torna alle sue origini di noir metropolitano di indagine sociale: “Dogman” (2018) su un fatto di cronaca nera romana che ebbe come protagonista un uomo detto “er canaro”, altra figura da favola horror, ed è di nuovo amore col Festival di Cannes che premia il protagonista Marcello Fonte, e trionfa ai Nastri d’Argento e ai David di Donatello, fra gli altri premi. E qui vale la pena spendere una curiosità: all’epoca della prima stesura di una decina d’anni prima, Garrone aveva proposto il ruolo a Roberto Benigni che poi sarà Geppetto nel successivo “Pinocchio”, grande favola che stavolta piacerà anche agli americani, molti dei quali ancora credono che il burattino sia un’invenzione di Walt Disney, e difatti riceve due candidature tecniche per costumi e trucco agli Oscar.

È evidente che Garrone, concorrenza o no, punta all’Oscar; del resto ha già trionfato in casa e in Europa e impugnare quella statuetta lo farebbe assurgere all’empireo ultimo, e qui film torna alle origini della sua ispirazione narrativa. Aveva debuttato nel 1996 con “Terra di mezzo” dove ha raccontato in tre e episodi la realtà di differenti immigrati in Italia, opera prima che al Torino Film Festival gli sono valsi il Premi Speciali della Giuria e il Premio Cipputi per il miglior film sul mondo del lavoro, premio ispirato al personaggio del metalmeccanico comunista creato da Altan; e col successivo “Ospiti” si concentra sulla figura di due ragazzi albanesi immigrati a Roma; dunque il tema dell’immigrazione lo appassiona e con quello che continua a succedere nel Mediterraneo era solo questione di tempo prima che anche Garrone ne traesse ispirazione, avendo già due titoli in una filmografia che è già un genere nella cinematografia italiana ricchissima di titoli a partire dalla fine degli anni ’80 con “Il tempo dei gitani” (1988) di Emir Kusturica cui segue a tambur battente “Pummarò” (1990) di Michele Placido, per dire solo i titoli più importanti, cui seguono “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio, “Vesna va veloce” (1996) di Carlo Mazzacurati, “La ballata dei lavavetri” di Peter Del Monte e “L’assedio” di Bernardo Bertolucci, entrambi del 1998 e fra i titoli che si fanno assai più numerosi nel nuovo millennio ricordiamo “Quando sei nato non puoi più nasconderti” di Marco Tullio Giordana, “Bianco e nero” di Cristina Comencini, “Terraferma” di Emanuele Crialese, “Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi ispirato agli scritti di Pier Paolo Pasolini, “Razzabastarda” opera prima di Alessandro Gassmann, “Fuocoammmare” di Gianfranco Rosi e il recentissimo “Nour” del 2020 di Maurizio Zaccaro.

I film fin qui realizzati si fermano a raccontare l’incontro-scontro degli immigrati con la realtà italiana e solo in pochi casi raccontano la tragicità del mare attraversato e dei viaggi, mentre Garrone – col suo team di co-sceneggiatori composto da Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e dall’attore Massimo Ceccherini che avendo nel curriculum uno suo spettacolo teatrale su Pinocchio già aveva affiancato come sceneggiatore Garrone nel di lui “Pinocchio” dove anche interpretò la Volpe – va oltre, sbarca in Africa, si addentra oltre il deserto per giungere in Senegal, nei villaggi e nelle case dove una certa politica vorrebbe rispedire i migranti.

Il soggetto di Garrone si ispira direttamente alle storie vere raccontate da Fofana Amara, Mamadou Kouassi Pli Adama, Arnaud Zohin, Brhane Tareka e Siaka Doumbia, tutti ragazzi che hanno realmente compiuto il viaggio dei due protagonisti del film, accreditati nei titoli come collaboratori alla sceneggiatura insieme a Chiara Leonardi e Nicola Di Robilant.

Il casting venne fatto in loco sotto la direzione del camerunense Henri-Didier Njikam che è incorso in un incidente diplomatico allorché gli fu negato dall’Ambasciata d’Italia a Rabat, Marocco, il visto d’ingresso in Italia per presenziare al Festival di Venezia; tempestivamente intervistato da “The Hollywood Reporter Roma”, Njikam ha accusato i responsabili di razzismo: “L’ambasciata ha giustificato il rifiuto sostenendo che non c’erano garanzie che avrei abbandonato il territorio italiano una volta entrato a Venezia. In pratica mi hanno trattato come un migrante, come se volessi approfittare della situazione per scappare. Ma io ho un lavoro, una tessera professionale del Centro Marocchino del Cinema. E, sinceramente, se avessi voluto lavorare in Europa, lo avrei già fatto: l’ente non ha guardato il mio curriculum né i miei documenti, ma solo il colore della mia pelle. Questo problema esiste solo con l’ambasciata italiana in Marocco, perché i miei colleghi dal Ghana e dalla Costa d’Avorio sono riusciti a partire. Se fossi stato bianco, non credo che sarei stato trattato così.”

Seydou Sarr insieme a Moustapha Fall sono i due ragazzi che abbagliati da sogni di notorietà e ricchezza lasciano la certezza di una tranquilla miseria quotidiana per l’incertissimo viaggio dispensatore di sofferenze e morte che tutti sconsigliavano; e Seydou, vero protagonista del film, è stato insignito a Venezia del Premio Marcello Mastroianni come attore emergente, ma l’intero cast è di altissimo livello e tutte le interpretazioni concorrono all’intensità narrativa del film costruito da Garrone senza sbavature e senza retorica, sempre focalizzato sulla tragedia umana di ragazzi che sognano un mondo migliore ma che trovano squali anche nelle sabbie del deserto.

Gli unici fugaci momenti in cui si indebolisce il racconto, a mio avviso, sono le due sequenza oniriche del protagonista che sogna, prima di salvare una donna nel deserto e poi volare indietro fino a casa ad osservare sua madre che dorme: due brevi momenti di abbagliante bellezza cinematografica che proseguono nella linea stilistica dell’autore ma che in questo caso deviano dall’intensità tragica del racconto, intensità universalmente riconosciuta da critica e pubblico.

Le curiosità: 1. resterà negli annali l’imbarazzante ultim’ora del Televideo Rai in cui il film veniva raccontato come la vicenda del capitano Schettino che abbandonò il comando della Costa Concordia incagliatasi sugli scogli dell’Isola del Giglio in Toscana nel 2012. Non si sa com’è andato l’incidente telematico, c’è chi parla di uno scherzo certo per minimizzare, c’è chi parla di un complotto certo per massimizzare, ma l’ipotesi più credibile è quella dell’intelligenza artificiale che ha creato la notizia pescando nel suo database, notizia farlocca che però è stata pubblicata da qualche intelligenza naturale… naturalmente a riposo.

2. le ultimissime di cronaca riferiscono di Claudio Ceccherini che ospite del programma Rai “Da noi a ruota libera” certo ispirato dal titolo ha parlato a ruota libera: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.” Va da sé che l’attore sceneggiatore non ha tutti i torti, solo che poteva esprimersi in modo diverso: i membri dell’Academy sono da sempre molto sensibili ai temi della Shoah tant’è che nel 1999 premiò “La vita è bella” di Roberto Benigni, miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Non si parla di corde in casa dell’impiccato, si tratta di buon senso ed educazione, e tanto più vanno ponderate le parole in questo periodo di feroce conflitto in Medio Oriente.

3. mia personale curiosità: leggo nella scheda tecnica del film i nomi dei doppiatori ma “Io capitano” è stato distribuito in originale, il wolof parlato in Senegal, il francese e l’inglese, e non c’è traccia di doppiaggio. Si tratta forse di un’altra versione che sarà distribuita nelle versioni Home e On demand?

Accantonata la delusione per non avere afferrato la statuetta dorata Matteo Garrone guarda già al futuro per il suo bellissimo film che proseguirà il viaggio tornando nei luoghi da cui è partito, con proiezioni nei villaggi del Senegal anche su tendoni improvvisati, per raccontare a chi resta che a volte è più coraggioso restare. Meglio che morire nel deserto o nel mare, meglio ancora che essere umiliati da società e apparati politici ciechi alle urgenze umane nel coltivare i loro minimi miserevoli giardinetti recintati e vietati agli estranei.