Archivi tag: shining

Barry Lyndon – ricordando Ryan O’Neal

Lo scorso 8 dicembre 2023 abbiamo detto addio all’82enne Ryan O’Neal che i più giovani ricordano già anziano e acciaccato come padre della protagonista nella serie tv “Bones” ma per i meno giovani O’Neal richiama alla mente film epocali come “Love Story” del 1970 di Arthur Hill che lo lanciò nel panorama internazionale: per quel film da noi vinse il David di Donatello e in patria fu candidato a all’Oscar e al Golden Globe per il quale fu tre anni dopo candidato ancora per “Paper Moon” di Peter Bogdanovich dove recitò con la figlia decenne Tatum O’Neal che si aggiudicò sia l’Oscar che il Golden Globe come migliore debuttante, e il nostro David di Donatello, surclassando così il padre che nella sua carriera non vinse mai nulla. Dalla parte di Tatum, c’è da dire, all’epoca giocò in suo favore la giovane età, e difatti della sua carriera cinematografica, che pur continuò, non ricordiamo più nulla. Dalla parte del padre, ottimo attore e questo “Barry Lyndon” lo dimostra, giocò forse a sfavore l’essersi speso in commedie che, tranne qualche preziosa perla, anch’esse non sono memorabili. Era anche il periodo in cui Robert Redford, che fu in lizza per il ruolo ed era l’attore più fisicamente simile a lui, rastrellava per sé il meglio delle produzioni poiché non aveva il timore di impegnarsi in film più difficili. Anche il suo fascino, da belloccio della porta accanto, mancava del magnetismo dei vari Paul Newman, Marlon Brando, Alain Delon e via dicendo. Insomma, agli inizi col botto non seguì un’adeguata carriera. Quando il geniale Stanley Kubrick lo scelse come protagonista del suo capolavoro storico, il 33enne Ryan, che si era fatto conoscere dal grande pubblico televisivo nella soap opera “Peyton Place” accanto a Mia Farrow, aveva già dato il meglio di sé appunto con “Love Story” di cui tenterà l’inutile sequel “Oliver’s Story”, e con la commedia di Peter Bogdanovich “Ma papà ti manda sola?” dove fece coppia con Barbra Streisand, coppia che si riformò qualche anno dopo con “Ma che sei tutta matta?” di Howard Zieff, e la similitudine dei titoli e solo dovuta al genio della distribuzione italiana.

Come il protagonista irlandese del romanzo “Le memorie di Barry Lyndon” di William Makepeace Thackeray, l’attore losangelino aveva origini irlandesi (il cognome è evidente) e ascoltando il sonoro originale del film (disponibile su Sky Cinema) è altrettanto evidente che Ryan ha studiato l’accento irish-british. Del film è protagonista assoluto (e anche per questo l’ho scelto per ricordarlo, oltre all’importanza del film stesso) benché nei titoli di testa faccia coppia con la modella passata al cinema Marisa Berenson che appare sullo schermo esattamente dopo mezzo film per poi ritrovarla in scene occasionali con un ruolo più decorativo che altro, ma che resterà impresso nella memoria dei cineamatori anche perché lei pure non girerà più nulla di memorabile. Nonostante la grandiosità del film di Stanley Kubrick che oltre a dirigere, scrisse e produsse, esso deluse le aspettative non ottenendo un gran successo al botteghino – e forse questo contribuì a creare in Ryan O’Neal una certa freddezza per i film cosiddetti “importanti” e “impegnati”. Ma il film è davvero notevole e visto oggi, a mezzo secolo di distanza, sembra girato appena ieri e le tre ore passano velocemente, magari con una pausa accentata (caffè-pipì). Difatti, benché apprezzato dalla critica già alla sua uscita, oggi è stato ampiamente rivalutato e comunemente ritenuto fra i migliori film o anche il migliore di Kubrick, e Martin Scorsese ha dichiarato di essere stato ispirato da questo film per girare il suo “L’età dell’innocenza” (1993) mentre all’epoca furono diversi i registi e le produzioni che si ispirarono: uno fra tutti “I Duellanti” del debuttante (alla grande) Ridley Scott del 1977.

Kubrick, del cui debutto “Paura e desiderio” abbiamo parlato, si era fatto conoscere dalle grandi platee come regista di “Spartacus” nel 1960, kolossal in cui il protagonista Kirk Douglas lo volle di nuovo alla regia dopo la felice collaborazione in “Orizzonti di gloria”; era seguito il film scandalo “Lolita”, il grottesco “Il Dottor Stranamore”, il fantascientifico-filosofico “2001: Odissea nello spazio” e il disturbante “Arancia Meccanica”: tutti capolavori, e di genere sempre diverso che l’autore maneggia in modo personalissimo sempre allontanandosi dai canoni cinematografici imperanti e sempre creando film personalissimi. Il suo successivo film avrebbe dovuto essere su Napoleone con Jack Nicholson (chissà quale altro capolavoro avrebbe potuto essere) ma l’autore lo accantonò in seguito all’insuccesso del simile “Waterloo” di Sergej Bondarčuk del 1970 con Rod Steiger, Christopher Plummer e Orson Welles a produzione dell’italiano trasmigrato a Hollywood Dino De Laurentiis che sempre alternò blockbusters a clamorosi flop. Accantonando Napoleone gli era però rimasto il gusto per il film storico che non aveva ancora esplorato e rivolse la sua attenzione al romanzo di Thackeray: “Ho avuto l’intera collezione delle opere di Thackeray sulla libreria, a casa, per anni. Dovetti leggere i libri svariate volte prima di arrivare a Barry Lyndon. Prima, ad esempio, mi interessava “La fiera della vanità” ma la storia era troppo intricata per essere spiegata solo in un film. Oggi ci sarebbero le miniserie televisive, ma non avevo assolutamente l’intenzione di girarne una.” Difatti accantonò “La fiera della vanità” quando seppe che era in scrittura una miniserie televisiva che poi però non venne mai realizzata.

Parla ancora Kubrick: Barry Lyndon offriva l’opportunità di fare una delle cose che il cinema può realizzare meglio di qualunque altra forma d’arte: presentare cioè una vicenda a sfondo storico. La descrizione non è una delle cose nelle quali i romanzi riescono meglio, però è qualcosa in cui i film riescono senza sforzo, almeno rispetto allo sforzo che viene richiesto al pubblico.” Inizialmente Kubrick aveva proposto il film alla Metro-Goldwyn-Mayer che volle nel ruolo del protagonista Robert Redford ma l’attore, che in un primo momento si era detto interessato, poi declinò l’invito per tornare a lavorare con George Roy Hill che dopo il clamoroso successo di “La Stangata”, in coppia con Paul Newman, aveva pensato solo per lui “Il Temerario” che però non ottenne altrettanto successo. Anche la collaborazione con la MGM prese la via dell’aceto perché la produzione cominciò a pretendere da Kubrick un maggiore controllo sul progetto, così che l’autore ruppe la collaborazione e produsse il film da sé. Con l’uscita della MGM e di Redford entrò nel progetto la star in ascesa Ryan O’Neal, che comunque era già nel pacchetto dei papabili che oltre a lui e Redford comprendeva Steve McQueen, Paul Newman e Marlon Brando: solo voci di corridoio e nessun contatto specifico pare. O’Neal era anche etnicamente più appropriato avendo ascendenze irlandesi come il cognome dichiara, e anni dopo Kubrick spiegherà in un’intervista: “Era l’attore migliore per la parte. Aveva l’aspetto giusto ed ero sicuro che avesse più dote di quanto non ne aveva mostrato sino ad allora. Penso di averci visto giusto, data la sua performance, e non riesco ancora neanche a concepire uno che avrebbe interpretato meglio Barry. Ad esempio, nonostante siano grandi attori, Al Pacino, Jack Nicholson o Dustin Hoffman sarebbero sicuramente stati errati in quel ruolo.”

Per il ruolo di Lady Lyndon scelse Marisa Berenson che qualche anno prima, in linea col suo primo lavoro di modella, avrebbe dovuto debuttare in “Blow-up” di Michelangelo Antonioni che però le preferì la più pepata Jane Birkin; la Berenson debuttò poi come attrice, praticamente muta, in “Morte a Venezia” di Luchino Visconti, film pochissimo parlato a dire il vero, e poi ebbe un ruolo secondario ma significativo in “Cabaret” di Bob Fosse; a seguire pur di fare la protagonista accettò un filmetto della commedia sexy all’italiana, “Un modo di essere donna” di Pier Ludovico Pavoni (chi ricorda il film e il regista?) e finalmente approda sul set di Kubrick dove è assai funzionale col suo fascino gelido e fragile insieme.

La lavorazione del film si rivela assai complessa perché il maestro al suo solito è assai pignolo e non tralascia alcun dettaglio; per dirne una: ideò lui stesso le candele con tre stoppini – per avere più fiamma e più luce – che insieme ai lumi a olio avrebbero reso l’illuminazione naturale degli interni-notte, riproducendo la luce dei dipinti cui si ispirò per la composizione delle sue scene nella scenografia firmata da Ken Adam, Roy WalkerVernon Dixon. E poiché per l’illuminazione interno-notte le candele potenziate non bastavano, Kubrick portò sul set le telecamere progettate da Carl Zeiss e utilizzate dalla Nasa per filmare lo sbarco sulla Luna dell’Apollo 11 nel 1969. La location principale, la tenuta dei Lyndon, era la Powerscourt Estate in Irlanda: era, perché alcuni mesi dopo la fine della lavorazione fu completamente distrutta da un incendio e questo film rimane l’unico documento visivo degli interni del palazzo che fu. A metà lavorazione ci fu un’escalation di attacchi terroristici da parte dell’IRA che combatteva per un’Irlanda unificata fuori dal dominio britannico e lo stesso Kubrick fu minacciato di morte per l’essersi impegnato in quel film; ricevette una telefonata anonima che gli intimava di lasciare l’Irlanda entro 24 ore e il maestro non se lo fece ripetere: la lasciò entro 12 ore, trasferendo i suoi set in Inghilterra, e anche questo aggiunse ritardi sulla tabella di marcia. La lavorazione si protrasse per 300 giorni, 10 mesi, in un arco complessivo di due anni, dal 1973 al 1975 con un costo che levitò fino agli 11 milioni di dollari, e all’uscita nelle sale americane fu un flop che parzialmente si riprese sul mercato internazionale arrivando a incassare una ventina di milioni: 9 milioni di dollari di incasso lordo, da cui togliere tasse e spese, sono ben meno della cifra iniziale spesa.

Sotto alcuni dei quadri cui si ispirò Kubrick

Benché la fotografia porti la firma di John Alcott, già suo collaboratore, in realtà ci lavorò anche Kubrick che, ricordiamolo, nasceva fotografo: la sua carriera cominciò quando 17enne vendette alla rivista Look uno scatto in cui ritraeva un edicolante che rattristato legge la notizia della morte del presidente Roosevelt – e vale la pena farsi una passeggiata sul web a scoprire gli scatti giovanili che Kubrick pubblicò sulla rivista.

Tornando al film: anche la musica è un elemento fondante e usa e riadatta esclusivamente brani di classica: Bach, Händel, Mozart, Paisiello, Schubert e Vivaldi. “Per quanto i compositori di colonne sonore possano essere bravi, non saranno mai un Beethoven, un Mozart o un Brahms. Perché usare una colonna sonora discreta quando c’è dell’ottima musica disponibile dal nostro passato più recente? Quando completai il montaggio di “2001” avevo fatto registrare alcune musiche originali che volevo usare nel film. Lo stesso compositore, però, davanti al ‘Bel Danubio blu’ rimase esterrefatto e allora cambiò idea e inserì queste tracce nelle scene. Con ‘Barry Lyndon’ non ricaddi nell’errore e usai direttamente musiche non originali. La musica del XVIII secolo non è però molto drammatica. Sentii il tema di Händel, che fa da sottofondo a molte scene del film, suonato con una chitarra, e stranamente, mi faceva pensare a Ennio Morricone. Allora aggiungemmo i bassi e la musica si adattò perfettamente alla drammaticità della pellicola.” E le musiche gliele ha riscritte e riorchestrate Leonard Rosenman, mentre l’autore faceva ascoltare agli attori sul set i brani originali per ispirarli. Nelle foto sotto: Dominic Savage con la “madre” Marisa Berenson, e Leon Vitali fra il “patrigno” Ryan O’Neal e la “madre” Marisa Berenson, dietro la cui spalla sinistra s’intravede come figurante la figlia dell’autore Vivian Kubrick.

Nel resto del cast principale Patrick MaGee interpretò lo “Chevalier” di Balibari, ricordandoci che in passato come oggi si definiva elegantemente e genericamente “cavaliere” un individuo di oscure origini e dai traffici poco chiari: noi abbiamo recentemente avuto il cavaliere Silvio Berlusconi. Hardy Krüger era il capitano tedesco che cooptò Redmond Barry non ancora Lyndon alla sua causa; Steven Berkoff e Gay Hamilton nel parterre dei nobili, la caratterista irlandese Marie Kean come madre di Barry e Murray Melvin era il reverendo precettore del giovane Lord Bullington interpretato prima dall’intenso debuttante 13enne Dominic Savage che crescendo preferì darsi alla regia; personaggio che da adulto fu interpretato da Leon Vitali, il quale affascinato dalla personalità di Kubrick preferì diventare suo braccio destro nei successivi film salvo avere un ruolo secondario nell’ultimo poco riuscito film del maestro “Eyes Wide Shut”.

Giancarlo Giannini, riconoscibilissimo, doppia il protagonista mentre Lady Lyndon ha la voce della tedesca naturalizzata italiana (senza alcun accento) Solvi Stübing, che all’epoca divenne da noi popolarissima con la pubblicità in cui sussurrava agli italiani “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”, e tutti di corsa a comprare la birra sognando di bersi la bella tedesca. Alberto Lionello doppiò lo Chevalier, Oreste Lionello (nessuna parentela con Alberto) il precettore e la teatrale Gianna Piaz diede voce alla madre di Barry; Rodolfo Traversa fu la voce di Lord Bullington mentre all’importante voce fuori campo del narratore ci fu Romolo Valli che nell’originale aveva la voce di Michael Hordern.

Il film ottenne gli Oscar per Fotografia, Scenografia, Colonna Sonora, Costumi della danese Ulla-Britt Soderlund in coppia con l’italiana Milena Canonero che aveva debuttato da costumista solista nel precedente film di Kubrick “Arancia meccanica”. Tre nomination all’autore per il film, la regia e la sceneggiatura. Kubrick si aggiudicò però il Golden Globe sia come regista che nella categoria Film Drammatico e nel Regno Unito il BAFTA alla regia e alla fotografia, e fra gli altri premi minori in giro per gli Stati Uniti e il mondo ebbe anche il nostro David di Donatello sotto forma di David Europeo. Resta da dire che Kubrick, economicamente scottato dall’impresa, pensò per il film successivo di rivolgersi a un genere che andava molto fra le masse: l’horror, e tirò fuori dal suo cilindro quell’altro capolavoro che fu “Shining”.

Tornando al compianto Ryan O’Neal, a seguire lavorò di nuovo con Peter Bogdanovich in “Vecchia America” che non ebbe lo stesso esito di “Ma papà ti manda sola?” e “Paper Moon”, e dopo il corale bellico “Quell’ultimo ponte” di Richard Attenborough, andò a infilarsi nella bislacca commedia “Jeans dagli occhi rosa” di Andrew Bergman (nessuna parentela col maestro svedese) in coppia con la nostra Mariangela Melato in una delle sue poche e poco riuscite incursioni a Hollywood (compreso il suo ultimo film, duole dirlo). In quegli anni ’70 Ryan fu in lizza insieme ai soliti noti (Robert Redford, James Caan, Burt Reynolds) come protagonista per “Rocky” (i produttori non credevano in Sylvester Stallone come attore benché il film l’avesse scritto lui) e per il ruolo di Michael Corleone in “Il Padrino” insieme al solito Redford, ma in lizza c’erano anche Jack Nicholson e Dustin Hoffman (sempre i produttori non volevano Al Pacino che definirono “un nanerottolo”). E per il nostro, fra vita privata burrascosa (si definì un pessimo padre che non avrebbe dovuto avere figli: ne ebbe quattro da tre donne diverse e tutti entravano e uscivano dai centri di riabilitazione) e scelte professionali sbagliate, per lui non ci fu più nulla di memorabile, se non l’arresto in tarda età, a 63 anni, per possesso di stupefacenti insieme all’ultimogenito Redmond, chiamato così in onore del suo più importante personaggio Redmond Barry Lyndon, e avuto con la sua ultima compagna Farrah Fawcett. Nel 2001 gli fu diagnosticata la leucemia mieloide cronica, e mentre lottava con la sua malattia è sempre stato vicino a Farrah che intanto combatteva contro un cancro che l’ha portata via nel 2009. Nel 2012 l’attore ha dichiarato che gli era stato diagnosticato un cancro alla prostata. Con lui se ne vanno molti bei ricordi cinematografici tutti concentrati negli anni ’70 del secolo scorso.

Una delle ultime foto di Ryan con il terzogenito Patrick (cronista sportivo) avuto con l’attrice Leigh Taylor-Young

Sotto con la figlia Tatum sul set di “Paper Moon” e ancora con lei adulta

Con le colleghe Ali McGrow, Mariangela Melato e Barbra Streisand

Il cast della soap opera che lo rese famoso insieme a Mia Farrow l’ultima a destra e sul set di “Quell’ultimo ponte” secondo da sinistra dopo Gene Hackman, seguono Michael Caine, Edward Fox e Dirk Bogarde

con Farrah Fawcett nel momento del massimo splendore

Doctor Sleep – il sequel di Shining

Stephen King's Doctor Sleep disponibile in Home Video e digitale |  Spettacolo.eu

In “Shining” Jack Torrance è morto assiderato nel gelido finale creato da Stanley Kubrick a dispetto del finale fuoco e fiamme immaginato da Stephen King nel suo romanzo, che nel 2014 pubblica il seguito a quasi quarant’anni di distanza. Ed è immediatamente chiaro il nomignolo con cui verrà chiamato l’ex bambino Danny Torrance oggi Dan e adulto assai problematico: se a cinque anni i genitori lo chiamavano affettuosamente Doc che sta per doctor (una cosa che gli americani fanno abitualmente, chiamare doc o man o missy i loro bambini come noi diciamo giovanotto o signorinella) oggi Doc si completa come Doctor Sleep, Dottor Sonno, perché il nostro accompagna amorevolmente nella loro morte naturale i vecchi dell’ospizio in cui è inserviente, togliendo loro la paura del trapasso, raccontando che è un sonno da cui si sveglieranno in un’altra esistenza. Tutto molto new age spirit, se non sapessimo che Dan ha la luccicanza e vede i morti come noi vediamo gli amici al bar. È improbabile che lo scrittore abbia immaginato quarant’anni fa questo sviluppo, dunque chapeu per l’inventiva con cui parte da un nomignolo dell’infanzia in una nuova identità per l’adulto. Che però è una cosa abbastanza fine a se stessa all’interno del nuovo racconto horror, una nota di colore per aiutare a definire il nuovo personaggio che contiene in sé il bambino ancora traumatizzato dalla terribile esperienza, e che annega, come retoricamente si dice in questi casi, i suoi antichi tormenti nell’alcol.

Rebecca Ferguson as Rose the Hat | Rebecca ferguson, Doctor sleep, Ferguson

Il film si apre con un antefatto che ci presenta la nuova bella affascinante cattiva, Rose Cilindro (Rose the Hat), che è a capo di una piccola setta autodefinita Vero Nodo con i quali Stephen King inventa i vampiri del terzo millennio: non succhiano il sangue ma quello che loro chiamano vapore, che è insieme respiro ed energia vitale, tanto più succulento e nutriente quanto più la vittima è terrorizzata e soffre: davvero perversi questi nuovi vampiri succhiavapore.

Chiuso l’antefatto siamo di nuovo nel 1980 e nell’Overlook Hotel dove il piccolo Danny percorre ancora col suo triciclo i lunghi corridoi del labirintico albergo speculare al labirinto di siepi che c’è lì fuori, e che sappiamo sarà teatro dell’esperienza più terrorizzante del piccino: rincorso nella neve dal padre armato di enorme ascia. E nei flashback che seguiranno ritroveremo tutti gli altri luoghi simbolo dell’hotel maledetto insieme a tutti i suoi abitanti, ancora vivi o già morti: le gemelline, la vecchia signora nel bagno della camera 327, il precedente guardiano che sterminò la famiglia e lo stesso Jack Torrance, ma andiamo con ordine. Anzi no, perché non sono qui per raccontare la trama.

Doctor Sleep e Shining, fotogrammi delle scene a confronto
1980 e 2019: il set è stato conservato e riutilizzato

Il film è scritto diretto e montato da Mike Flanagan, uno da sempre appassionato di horror che si forma come regista di genere, e in quel genere è ben quotato avendo firmato buoni film senza mai però arrivare al capolavoro. E serve a Stephen King un prodotto che gli rende giustizia, senza gli azzardi e i voli pindarici dell’inarrivabile Stanley Kubrick; fantasmi e atmosfere sono quelle care allo scrittore e la composizione del film è paradossalmente rassicurante nel trattare il genere horror: fa addirittura uso e abuso del suono del batticuore, che abbiamo già sentito in centinaia di film e telefilm, per accompagnare le scene più pulp, e questo è rassicurante perché sappiamo che genere di film stiamo vedendo, cosa non immediatamente comprensibile con i capolavori di Kubrick. Rende giustizia a Stephen King anche riscrivendo il finale, perché nel romanzo “Shining” accadeva che l’albergo andasse in fiamme per lo scoppio della caldaia mentre Kubrick lo mantiene integro spostando il finale tragico nel ghiaccio; dunque nella narrativa di King l’albergo non c’è più, irrimediabilmente distrutto; ma cinematograficamente è ancora esistente e Flanagan ne tiene giustamente conto rendendo a Cesare quel che è di Cesare e a King ciò che era di King: fa scoppiare la caldaio e l’Overlook Hotel va finalmente a fuoco. Meglio tardi che mai.

Per il resto, ritmo e spettacolarità sono garantiti, anche se a mio avviso si perde l’essenza del primo romanzo che metteva al centro del racconto un nucleo familiare isolato in un luogo sperduto: un dramma da camera moltiplicato in infinite camere e corridoi interni ed esterni. Restano funzionali i richiami al 1980 dove ritroviamo il piccolo Danny e sua madre Wendy oggi interpretata da Alex Essoe, giovane e bella attrice canadese che avendo lavorato spesso col suo mentore Mike Flanagan ha nel curriculum solo horror; anche se imbruttita resta molto più bella di Shelley Duvall, anche lei inarrivabile col suo volto cavallino e i dentoni e gli occhi a palla. Torna anche il primo amico di luccicanza di Danny, il cuoco nero oggi interpretato da Carl Lumbly.

Henry Thomas, l’ex bambino protagonista di “E.T. l’extra-terrestre” per interpretare Jack Torrance indossa un trucco che non rende onore né a lui né a Jack Nicholson a cui si pretende di farlo somigliare (ma si vede che si è divertito ed è probabilmente il suo ruolo più significativo da quando è adulto); mi chiedo se non sarebbe stato meglio, dato che la tecnologia lo consente, riavere l’attore originale ringiovanito con il photoshop cinematografico, e come me se lo sono chiesto in tanti, al punto che il regista ha dovuto spiegare: “La cosa da tenere in considerazione per quel ruolo è che le regole dell’Overlook impongono che le persone abbiano la stessa età di quando sono morte lì dentro. Così avevamo solo due possibilità: la prima era ricreare un Jack in digitale, anche con l’aiuto di Jack Nicholson. Ma io non sono un fan delle tecniche di ringiovanimento in CGI. Anche se la tecnologia migliora di continuo, mi fa uscire dalla storia. Passo il mio tempo ad analizzare la tecnologia invece di concentrarmi sulla storia. Non volevo che questo accadesse nel mio film. Il secondo problema riguarda il fatto che Jack Nicholson è molto felice di fare il pensionato e non ha nessuna intenzione di tornare a recitare. Credo che la scena di Jack sia una delle più grandi sorprese del film e sia anche la scena più controversa. Me lo aspettavo, ma è anche la ragione per cui volevo fare il film”. Apprendiamo così che l’ormai 85enne Nicholson non tornerà sui set: il suo ultimo film è la poco vista commedia del 2010 “Come lo sai” diretta dal suo amico James L. Brooks che gli aveva fatto avere un Oscar nel 1984 con “Voglia di tenerezza”.

12 cose da sapere e Easter Egg di Doctor Sleep di Mike Flanagan - Il  Cineocchio
Il Vero Nodo dei succhiavapore

Nella nuova storia con nuovi personaggi l’adulto Dan Torrance è un banale alcolista che si redime diventando un banale buono senza alcun fascino, come ne abbiamo visti a migliaia, e anche il necessario apporto di una star come Ewan McGregor non basta a infondergli fascino narrativo. Quel fascino che invece hanno sempre i cattivi e qui primeggia la conturbante Rosa Cilindro di Rebecca Ferguson, personaggio talmente riuscito che dispiace vederla morire tra atroci contorcimenti infernali, ma non è detto perché abbiamo imparato che l’industria cinematografica fa resuscitare qualsiasi cosa prometta meraviglie al botteghino. La ventenne Emily Alyn Lind, figlia d’arte e già attrice bambina, è la cattiva di nuova generazione succhiavapore, ma anche lei soccombe esalando vapori malefici. La quindicenne Kyliegh Curran è qui al suo secondo film e al primo ruolo da coprotagonista: è Abra (da Abracadabra, ma come ti viene in mente, Stephen King? a tutto c’è un limite!) l’adolescente con una potente luccicanza che aiuterà Dan a sconfiggere i nuovi vampiri. Altro fondamentale sostegno al protagonista è dato dall’amico con flebile luccicanza interpretato da Cliff Curtis, mentre nel ruolo del dottore che guida il gruppo di sostegno c’è il l’attore cine-tv sempre in importanti ruoli di sostegno Bruce Greenwood; Zahn McClarnon, mezzo pellerossa e mezzo irlandese, è il cattivissimo braccio destro di Rose, mentre il gigante (2 metri e 13) Carel Struycken, noto per essere stato il maggiordomo nel dittico “La Famiglia Addams” è l’anziano del gruppo dei succhiavapore. Il 13enne già super premiato Jacob Tremblay, che passa dai protagonisti ai generici, qui è il ragazzino che dalla squadra giovanile di baseball va a finire sotto le mortali grinfie di Rose Cilindro; e per finire ritroviamo Danny Lloyd, l’ex bambino protagonista di “Shining” come coach della squadra di baseball, un ruolo davvero insignificante per una partecipazione che avrebbe meritato un cameo, dove per cameo si intende un ruolo piccolo ma significativo: nei titoli di coda non è neanche accreditato col suo nome ma solo come spettatore, e questa potrebbe essere un’orgogliosa scelta del professore di scienze tornato occasionalmente, ma inutilmente, sul set.

“Doctor Sleep” ha deluso i fan americani e ha incassato solo 14 milioni di dollari a fronte dei 50 spesi e ne è stata rilasciata la classica director’s cut con materiale inedito per incentivare gli ultimi indecisi. Stephen King lo difende come una sua propria creatura ma il fatto è che scrivere un romanzo di successo – benché relativo come per questo sequel – sia una cosa completamente differente dal produrre capolavori cinematografici, e non a caso fra i suoi romanzi diventati film restano nelle classifiche principali solo la Carrie di Brian De Palma e lo Shining di Stanley Kubrick. Tutto il resto è roba che fa mucchio sugli scaffali. Qui non bastano i riferimenti al film di Kubrick per farne un vero sequel: sarebbero stati necessari uno sforzo stilistico che, al di là delle capacità in campo, avrebbe dovuto perlomeno tentare di inseguire l’irraggiungibile originale non solo coi riferimenti ma con un vero impianto stilistico. Detto questo il film è gradevole e non è così orribile come gli americani scrivono sul web, ha il ritmo e la spettacolarità necessari a farne un ottimo film di genere. Ma di genere, appunto. Come nel caso di “Blade Runner 2049”: se il film originale è diventato un cult lasciatelo in pace, lasciateci in pace.

Shining – Extended Edition

Shining - CinCinCinema

“Se può essere scritto, o pensato, può essere filmato” è l’assioma, e anche l’estetica, di Stanley Kubrick, autore completo che, nascendo fotoreporter, oltre che nella regia e nella sceneggiatura si è cimentato nella direzione della fotografia, nel montaggio, nella creazione di effetti speciali, e anche come come produttore e scrittore. Un autore che in circa 40 anni di attività ha realizzato solo 13 film, la maggior parte dei quali sono capolavori che hanno rinnovato il genere con cui si è confrontato.

Great inventions by Garrett Brown, the inventor of the Steadicam | The  Average Viewer
Stanley Kubrick con Garrett Brown che indossa la sua steadycam, nel labirinto di siepi teatro di una delle sequenze più esemplari

Perché Kubrick – di cui ricordo la sua opera prima antimilitarista “Paura e Desiderio” – è stato un grande ed eclettico sperimentatore di generi, come anche di tecniche cinematografiche, applicando spesso importanti innovazioni tecnologiche: in “Shining” fa per la prima volta un uso massivo della nuova steadycam (videocamera indossata dall’operatore tramite un corpetto, che permette riprese in movimento molto fluide) inventata dall’operatore Garrett Brown “Con un risultato finale – disse Brown – tuttora insuperato, per eleganza e capacità espressiva.”

If you like The Shining | Central Rappahannock Regional Library

Del successo editoriale (4 milioni di copie vendute nell’edizione economica) di “The Shining” di Stephen King, da cui ha sviluppato la sua sceneggiatura (firmata insieme alla scrittrice Diane Johnson, mai tradotta da noi) Kubrick ebbe a dire: “Ho trovato geniale il modo in cui il romanzo è stato scritto. Leggendolo, si pensa che quello che succede sia un prodotto della sua immaginazione: questo permette di accettarlo. Secondo me la storia è reale. Io accetto, ai fini della storia, che sia tutto vero.” Si racconta che aveva incaricato il suo staff di portargli da leggere dei romanzi horror, per il suo prossimo film, e che aveva cominciato a leggerli chiuso nel suo studio; nella stanza accanto la sua segretaria lo sentiva puntualmente lanciare i libri contro il muro, fino a un giorno in cui fu incuriosita da uno strano silenzio: entrò nello studio per controllare e lo vide immerso nella lettura del romanzo di Stephen King. Riguardo all’ispirazione che il libro gli diede, Kubrick disse, ancora: “C’è qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella personalità umana. C’è una parte malvagia. Una delle cose che le storie horror possono fare è mostrare gli archetipi dell’inconscio; possiamo vedere la parte malvagia senza doverci confrontare con essa in modo diretto.”

Loudd | Stephen King | Cujo

In perfetta sintonia col pensiero dello scrittore: “Una storia dell’orrore è anche una riaffermazione dell’immaginazione, in questo senso il lavoro dello scrittore di romanzi fantastici consiste nel farci riprecipitare nell’infanzia. Se in uno dei miei racconti dò un dono speciale a un bambino, come in Shining, con la luccicanza di Danny, la capacità di prevedere il futuro, o la telecinesi di Carrie, è un altro modo per dire al lettore: guarda il tuo bambino. Quale dono ha il tuo bambino? Hai notato in che modo ragiona il tuo bambino? Perché i bambini non pensano in modo lineare, si dirigono verso altre prospettive o girano oltre gli angoli, sono flessibili. Quello che mi interessa molto dei bambini è che sono in grado di aprire la porta a nuove credenze e fantasie. Credono a tutto. Se dici loro che le persone possono volare, ci credono. Be’ ci credono perché sono fuori di testa. E noi gli permettiamo di essere fuori di testa. I bambini parlano con persone che non ci sono, finché non entra in gioco il disturbo della razionalità. Noi permettiamo ai nostri bambini di essere fuori di testa finché non hanno circa otto anni. A quel punto cominciamo a dire: perché non cresci? E loro crescono, diventano dottori, ingegneri. E che cosa ne è stato della loro immaginazione? Si restringe. Mentre i loro corpi crescono, la loro capacità di immaginare, l’intera gamma, l’intero mondo di meraviglie, inizia a rimpicciolirsi. Noi paghiamo un prezzo per diventare adulti. Un caro prezzo. E con gli adulti, possiamo insegnare loro a usare di nuovo l’immaginazione? Sì, io credo che sia possibile, e credo che uno dei motivi per i quali essi si avvicinano ai miei libri sia per ciò che cerco di dire loro, che è: Guardate! Usate di nuovo la vostra immaginazione!

Ewan McGregor to play Jack Nicholson's grown son in 'The Shining' sequel |  abc10.com

“Ti voglio bene Danny. Ti voglio bene più di ogni altra cosa. Di ogni cosa al mondo. E non potrei mai farti niente di male. Mai. Lo sai questo, vero?”
Come credergli, con quella faccia?

Stephen King prima di “The Shining” aveva pubblicato dei racconti su riviste letterarie e due soli romanzi: “Carrie” 1974, subito grande successo tramutato in film due anni dopo con firma di Brian De Palma; e “Le Notti di Salem” 1975, che diventerà film nel 1987. Pubblica “The Shining” nel 1977 dopo averci lavorato un intero anno e averne fatto, a suo modo, un’opera molto personale: si identifica totalmente col suo protagonista, lo scrittore alcolista in piena crisi creativa Jack Torrance, e racconta che l’ispirazione gli è venuta quando trovò i suoi fogli dattiloscritti messi in disordine dal figlio che però gli aveva anche lasciato dei disegni con la scritta “ti amo papà”. Lui, che era appena uscito dall’anonimato e dalla povertà scrivendo storie horror, partì da quello spunto reale, e amorevole, per immaginare un padre che, sconvolto da un’entità maligna che lo possiede, cerca di uccidere il figlio. Gli invidiosi e i maligni, quelli reali, hanno poi speculato asserendo che lo scrittore odia suo figlio.

Doctor Sleep senza Nicholson, perchè? – Io Nerd e la mia vita

Jack Torrance nel film, nella scena onirica in cui si confessa al barman, dice: “Io le mani addosso non gliele ho mai messe. Non l’ho toccato. Io quella sua dolce testolina santa non la toccherei nemmeno con un dito. Io lo amo quel mio figlietto di puttana! Io farei qualsiasi cosa per lui. Qualsiasi cazzo di cosa per lui. – Quella… stronza. Lo so che fino a quando vivrò farà tutto il possibile perché io non dimentichi. – Io gli ho fatto male una volta, ok? Ma è stato un incidente! Senza nessuna intenzione! Non l’ho fatto mica apposta. Ma può succedere a tutti, è stato tre maledetti anni fa! Quello stronzino aveva buttato a terra tutti i miei fogli di carta! e allora io gli ho preso un braccio e l’ho tirato via!… È stata una mancata coordinazione muscolare, nient’altro. Capisci? Soltanto qualche chilogrammo di energia in più per secondo! Per secondo!”

In realtà Stephen King ha saputo dare voce, senza auto censure auto rassicuranti, a quei lati oscuri che in ognuno di noi esistono ma che subito scacciamo come nocivi e perversi: solo i pazzi criminali li inseguono e li assecondano. E poi ci sono gli artisti visionari che li veicolano nelle loro creazioni. Stephen King e tutte le altre produzioni horror, in qualsiasi forma esse vengano realizzate, hanno successo perché dialogano con l’oscuro che si cela in ognuno di noi, da sempre: ricordiamoci (o riscopriamo) le tragedie greche dove madri uccidono i figli, i figli uccidono i padri e si accoppiano con le loro madri… Sono racconti che ci esaltano perché alla fine ci fanno sentire migliori dato che siamo in grado di tenere imbrigliati i nostri più indicibili istinti.

Awesome (and useless) facts about The Shining… before the sequel comes  along – Filmsane

Stephen King ha odiato il film perché se ne è sentito profondamente tradito. La sua narrativa è viscerale, istintuale, debordante e anche splatter, mentre l’adattamento cinematografico di Stanley Kubrick è algido e cerebrale, stilizzato, com’è nel suo stile che gli fa guardare le cose con l’occhio distaccato e poco emotivo del fotoreporter che è in lui: più che farci partecipare al racconto ce lo documenta. E lo scrittore, in una delle sue numerose conferenze dirà: “Stanley Kubrick è l’uomo più freddo dell’universo. E io sono più un uomo caldo, appiccicoso, sentimentale. La differenza tra la sua versione e la mia versione di Shining è che la mia finisce con un hotel che brucia e la sua finisce con un hotel nel ghiaccio.”

Il mattino ha l'oro in bocca - Il Post

Non tutti sanno che Stanley Kubrick ha voluto realizzare quel film horror a causa del clamoroso insuccesso del precedente film, il capolavoro storico “Barry Lindon” oggi considerato una delle più grandi opere cinematografiche mai realizzate. Decise quindi da dare al pubblico qualcosa di più appetibile senza però voler rinunciare alla sua visione artistica.

Per il ruolo del protagonista furono fatti i nomi di Harrison Ford (da lì a poco Indiana Jones) Robin Williams (star della serie tv “Mork e Mindy” che aveva debuttato al cinema col barzellettistico “Il film più pazzo del mondo”) Robert De Niro (già Oscar per “Il padrino Parte II” e che in seguito dichiarò di aver fatto brutti sogni per un mese di fila dopo aver visto il il film) e Jack Nicholson (anche lui un Oscar per “Qualcuno volò sul nido del cuculo”) che alla fine rimase l’unico candidato dopo che gli altri erano stati bocciati da Stephen King che ora, dopo il successo di “Carrie, lo sguardo di Satana” aveva voce in capitolo.

Shelley Duvall – attrice non bella principalmente attiva sui set di Robert Altman che l’aveva scoperta e valorizzata fino a farle ottenere il premio come migliore attrice a Cannes nel 1977 con “Tre Donne” – qui sembra un po’ sacrificata nel ruolo della moglie middle-class un po’ stupidina, e di fatto il suo rapporto col regista fu alquanto burrascoso proprio a causa delle battute e dello stile di recitazione che Kubrick le imponeva: ne subì un tale stress che cominciò a perdere i capelli. Anche Stephen King non fu generoso liquidandola come una cretina che urla sempre.

Shelley Duvall: la malattia "Shining" e il rapporto con Stanley Kubrick

Il metodo del pignolo Kubrick causò tensioni con l’intero cast: Jack Nicholson arrivò persino a buttare i fogli del copione che gli assistenti dell’autore via via gli fornivano, rifiutandosi di imparare a memoria delle battute che poi nel corso della giornata sarebbero cambiate diverse volte, e prese la sana abitudine di memorizzare i dialoghi solo pochi minuti prima del ciak. Scatman Crothers, il caratterista nero di lungo corso qui nel ruolo del cuoco dell’albergo che come il bambino ha la luccicanza e lo avverte dei pericoli oscuri cui va incontro, minacciò di abbandonare il set per la lungaggine e la pesantezza delle riprese; Joel Turkel, interprete del barista, confermò quell’andamento dichiarando in un’intervista che la scena del bar, circa cinque minuti di dialogo, lo impegnò per sei settimane arrivando anche a tredici ore di lavoro al giorno. L’intera lavorazione durò così quasi un anno, dal maggio 1978 all’aprile 1979 e con la post produzione in film uscì nel 1980. D’altro canto la maniacalità di Kubrick ha prodotto risultati eccellenti e i vari dialoghi – il cuoco e il bambino, il bambino e il padre, il padre e il barman – sono pezzi da antologia, con quel ritmo di battute innaturalmente rallentato che rende appieno lo straniamento e suscita una sottile inquietudine.

Danny di «Shining», Chunk dei «Goonies» e gli altri, ecco cosa fanno oggi  gli attori bambini di Hollywood - Corriere.it

Complicata fu anche la ricerca del bambino per il complesso ruolo di Danny Torrance: furono visti 5000 ragazzini fra Chicago Denver e Cincinnati, un triangolo di città scelte da Kubrick per trovare un bambino che avesse un accento a metà strada fra quello dei due attori nei ruoli dei genitori. Danny Lloyd, 6 anni, fu scelto per la sua capacità di restare serio e concentrato anche per un tempo lungo: è rimasta a tutt’oggi celebre la sua interpretazione del bambino con poteri speciali, la luccicanza come viene tradotto nel doppiaggio del film per seguire il labiale con la A centrale di shining (splendente luminoso rilucente) che nella mitologia creata dallo scrittore è una sorta di aura che consente di vedere oltre. Il bambino partecipò poi a un film tv e contrariamente a tanti altri attori bambini che hanno continuato la carriera artistica anche rovinandosi la vita con abusi ed eccessi di ogni tipo, tornò a scuola e a una vita normale; oggi è un insegnante di biologia che è tornato sul set con un cameo nel sequel di Shining, “Doctor Sleep”.

La versione estesa del film di 144 minuti contiene 25 minuti in più rispetto all’edizione che da noi è andata nelle sale nel 1980 ma è praticamente identica a quella che era stata distribuita negli Stati Uniti: lo stesso Kubrick tagliò e rimontò la versione più breve per il mercato internazionale, preoccupandosi anche di far dattiloscrivere nelle lingue europee, e di farne delle riprese da montare per i singoli Paesi, il folle manoscritto in cui Jack Torrance ha ripetuto per 500 pagine (dattiloscritte dalla segretaria di Kubrick in mesi e mesi di certosino lavoro) il proverbio: “All work and no play makes Jack a dull boy” che per noi era diventato “il mattino ha l’oro in bocca”; ma quelle riprese andarono perdute nella versione home in DVD e oggi esiste solo la versione anglo-americana sottotitolata. I 25 minuti aggiunti nel 2017 sono stati ovviamente doppiati al momento: Giancarlo Giannini torna a essere la voce di Jack Nichilson, mentre Shelley Duvall che era stata doppiata dall’allora signora Giannini Livia Gianpalmo, nel 2019 è stata doppiata da Francesca Fiorentini, voce italiana di attrici come Gwineth Paltrow, Milla Jovovich e Catherine Zeta-Jones. Da sottolineare che la versione estesa del 2019, oltre a riaccendere l’interesse commerciale sul film, è stata una manovra pubblicitaria per lanciare il sequel di “Shining” che è tratto dal sequel del romanzo di Stephen King: “Doctor Sleep” che ha come protagonista il piccolo Danny Torrance oggi diventato un adulto assai problematico. E come potrebbe essere altrimenti? Dunque andiamo a vedere questo sequel interpretato da Ewan MacGregor.