Archivi tag: sergio leone

I magnifici sette cavalcano ancora

Con la saga de “I magnifici sette” cominciata 12 anni prima, quello che ha fatto più soldi, oltre al produttore Walter Mirisch, è sicuramente il compositore Elmer Bernstein che piazzò questa sua colonna sonora fra le più ascoltate e oggi è sempre inserita nelle compilation delle più belle musiche hollywoodiane: di film in film aggiunge qualche variazione, qualche nuova melodia di accompagnamento alle nuove scene, e per il resto ci campa di rendita, che è il riconoscimento migliore per chi ha talento; nel corso della sua carriera ha ricevuto 14 nomination all’Oscar e solo una statuetta nel 1968 per il dimenticato musical “Millie” di George Roy Hill con Julie Andrews; vinse anche due Golden Globe, un Emmy e un Academy Award.

In questo 1972 si conclude malinconicamente la gloriosa saga con un film raffazzonato e noioso, scritto male e diretto peggio. Il protagonista Chris Adams è ormai un brand che può interpretare chiunque e in quest’ultimo capitolo ne veste i panni Lee Van Cleef che sette anni prima era stato miracolato da Sergio Leone che era andato a scovarlo quando l’attore stava ormai rinunciando al cinema per darsi la pittura: in “Per qualche dollaro in più” tutti i dettagli. Partecipa anche al terzo capitolo della Trilogia di Leone e per i successivi cinque anni resta in Italia dove gira altri sei spaghetti-western prima di essere richiamato in patria dove però continua con altri western di serie B, e per gli anni successivi farà avanti e indietro di qua e di là dall’Atlantico: questo suo Chris Adams è senz’altro il primo ruolo significativo in una produzione hollywoodiana, ma ahilui la gloriosa saga è ormai allo sbando.

Scrive Arthur Rowe che essendo principalmente uno sceneggiatore per la televisione ne ripropone i moduli e l’andamento, pedissequamente assecondati dalla piattissima regia dell’altrettanto televisivo George McCowan: movimenti di camera come in uno studio tv, carrellate e zoom come in una sit-com, e massima disattenzione ai dettagli: stuntmen che si buttano giù dal cavallo in ritardo sugli spari e gli scoppi, e si vede pure chiaramente che si buttano in modo di non farsi male. La produzione seriale televisiva aleggia sin dall’inizio e ci si predispone allo sbadiglio quando non all’irritazione. Sorprende che il produttore abbia messo su questa farsa, ma probabilmente neanche lui ci credeva più e pensava di grattare il fondo del barile.

Pedro Armendáriz Jr. e William Lucking

Il pistolero mercenario dal cuore d’oro si è qui sistemato e sta mettendo su famiglia; è diventato sceriffo di una cittadina dell’Arizona sul confine con quel Messico dove si sono svolte le sue precedenti avventure; e ha una bella moglie in attesa di prole che invece di stare a casa a preparare torte, come fanno le brave mogli del west, va a spettegolare nell’ufficio del marito con vista sulle celle dove i delinquenti possono intrattenersi con le mamme addolorate: tutto assai improbabile.

Mariette Hartley, prima a sinistra.

Se è plausibile che un pistolero che cavalcava ai limiti della legge diventi un tutore dell’ordine – nel vecchio west accadeva questo e molto peggio, l’importante era saper sparare – non è assolutamente credibile che due donne si ritrovino a chiacchierare amabilmente davanti alle celle dei malviventi colà imprigionati come se fossero dal parrucchiere: la logica della piatta scrittura non si preoccupa del contesto, anche storico e culturale, ma solo di mettere in scena i suoi personaggi per portare avanti una storia altrettanto improbabile.

Lee Van Cleef con Stefanie Powers

La novità del film è che il secondo nome del cast sempre necessariamente virile è qui femminile: Stefanie Powers, che era diventata popolare grazie alla serie tv “Organizzazione U.N.C.L.E.” e che più avanti sarà amata protagonista della serie “Cuore e batticuore”. Attrice che capeggia un’armata di donne, vedove o vedove bianche a causa del solito bandito messicano che scorrazza di qua e di là dal confine. E questi ultimi magnifici (si fa per dire) sette, lo sceriffo li mette insieme assoldando cinque di quei delinquenti che aveva sbattuto dietro le sbarre, più un giornalista che era venuto a raccoglierne le prodezze passate per scriverne un libro.

Il giornalista è Michael Callan, ex attor giovane canterino già nel cast della versione teatrale di “West Side Story” ma che cine-televisivamente non lascerà una gran traccia di sé. Gli altri cinque sono: Ed Lauter, uno stand-up comedian che qui debutta sul grande schermo e che si ritaglierà una lunga proficua carriera di caratterista; il messicano originale Pedro Armendáriz Jr. che come il padre partecipò a uno dei film della saga di 007; Luke Askew che aveva appena avuto un piccolo ma fondamentale ruolo in “Easy Ryder” di Dennis Hopper; James B. Sikking, altro caratterista molto televisivo; e William Lucking che in tarda età ha acquisito notorietà con la serie tv “Son of Anarchy”. Il cattivo ragazzo che innescherà tutta l’azione è l’oggi sconosciuto Darrell Larson, che si accompagna al cattivaccio Gary Busey che avrà il suo apice nel prossimo “Un mercoledì da leoni” di John Milius. Sul numeroso stuolo di belle signore al servizio dei sedicenti magnifici si staglia, oltre alla Powers, Mariette Hartley come querula ma sfortunata moglie del protagonista.

Fu il primo (oltre che l’ultimo) film della serie interamente girato negli Stati Uniti fra una linda cittadina del vecchio west che fece da sfondo a moltissimi altri film e serie tv, e gli spazi rocciosi e semi desertici che colà non mancano di certo senza la necessità di spingersi a girare in Messico, il primo film, e in Spagna, i primi due sequel. il film è talmente scialbo che fu ignorato anche dal mercato internazionale che solitamente riappianava gli scarsi introiti nazionali, ed ebbe una perdita netta di 21 mila dollari, e solo con i successivi passaggi televisivi si riuscì a coprire le spese. Se abbiamo visto gli altri film della serie va visto anche questo, solo per renderci conto di come si può cadere in basso e disperdere un iniziale capitale artistico ed economico, nella polvere. Letteralmente.

Ricapitoliamo: il primo film della tetralogia si ispirò a “I sette samurai” di Akira Kurosawa (1954) e seguiranno un remake fantascientifico che da noi venne intitolato “I magnifici sette nello spazio” (1980) ma il cui titolo originale fu più discretamente “Battle Beyond the Stars” perché probabilmente il produttore Walter Mirisch non accordò il permesso di utilizzare il titolo del suo brand; fu diretto da Jimmy T. Murakami che essendo stato principalmente un animatore dovette trovarsi in difficolta con gli attori in live action e gli venne in soccorso sul set Roger Corman, che era anche il produttore esecutivo e che non si volle accreditare nei titoli. Poi, siccome si torna sempre sul luogo del delitto, Mirisch si associò con la MGM per produrre una serie televisiva di 22 episodi che da noi fu trasmessa da Rai2 nel 2002. Al momento i remake si concludono col film del 2016 con Denzel Washington che non essendo stato un blockbuster non generò ulteriori sequel.

Le pistole dei magnifici sette

Dopo il clamoroso successo de “I magnifici sette” del 1960 starring Yul Brynner promotore del progetto e anche produttore, e il travagliato e incerto sequel del 1966 “Il ritorno dei magnifici sette” dove Brynner si piega a imitare il silenzioso Clint Eastwood rilanciato in patria dal nostro Sergio Leone con la “Trilogia del Dollaro”, il produttore esecutivo Walter Mirisch – cui si devono anche film come “L’appartamento” di Billy Wilder e “West Side Story” di Robert Wise – non vuole rinunciare a quella macchina per far soldi e mette in cantiere questo terzo capitolo al quale però la star Brynner – che restando cinematograficamente in Messico stava nel frattempo interpretando il rivoluzionario Pancho Villa in “Viva! Viva Villa!” (titolo che richiama sfacciatamente “Viva Zapata” dei primi anni ’50) – dice definitivamente di no. Dopo un momento di sconforto il produttore decide di andare avanti e si guarda intorno per sostituire il primo pelato dello star system hollywoodiano (seguirà a breve Telly Savalas) e chi meglio dell’astro nascente George Kennedy fresco di Oscar come non protagonista in “Nick mano fredda” accanto a Paul Newman diretto da Stuart Rosenberg. Non si preoccupò neanche che il nuovo Chris Adams fosse almeno lontanamente somigliante all’originale e Kennedy sfoggerà la sua fitta chioma bionda spesso anche ben pettinata nonostante le lunghe cavalcate.

George Kennedy
Michael Ansara

Era evidente che con un volto nuovo a capo dei nuovi magnifici sette bisognasse avere un cast forte e anche la sceneggiatura di Herman Hoffman andava in quel senso: abbandonando la ripetitività del mercenario di buon cuore che si mette al servizio delle buone cause – nei primi due film difende dai cattivi dei villaggi di contadini messicani – il plot fa un salto di qualità e dall’impegno sociale passa dritto dritto all’impegno politico irrompendo nella Storia, quella con la S maiuscola: stavolta il cattivo è nientepopodimenoché il tirannico presidente messicano Porfirio Diaz, il cui braccio armato nel film è l’immaginario Colonel Diego – interpretato dal caratterista di lungo corso Michael Ansara, nato in Siria ma emigrato bambino negli States con i genitori; un colonnello che dal suo fortilizio militare opprime il popolo, dove si muove il rivoluzionario Quintero interpretato da Fernando Rey che paradossalmente è l’unico dopo Brynner a tornare nel cast per la seconda volta, benché qui con un ruolo diverso.

Fernando Rey

Imprigionato Quintero, il giovane attivista Maximiliano – interpretato dal mediterraneo (metà corso e metà spagnolo per origini) ma americanissimo Reni Santoni, qui in uno dei suoi ruoli primi ruoli importanti in una carriera in cui sarà sempre ottimo supporto – andrà alla ricerca del mitico Chris Adams da ingaggiare con la considerevolissima, all’epoca, somma di 600 dollari: 100 a testa, predisporrà il capobanda, offrendo la somma ad amici e conoscenti che mette insieme i nuovi magnifici sette insieme a Maximiliano ribattezzato Max perché gli ispanici hanno i nomi troppo lunghi.

Reni Santoni

E anche il reclutamento dei diversi tipi è in questo terzo film più interessante perché proprio diversi sono gli uomini, ancora ognuno con un proprio passato che però stavolta non ci viene più raccontato: sappiamo che c’è e questo basta a dare spessore ai personaggi. Per la prima volta c’è un nero, il debuttante Bernie Casey ex star del football che avrà una buona carriera anche come attore cine-televisivo.

Bernie Casey

E argutamente nella banda dei sette stavolta entra anche un uomo di mezza età interpretato dal caratterista di lusso James Whitmore già insignito del Golden Globe e della candidatura agli Oscar come non protagonista per il bellico “Bastogne” di William Wellman nell’ormai lontano 1949.

James Whitmore

In questo casting attentissimo alla qualità degli interpreti e alla loro immediata riconoscibilità, come braccio destro del protagonista – il ruolo che inizialmente fu dell’irritante Steve McQueen che non fece che litigare con Yul Brynner – viene scritturato un altro emergente di qualità, Monte Markham, che indossando proprio il costume di McQueen in qualche modo ne imiterà l’interpretazione dando un suo spessore interno al personaggio e un divertimento in più a chi ne sa riconoscere le sfumature.

Monte Markham

Altro nome di spicco è e sarà quello di Joe Don Baker che interpreta il pistolero dall’oscuro e tormentato passato, qui al suo vero debutto cinematografico dopo una piccolissima apparizione in “Nick mano fredda” che aveva lanciato George Kennedy: pur se mai in ruoli da protagonista l’attore sarà un punto di forza di molte produzioni – comparirà tre volte nella saga di 007 – e oggi 88enne è uno degli ultimi membri onorari a vita dell’Actors Studio.

Joe Don Baker

L’ultimo dei sette è l’ignoto 19enne Scott Thomas che aveva debuttato l’anno prima con un piccolo ruolo in un film di serie B e che non farà molto altro: non tutte le ciambelle riescono col buco. P.J. è il suo personaggio senza un vero nome ma che accenna una storia d’amore, non necessaria a dire il vero e inserita lì per restare nella tradizione, con la chica Tina atteggiata da Wende Wagner, un’ex modella americana provetta nuotatrice e sportiva che si è riciclata come attrice e l’anno prima era stata nel cast di “Rosemary’s Baby” di Roman Polanski, mentre questa sarà la sua ultima apparizione sullo schermo.

Scott Thomas

In questa storia che incontra la Storia c’è fra le fila dei rivoltosi un ragazzino che risponde al nome di Emiliano Zapata e sappiamo già, per lo meno chi lo sa, che da grande sarà un importante rivoluzionario messicano che nel 1952 era stato raccontato nel film “Viva Zapata!” di Elia Kazan con Marlon Brando; l’interprete ragazzo è Tony Davis, un attore bambino già attivo in tv che diventato adulto perdiamo di vista.

Alla regia il professionista di lungo corso Paul Wendkos che il produttore aveva già sotto contratto per le sue produzioni televisive e il film che confeziona è solido e assai gradevole. Questo secondo sequel è senz’altro migliore del primo e nella ricerca di una diversa complessità non fa rimpiangere la mancanza di Yul Brynner come star trainante e, quello che più conta, si comportò talmente bene al botteghino, soprattutto sul mercato internazionale, che venne messo in cantiere il terzo e ultimo sequel “I magnifici sette cavalcano ancora” che ancora una volta cambierà protagonista. Alla critica però il film non piacque: “È lo stesso vecchio film di cowboy con la mascella di ferro, con nuovi attori e tutta la magnificenza di un asino morto” scrisse il New York Times. Più generoso Variety: “Si eleva al di sopra di una trama di routine grazie a una scrittura solida e in un crescendo dell’azione con un finale di sparatorie scoppiettanti.” Di certo andare a rivederlo, o vederlo per la prima volta magari in sequenza con gli altri film, non è una perdita di tempo.

Il ritorno dei magnifici sette

Dopo il grande successo del 1960 (qui il link con un approfondito ritratto di Yul Brynner) il sequel arriva dopo ben sei anni, segno che non tutto è andato come doveva e d’altronde il protagonista, che fu anche produttore, aveva già altri impegni in corso, ricordiamo soprattutto le escursioni fra i cosacchi della sua natia Russia in “Taras il magnifico” e fra i Maya con “Il re del sole” entrambi diretti da J. Lee Thompson. Alla fine il progetto andò in porto con un impegno ridotto di Brynner sul versante produttivo, il quale aveva puntualizzato che per girare questo sequel non voleva più avere a che fare con Steve McQueen che gli aveva creato non pochi problemi (sempre nel link tutti i dettagli), e McQueen d’altronde si dichiarò disinteressato ritenendo la trama troppo assurda: non che la trama del primo capitolo fosse così realistica, però. Ma se lì c’era alla regia John Sturges che era riuscito a creare un film evento, qui c’è il regista “di genere” Burt Kennedy, ex ballerino e attore teatrale che cacciato dal palcoscenico per scarso talento si è riciclato come sceneggiatore radio-televisivo, passando poi al cinema principalmente come regista di discutibili western serviti nelle più svariate versioni: melodrammatico, parodistico, comico; il suo unico successo arriverà l’anno dopo questo film con “Tempo di terrore” noto da noi anche come “Tempo di uccidere” con Henry Fonda.

Di fatto questo sequel non è male anche se la sensazione del già visto è sempre presente; ci sono bei movimenti di macchina e scoppiettanti sparatorie, e anche alcuni tentativi di innovazione nella trama che gioco forza ricalca quella dell’originale: lì c’era un cattivo che sfruttando terrorizzava un povero villaggio messicano, qui i villaggi diventano tre e il cattivo è spinto dal sentimento di vendetta, di padre cui hanno ucciso i figli, più che dalla brama di potere. A inizio film ci sono poi dei quadretti folcloristici con una corrida, una ballerina di flamenco e una lotta di galli: roba che fa spettacolo e allunga il brodo. Come nel primo film si compone poi il gruppo dei sette cui sono sopravvissuti il personaggio di Brynner che è l’unico del cast originario a tornare.

L’altro era quello di McQueen che si era lamentato della pochezza delle sue battute e che qui sarebbe rimasto molto compiaciuto nel vedere che ora il suo personaggio parlava più di quello del protagonista assoluto: il capo dei “I magnifici sette” che prima parlava tanto qui si fa più taciturno acquistando in fascino enigmatico: viene da pensare che aveva fatto scuola il silenzioso Uomo Senza Nome che Sergio Leone aveva creato nel 1964 inaugurando la sua Trilogia del Dollaro con Clint Eastwood. Il terzo personaggio sopravvissuto era quello di Chico che era stato interpretato dal tedesco Horst Buchholz che con quel film si lanciò nel panorama internazionale e ora non aveva certo intenzione né tempo di rifare il chico messicano in un sequel che si prevedeva senza infamia né lode.

Robert Fuller con Yul Brynner

I nuovi magnifici sette con Brynner al comando furono Robert Fuller in sostituzione di McQueen: un attore principalmente noto per le sue partecipazioni nelle serie western televisive nelle quali prevarrà il resto della sua carriera. Poi, dati i problemi col governo messicano durante la lavorazione del primo film, Il sequel fu girato in Spagna, dove i nostri andavano a girare gli spaghetti-western, e il resto del cast, dei figuranti e delle maestranze furono ingaggiati sul posto; a sostituire Buchholz venne chiamato il già noto il patria Julián Mateos che dopo questo ruolo restò a lavorare in Spagna senza più partecipazioni ad altri film internazionali. Di seguito anche la donna che il personaggio aveva sposato alla fine del film, la messicana Petra già interpretata da Rosenda Monteros, viene qui impersonata da Elisa Montés, un’attrice principalmente teatrale che nella sua carriera cinematografica ha anche lavorato all’estero, e da noi in “Noi siamo le colonne” del 1956 diretto da Luigi Filippo D’Amico.

Jordan Christopher

I restanti quattro dei sette furono: Warren Oates, caratterista anch’egli proveniente dai western tv, che aveva già lavorato col regista Burt Kennedy e che da qui in poi si ritaglierà una carriera cinematografica come interprete di rango; Claude Atkins, già noto attore con volto da duro che qui ha forse il personaggio più interessante, perché il più tormentato; concludono con ruoli decisamente secondari l’americano Jordan Christopher, più cantante che attore con un bel faccino qui spacciato per il messicano Manuel, e il portoghese Virgilio Texeira che già dal decennio precedente si era trasferito negli Stati Uniti ma che tornò in patria per occuparsi di politica e della società degli autori, la nostra SIAE.

Virgilio Texeira e Warren Oates

Accanto a questi nuovi magnifici sette che di magnificenza ne trasudano ben poca, compreso il capostipite Brynner che alla fin fine appare appannato e stanco, brilla invece l’interpretazione dello spagnolo Fernando Rey nel ruolo del prete che fa da portavoce ai ribelli: un attore di gran classe che aveva cominciato in patria come doppiatore di calibri tipo Laurence Olivier e Tyrone Power e che fu lanciato sul grande schermo dal grande Luis Buñuel e che da lì in poi fu presente sia in moltissime produzioni internazionali importanti che in film di genere anche italiani, arrivando a lavorare pure con Franco e Ciccio. La sua interpretazione dà così tanto lustro a questo sequel che verrà scritturato anche nel film successivo “Le pistole dei magnifici sette” per ricoprire un diverso personaggio: cosa che capita raramente. In ogni caso il film, pur senza bissare il successo del primo capitolo, si comportò bene al botteghino tanto da avere un altro seguito, e non solo uno.

Fernando Rey, Julián Mateos ed Elisa Montés

I magnifici sette – con un ritratto di Yul Brynner

All’inizio c’è “I sette samurai” del 1954 di Akira Kurosawa con Toshiro Mifune che fu un successo internazionale candidato ai BAFTA nel 1956 e agli Oscar nel 1957 ma già vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia del 1954. Poi ci fu Yul Brynner.

Yul Brynner in una foto del 1943

Julij Borisovič Briner all’epoca era già la star Yul Brynner ma vediamone un ritrattino, a cominciare dalla data della sua nascita sulla quale ha inspiegabilmente mentito invecchiandosi, forse per darsi più autorevolezza e restiamo nell’ambito delle ipotesi perché le sue motivazioni non sono mai state chiarite; sulla sua tomba è riportato come anno di nascita il 1920 ma lui aveva dichiarato alla stampa di essere nato nel 1915 sull’isola russa di Sachalin col nome di Tadje Khan cercando di vantare una discendenza da Gengis Khan: nulla di strano in un ambiente, Hollywood, dove le biografie s’inventavano a tavolino, solo che lui non lasciò che altri lo facessero per lui. In realtà era nato a Vladivostok da padre russo ingegnere minerario di origine svizzera e da madre con ascendenze nomadi Buriati e Rom, tanto che lui fu sempre molto vicino a quei popoli fino a diventare presidente onorario dell’Unione Mondiale Rom. Quando Julij aveva sette anni la madre si separò dal marito fedifrago e se lo portò in Manciuria, Cina, all’epoca sotto il controllo giapponese dove, avviando un fiorente commercio internazionale, iscrisse lui e la sorella maggiore Vera alla sede locale della londinese YMCA, Young Men’s Christian Association, sigla che fu un grande successo dei Village People del 1978 che hanno ironizzato sullo stare in una scuola cattolica e che ancora oggi fa ballare chiunque, cattolici e non.

Julij e Vera studiarono anche musica e canto e impararono il cinese, ma temendo l’aggravarsi delle tensioni col Giappone la madre ritrasferì la famiglia, stavolta a Parigi, dove tutti impararono anche il francese, e dove il ragazzo esercitò vari mestieri, debuttando quattordicenne come chitarrista al cabaret “Hermitage” cantando canzoni russe e rom: la conoscenza della musica che aveva studiato con la sorella sarà fondamentale nella sua carriera.

Fu anche eccezionalmente trapezista nel “Cirque d’Hiver”, a riprova delle sue capacità ginniche, dove però in seguito a una caduta, ancora 17enne divenne dipendente da oppioidi per sedare il dolore costante alla spina dorsale. Ma non tutti i mali vengono per nuocere se si è nati sotto una buona stella: una sera mentre acquistava oppio da uno spacciatore conobbe un altro consumatore abituale, il poeta scrittore drammaturgo e artista visuale Jean Cocteau che lo introdusse nel bel mondo bohemien facendogli conoscere Pablo Picasso, Salvador Dalì, Marcel Marceau e il giovane bell’attore Jean Marais con cui Cocteau aveva una relazione, frequentazioni che lo incuriosirono al mondo dell’arte recitativa, e non si esclude che anche il giovanissimo aitante Julij abbia sperimentato all’epoca l’omoerotismo; di fatto lui e Cocteau restarono amici per la vita e nel 1960 parteciperà al film sperimentale e autobiografico dell’autore francese “Il testamento di Orfeo”. Intanto, per la sua dipendenza il giovanotto fu mandato in Svizzera dove guarì definitivamente dagli oppioidi, che però sostituì col vizio del fumo che lo condurrà alla morte per un cancro ai polmoni.

Il futuro divo hollywoodiano tornò a Parigi riprendendo a frequentare i bohemien fra i quali conobbe un amico americano di Cocteau, il fotografo George Platt Lynes che ritroverà a New York quando a vent’anni raggiunse, insieme alla madre, la sorella che si era già trasferita negli USA per inseguire la carriera di cantante lirica: nel 1950 Vera fu nel cast dell’opera “Il Console” di Gian Carlo Menotti e fu anche la protagonista della “Carmen” di Georges Bizet in una produzione tv: la loro madre che da giovane aveva studiato come attrice e cantante si realizzò attraverso i figli.

Erano gli anni in cui gli Stati Uniti furono coinvolti dal Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, e i timori di quel conflitto avevano fatto arrivare in America, insieme a tantissimi altri artisti europei, anche un altro russo, l’attore regista Michail Čechov, nipote del drammaturgo Anton Čechov, nella cui compagnia Brynner iniziò a studiare recitazione mentre lavorava come speaker in francese per le trasmissioni dell’esercito USA alla Resistenza europea. Alla fine della guerra, mentre il suo maestro veniva candidato all’Oscar come non protagonista per “Io ti salverò” di Alfred Hitchcock, Julij, che ancora parlava uno scarso inglese con forte accento russo, in cerca di soldi facili poserà per la collezione privata di nudi maschili del fotografo Platt Lynes – all’epoca gli omosessuali danarosi andavano spesso in giro armati di macchine fotografiche… – foto che poi verranno pubblicate solo dopo la morte dell’attore e che ancora oggi sono oggetto di collezionismo. Cominciò a calcare le scene a Broadway finché nel 1949 debuttò nel poliziesco “Il porto di New York” noto da noi anche come “La belva di New York” dell’ungherese László Benedek. Nel 1951 arriva il momento di svolta: è protagonista del musical “The King and I” musicato da Richard Rodgers su libretto di Oscar Hammerstein II, dove per interpretare il Re del Siam si rasò a zero la testa, dato che peraltro stava già perdendo i capelli, e per la sua interpretazione vinse il Tony Award.

Arrivarono anche i produttori cinematografici sempre alla ricerca di successi e macchine per far soldi: Charles Brackett Darryl F. Zanuck acquisirono i diritti della pièce per trarne un film, affidando la regia a Walter Lang e confermando nel ruolo del protagonista maschile l’ancora sconosciuto ma già premiato Brynner, anche insostituibile per la sua specificità. “Il re ed io” fu un altro grande successo e lanciò l’attore fra le stelle del cinema procurandogli l’Oscar nel 1957 per la migliore interpretazione maschile, battendo calibri come James Dean e Rock Hudson per “Il gigante” diretto da George Stevens, Kirk Douglas che era stato Vincent Van Gogh in “Brama di vivere” diretto da Vincent Minnelli, e Laurence Olivier anche regista di “Riccardo III” da William Shakespeare. Nel ricevere la statuetta dalle mani di Anna Magnani, che aveva vinto l’anno prima con “La Rosa Tatuata” di Daniel Mann, Brynner pronunciò una battuta che diverrà famosa: “Spero non sia un errore, perché non lo darò indietro per nulla al mondo”. Fu anche il primo divo a sfoggiare la testa pelata e anche per questa novità, oltre al suo indubbio fascino, divenne un sex symbol e molti altri uomini rinunciarono a toupet e parrucchini sfoggiando orgogliosi la pelata “alla Yul Brynner”: aveva lanciato non una moda ma uno stile di vita, e anche se per esigenze produttive in alcuni film sfoggiò di nuovo la chioma, personalmente mantenne lo stile per il resto della vita. Il film ispirò anche una serie televisiva del 1972 intitolata “Anna ed io” in cui Brynner riprese il suo ruolo.

Quel 1956 fu per l’ormai 36enne attore un anno magico perché interpretò altri due grandi successi: nel congeniale ruolo di un russo in “Anastasia” dell’ucraino Anatole Litvak accanto a una Ingrid Bergman in gran spolvero per il suo ritorno a Hollywood dopo la pausa italiana col marito Roberto Rossellini che ne aveva appannato l’immagine internazionale, film che le fece vincere l’Oscar lo stesso anno in cui lo vinse Brynner; ma soprattutto lui fu il crudele faraone Ramses nel kolossal “I dieci comandamenti” di Cecil B. De Mille starring Charlton Heston nel ruolo di Mosè, un ruolo e un film che lo confermarono come star internazionale.

E di film in film duetta anche con la nostra Gina Lollobrigida sostituendo in corsa Tyrone Power che era morto durante le riprese in “Salomone e la Regina di Saba” diretto da King Vidor che dopo questo film abbandonerà il cinema, salvo dirigere un documentario nel 1980; l’improvviso coinvolgimento in quel film fece posticipare all’attore il suo progetto di un film su Spartacus, e se ne avvantaggiò Kirk Douglas che a sua volta c’era rimasto malissimo perché William Wyler gli aveva preferito Charlton Heston per “Ben-Hur”, e accelerando i tempi Douglas interpretò il suo “Spartacus” con la veloce sceneggiatura di Dalton Trumbo e la regia di Stanley Kubrick: in quei giochi di potere fra star Yul Brynner, che era l’ultimo arrivato, restò col cerino più corto in mano, ma lui non era tipo da cerino corto.

I magnifici sette in una foto promozionale: Yul Brynner, Steve McQueen, Horst Buchholz, Charles Bronson, Robert Vaughn, Brad Dexter, e James Coburn.

Poco male. L’attore, che aveva già messo su una propria casa di produzioni, stava già lavorando a un altro progetto: “I magnifici sette” come remake di “I sette samurai”. L’attore aveva acquisito i diritti di una sceneggiatura con la quale aveva deciso di debuttare come regista avendo Anthony Quinn come protagonista; erano amici sin da quando Quinn aveva debuttato come regista in “I bucanieri” e ora progettavano uno scambio di ruoli e di cortesie: Brynner alla regia con Quinn protagonista: troppo bello per essere vero, perché il nostro decise di prendersi il ruolo del protagonista abbandonando la regia per la quale non si sentiva pronto – e non fu mai regista – affidandola a Martin Ritt dal quale era già stato diretto l’anno prima in “L’urlo e la furia”. Questo improvviso cambio di programma mandò su tutte le furie Anthony Quinn che citò in giudizio l’amico Brynner asserendo che loro due insieme avevano sviluppato il progetto ed elaborato molti dettagli del film, ma poiché non c’era nulla di scritto il querelante perse la causa: fine di un’amicizia. Nel frattempo “L’urlo e la furia” si era rivelato un fiasco al botteghino e questo raffreddò i rapporti fra il regista e l’attore-produttore che affidò la regia a John Sturges, il quale aveva infilato una serie di successi a cominciare dal western “Sfida all’O.K. Corral”. Anche la sceneggiatura fu oggetto di contese ma tralasciamo i dettagli tecnici per andare diretti a un’altra ben più sostanziosa contesa: quella con Steve McQueen.

Sturges lo voleva nel cast essendo rimasto entusiasta della sua performance in un ruolo secondario nel suo precedente film bellico “Sacro e profano” con Frank Sinatra e Gina Lollobrigida; l’attore era un nome emergente che da protagonista al cinema aveva solo interpretato l’horror fantascientifico di serie B “Blob, fluido mortale” perché al momento era sotto contratto come protagonista per la serie tv “Ricercato vivo o morto”, 1958-1961, prodotta da Dick Powell che aveva lasciato la carriera di attore cinematografico per passare alla regia e alla produzione televisiva dove era al momento impegnato con l’ultima sua prova d’attore “I racconti del west”, 1956-1961, e alla morte di Powell nel ’61 le serie vennero chiuse; ma intanto, poiché la lavorazione del western si sarebbe accavallata con le riprese televisive, Powell non volle liberare McQueen dall’impegno; ma lui, che era già noto per le sue intemperanze, essendo notoriamente anche un provetto pilota, su consiglio del suo agente inscenò un finto incidente automobilistico per il quale si fece rilasciare un finto referto medico secondo il quale avrebbe dovuto indossare un tutore cervicale: la lavorazione della serie fu messa in pausa e nel suo periodo “di recupero” McQueen fu libero di girare con Sturges e Brynner, tanto il film sarebbe stato girato in Messico lontano da occhi indiscreti: allora non c’erano gli smartphone e i social a sputtanarci.

Durante le riprese, però, si creò una notevole tensione tra lui e Yul Brynner che era di fatto l’unico vero protagonista, e a McQueen non andava giù che il suo personaggio avesse solo sette battute nella sceneggiatura originale e a nulla era valsa la rassicurazione del regista che gli aveva promesso di inserirlo il più possibile in ogni inquadratura anche se non aveva battute: e infatti nel film lo vediamo che gigioneggia di lato o appena dietro mentre il protagonista fa la sua scena; come i peggiori guitti del palcoscenico fece di tutto per disturbare il protagonista e attirare l’attenzione su di sé, come lanciare una moneta durante uno dei discorsi di Brynner o facendo tintinnare le cartucce del suo fucile; c’era poi che Brynner, essendo più basso di lui, costruiva un piccolo cumulo di terra per sembrare alto quanto lui, dandogli l’opportunità di scalciare via quel cumulo di terra quando gli passava accanto. Finché Brynner esasperato una volta non lo afferrò per le spalle e da qui in poi si riconosce lo stile dei due: Brynner disse alla stampa, che era venuta a conoscenza delle tensioni, che lui non aveva mai litigato con i colleghi ma semmai con le produzioni. Mentre McQueen non si trattenne e dichiarò: “Non andavamo d’accordo. Una volta mi è venuto contro, davanti a tante altre persone, e mi ha afferrato per le spalle. Era arrabbiato per qualcosa. Lui non cavalca bene e non sa niente di armi, quindi deve aver pensato che io rappresentassi per lui una minaccia. Io ero nel mio elemento, lui no. Quando lavori in una scena con Yul, dovresti stare assolutamente immobile e a tre metri di distanza… beh io non lavoro così.” Era evidente che non lavorasse così. La parola definitiva la appose Robert Vaughn nella sua autobiografia del 2008, allorquando era l’ultimo superstite di quei magnifici sette: “Steve era estremamente competitivo. Non gli bastava avere solo successo: doveva avere più successo di chiunque altro.”

Robert Vaughn festeggia col suo amico James Coburn il riconoscimento della stella sulla Hollywood Walk of Fame nel 1998.

Robert Vaughn fu scritturato per il ruolo del pistolero tormentato che indossa sempre i guanti come simbolo del distacco che vuole mettere fra sé e quello che fa; fin lì era stato un attore con molta televisione nel curriculum e che era stato appena candidato a Oscar e Golden Globe per il suo primo ruolo importante accanto a Paul Newman in “I segreti di Filadelfia” diretto da Vincent Sherman, e come l’attore dichiarerà l’aiuto del più importante collega era stato determinante: i due frequentavano la stessa palestra e Vaughn, che aveva appena ricevuto la proposta per un provino, gliene parlò sapendolo scritturato come protagonista; Newman si disse entusiasta, lo vedeva perfettamente nel ruolo, e si offrì di fargli da spalla al provino: cosa inaudita dato che i provini si facevano e si fanno con qualcuno dello staff che legge fuori campo, e ovviamente il sostegno del divo fu determinante. Sturges lo aveva scelto proprio per quella sua interpretazione e al colloquio gli disse: “Non abbiamo una sceneggiatura, solo il film di Kurosawa su cui lavorare. Ti dovrai fidare. Ma gireremo a Cuernavaca, ci sei mai stato? la adorerai: è la Palm Springs del Messico.” Ovviamente l’attore ci stava e il regista continuò: “Ottima scelta, giovanotto. E conosci altri bravi giovani attori? ho altri quattro posti da riempire.” Vaughn suggerì l’amico ed ex compagno di studi James Coburn che venne scritturato come l’esperto lanciatore di coltelli, ma essendo praticamente uno sconosciuto avrà il nome per ultimo e in piccolo sul cartellone. In ogni caso il tormentato ruolo di Robert Vaughn, dopo quello del protagonista è il più definito e interessante, e l’attore ha reso magnificamente la lotta interiore del personaggio in tensione fra la codardia e l’eroismo. Per Coburn, invece, che era un fan accanito di “I sette samurai” avendolo già visto per ben 15 volte, essere dentro il remake era per lui come realizzare un sogno e avrebbe accettato qualsiasi ruolo, e gli toccò quello che era stato rifiutato dal più anziano e già protagonista di altri western Sterling Hayden.

Charles Bronson e Brad Dexter

Anche per Charles Bronson il film fu una svolta: faccia da duro ma dall’atteggiamento mite aveva avuto numerosi ruoli secondari in decine film fra cinema e televisione compreso quel “Sacro e profano” da cui il regista avrebbe cooptato anche McQueen, e da “I magnifici sette” in poi fu considerato una star. Anche Brad Dexter aveva alle spalle decine di partecipazioni con ruoli secondari ma al contrario degli altri “magnifici” rimase un caratterista generico oggi dimenticato, qui alla sua apparizione più significativa.

A completare il cast dei “sette” venne chiamato dalla vecchia Europa il giovane tedesco emergente Horst Buchholz su cui i produttori hollywoodiani avevano appuntato gli occhi dopo averlo apprezzato come protagonista del film “Le confessioni del filibustiere Felix Krull” tratto da un romanzo di Thomas Mann e diretto da Kurt Hoffmann, vincitore nel 1958 del Golden Globe come miglior film straniero. Dopo il ruolo del protagonista Chris Adams di Brynner e quello del tormentato Lee di Vaughn il suo Chico è il personaggio più accattivante, anche perché a lui sono assegnate – fra i vari siparietti che raccontano i diversi personaggi – le scene romantiche del nascente amore fra il giovane pistolero e la chicana Petra di Rosenda Monteros. E se Rosenda restò perlopiù a recitare in Messico film e telenovelas, Horst si avviò a una carriera internazionale che lo vide spesso anche sui set italiani.

Ma non dimentichiamo il cattivissimo contro cui si battono tutt’e sette gli eroi malgrado loro: il non più giovanissimo – ha 45 anni – Eli Wallach che all’epoca aveva nel curriculum solo tre film in cui si era messo benissimo in luce, e che avrà una lunghissima carriera come comprimario spesso in ruoli da cattivo e caratterista di lusso, anche lui spesso in Italia a cominciare dagli spaghetti-western di Sergio Leone. Nel ruolo del vecchio messicano saggio e filosofo Brynner ha voluto il già vecchio conterraneo Vladimir Sokoloff che da giovane aveva studiato recitazione a Mosca proprio insieme a quel Kostantin Stanislavskij il cui metodo diverrà il nuovo vangelo degli attori di qua e di là dell’Atlantico; fu un eccellente caratterista che per la sua maschera vagamente esotica ha interpretato nella sua carriera più di una trentina di etnie diverse.

Quando Akira Kurosawa vide questo remake del suo “I sette samurai” si complimentò con John Sturges che rimase assai impressionato e commosso per i complimenti del maestro giapponese. Ma in chiusura non dimentichiamo la musica di Elmer Bernstein che s’impone sin dalle prime note all’inizio del film e che oggi è diventata un classico da riascoltare fra le migliori colonne sonore: nel 2005 l’American Film Institute l’ha inserita all’ottavo posto fra le 25 migliori colonne sonore, così come il film stesso è divenuto un classico da vedere e rivedere, che ebbe tre sequel (1966-69-72) una serie televisiva (1998-2000) e il remake in chiave fantascientifica “I magnifici sette nello spazio” diretto da Jimmy T. Murakami e dal non accreditato Roger Corman, in realtà remake non ufficiale in quanto il titolo originale era “Battle Beyond the Stars”, esplicitato nella distribuzione italiana; in entrambe le produzioni c’è il ritorno di Robert Vaughn con differenti personaggi. Del 2016 è il remake col nero Denzel Washington nel ruolo del protagonista per quanto fosse assai improbabile che nell’epoca narrata un nero avesse un ruolo così di rilievo.

Di quei magnifici sette il primo a lasciarci fu Steve McQueen a 50 anni nel 1980, a causa di un tumore da esposizione all’amianto, materiale che era impiegato negli ambienti da lui frequentati: studi cinematografici, navi, ambienti motoristici. Era scampato a morte violenta quando l’8 agosto del 1969, invitato dall’amico Jay Sebring sarebbe dovuto andare a casa della comune amica Sharon Tate la notte in cui furono uccisi dagli hippies psicopatici della cosiddetta Manson Family di Charles Manson che non partecipò all’agguato in quanto solo mandante. L’attore ne rimase così scosso che da quel momento in poi portò sempre con sé una pistola. Le sue ceneri sono state disperse nell’Oceano Pacifico.

Il 10 ottobre 1985 a 65 anni morì Yul Brynner per cancro ai polmoni e alcuni mesi prima volle registrare un breve video da rendere pubblico dopo la sua morte in cui esortava a non fumare: “Adesso che non ci sono più ti dico: non fumare. Qualunque cosa tu faccia, non fumare.” E’ sepolto in Francia e a Vladivostok la sua casa natale è stata trasformata in museo e gli è stata eretta una sua statua a grandezza naturale, che lo ritrae con i costumi del Re del Siam, nella classica posa più volte assunta nel film: gomiti larghi, pugni chiusi sui fianchi. Il suo stesso giorno morì anche Orson Welles con cui aveva recitato nel 1969 in “La battaglia della Neretva” diretto dal montenegrino Veljko Bulajić.

Nel 2002 se ne sono andati in tre: l’82enne Charles Bronson per una polmonite, benché negli ultimi anni la sua salute andasse peggiorando velocemente su più fronti: prima aveva subito un intervento per una protesi all’anca e alla fine gli erano stati diagnosticati l’Alzheimer e un carcinoma del polmone. È sepolto in un cimitero nel Vermont, vicino a casa sua. il 74enne James Coburn se n’è andato a causa di un arresto cardiaco, e le sue sue ceneri sono state interrate in un cimitero di Los Angeles. E Brad Dexter, morto a causa di un enfisema, all’età di 85 anni. Il 2003 è l’anno di Horst Buchholz che morì 69enne a causa di una polmonite contratta dopo un intervento chirurgico all’anca in un ospedale di Berlino. L’ultimo ad andarsene è stato l’84enne Robert Vaughn per leucemia nel 2016. Ma il bello del cinema è che saranno sempre vivi.

I soliti ignoti – e per la prima volta sullo schermo Claudia Cardinale e Tiberio Murgia

Questo film del 1958 è un caposaldo del cinema italiano ma partiamo da più lontano nel tempo e nello spazio, dalla Hollywood dei primi anni ’50 che con film come “Giungla d’asfalto” di John Huston dal genere thriller, o noir per dirla alla francese, sviluppa il sottogenere caper movie detto anche heist movie, ovvero film dove una banda di malviventi organizza un colpa grosso; e se heist è comprensibile in quanto significa rapina, caper è meno chiaro perché letteralmente significa cappero ma in realtà è stato coniato fra i malavitosi italo-americani che hanno anglicizzato l’italiano capriola con riferimento ai salti mortali e a tutte le acrobazie che dovevano fare per sfuggire alle forze dell’ordine. Sta di fatto che il genere piacque molto al pubblico, e fra i principali caper movie bisogna ricordare “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick mentre in Francia ci fu il grande successo di “Rififi” di Jules Dassin, e scavalcando gli anni ’60 in Italia Marco Vicario diresse il dittico “Sette uomini d’oro” e “Il grande colpo dei sette uomini d’oro” al servizio di sua moglie Rossana Podestà; del 1969 è il francese “Il clan dei siciliani” di Henri Verneuil con Jean Gabin, Alain Delon e Lino Ventura; per tornare a Hollywood con “La stangata” di George Roy Hill del 1974 starring Paul Newman e Roibert Redford; poi primeggia il corale “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992 fino al trittico di Steven Soderbergh iniziato con “Ocean’s Eleven”, con George Clooney capo brigata, che a sua volta era il remake di “Colpo grosso” del 1960 di Lewis Mileston col Rat Pack Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr. Insomma ce n’è per tutti i gusti.

Aldo Reggiani, Loretta Goggi e Arnoldo Foà protagonisti dello sceneggiato Rai

Ma torniamo in Italia alla fine degli anni ’50. Il genere imperante era il neorealismo nato sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, e ancora resistevano i generi peplum (e vale la pena ricordare il debutto cinematografico di Sergio Leone con “Il colosso di Rodi”) e cappa e spada (nessun film italiano memorabile, supplisce lo sceneggiato Rai “La freccia nera” diretto da Anton Giulio Majano dal romanzo di Robert Luis Stevenson) mentre il cinema spensierato dei telefoni bianchi che imitava le commedie sofisticate hollywoodiane era stato sostituito dalla commedia rosa o sentimentale che abbandonando le ambientazioni scintillanti e irrealistiche si era adattato alla nostra realtà con gli operai e le commesse “Poveri ma belli” di Dino Risi del 1957.

Scena da “I cadetti di Guascogna”, in primo piano da sinistra Riccardo Billi, Mario Riva, Carlo Campanini, Carlo Croccolo e seduto sulla branda Walter Chiari

Sul piano del film comico, film per ridere, si era fermi alle pellicole che derivavano dai palcoscenici dell’avanspettacolo e del varietà (ad esempio “I cadetti di Guascogna” che vide il debutto di Ugo Tognazzi e Carlo Croccolo) con interpreti che da lì venivano con le loro maschere e le loro gag (Mario Riva, Riccardo Billi, Carlo Campanini, Macario, Renato Rascel) di cui Totò era il più prolifico esponente, non amato dalla critica colta per quei suoi filmetti senza spessore. In questa brulicante vivacissima realtà si muoveva un gruppo di soggettisti e sceneggiatori che sentivano l’urgenza di raccontare la realtà, la loro realtà, quella realtà di quel preciso momento storico, il dopoguerra e il boom economico, mettendone in evidenza tutte le contraddizioni, l’impossibilità di conciliare il vecchio con il nuovo, l’ipocrisia e l’effimero: una realtà che autori come Pier Paolo Pasolini (“Accattone”) o Bernardo Bertolucci (“La commare secca”) presero di petto, mentre scrittori dalla penna più leggera e ironica e spesso caustica, e forse per questo più incisiva (ricordiamo l’adagio latino “castigat ridendo mores”) come Age & Scarpelli qui autori del soggetto e sceneggiatori insieme a Suso Cecchi D’Amico e allo stesso regista Mario Monicelli, che aveva esordito come braccio destro di Pietro Germi e fu poi regista di Totò che aveva sdoganato in un ruolo drammatico nella co-regia con Steno “Guardie e ladri” che valse all’attore l’ambito Nastro d’Argento e che lo convinse che poteva abbandonare il genere avanspettacolo che lo aveva reso ricco e famoso, ma con la media di cinque film l’anno in cantiere, il successo del pubblico e le pressioni dei produttori, passò ancora qualche anno fino a che concluse la sua carriera lavorando con Pasolini: “Uccellacci e uccellini”, “La terra vista dalla luna” nel film a episodi “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel film a episodi “Capriccio all’italiana”.

Monicelli e Totò durante una pausa sul set

Quando il gruppetto di amici si riunì per buttare giù una nuova sceneggiatura non sapevano che stavano cominciando a scrivere una pagina della storia del cinema. Partirono dall’idea di fare una parodia di quel genere tanto di moda, il caper movie, e presero come modello il noir “Rififi” tanto che il primo titolo pensato per il film in scrittura fu “Rufufù”, ma non erano autori da fermarsi al semplice parodistico e come altra ispirazione ebbero il racconto di Italo Calvino “Furto in una pasticceria”.

Memmo Carotenuto con Gassman

Poi c’era la realtà sociale in cui il gruppetto voleva collocare storia e personaggi, e pur condividendo con Pasolini il degrado della periferia romana in cui il boom sarebbe tardato ad arrivare e ancora si sarebbe vissuto di espedienti, i loro ladruncoli non hanno l’innocente cattiveria degli accattoni e dei ragazzi di vita pasoliniani, ma risentendo della leggerezza della Commedia dell’Arte (che i nostri ovviamente conoscono) sono Arlecchino e Brighella e Pulcinella i cui espedienti per procurarsi il tozzo di pane rimangono fallimentari e grotteschi, come certi capitomboli del fanfarone Er Pantera, ma sono qui intessuti dell’umanità di persone reali che soffrono e addirittura – novità assoluta in commedia – muoiono tragicamente, come il personaggio motore della storia interpretato da Memmo Carotenuto. Il risultato è un dolce-amaro, un grottesco patetico venato di tristezza, qualcosa di talmente simile alla vita reale da portare al cinema folle di spettatori che ridevano insieme delle loro stesse sventure, e però non mancano le battute folgoranti come quando Capannelle chiede a un ragazzino di un certo Mario e quello gli risponde che lì nel quartiere ce ne sono cento; sì ma questo è stato in galera, specifica Capannelle, sempre cento sono, risponde il ragazzino.

Tiberio Murgia nell’atrio del cinema dove si proietta il Kean di e con Vittorio Gassman in un corto circuito di citazioni

A scrittura ultimata sarebbe stata fondamentale la scelta del cast. I produttori, Franco Cristaldi in testa, avrebbero voluto scritturare i soliti noti che venivano dal varietà e dall’avanspettacolo, a cominciare da Alberto Sordi nel ruolo del pugile suonato Peppe er Pantera per il quale Monicelli e gli altri sceneggiatori – che avevano creato tutti i personaggi intorno ad un baricentro realistico, senza vezzi e gag, corredandoli però di un patrimonio di battute e situazioni brillanti e folgoranti sulle quale si sarebbe dovuta giocare tutta la comicità del film – si erano impuntati su Vittorio Gassman, in quale venendo dal teatro impegnato nel cinema aveva per lo più interpretato ruoli da cattivo, e con la sua aria da intellettuale non dava ai produttori nessuna garanzia di successo come attore comico, ma alla fine dovettero cedere alle argomentazioni di Monicelli & company, che con l’aiuto del truccatore Romolo De Martino crearono per Gassman un pesante trucco che con una parrucca gli abbassava l’attaccatura sulla fronte, e accentuando il profilo del naso e rendendo le labbra leggermente calanti lo ridisegnarono proprio come quel pugile suonato di periferia che avevano immaginato sulla carta, e l’invenzione poi della sibilante balbuzie completò il personaggio, sdoganando Gassman in un mondo ancora per lui inesplorato. Va segnalato che nel film viene omaggiato ritraendo la locandina del suo “Kean – genio e sregolatezza” che aveva diretto e interpretato a teatro e poi diretto e interpretato anche sullo schermo con l’importante contributo tecnico di Francesco Rosi.

Nel calibratissimo cast Renato Salvatori (doppiato da Marcello Prando) entrò come secondo nome (in percentuale di misura più piccola rispetto a Gassman) e come segno di continuità con la commedia rosa di cui era protagonista, anche qui protagonista di una storia amorosa ovviamente assai contrastata. Il caratterista Memmo Carotenuto, fratello di Mario, faccia da duro e voce roca è al terzo posto nei titoli di testa e probabilmente nel suo ruolo più significativo. Con le lettere che continuano a rimpicciolirsi segue Rossana Rory (Rossana Coppa sui documenti) già fotomodella e foto-attrice per “Sogno” che qui è l’unica componente femminile della banda e anche nel suo ruolo più importante (doppiata da Monica Vitti): nonostante l’impegno, andò a studiare recitazione presso la londinese Royal Academy of Dramatic Art, non riuscì a sfondare e pochi anni dopo, dopo aver partecipato a “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, si ritirò dalla carriera artistica. Segue nei titoli la 17enne in rapida ascesa Carla Gravina qui al suo terzo film e che aveva debuttato 15enne in “Guendalina” dello scopritore di Lolite Alberto Lattuada. Dopo di lei nei titoli di testa viene la non ancora ventenne Claudia Cardinale (doppiata dalla palermitana Lucia Guzzardi) qui al suo debutto cinematografico italiano e per la quale vale la pena spendere qualche parola in più.

Era nata a Tunisi da genitori altrettanto tunisini per nascita ma di discendenza siciliana. Va ricordato che la Tunisia era un protettorato francese e durante la Seconda Guerra Mondiale (Claudia nata nel ’38 era ancora bambina) l’Italia mussoliniana con la Germania hitleriana occuparono Tunisi con gravi e diverse conseguenze per tutta l’enclave italiana che lì viveva; nello specifico il padre di Claudia che aveva mantenuto rapporti con la famiglia d’origine in Sicilia, non aveva preso la nazionalità francese mantenendo quella italiana, e se in quel frangente ciò poteva giocare a suo favore agli occhi del regime, nei fatti tutti quegli italiani d’Africa furono vittime di un diffuso e paradossale sentimento italiano anti-italiano, con italo-tunisini che sposarono la causa fascista, altri che restarono fedeli alla Francia e altri ancora che volevano restare neutrali come fu per la famiglia Cardinale. Superato il disagio della guerra l’adolescente Claudia parlava solo arabo tunisino, francese e il siciliano trapanese appreso in famiglia, e come tutte le ragazze della sua generazione era una fan della Brigitte Bardot esplosa con “E Dio creò la donna” di Roger Vadim, star con la quale duetterà anni dopo, nel 1971, nel brutto western “Le pistolere” di Christian-Jacque. In ogni caso il cinema la attendeva: a diciotto anni partecipò a un cortometraggio documentaristico che omaggiava l’intraprendenza delle donne tunisine nell’immediato dopoguerra: “Les Anneaux d’or” di René Vautier che al Festival di Berlino vinse l’Orso d’Argento.  Bastò l’unico primo piano di quel film per farla diventare una celebrità locale ed essere richiesta dal regista Jacques Baratier che la volle per un ruolo secondario in “I giorni dell’amore”, ruolo che accettò con riluttanza perché aspirava a quello della protagonista nel quale la produzione volle un’attrice di pura nazionalità tunisina; protagonista maschile il giovane egiziano Omar Sharif in un film candidato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes che per la nostra riluttante Claudia fu il primo vero impegno come attrice cinematografica, per il quale in ogni caso aveva ottenuto la dicitura in cartellone “e la partecipazione di” essendo ancora in pratica una sconosciuta. Claudia avrebbe duettato da protagonista con Sharif nel 1991 in “Mayrig” del franco-armeno Henri Verneuil, che l’anno dopo ebbe il seguito “Quella strada chiamata paradiso”, film che raccontano il genocidio armeno che però hanno avuto scarsa diffusione.

Momentaneamente accantonata la non del tutto per lei soddisfacente, benché di qualità, esperienza cinematografica, la giovane scalpitava e non sapeva come uscire dall’impasse della sua vita borghese tunisina, così non le parve vero quando a Tunisi si tenne la “Settimana del Cinema Italiano” organizzata da “Unitalia FilmRivista trimestrale dell’Unione nazionale per la diffusione del film italiano all’estero”, durante la quale vinse – “in modo del tutto involontario e inconsapevole” recitano le cronache – il concorso “La più bella italiana di Tunisia” dove probabilmente si era iscritta in modo del tutto altrettanto involontario e inconsapevole: ma la ragazza, come vedremo, era fortemente motivata e consapevole.

Claudia Cardinale in quel fatale 1957 a Venezia

Il premio del concorso consisteva in una vacanza spesata alla Mostra del Cinema di Venezia in cui seppe mettersi in mostra agli occhi dei tanti pigmalioni, registi e giornalisti e soprattutto produttori lì presenti, Franco Cristaldi in testa. Dicono sempre le cronache che accettò l’invito da parte del produttore Salvatore Argento (padre del regista Dario Argento) e del giornalista Lidio Bozzini l’offerta di fermarsi a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, che la ragazza accettò – non si sa a che titolo: chi pagava cosa e per cosa? Probabilmente oggi è lecito immaginare che i due fossero i prestanome del produttore Cristaldi, che di 14 anni più anziano della ragazza e già sposato, non si poteva esporre in quell’epoca in cui il divorzio era illegale in un Paese ultra cattolico in cui le relazioni extraconiugali creavano scandalo e condanna sociale: oggi sappiamo che Franco Cristaldi e Claudia Cardinale avevano già cominciato una relazione. Ma gli studi di recitazione e dizione, sua insegnante al Centro fu Tina Lattanzi, misero in evidenza la sua scarsa attitudine sia alla recitazione che all’apprendimento e dopo appena un trimestre abbandonò l’impresa per tornare a Tunisi… ma dato che la sua fotogenia era indiscutibile e la sua relazione con Cristaldi solida, si fece di necessità virtù e fu dato eco sulla stampa, con copertina sul settimanale “Epoca”, a quel suo inconcepibile rifiuto di continuare la carriera cinematografica: anche gli handicap se ben gestiti posso diventare vantaggi nelle mani di un solido ufficio stampa. Del suo stile recitativo, una volta diventata famosa, coerentemente dirà: “Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica.”

Moglie e marito, produttore e protagonista, sul set di “La tenda rossa” diretto da Michail Kalazotov

Ancora di quell’intenso periodo è un’altra pagina che resterà oscura nella vita dell’attrice: la gravidanza del suo primogenito Patrick che partorirà a Londra, lontano da occhi indiscreti, dopo la fine della lavorazione del film. Durante la lavorazione ha tenuto segreta la gravidanza, come segreta rimarrà la genesi: verrà raccontato in seguito che rimase vittima di uno stupro da parte di uno sconosciuto ma alla luce dei fatti è lecito pensare che il figlio fosse del produttore e che l’invenzione dello stupro servisse anche, ancora una volta, a far di necessità virtù – ma questa è mia personale speculazione essendo a tutt’oggi la vicenda narrata così come fu data sin dall’inizio. E se dal lato professionale questo ruolo di siciliana illibata ritagliato su di lei la portò all’immediato successo, sul piano privato fu per lei un periodo assai difficile: era consapevole che la relazione con Cristaldi non poteva essere ufficiliazzata e soffriva lo stereotipo dell’immagine della giovane avventura del produttore attempato. Con l’avvio della sua carriera la famiglia la raggiunge a Roma e durante i primi anni mostrerà in pubblico suo figlio presentandolo come un fratellino.

In seguito, anni dopo, dichiarerà di non essersi mai sentita davvero la compagna di Cristaldi, quanto piuttosto un trofeo da tenere sotto vetro, una “Cenerentola gratificata dalla sua generosità” per l’aiuto dato nel difficile momento della gravidanza segreta e per, va da sé, l’impegno profuso per costruirle una carriera e un’immagine professionale adeguata; ma per il resto si era sentita in trappola: per il doppio legame, personale e professionale, si sentiva schiacciata e costantemente sotto controllo attraverso lo staff – il responsabile stampa, la segretaria e l’autista personali – che facevano riferimento a Cristaldi che probabilmente aveva perso la testa per la ragazza e finì col rinchiuderla in una gabbia dorata, una torre d’avorio, sempre ricordandole e rinfacciandole che lui l’aveva creata e che dunque gli apparteneva. Conducevano sempre vite separate, tranne qualche breve viaggio, e anche dopo il matrimonio che nel 1966 lui organizzò negli Stati Uniti avendo ottenuto l’annullamento della precedente unione dalla Sacra Rota, lei non lo chiamò mai Franco ma sempre e solo Cristaldi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel 1975, allorché Claudia si era innamorata del regista Pasquale Squitieri conosciuto sul set di “I guappi”. Col matrimonio Cristaldi aveva adottato legalmente il primogenito dell’attrice. E sarebbe ancora lunga la narrazione su Claudia Cardinale se non fosse che devo rientrare nei ranghi del film che l’ha lanciata.

il gruppo dei ladruncoli al completo: Totò, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Di spalle l’agente di controllo per il Dante Cruciani di Totò, attore non accreditato.

Al suo nome seguono nei titoli di testa i primi tre insieme dopo i nomi da solisti: Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e Gina Rovere, lei nel ruolo secondario della moglie in galera di Marcello Mastroianni, è una caratterista romana che avrà i suoi ruoli più importanti nei prossimi “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il napoletano Pisacane viene invece dalla gloriosa filodrammatica partenopea e aveva cominciato a fare cinema già in gioventù all’epoca del muto per poi proseguire come caratterista generico e qui è al suo primo personaggio importante, quel Capannelle che gli porterà talmente fortuna e fama da venire accreditato nelle produzioni future anche come solo Capannelle; il suo riuscitissimo accento bolognese è dovuto al doppiaggio del friulano Nico Pepe.

I debuttanti Claudia Cardinale e Tiberio Murgia come sorella e fratello.

Il sardo Tiberio Murgia è al suo debutto cinematografico diventando siciliano col doppiaggio del napoletano Renato Cominetti e anche il suo personaggio ha talmente fortuna che proseguirà la carriera continuando a essere scritturato come siciliano. Prima di approdare al cinema ha un passato rocambolesco: di famiglia povera emigra in Belgio per andare a fare il minatore a Marcinelle dal cui disastro scampa perché si era dato malato per stare con la moglie di un collega di cui era divenuto amante, ma l’intera storia è oggi ritenuta falsa perché viene da un articolo della rivista “Gente” di genere scandalistico-propagandistico per favorire la carriera del neo-attore. Di fatto Murgia fu veramente minatore in Belgio e poi lavapiatti in un ristorante di Roma dove fu notato da un assistente di Monicelli e da lì si avviò la sua carriera di caratterista siciliano.

Va dato merito al regista e al suo staff di co-sceneggiatori l’avere inserito nel cast dei coprotagonisti due piccoli caratteristi, Carlo Pisacane di antica scuola teatrale e Tiberio Murgia preso dalla strada: due personaggi veramente costruiti a tavolino che nulla avevano e avranno a che fare col carisma dell’interprete; due facce che già da sé erano maschere, ma personaggi creati col supporto di altri due professionisti a dare loro la voce: in pratica per ogni personaggio due attori, uno davanti e l’altro dietro la macchina da presa, perché senza quelle voci e quegli accenti le due maschere non sarebbero mai esistite. Pratica oggi irrealizzabile per fortuna, per la dignità professionale degli interpreti, ma che allora era prassi comune se si pensa che anche molti dei protagonisti venivano doppiati e la cosa non creava scandalo. Qui c’è Renato Salvatori che praticamente sarà sempre doppiato in tutta la sua carriera e se ciò non fosse stato consentito probabilmente si sarebbe impegnato a studiare recitazione e dizione laddove la fotogenia non sarebbe bastata più; per molti anni Claudia Cardinale fu doppiata, però si è battuta per recitare con la sua voce, e anche Totò che verso la fine era ormai quasi cieco e aveva come doppiatore ufficiale Carlo Croccolo. I titoli di testa continuano col resto dei generici fra i quali bisogna ricordare Elisa Fabrizi che è un errore di trascrizione trattandosi in realtà di Elena Fabrizi, sorella di Aldo Fabrizi, che dopo la scomparsa del fratello diverrà nota come Lella Fabrizi o più semplicemente Sora Lella, attrice intrattenitrice e proprietaria di una trattoria sull’isola Tiberina a Roma. I titoli si concludono “con” Marcello Mastroianni le cui lettere riprendono la misura massima che Gassman aveva avuto in apertura, “e con la partecipazione straordinaria” di Totò. Non è accreditato il prevalentemente radio-televisivo Mario Feliciani nel ruolo del commissario di polizia che tornerà nel sequel dell’anno dopo messo in cantiere a tambur battente.

Sul momento nessuno si rese conto di cosa era accaduto: il fatto più evidente fu il clamoroso successo del film che fu distribuito praticamente in tutto il mondo: negli USA e nel Regno Unito col titolo “Big Deal on Madonna Street” e lì avrebbe avuto grande risonanza soprattutto fra gli addetti ai lavori tanto che nei decenni a seguire avrebbero realizzato ben due remake; mentre in Spagna fu ripreso il primo titolo provvisorio “Rufufù” e in Francia si optò per “Le Pigeon” il piccione, vai a capire perché, mentre in Argentina e Brasile fecero una fedele traduzione del titolo: “Los desconocidos de siempre” e Os eternos Desconhecidos“.

Dovette passare qualche anno perché ci si rendesse conto che “I soliti ignoti” era diventato il capostipite di un nuovo genere cinematografico: la commedia all’italiana. Che era un po’ quello che era successo secoli prima nel teatro quando dalla Commedia dell’Arte si passò alla commedia brillante borghese dove i caratteri avevano perso la fissità delle maschere per diventare esseri umani a tutto tondo con i loro chiaroscuri. Da quel film in poi tutti dovettero fare i conti con quel modo di scrivere e realizzare pellicole brillanti e in un paio di decenni si realizzarono grandi film, molti dei quali a episodi, fino a che la commedia all’italiana non morì verso la fine degli anni Settanta stretta fra le spire della commedia sexy. Mario Monicelli fu candidato agli Oscar nella categoria Miglior Film Straniero e vinse lo spagnolo Festival di San Sebastian; ai Nastri d’Argento vinse Vittorio Gassman come miglior protagonista e l’intera squadra degli scrittori fu premiata per la miglior sceneggiatura.

L’anno dopo uscì il sequel “Audace colpo dei soliti ignoti” con Nanni Loy che prese il controllo dell’impresa, e un secondo tardivo nostalgico seguito si ebbe nel 1985 diretto da Amanzio Todini: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Del 2020 è l’adattamento teatrale andato in scena al Teatro La Pergola di Firenze, diretto e interpretato da Vinicio Marchioni su copione di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli. Altro adattamento teatrale ma in musical fu quello che Bob Fosse realizzò nel 1986, “Big Deal”, che non vide praticamente nessuno: 6 anteprime e 69 repliche, a Broadway. Due i remake americani, dicevamo: il primo è “Crackers” del 1984 diretto da Louis Malle con Donald Sutherland e Sean Penn, mentre del 2002 è “Welcome to Collinwood” diretto dai fratelli Anthony & Joe Russo e prodotto da George Clooney che si è collocato nel ruolo che fu di Totò. Nel 2000 Woody Allen fece un’importante citazione-omaggio nel suo “Criminali da strapazzo”. Un altro importante omaggio è nel film “A/R Andata + Ritorno” del 2004, terza regia di Marco Ponti.

Fra le curiosità: il film sarebbe dovuto uscire col titolo “Le Madame” che era il soprannome con cui i criminali chiamavano i poliziotti e che venne rigettato dalla censura perché non si poteva ironizzare sulle forze dell’ordine. La Via delle Madonne in cui viene tentato il colpo, ripreso dal titolo americano, in realtà non esiste, trattandosi della scalinata di Via della Cordonata che scende su Via delle Tre Cannelle, dietro Piazza Venezia. La ragazza che litiga col fidanzato sotto il lucernario su cui restano appesi i ladruncoli è l’ungherese Edith Bruck, scampata ai campi di concentramento nazisti, che si era stabilita a Roma dopo aver tentato di rientrare in patria, dove non aveva più nessuno, per poi di trasferirsi in Israele nel 1948 a ridosso della formazione del nuovo stato, immaginato “di latte e miele”, come scriverà, ma percorso da altri insopportabili conflitti. Come ancora oggi è. A Roma frequenta ovviamente l’ambiente intellettuale dove conosce e poi sposerà il poeta-regista Nelo Risi, fratello di Dino, e debutterà come scrittrice nel 1959 con “Chi ti ama così” scrivendo in lingua italiana, una lingua non sua, come spiegherà, che le consente il necessario distacco per descrivere la sua esperienza nei campi di concentramento. Ultima curiosità: i nomignoli Capannelle e Ferribotte erano stati orecchiati nella vita reale: a Capannelle c’è l’ippodromo di Roma ed era il soprannome di un assiduo scommettitore sulle corse dei cavalli, caratteristica che nel personaggio del film non c’è, mentre Ferribotte è la storpiatura di ferry boat, il traghetto che i siciliani prendevano per raggiungere il continente e come molti ancora lo chiamavano: ferribotte o ferribotto. Entrambi i personaggi torneranno nel prossimo sequel mentre solo Ferribotte sopravvivrà vent’anni dopo.

Edith Bruck

Il film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

Hair – omaggio a Treat Williams, con la storia del musical e uno sguardo al Greenwich Village degli anni ’60

Il 12 giugno 2023 Treat Williams è stato investito da un’auto mentre cavalcava la sua moto e in condizioni disperate è stato trasportato in ospedale dove è morto poco dopo, all’età di 71 anni. Un testimone dell’incidente ha dichiarato, precisando che l’attore indossava il casco: “Era totalmente vigile, rispondeva alle domande dei paramedici. l’ho visto volare in aria.”

Richard Treat Williams ha usato per la sua carriera artistica il secondo inusuale nome che letteralmente significa trattare, con tutti i suoi sinonimi, maneggiare, aver cura, nome che gli viene dal lontano avo Robert Treat Paine che fu uno dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Cominciò da adolescente a calcare il palcoscenico nelle recite scolastiche ma anche la squadra di football se lo contendeva: “Amavo molto il football – ebbe modo di raccontare – ma non pensavo che si potesse essere un jock (termine intraducibile che definisce l’archetipo di studente più interessato allo sport che allo studio, sintesi di jockstrap, il sospensorio che usano gli sportivi) e al contempo far parte della compagnia teatrale… Ho iniziato a prendere sul serio l’idea di imparare il più possibile sul mestiere di recitare nel mio primo anno.” E si impegnò talmente che a un certo punto si ritrovò contemporaneamente in tre spettacoli universitari: una commedia, uno Shakespeare e un musical. E sarà il musical a dargli la fama.

Cominciò come sostituto in panchina dei tanti protagonisti di “Grease” in scena a Broadway, e fra i vari sostituti che attesero il loro momento ci fu anche Patrick Swayze; finché Treat ebbe il ruolo da protagonista nelle tournée in provincia. Nel 1974, 23enne, era stato protagonista insieme al 20enne John Travolta del musical “Over Here!” e ciò gli era valsa l’attenzione per tornare da protagonista ufficiale nel cast di “Grease” dove Travolta era uno degli amici prima di essere protagonista del film nel 1978. E tanto per restare nel gioco del chi c’era anche Richard Gere fu nelle varie versioni del cast. Treat ha debuttato al cinema nel 1975 prima di assurgere a fama mondiale con quest’altro musical nel 1979.

Jerome Ragni e James Rado

Il film fu sviluppato dal musical teatrale che aveva debuttato nel 1967 e il cui titolo completo era “Hair: The American Tribal Love-Rock Musical” storia e canzoni di Gerome Ragni e James Rado musicate da Galt MacDermot. Ragni e Rado avevano cominciato a scrivere il loro musical tre anni prima, dopo essersi conosciuti in palcoscenico in un altro musical off-Broadway, veicolando nei testi la loro visione politica del momento fatta di controcultura hippy, antimilitarismo e rivoluzione sessuale, e va da sé che i due personaggi principali, che avevano scritto per sé, erano autobiografici: il Claude di Rado era un pensoso romantico mentre il Berger di Ragni era un estroverso. I due scrivono un genere di musical che non si era mai visto sui palcoscenici dove fino a quel momento lo spettacolo più rivoluzionario era stato “West Side Story” con le sue romantiche gang e amori inter-etnici.

“Hair” che da noi sarebbe tradotto in capelloni, porta sul palcoscenico i personaggi e gli umori che vengono dalla strada, di quell’East Village dove vivevano quelli che oggi definiremmo alternativi, che era confinante col Greenwich Village dove avevano casa intellettuali e artisti di sinistra. Una curiosità per inquadrare gli umori di quell’epoca e in quegli ambienti: nel 1968 un certo Louis Abolafia, performer artist, presentò la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, contro Richard Nixon, con il suo Partito Nudista e lo slogan “Che cosa ho da nascondere?”, slogan profetico col senno di poi sapendo che fine ha fatto Nixon.

Un gruppo di hippies che suona e canta a Washington Square Park, il luogo e il tempo in cui Bob Dylan, Allen Ginsberg, Andy Warhol, The Velvet Underground e altri protestavano contro la guerra in Vietnam.
Ma al Greenwich Village c’erano anche Paul Newman e sua moglie Joanne Woodward che tranquillamente facevano colazione leggendo i quotidiani.
Bob Dylan al Bitter End, cantautore che sarà una delle punte di diamante delle prossime proteste sessantottine

Insomma da quelle parti, fra hippies e intellettuali e artisti e star-system, viveva varia umanità. C’erano quelli che bruciavano le cartoline precetto e c’erano quelle che non sapevano di chi fossero incinte, e proprio da quelle strade vennero anche alcuni elementi del primo cast originale del musical: le tematiche e il linguaggio esplorati sono, fino a quel momento, inauditi: parolacce e volgarità varie, canzoni che inneggiano all’uso di droghe e alla libertà sessuale, e poi l’irriverenza per sua maestà la bandiera americana, e infine la scena di nudo collettivo che chiude lo spettacolo. Anche musicalmente è una novità: i due autori erano stati messi in contatto col canadese Galt MacDermot che qualche anno prima aveva vinto un Grammy Award e che fino a quel momento non aveva mai sentito parlare di hippies ma sposò il progetto con molto entusiasmo e partendo dall’idea rock dei due autori sviluppò un suo proprio sound con influenze afro e funk. A lavoro completato presentarono il progetto a molti produttori di Broadway ricevendo solo rifiuti, finché alla fine non trovarono l’attenzione di Joe Papp, un produttore che sembrava il meno adatto essendo il gestore del New York Shakespeare Festival e che fino a quel momento non aveva mai prodotto spettacoli di autori viventi; ma Papp stava costruendo il nuovo Public Theatre nell’East Village, proprio il quartiere hippie in cui Ragni e Rado avevano trovato le loro ispirazioni, e dove Papp aveva l’intenzione di produrre e sostenere proprio artisti emergenti, decidendo che quel musical di capelloni fumati avrebbe inaugurato la nuova struttura. Il debutto fu caotico per l’assoluta novità di quel musical di rottura, per il cast inusuale e confuso e lo staff tecnico del teatro che non comprendeva l’operazione: la critica fu tiepida ma non negativa e al pubblico era piaciuto; così venne sviluppata la versione che nel 1968 vide l’aggiunta di 13 canzoni e i testi più ammorbiditi con un finale più edificante da portare a Broadway, finalmente. E successo fu.

Già nel 1973 era stato offerto al 30enne George Lucas non ancora famoso l’adattamento del musical, che lui rifiutò perché impegnato a girare il suo primo grande successo “American Graffiti” che altrettanto raccontava la gioventù dei recenti anni ’60 ma da un punto di vista borghese e nostalgico da commedia per tutte le famiglie. A quel punto si interessò il cecoslovacco naturalizzato statunitense Miloš Forman, forte del grande successo del 1975 “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, film che vinse cinque Oscar, sei Golden Globe, sette BAFTA e altro ancora; per Forman era un proseguo del suo lavoro nel cinema di denuncia iniziato col suo primo film americano “Taking Off”. Ma il progetto che prese in mano in quella seconda metà degli anni ’70 era già datato perché l’esplosione del fenomeno dei figli dei fiori si era già esaurito e si andava verso un altro tipo di proteste, meno floreali e psichedeliche ma più concrete, come le lotte contro il razzismo, che pur coetanee di quei primi anni ’60 esplosero con l’assassinio del reverendo Martin Luther King nel 1968.

Forman si affidò per la sceneggiatura al drammaturgo Michael Weller e insieme spostarono l’azione nel loro tempo presente e il film fu girato nell’autunno del 1977 stravolgendo completamente la trama del musical: alcuni personaggi furono eliminati e altri nuovi furono introdotti, di conseguenza furono eliminate anche alcune canzoni mentre altre furono assegnate ad altri personaggi; il protagonista Claude fu totalmente reinventato così come il finale in cui nell’originale era lui a morire. Va da sé che Ragni e Rado non ne furono affatto contenti e dichiararono drasticamente, forse non a torto, che la versione cinematografica del loro musical non era ancora stata realizzata; ma il film ebbe un enorme successo di pubblico e la critica elogiò le invenzioni di Weller che resero la trama molto più avvincente. Fu candidato ai Golden Globe come Miglior Film con Treat Williams candidato come Nuova Star dell’Anno che però quell’anno andò al più rassicurante bambino piagnucoloso Ricky Schroeder per “Il Campione” di Franco Zeffirelli.

Il cast comprendeva John Savage nel ruolo dell’altro protagonista: biondo come l’originale James Rado tanto quanto Treat Williams sembrò la copia perfetta, in bello, di Gerome Ragni, e ricordiamoci che Savage era reduce dall’aver partecipato a un altro grande successo: “Il Cacciatore” di Michael Cimino. Anche Beverly D’Angelo nel ruolo della giovane borghese è al suo primo ruolo importante. Negli altri ruoli di rilievo Annie Golden, Don Dacus, Dorsey Wright e Cheryl Barnes. Ai provini si presentò anche una certa Madonna Louise Veronica Ciccone, da poco sbarcata a New York per fare fortuna come ballerina ma venne scartata probabilmente perché ancora acerba. Si presentò anche Bruce Springsteen che venne scartato probabilmente perché troppo preparato: era già una star del rock con diversi dischi e concerti all’attivo. Come altra curiosità c’è da riportare che il film, praticamente tutto in esterni, fu girato nel freddo ottobre del 1977 e per evitare che agli interpreti uscisse il vapore di bocca quando mimavano il canto, fu messo loro del ghiaccio in bocca, altrettanto quando dovevano solo recitare si rinfrescavano prima la bocca.

Da quello che leggo oggi sui social con la sua folgorante interpretazione in “Hair” Treat Williams fece innamorare molte donne, e perché no anche molti uomini, con quella sua aria da ribelle dal gran cuore, e oggi moltissimi lo compiangono. Ma la sua folgorante carriera fu con quel film all’apice per poi assestarsi in una lunga fruttuosa sequenza di titoli dove fu comprimario senza più avere l’opportunità di brillare in un ruolo di prima grandezza, ma sempre apprezzato dalla critica. Fu tra i protagonisti di “C’era una volta in America” del nostro Sergio Leone ed ebbe pure l’opportunità di fare una marchetta in Italia partecipando a “La stangata napoletana” di Vittorio Caprioli. Nel 2007 lavorò anche con Pupi Avati in “Il nascondiglio”, uno di quegli horror americani che ogni tanto il nostro autore si concede. Ebbe una seconda ma altrettanto infruttuosa nomination al Golden Globe per la sua intensissima interpretazione da protagonista in “Il principe della città” di Sidney Lumet del 1981, e una terza nomination la ebbe per l’adattamento televisivo, mai visto in Italia, di “Un tram che si chiama desiderio” dal dramma di Tennessee Williams già film nel 1951 per la regia di Elia Kazan che aveva lanciato Marlon Brando.

Negli anni Novanta era nei suoi 40 e rinverdì la carriera che stava stagnando tornando al teatro con interpretazioni applauditissime, e critiche sempre eccellenti per le sue partecipazioni in film mai di prima grandezza benché diretti da grandi registi e al fianco di altre grandi star. Nei primi anni 2000 un grande successo di pubblico gli venne dalla serie tv “Everwood” e poi ebbe ruoli ricorrenti in altre importanti serie oltre a vari film televisivi. In un’intervista del 1995 confessò la sua dipendenza da cocaina negli anni ’80 quando era etichettato come “il prossimo” Al Pacino o Robert De Niro e non reggeva la pressione del confronto; la sua carriera cinematografica “è stata interrotta – disse – dalla mia mancanza di concentrazione e dall’uso di cocaina. Voglio dire, volevo festeggiare più di quanto volessi concentrarmi sul mio lavoro… Non ti rendi conto, purtroppo, finché non è troppo tardi, di quanto siano fugaci la fama e il potere a Hollywood…” Il suo ultimo lavoro ancora inedito è la partecipazione alla seconda stagione del televisivo “Feud” che racconta la rivalità di Bette Davis e Joan Crawford durante la lavorazione di “Che fine ha fatto Baby Jane?” interpretate da Susan Sarandon e Jessica Lange. Treat Williams interpreta uno dei capi del network televisivo CBS. La sua ultima partecipazione al cinema è nel crime “American Outlaws” del 2023 inedito da noi. Lascia la moglie Pam Van Sant ex attrice e i loro due figli Gill Treat Williams, avviato a seguire le orme paterne, e Ellinor (Ellie) Williams, influencer. E lascia anche tanti che l’hanno sempre ammirato e amato.

Il giardino dei Finzi Contini – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Sarò controcorrente: secondo me questo film non è fra i migliori di Vittorio De Sica. Tratta un argomento importante, è vero, è tratto da un importante romanzo, è altrettanto vero, ed ebbe grande successo anche oltreoceano dove notoriamente sono assai sensibili riguardo al tema dell’ebraismo: il film negli Stati Uniti si aggiudicò l’Oscar come miglior film straniero ed ebbero la candidatura per la miglior sceneggiatura non originale Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli; e poi candidatura al Grammy per la musica di Manuel De Sica, figlio maggiore del regista, qui alla sua terza colonna sonora; Vittorio De Sica vinse anche l’Orso d’Oro a Berlino e il britannico BAFTA dove ci fu la candidatura di Ennio Guarnieri per la miglior fotografia. Premi in Italia: David di Donatello come miglior film e David Speciale al protagonista Lino Capolicchio; Nastro d’Argento a Romolo Valli come miglior attore non protagonista e a Giancarlo Bartolini Salimbeni per la miglior scenografia; e per finire Globo d’Oro a Fabio Testi come miglior attore rivelazione. Elencati per dovere di cronaca premi e riconoscimenti specifico che nel mio essere controcorrente sono in buona compagnia perché all’epoca non tutta la critica fu d’accordo nell’elogiare il film e Morando Morandini sul quotidiano milanese “Il Giorno” scrisse che era eccessivamente melenso. Be’ lo è.

Secondo me questo stile, melenso per Morandini, eccessivamente patinato aggiungo io, non è in linea con la miglior produzione di De Sica che nasce nel neorealismo e anche quando si trasforma in commedia mantiene certe radici veristiche e veraci, popolari e popolane, mentre la vita agiata di questa oziosa famiglia altoborghese, tutti leccati in abiti fra il bianco e il color crema, non appartiene al regista e dunque la racconta per luoghi comuni dove la quotidianità si fa cicaleccio e birignao: una leggiadria certo necessaria a far risaltare la tragedia incombente delle persecuzioni nazi-fasciste, ma non fosse stato per il risvolto drammatico questo ritratto di famiglia in un esterno sarebbe potuto diventare parodia: i Finzi-Contini, con trattino come nel romanzo di Giorgio Bassani, che sono “altro” nella comunità ebraica della Ferrara dell’epoca, restano “altro” anche nella cinematografia di De Sica.

Già l’inizio è imbarazzante dal punto di vista sonoro: Livia Giampalmo, che effettivamente era agli inizi in sala di doppiaggio, doppia Dominique Sanda quasi facendo il verso alle querule doppiatrici d’antan delle sofisticated comedies hollywoodiane, come dandosi un tono perché sta dando voce a una signorina di buonissima famiglia: stonatissima e fasulla; più avanti ci si fa l’orecchio, giocoforza, ma arriva subito anche il doppiaggio altrettanto stonato di Roberto Del Giudice che dà voce a Helmut Berger: l’atmosfera generale è che stiano giocando a fare le persone fini.

Alessandro D’Alatri, recentissimamente morto 68enne dopo una lunga malattia, recita nel film il ruolo del protagonista da adolescente, ma aveva debuttato 14enne l’anno prima da protagonista nel piccolo film di avventura e formazione (di cui non rimane traccia) “Il ragazzo dagli occhi chiari” di Emilio Marsili (due soli film nel portfolio e anch’egli sparito senza lasciare traccia) e poi in Rai con un piccolo ruolo nella miniserie “I fratelli Karamazov” diretta da Sandro Bolchi, dopodiché smette di recitare e da giovane adulto negli anni ’80 è al top come regista di pubblicità, debuttando come regista cinematografico solo nel 1991, 36enne, con “Americano Rosso” che gli varrà il David di Donatello come miglior regista esordiente; era una commedia sentimentale guarda caso ambientata nel 1934 con lo stesso entroterra fascista di questo film di De Sica cui resta legato il suo nome come giovane attore. Nel ruolo di Micol da giovane c’è l’ex attrice bambina Cinzia Bruno che aveva debuttato a tre anni proseguendo la carriera di giovane attrice anche in radio e nel doppiaggio ma per un problema alle corde vocali ha dovuto abbandonare la carriera artistica ed ha aperto un’agenzia di viaggi.

Proprio per il ruolo di Micol, De Sica aveva seriamente considerato Patty Pravo ma non se ne fece niente perché Patty era troppo impegnata, era appena arrivata al successo con “La bambola” (canzone che odiava perché dava l’immagine di una donna totalmente dipendente dall’uomo), inoltre la sua casa discografica stava battendo il ferro ben caldo: in quel 1970 era al successo con “La spada nel cuore” e poiché stava costruendosi una brillante carriera come cantante non volle distrarsi col cinema, tanto che in seguito rifiutò anche “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni: oggi se ne dice pentita. Però l’anno prima aveva doppiato Jacqueline Kennedy nel documentario di Gianni Bisiach “I due Kennedy”.

Alla sceneggiatura del film, come detto firmata da Bonicelli e Pirro, inizialmente partecipa anche l’autore del romanzo, Giorgio Bassani, che però abbandona il progetto per insanabili divergenze col regista, tanto da chiedere, e ottenere, che il suo nome venisse tolto dai titoli. Pare che il punto di rottura fu l’esplicitazione nel film della relazione fra Micol e il comunista milanese Malnati, che nel romanzo è solo accennata da Giorgio che è l’io narrante. E non si può dire che per lo scrittore sia stato il capriccio autorale di uno che non comprende le esigenze cinematografiche, perché egli stesso era da tempo attivo sia come soggettista che sceneggiatore, per non dire che aveva anche doppiato Orson Welles diretto da Pier Paolo Pasolini nell’episodio “la ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”.

Lino Capolicchio è il protagonista Giorgio, nome autobiografico dell’autore che in qualche modo si rispecchia nel personaggio, ebreo come lui, che narra le vicende reali di una famiglia ferrarese cui nel romanzo sono stati cambiati i nomi (tranne quello del cane Jor) e alcuni dettagli: da qui forse il suo attaccamento a certi passaggi della sua narrativa che nel film non sono stati rispettati. Micol è interpretata dall’ex modella francese Dominique Sanda che dopo un’intenso debutto il patria con Robert Bresson che la diresse in “Così bella, così dolce”, subito viene adottata dai cineasti italiani a quell’epoca sempre affascinati dalle bellezze straniere, tanto c’era il doppiaggio: lo stesso anno gira con Bernardo Bertolucci “Il conformista” e si avvia a una carriera in film d’autore con personaggi tormentati e ambigui. Oggi è una bella signora 71enne che si dedica principalmente al teatro. Mentre ricordiamo che Capolicchio è morto 79enne lo scorso anno: la sua scomparsa ha creato un’impennata di visioni di questo film che fino a quel momento era in chiaro su Sky Cinema e che dopo la sua morte è passato a pagamento su Sky Primafila per sfruttare commercialmente la grande richiesta, e infine scompare del tutto; oggi è visibile a pagamento su Prime Video. Restaurato nel 2015 è reperibile in chiaro su YouTube una vecchia versione per il mercato anglofono con titolo e sottotitoli in inglese.

Ferrara, con Roma e Venezia, era una delle città con maggiore popolazione ebraica, e anche dopo la chiusura del ghetto in epoca fascista rimase un importante centro per la comunità, tanto che alle prime restrizioni vi confluirono ebrei da altre province pensando di trovare un ambiente più favorevole grazie alla presenza del deputato fascista ferrarese Italo Balbo e del suo amico Renzo Ravenna che fu uno dei due soli ebrei (l’altro fu il triestino Enrico Paolo Salem) a ricoprire il ruolo di podestà, fino all’emanazione delle leggi razziali che non risparmiò neanche loro. Ferrara dunque fu un centro nevralgico che anche il regista ferrarese Florestano Vancini racconterà nei suoi film.

Il giardino del titolo è quello della villa che realmente a Ferrara, e poi nel romanzo e infine del film, divenne ritrovo e porto franco per tutti gli ebrei e chiunque altro fosse inviso al regime fascista che aveva cominciato le persecuzioni e le restrizioni sociali; metafora di un sogno bello e impossibile che la realtà andrà a dissacrare. Romanzo e film raccontano come la comunità ebraica non si rese conto di quanto stava accadendo; ci fu chi reagì cercando di mimetizzarsi e si iscrisse al Fascismo, come il suddetto podestà della città e come il padre del protagonista interpretato da Romolo Valli, chi davvero senza poter comprendere, perché si era tutti italiani e da secoli, a memoria umana, non c’erano più state divisioni per ragioni religiose e men che meno razziali. Come detto a Romolo Valli, gran signore del teatro sempre in ruoli di supporto al cinema, è andato il riconoscimento del Nastro d’Argento. A Fabio Testi nel ruolo di Malnate è andato il Globo d’Oro come unico premio in una lunga carriera iniziata appena quattro prima come controfigura sul set di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che in seguito gli affida un ruolo in “C’era una volta il west” che però taglia in post-produzione perché non ottimale; ma è un aitante belloccio e dopo una serie di piccoli ruoli è protagonista in un paio di film di serie B; è qui alla sua prima occasione in un film importante e l’industria cinematografica che sta puntando su di lui lo premia per sdoganarlo fra quelli che contano. Conclude il cast dei ruoli principali l’altro bello e possibile già ex modello austriaco Helmut Berger che Luchino Visconti aveva diretto proprio come ragazzaccio austriaco in un episodio del film “Le streghe” e che lancerà come protagonista in “Ludwig” un paio d’anni dopo.

Curiosità letteraria, nel romanzo c’è un prossimamente: Giorgio racconta a Malnate di un’episodio accaduto in città poco tempo prima, che riguarda un otorinolaringoiatra coinvolto in uno scandalo omosessuale per il quale si tolse la vita; nomina il personaggio come Athos Fadigati, personaggio protagonista di un altro romanzo al quale stava lavorando: “Gli occhiali d’oro” che con la regia di Giuliano Montaldo diverrà film nel 1987. Una lettura integrale del romanzo “Il Giardino dei Finzi-Contini” a più voci, è stata realizzata dalla Rai di Torino, e poi una riduzione radiofonica e andata in onda su Radio 3. La New York City Opera e il National Yiddish Theatre Folksbiene ne hanno realizzato lo scorso anno un adattamento operistico presso il Museo del Patrimonio Ebraico di Manhattan.

Mussolini ultimo atto – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Nell’occasione del 25 aprile, festa italiana dalla liberazione dal nazi-fascismo, La7 manda in onda questo film del 1974 e colgo l’occasione per andare a rivedere alcuni dei film d’autore che trattarono l’argomento.

Erano passati trent’anni dalla fine della guerra e se dal punto di vista politico e sociale quello sembra un periodo lontanissimo perché da allora regna al governo la Democrazia Cristiana e nell’immediato il territorio italiano ha il problema contingente del terrorismo di destra e sinistra, in realtà per tanti è ancora molto vicino: i 20enni di allora sono la classe dirigente e quelli che allora erano nell’età di mezzo, fra i 40 e i 50, sono negli anni ’70 ancora viva memoria – dunque un film che rivive l’episodio della fine del duce tocca nervi ancora vivi, sia nei nostalgici che in tutti quanti gli altri che cercavano la via del futuro.

Il romano Carlo Lizzani, classe 1922, all’epoca dei fatti era un 20enne che si era unito alla Resistenza Romana formatasi in città dopo l’8 settembre 1943 in seguito a quella che storicamente viene definita “mancata difesa di Roma” (ma anche “occupazione tedesca di Roma”) da parte del Regio Esercito, e che operò fino al 4 giugno 1944, data della liberazione della città da parte degli Alleati; nella Resistenza confluirono sia militari che civili, sia con forme di boicottaggio passivo, ovvero senza l’uso di armi, che organizzandosi in vere e proprie formazioni paramilitari. Lizzani, sceneggiatore nel periodo neorealista, debuttò come regista poco meno che 30enne prima col documentario “Nel mezzogiorno qualcosa è cambiato” che è possibile vedere alla fine dell’articolo, e poi col film “Achtung, banditi!” che rievoca un episodio della resistenza partigiana a Genova, dunque già nell’ambito del film storico di militanza su cui ritornerà, concedendosi qualche divagazione farà anche un western, rimanendo negli anni fedele al suo genere d’esordio, distinguendosi anche nel noir-poliziesco con ricostruzioni di delitti di cronaca. Dunque questo suo film sugli ultimi giorni di Benito Mussolini a trent’anni dal fatto sembra quasi un atto dovuto, anche se forse non pienamente riuscito.

Lizzani scrisse il film con lo scrittore Fabio Pittorru che si era dato alla sceneggiatura, (tentando l’anno dopo anche lui la disagevole via della regia) che ha dato il meglio di sé nella scrittura di poliziotteschi con qualche incursione nella commedia sexy: questa sceneggiatura rimane la sua prova più impegnativa. Il film che ne viene fuori è un’opera rigorosa, forse troppo perché manca di pathos, e benché ricca di dettagli nella ricostruzione, resta poco spettacolare: rimane un film “a tema” scandito con la freddezza dei dettagli che lo colloca a metà strada fra il documentario storico e il cinema narrativo, e se del documentario ha il necessario rigore del film narrativo non ha la spettacolarità, come se l’attenzione alla documentazione avesse tolto slancio allo spettacolo o come se, forse e soprattutto, Lizzani col suo passato di partigiano avesse voluto – e c’è riuscito – mantenersi al di sopra delle parti senza metterci il suo personale umano punto di vista. Il film risulta didascalico e poco coinvolgente anche se tecnicamente perfetto.

Produce il palermitano Enzo Peri, che laureato in filosofia e giurisprudenza era andato a frequentare anche la California University, e con questo suo background di cultura alta e internazionale torna in Italia e si dà al cinema, prima tentando la strada della regia (un documentario e un western) e poi dedicandosi esclusivamente alla produzione di alcuni film (a tutt’oggi solo cinque) cosiddetti impegnati; non sorprende dunque che il film, schierando divi americani sia, com’è evidente dal labiale, girato in inglese certamente per facilitare una distribuzione internazionale dove fu rilasciato col titolo “Last Days of Mussolini”.

L’interpretazione di Rod Steiger non aiuta, per quanto la sua performance sia misurata e aderente: ma aderente a cosa? L’americano, già premio Oscar per “La calda notte dell’Ispettore Tibbs” (1968) e già in Italia nel 1971 con Sergio Leone per “Giù la testa”, sembra fuori posto nel ruolo del duce, di questo duce in declino e in fuga, e per quanto bene possa interpretare gli scatti d’orgoglio e gli sguardi ora furenti della bestia in gabbia e ora vacui dell’uomo perduto, la figura di Benito Mussolini non diventa mai sua, non gli appartiene, non appartiene alla sua cultura: è quella che in gergo si definisce interpretazione scollata. Non convince neanche l’altrove sempre ottima Lisa Gastoni come Claretta Petacci. Già come personaggio, benché somigliante, è poco credibile perché troppo anziana per il ruolo: Clara o Claretta, Clarice sui documenti, era di 29 più giovane del duce mentre l’attrice è di soli 10 anni più giovane dell’attore e risulta poco credibile quando nel film dice che già adolescente si era innamorata dell’uomo politico: narrativamente nuoce la mancata differenza di età perché sarebbe apparsa dolorosamente assai più patetica una giovane donna ciecamente innamorata di un uomo che ha il doppio della sua età; e benché portatrice di un minimo di pathos sentimentale anche il suo personaggio risulta didascalico fin dalla scrittura.

Nella prima parte del film c’è la partecipazione di gran lusso di Henry Fonda che impersona autorevolmente quel Cardinale Schuster, proclamato beato da Giovanni Paolo II, che nella sua epoca e nel clero fu fra i tanti che si impegnarono nell’intento di cristianizzare il fascismo perché, va ricordato, Il fascismo era nato come un movimento politico anticlericale con venature anticattoliche e anticristiane, venature che poi il lungimirante Mussolini, allorché fu a capo del governo, da buon politico smussò riavvicinandosi alla chiesa con cortesi concessioni auspicando di giungere “in un tempo più o meno lontano” – beninteso – a comporre il dissidio fra Chiesa e Stato che egli giudicava “funesto per entrambi e storicamente fatale”: ipocrisia ad alti livelli. Nel film si racconta il momento in cui promosse nell’arcivescovado di Milano un incontro fra Mussolini in fuga verso la Svizzera, dove aveva già trasferito diversi milioni di lire, e alcuni rappresentanti dei partigiani con l’intento di concordare una resa incruenta del duce; duce già tampinato dai Tedeschi che in quanto alleato lo volevano per sé e con sé, e dagli Americani che in quanto vincitori lo volevano trasferire in una prigione dorata degli Stati Uniti per tenerlo da conto allorquando e semmai il comunismo della vittoriosa Russia avesse preso piede in Europa. Di Fonda resta da dire che anche lui come l’altro americano era di casa a Cinecittà avendo girato con Leone “C’era una volta il West” e con Tonino Valerii “Il mio nome è Nessuno”.

Nella parte centrale del film troviamo Lino Capolicchio che è il partigiano Pier Luigi Bellini delle Stelle, Pedro come nome di battaglia, il cui nome resta famoso per avere intercettato Mussolini in fuga travestito da soldato tedesco fra gli altri nazisti in ritirata. Nell’ultima parte entra in scena Franco Nero – all’epoca divo italiano di prima grandezza che l’anno prima era stato protagonista di “Il delitto Matteotti” di Florestano Vancini, altro film che entra nella mia piccola lista – è qui nel ruolo del partigiano Walter Audisio, Valerio in battaglia, che prese in consegna Mussolini per eseguirne la fucilazione, e con lui la Petacci che si ostinava a non volersi separare dall’uomo della sua vita che divenne l’uomo della sua morte: al momento della fucilazione del duce la donna si frappose restando colpita. Nel resto del cast Massimo Sarchielli come Alessandro Pavolini, figura di spicco dell’apparato fascista che finì appeso a Piazzale Loreto insieme al suo capo e Giacomo Rossi Stuart perfettamente bilingue interpreta il capitano italo-americano Jack Donati. Nando Gazzolo ha doppiato Rod Steiger e Giorgio Piazza Henry Fonda. Musica di Ennio Morricone eseguita da Bruno Nicolai.

Il film, che si apre con un cinegiornale e si chiude con documenti d’epoca rimane esso stesso come rigorosissima documentazione.

Il documentario opera prima di Carlo Lizzani

Cry Macho

A 91 anni (quest’anno 92) Clint Eastwood è ancora attivissimo e dirige questo suo ultimo film, ultimo in termini di tempo sperando che non sia l’ultimo in assoluto. Va detto subito che non è fra i suoi migliori, lui che ha realizzato dei capolavori, ma è gradevole e qualsiasi film lui abbia ancora l’energia di fare va senz’altro visto. Gli fu offerta questa sceneggiatura già nel 1988, quando aveva 58 anni, ma lui rifiutò per girare l’ultimo capitolo della cinquina con l’Ispettore Callaghan, e perché probabilmente era ancora troppo giovane e aitante per interpretare un cowboy da rodeo a fine carriera, e lo riprende solo oggi quando lui però è già troppo vecchio, ma ormai Clint è Clint, è una leggenda vivente, ha firmato film da Oscar, e se adesso ci risulta improbabile in questo ruolo non ci mettiamo a fare i pignoli: ispira tenerezza e simpatia, e perché no anche solidarietà, vederlo alla sua veneranda età fare gli occhi dolci alla vedova messicana che ha almeno la metà dei suoi anni: un ruolo che al massimo avrebbe potuto interpretare un 70enne.

Il film nasce da una sceneggiatura che il premiatissimo romanziere e drammaturgo N. Richard Nash aveva scritto nei primi anni ’70 ma che le major avevano rifiutato. Pensò allora di trasformare la sceneggiatura, intitolata “Macho” in un romanzo che diventò “Cry Macho”: “Ho pensato di farne una rapida novellizzazione. Ho ricevuto un anticipo di 10.000 dollari (55.000 odierni) e l’ho completato come ‘Cry Macho’ in due settimane. Ha ottenuto recensioni sorprendentemente buone e nell’istante in cui sono apparsi, tre studi, che avevano tutti rifiutato la sceneggiatura, hanno iniziato a fare offerte per questa terribile, piccola cosa. Ho venduto i diritti a uno. Quando mi hanno chiesto di fare la sceneggiatura, ho dato loro quello che avevano rifiutato — non hanno cambiato una parola – e l’hanno adorato!”: a dimostrazione della miopia di tanti produttori che cercano il successo già impacchettato anziché contribuire a crearlo. E in seguito Nash specificò in un’intervista che in realtà era stata la 20th Century Fox a rifiutare la sceneggiatura originale per ben due volte, prima di accettarla quando cambiò “solo quattro pagine”. Dopo il rifiuto di Clint la sceneggiatura passò all’attenzione di Burt Lancaster e Roy Scheider e Pierce Brosnan fino a che al Festival di Cannes del 2011 venne annunciata una produzione con protagonista Arnold Schwarzenegger che aveva appena dismesso i panni di governatore della California, ma a causa di guai personali, prima uno scandalo legale a fine mandato – aveva dimezzato la pena al figlio di un suo amico colpevole di omicidio – e poi il divorzio dopo un matrimonio 25nnale, fece naufragare il progetto e Scwarzy tornò poi a recitare nel trittico di “I mercenari”.

A questo punto torna in lizza il nostro grande vecchio che affida l’adattamento della sceneggiatura originale – Nash era morto 87enne nel 2000 – al fidato Nick Schenk che prima di incontrarlo aveva sbarcato il lunario in vari modi: attore e sceneggiatore in programmi tv sport-spettacolo sul bowling e le arti marziali, ma ha anche fatto il commesso, l’operaio e l’autista, e solo quando Clint acquista un suo script e ne realizza “Gran Torino” e lui vince l’Oscar per la sceneggiatura, il ragazzone diventa un professionista della scrittura; e dopo aver scritto “The Judge” per un altro grande vecchio, Robert Duvall – evidentemente i drammi sulla terza età gli sono congeniali – scrive ancora per Eastwood “Il corriere – The Mule” e poi questo “Cry Macho” in cui Clint deve aver messo del suo, soprattutto nei passaggi in cui parla della vecchiaia in modo assai partecipato, prossimo all’autobiografia.

Lui nelle varie interpretazioni è stato, in un verso o nell’altro, sempre lo stesso personaggio, quello che Sergio Leone aveva intuito in lui: l’eroe solitario e controcorrente, di poche parole, violento a fin di bene, scostante ma partecipativo e dunque il classico burbero benefico dal titolo dalla commedia di Carlo Goldoni che è diventata un’etichetta; in una carriera fatta di western, a cui è sempre tornato, e di thriller polizieschi, la sua maschera non è mai cambiata nonostante qualche incursione nel genere romantico come in “I ponti di Madison County” con Meryl Streep, e con la terza età si è poi aperto ai film corali divertendosi con i suoi coetanei in “Gli spietati” e “Space Cowboys”, oltre a quelli dove è solo regista e qualche volta anche musicista con notevoli incursioni nelle storie di personaggi reali, fino alle ricostruzioni storiche come nel dittico formato da “Flags of Our Fathers” e “Letters from Iwo Jima” che raccontano i due punti vista, americano e giapponese, sulla battaglia di Iwo Jima; con una menzione speciale: è praticamente l’unico fra i suoi coetanei, o comunque star hollywoodiane, che si è sempre tenuto lontano dalla debolezza del divertimento puro, facendo pure cassa che non guasta, e non ha mai partecipato ai blockbuster fantasy con supereroi e cattivi di lusso.

Qui è Mike Milo, un vecchio cowboy da rodeo in disarmo con ovvio bagaglio di dramma personale, che il suo ex datore di lavoro incarica di recuperare o forse rapire il figlio undicenne che vive, si fa per dire, con la scapestrata madre in Messico, perché il ragazzino, più scapestrato della madre, vive per strada e di espedienti, con un gallo da combattimento che si chiama Macho e in cui ovviamente lui si trasfigura: è un duro imberbe. L’incontro col vecchio leone comincia ovviamente nel peggiore dei modi, salvo poi, sempre ovviamente, comprendersi e reciprocamente apprezzarsi in una storia vista e rivista che non riserva sorprese e in cui, ancora ovviamente, non mancano i momenti di commedia che però non sono mai stati congeniali a Clint, né da attore né da regista, e tuttalpiù sfoggia qualche smorfia e qualche battuta ironica; storia di redenzione per il vecchio e il ragazzo spalmata di buoni sentimenti come erano i film di una volta – e in effetti questo film avrebbe dovuto essere già quello “di una volta” ed è necessariamente ambientato negli anni ’70 perché tante cose sono oggi cambiate da quando la storia è stata concepita, e un forzoso ammodernamento gli avrebbe nuociuto più che aiutarlo.

Il ragazzino coprotagonista, messicano di nascita, è il 16enne Eduardo Minett già star di Instagram e di TikTok in un mondo dove il talento si esprime e si impone attraverso percorsi che personalmente mai avrei immaginato. La vedova dal cuore d’oro che fa brillare gli occhi al vecchietto è l’americana Natalia Traven che, al contrario del ragazzino, non è sui social ed è molto riservata. Fra i ruoli principali completano il cast la cilena Fernanda Urrejola in patria star di telenovelas e da poco trasferita negli States per dare una svolta alla carriera; mentre il cantautore Dwight Yoakam è nel ruolo del padre del ragazzo. In conclusione un film leggero e gradevole che mi auguro non rimanga la firma definitiva di un Clint Eastwood che già si staglia sul suo tramonto.

Il buono, il brutto, il cattivo

Nel 1964 era cominciata l’avventura con “Per un pugno di dollari” che era proseguita l’anno dopo con “Per qualche dollaro in più” e nel 1966 si completa quella che verrà definita la trilogia del dollaro con “Il buono, il brutto, il cattivo” e ancora una volta le verità sulla genesi sono diverse e addomesticate, e sono tutte buone se consideriamo che la memoria non è mai una verità assoluta ma solo un verosimile punto di vista su un fatto che viene visto da diverse prospettive. Con la tendenza a dimenticare o abbellire dettagli che riteniamo secondari ma che possono essere centrali in un differente punto di vista.

Lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni ricorda di aver portato il suo amico vicepresidente della United Artists per l’Europa, con tutto il suo staff, al Supercinema di Roma a vedere “Per qualche dollaro in più”: “C’erano tremila persone. Videro il film in un tripudio di risate e di applausi e vollero andare subito al Grand Hotel a firmare il contratto. Pagarono come minimo garantito una cifra che era tre volte superiore alle più rosee previsioni del produttore. Come usano gli americani, la prima cosa che dissero quando firmarono il contratto fu: ‘Adesso crosscollateralizziamo, compensiamo profitti e perdite con il prossimo film; qual è il prossimo?’ Non avevamo un progetto. Col tacito assenso di Leone e Grimaldi, cominciai a inventare. ‘Un film su tre mascalzoni che corrono dietro a un tesoro attraversando la guerra civile, un po’ nello spirito della Grande Guerra (del 1959 di Mario Monicelli) che voi avete distribuito in America’. E quelli subito: ‘Lo compriamo: quanto costa?’, senza che ci fosse un soggetto scritto, solo sulle parole. Io quindi mi rivolsi a Leone e chiesi: ‘Quanto?’. Leone disse: ‘Cosa, quanto?’. Gli dissi: ‘Il film che gli ho appena venduto’. Onestamente, era un miracolo, senza una storia, solo facendo un po’ di scena. Grimaldi e Leone mi chiesero: ‘Cosa gli hai detto?’. Io dissi: ‘Una storia sulla guerra civile con tre attori; ditemi la cifra’. Grimaldi disse: ‘Beh, che ne dici di ottocentomila dollari?’. Io risposi: ‘Facciamo un milione’. Mi volsi verso Lopert e dissi: ‘Un milione di dollari’. Lui mi rispose: ‘Affare fatto’.”

Sergio Donati

L’aiuto regista Sergio Donati ricorda qualche dettaglio in più: “Grimaldi era pronto a vendere i diritti di ‘Per qualche dollaro in più’ negli Stati Uniti e in Canada. E esattamente in quello stesso periodo Luciano Vincenzoni collaborava con Ilya Lopert ed era un ottimo amico di Arnold e David Picker della United Artists. Erano a Roma. Lui convinse Lopert a portare quelli della UA a una grande proiezione di ‘Per qualche dollaro in più’… e Luciano riuscì davvero a vendere il film alla United Artists e ci guadagnò il 10 per cento di tutti i profitti e anche una percentuale su quello successivo, ‘Il buono, il brutto, il cattivo’.” Un dettaglio non da poco la percentuale sui profitti.

Mentre i ricordi di Sergio Leone sono più romantici e al contempo creativi, come si conviene: “Non sentivo più tutta quella pressione per offrire al pubblico un diverso tipo di film. Ora potevo fare esattamente il film che volevo… fu mentre riflettevo sulla storia di ‘Per qualche dollaro in più’, e su ciò che la faceva funzionare, sulle diverse motivazioni di Van Cleef e di Eastwood, che trovai il nucleo del terzo film… Da sempre pensavo che il buono, il cattivo e il violento non esistessero in senso assoluto e totalizzante. Mi sembrava interessante demistificare questi aggettivi nell’ambientazione di un western. Un assassino può fare mostra di un sublime altruismo, mentre un buono è capace di uccidere con assoluta indifferenza. Una persona in apparenza bruttissima, quando la conosciamo meglio, può rivelarsi più valida di quanto sembra – e capace di tenerezza… Incisa nella memoria avevo una vecchia canzone romana, una canzone che mi sembrava piena di buon senso comune: È morto un cardinale che ha fatto bene e male. Il mal l’ha fatto bene e il ben l’ha fatto male. In sostanza era questa la morale che mi interessava mettere nel film.”

Alberto Grimaldi

Riportati i dovuti distinguo sulla produzione sempre guidata da Alberto Grimaldi ma con l’apporto determinante degli americani, Leone si concentra sulla scrittura del suo terzo spaghetti-western che sarebbe anche stato il primo con budget in dollari e che fino a quel momento si sarebbe dovuto intitolare “I due magnifici straccioni” con protagonisti di nuovo l’ex star tv Clint Eastwood e il miracolato Lee Van Cleef che, tornando a recitare, finalmente si era potuto pagare le bollette e ora andare anche orgoglioso della sua Mercedes nuova. Ma Vincenzoni lì per lì si era inventato e venduto una storia con tre protagonisti, ambientata durante la guerra civile americana, e dovendo lavorare su quella traccia, e con un budget che arrivava a un miliardo di quelle lire, lo sceneggiatore propose di cooptare un’altra coppia di professionisti, Age & Scarpelli, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, una coppia la cui scrittura dava il meglio nell’umorismo popolaresco e nella satira di costume, maestri della commedia all’italiana che si erano anche cimentati nel genere cappa e spada ma mai nei western che fino a quel momento erano un sottogenere da non prendere in considerazione; e in quello stesso anno i due erano anche impegnati nella scrittura di “Signore & signori” di Pietro Germi, insieme all’amico Vincenzoni, del film a episodi “I nostri mariti” regia di D’Amico-Risi-Zampa e di “L’armata Brancaleone” di Mario Monicelli: scusate se è poco.

Age & Scarpelli

Ma la collaborazione fu per Leone da cancellare: “Il contributo dei due sceneggiatori era un disastro. Erano battute e nient’altro. Non potei usare nemmeno una delle cose scritte da loro. Fu la peggiore delusione della mia vita. Mi toccò riprendere in mano il copione con alcuni negri.” dove per negri si intendevano quelli che oggi vengono più correttamente definiti ghost writer. Sergio Donati, aiuto regista non accreditato nonché negro, concorda aggiungendo: “Nella versione finale del copione non è rimasto praticamente nulla che abbiano scritto loro. Avevano scritto solo la prima parte. Una riga appena. Erano lontanissimi dallo stile di Leone. Da parte sua, quella di tirarli dentro era stata una scelta tipica. Aveva bisogno di provare qualcosa di nuovo. E fu una sofferenza. Più che un western, Age e Scarpelli avevano scritto una specie di commedia ambientata nel West.” E Vincenzoni, che ha poi dichiarato di aver scritto la sceneggiatura in soli undici giorni, ben presto lasciò il progetto poiché i rapporti con Leone si andavano deteriorando, e quasi per dispetto si dedicò ad altri due western: “Il mercenario” di Sergio Corbucci e “Da uomo a uomo” di Giulio Petroni, tanto la sua firma sarebbe rimasta insieme a Age & Scarpelli e altrettanto la sua percentuale sugli utili.

Eli Wallach e Sergio Leone sul set

Fatti fuori tutti i co-sceneggiatori Leone resta da solo col suo negro (di altri negri non si sa) a concludere la sceneggiatura e in un’intervista alimenterà il mito di se stesso raccontando di elementi autobiografici sparsi in tutt’e tre i personaggi: “Nel mio mondo, sono gli anarchici i personaggi più veri. Li conosco meglio perché le mie idee sono più vicine alle loro. Io sono fatto di tutti e tre. Sentenza non ha anima, è un professionista nel più banale senso del termine. Come un robot. Non è questo il caso degli altri due personaggi. Considerando il lato metodico e cauto del mio carattere, sono simile al Biondo: ma la mia profonda simpatia andrà sempre dalla parte di Tuco… sa essere toccante con tutta quella tenerezza e umanità ferita. Ma Tuco è anche una creatura tutto istinto, un bastardo, un vagabondo.” Specificando che il Biondo è il personaggio fil rouge, l’uomo senza nome di Clint Eastwood, chiamato Joe nel primo film e il Monco nel secondo; Sentenza, intuizione molto bella e significativa per un nome, è il personaggio cattivo di Lee Van Cleef; mentre Tuco Ramirez, l’ultimo arrivato, è un messicano ricercato per una miriade di crimini ed è il personaggio che Sergio Leone ha amato di più: “Tuco rappresenta tutte le contraddizioni dell’America, e in parte anche le mie. Avrebbe voluto interpretarlo Gian Maria Volonté, ma non mi sembrava una scelta giusta. Sarebbe diventato un personaggio nevrotico, e io invece avevo bisogno di un attore dal naturale talento comico. Così scelsi Eli Wallach, di solito impegnato in parti drammatiche. Wallach aveva in sé qualcosa di chapliniano, qualcosa che evidentemente molti non hanno mai capito. E per Tuco fu perfetto.” E in un’altra intervista: “Eli Wallach l’ho preso per un gesto che fa nella ‘Conquista del West’, (grandioso film a episodi all-star e firmato da quattro registi) quando scende dal treno e parla con Peppard (l’attore George Peppard). Vede il bambino, figlio di Peppard, si volta di scatto e gli spara con le dita facendogli una pernacchia. Da quello ho capito che era un attore comico di estrazione chapliniana, un ebreo napoletano: si poteva fare tutto con lui. Infatti ci siamo molto divertiti a stare insieme.”

I tre attori col regista sul set

Insomma, Leone e Wallach “stavano insieme” e fra i due ci fu una così tanta sintonia da fare ingelosire Clint Eastwood. Il regista addirittura permise all’attore, col quale condivideva anche un bizzarro umorismo, di apportare cambiamenti al personaggio lasciandogli inserire il ricorrente segno della croce e facendogli scegliere il costume in tutta autonomia. Mentre Eastwood lo aveva tenuto sui bracieri ardenti anche perché lui stesso non sapeva che fare del suo futuro: la serie tv si era conclusa e i primi due film della trilogia erano usciti negli Stati Uniti, un successo di pubblico sull’onda del quale l’attore immaginava per sé altre prospettive – ma non gli arrivava ancora nessun’altra offerta, e quando Leone gli offrì quest’altro film per lui era l’unica proposta sul piatto. Ma leggendo il copione si rese subito conto che il personaggio di Tuco era più importante del suo e chiese all’autore di ridimensionarlo. “Ci mancò poco che non facesse la parte del Biondo. – ricorderà Leone – Dopo aver letto il copione trovò in effetti che il ruolo di Tuco fosse troppo importante, che fosse il migliore dei due ruoli. Tentai dunque di ragionarci: ‘Il film è più lungo degli altri due. Non puoi essere tutto solo. Tuco è necessario per la storia, e resterà come ho voluto che fosse. Devi capire che è il comprimario… e il momento in cui appari tu, è la star che fa la sua apparizione’.” E in effetti gli costruisce un’entrata in scena degna di un prim’attore che entra in palcoscenico, ma anche la presentazione degli altri due personaggi è notevole, come già lo era nei precedenti film grazie al suo uso particolarissimo dei primi piani. Ma l’attore ancora nicchiava perché immaginava per sé un futuro da star assoluta, e infatti a seguire girerà film senza comprimari troppo ingombranti: subito dopo aver debuttato come regista col thriller “Brivido nella notte” sarà il protagonista della serie di cinque film dell’Ispettore Callaghan. Solo con la maturità, e con la sicurezza che gli verrà dall’essere autore dei suoi film, si confronterà alla pari con altri talenti ed è del 1992 il suo western della terza età “Gli spietati” col quale farà jackpot agli Oscar.

Ma intanto non era contento del copione e Sergio Leone e gentile signora dovettero volare in California per convincerlo, e la signora Leone, l’ex ballerina del Teatro dell’Opera di Roma Carla Ranalli, ricorderà: “Clint Eastwood con sua moglie Maggie venne al nostro albergo… io spiegai che il fatto che avesse al suo fianco altri due grandi attori non avrebbe potuto che rafforzare la sua statura. A volte anche una grande star che interpreta un ruolo più piccolo insieme ad altri grandi attori può trarre vantaggio dalla situazione. A volte fare un passo indietro voleva dire farne due avanti.” Poi, mentre le due mogli facevano le mogli e parlavano fra loro, Eastwood e Leone si scontrarono molto duramente e fu lì che il loro rapporto cominciò a incrinarsi. Alla fine, ancora con un nulla di fatto, Leone disse alla moglie: “Se interpreta la parte ne sarò felicissimo. Ma se non lo fa – beh, visto che sono stato io a inventarlo – domani dovrò inventarne un altro come lui.” Dopo due giorni di trattative l’attore accettò di fare il film ma volle essere pagato 250mila dollari più il 10% sui profitti in tutti i territori occidentali, un accordo che la produzione concluse ma che non lasciò contento Leone, che ormai per l’attore non aveva più stima.

Per il ruolo del cattivo, Sentenza, ancora una volta Leone voleva coinvolgere Charles Bronson, gli piaceva proprio, ma ancora una volta non se ne fece nulla perché Bronson era impegnato sul set di “Quella sporca dozzina” di Robert Aldrich. In ballo c’era sempre Lee Van Cleef che però era un uomo dal carattere mite e l’autore temeva che non riuscisse a dare il meglio in quel ruolo di spietato assassino, sottovalutando le doti interpretative dell’attore. Poi, una volta assegnato il ruolo, il personaggio venne da sé: l’espressione cupa e pensierosa e gli occhi socchiusi, già di una forma tagliente, a mandorla, rendono Sentenza lo stereotipo ideale del cattivo che farà scuola, e solo dopo Leone dichiarerà, ancora una volta mitizzando la realtà: “Van Cleef aveva già interpretato un ruolo romantico in ‘Per qualche dollaro in più’. L’idea di fargli interpretare un personaggio che fosse l’opposto di quello mi intrigava.” Riguardo al suo contratto l’attore ricorda: “Sul primo film non potevo trattare, visto che non riuscivo nemmeno a pagare il conto del telefono. Feci il film, pagai il conto del telefono ed esattamente un anno dopo, il 12 aprile del 1966, fui chiamato di nuovo per fare ‘Il buono, il brutto, il cattivo’. E insieme a questo, feci anche ‘La resa dei conti’. Ma ora, invece di fare seventeen thousand dollars, ne stavo facendo a hundred e qualcosa, merito di Leone, non mio.” “La resa dei conti” è un altro spaghetti-western diretto da Sergio Sollima, sempre prodotto da Grimaldi che avendo sotto contratto sia l’attore che Ennio Morricone li piazza nel film come protagonista e compositore, l’attore nell’ennesimo ruolo di cacciatore di taglie. Anche riguardo al compenso ci sono delle divergenze: altre fonti affermano che per il primo film Van Cleef fu pagato 10mila dollari mentre lui in seguito ne ricorda 17mila, forse non volendo dichiarare che era stato sottopagato se si considera che Eastwood al suo primo ingaggio ne aveva avuti 15mila. Retroscena di poco conto ma che danno spessore al racconto, come ad esempio il fatto che l’attore fosse terrorizzato dai cavalli, come pure Wallach “altro stracittadino negato per la sella”, parole del negro Sergio Donati; gli fu assegnato un cavallino docile e ammaestrato, ma per farglielo montare bisognava aiutarlo con un sedia, e anche farlo smontare era una farsa. Donati riporta anche un altro aneddoto, sul fatto che l’attore fosse un uomo davvero mite a differenza dei tanti personaggi che ha interpretato: “Doveva prendere a schiaffi una prostituta, e non riusciva neanche a far finta. L’attrice, che era Rada Rassimov, gli diceva ‘Ma dai, non ti preoccupare anche se ti scappa una sberla vera, non m’importa, picchiami…’ Lui spiegava arrossendo che proprio non gli riusciva di alzare le mani su una donna, era più forte di lui.” Altra curiosità: anche in questo film Lee Van Cleef indossa lenti a contatto colorate data la sua eterocromia: aveva gli occhi di colore diverso, uno verde e uno blu, e proprio per i suoi occhi il suo personaggio si guadagnò l’appellativo di Angel Eyes nella versione inglese del film, invenzione dello stesso Leone. A Van Cleef mancava anche la falange distale (la falange finale) del dito medio della mano destra, che con un po’ di attenzione è possibile vedere in alcune inquadrature mentre impugna il fucile. Ma le curiosità sulla lavorazione sono tante e le vedremo più avanti.

Aldo Giuffrè

Fra gli altri personaggi è importante quello che compare in una sola scena, padre Ramirez, fratello di Tuco, col quale ha una bella scena a contrasto essendo i due all’opposto sul piano morale; lo interpreta Luigi Pistilli, che torna a lavorare con Leone e che fu un veterano degli spaghetti-western dove in genere impersonava i cattivi. Un volto inatteso in un western è invece quello di Aldo Giuffrè, assai noto al pubblico per la sua intensa attività sia teatrale che cinematografica che televisiva, e questo rimane il suo unico western senza considerare la parodia “Due mafiosi nel Far West” con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Qui interpreta il tormentato ruolo di un capitano nordista, alcolizzato, tentato da idee anarchiche perché stanco di una guerra dove deve sacrificare inutilmente i suoi uomini.

Il plastico del campo di concentramento di Andersonville sulla base del quale Sergio Leone fece costruire le sue scenografie, delle quali Lee Van Cleef dirà: “Il campo di prigionia che Sergio aveva costruito non era niente di che – solo poche case e un sacco di steccati. Ed era sovraffollato, ma ti dava l’impressione che durante la guerra civile dovesse essere proprio così. Era come alcune immagini che avevo visto di Andersonville.”

A tal proposito Leone aveva fatto molte ricerche storiche e ambientali per scrivere il film: “Ciò che mi interessava era da un lato demistificare gli aggettivi, dall’altra mostrare l’assurdità della guerra… la Guerra Civile nella quale i personaggi si imbattono, dal mio punto di vista, è inutile, stupida: non è portata avanti per una giusta causa. La frase chiave del film è quella di un personaggio (il Biondo) che commenta la battaglia del ponte: “Mai visto morire tanta gente… tanto male”. E Leone continua: “Faccio vedere un campo di concentramento nordista… ma in parte stavo pensando ai campi nazisti, con le loro orchestre di ebrei. Volevo mostrare l’imbecillità umana in un film picaresco insieme alla realtà della guerra. Lessi da qualche parte che 120mila persone morirono nei campi sudisti come Andersonville, ma da nessuna parte venivano citati gli stermini dei campi di prigionia nordisti. Si sente sempre parlare del comportamento vergognoso dei perdenti, mai dei vincitori. Così decisi di mostrare lo sterminio in un campo nordista. Agli americani questo non piacque… la guerra civile americana è un soggetto quasi tabù, perché la sua realtà è folle e incredibile. Ma la vera storia degli Stati Uniti è stata costruita su una violenza che né la letteratura né il cinema avevano mai mostrato come si deve. Personalmente tendo sempre a contrastare la versione ufficiale degli eventi – senza dubbio questo si deve al fatto che sono cresciuto sotto il fascismo. Ho visto in prima persona come si possa manipolare la storia, per cui metto sempre in dubbio quello che viene divulgato. Per me è diventato un riflesso incondizionato.” E ancora: “Gli autori americani non approfondiscono a sufficienza la loro stessa storia. Nel preparare ‘Il buono, il brutto, il cattivo’ scoprii che, durante la guerra civile, in Texas c’era stata una sola battaglia, il cui vero obiettivo era la proprietà delle miniere d’oro del Texas. Lo scopo della battaglia era di impedire al Nord (o al Sud) di mettere per primo le mani sull’oro. Così, mentre ero a Washington, cercai di trovare ulteriore documentazione su questo avvenimento. Il bibliotecario, lì alla Biblioteca del Congresso, la più grossa biblioteca del mondo, mi disse: ‘Credo che si sbagli. Il Texas, dice, signore? Deve esserci un errore. In America nessuno ha mai combattuto una battaglia per le miniere d’oro, e in ogni caso la guerra civile non è mai arrivata al Texas. Torni fra due o tre giorni e le farò qualche controllo. Ma sono sicurissimo che si sbaglia’. Beh, ritornai dopo due o tre giorni, e questo tizio mi guardò come se avesse visto un fantasma. ‘Ho qui otto libri’, disse, ‘e tutti fanno riferimento a questo particolare avvenimento. Come diavolo faceva lei a saperlo? Lei legge solo l’italiano, perciò come ha fatto a scoprirlo? Adesso capisco perché voi italiani fate film così straordinari. Sono vent’anni che sono qui, e non c’è stato un solo regista americano che si sia mai preoccupato di venire a informarsi sulla storia del West’. Beh, adesso ho anch’io una biblioteca enorme – a Washington, per otto dollari, ti fotocopiano un libro intero!“.

Altri interpreti: torna l’amico Mario Brega qui super cattivo con occhio di vetro; lo spagnolo Antonio Casas già in “Il colosso di Rodi” di Leone e contemporaneamente in “La resa dei conti” insieme a Van Cleef; la serba italiana Rada Rassimov nel ruolo della prostituta schiaffeggiata, e ancora Antonio Casale, Livio Lorenzon, l’altro spagnolo Molino Rojo come capitano in prigionia con la gamba in gangrena, e l’americano dal brutto muso Al Mulock che ha la peggio contro Tuco che lo liquida con una battuta che farà scuola, e che è anche critica a tanti western americani: “Quando si spara si spara, non si parla!” Tuco, che in quella scena esce nudo dalla vasca da bagno mostrando velocemente le chiappe pelose, una cosa all’epoca e in quel genere inaudita ma che diventa divertente nelle mani di Sergio Leone, e che prepara un’altra battuta clamorosa con il Biondo che gli dice: “Levati la pistola e mettiti le mutande” al che Tuco gli risponde un: “Vado, l’ammazzo e torno!” che farà storia: diventerà un modo di dire quando si andava a fare qualsiasi cosa per rientrare subito, come anche andare a comprare il latte o portare giù il cane: vado l’ammazzo e torno. Che divenne anche il titolo di un altro western di Enzo G. Castellari, film sfacciatamente e interamente fatto di omaggi e citazioni. Ma ci fu anche un “Il bello, il brutto, il cretino” con Franco e Ciccio regia di Giovanni Grimaldi (nessuna parentela col produttore Alberto). Un’altra parodia sarà “Il bianco, il giallo e il nero” di Sergio Corbucci starring lo stesso Eli Wallach. Fino al più recente (2008) coreano “Il buono, il matto, il cattivo” di Kim Ji-woon. Ma c’è anche un fumetto della Marvel Comics che con il medesimo titolo schiera Capitan America, Deadpool e Wolverine, e ci sarà anche Dylan Dog e altro ancora.

Di nuovo dal punto di vista linguistico il set era una babele ma stavolta c’erano tre protagonisti che almeno fra loro potevano recitare in inglese mentre il resto degli attori e dei figuranti parlavano italiano e spagnolo; solo Wallach, che conosceva il francese, si rivolgeva in quella lingua agli italiani, anche durante il girato; e a Leone pare che poco importasse del parlato: lui parlava poco e male l’inglese, aveva poi l’abitudine di cambiare le battute all’ultimo momento e, avendo già disponibile la musica di Morricone, amava averla sui set mentre girava, per ispirare gli attori, cosa che piaceva molto a Eastwood, ma che non aiutava al momento di dover doppiare il tutto, sia in italiano che in inglese per il mercato estero. Mickey Knox, il direttore del doppiaggio americano, ha dichiarato: “Sergio aveva una pessima traduzione dall’italiano e, nella maggior parte dei casi, gli attori americani cambiavano le battute mentre doppiavano… io sapevo quello che avrebbero dovuto dire, perché avevo il copione italiano… ma dovevo trovare le battute giuste, non solo per mandare avanti la storia, ma anche perché corrispondessero al movimento delle labbra. Non è una cosa facile da fare. Di fatto, mi ci vollero sei settimane per scrivere quello che chiamano ‘il copione col labiale’. Normalmente per un film ce l’avrei fatta fra i sette e i dieci giorni. Ma quello non era un film normale.” L’aiuto regista non accreditato Sergio Donati che era stato mandato a controllare il doppiaggio americano, aggiunge: “A ‘semplificare’ le cose arrivò pure Clint Eastwood il quale ormai, dopo il terzo film con Leone, stava con lui in un reciproco cordiale rapporto tipo ‘senza di me non saresti nessuno, brutto stronzo’. Clint con una faccia da western sbatté il suo ‘shooting script’ sul leggio e disse con la voce gelida e sussurrante che conoscete tutti: ‘Io ripeto esattamente quello che ho detto sul set’. Sapendo benissimo di rovinarci in quanto era tradizione leoniana sconvolgere completamente i dialoghi durante il montaggio.” Per l’Italia ancora una volta Clint fu doppiato da Enrico Maria Salerno, Van Cleef da Emilio Cigoli e Eli Wallach dal caratterista della voce un po’ nasale Carlo Romano, mentre Luigi Pistilli fu doppiato da Nando Gazzolo che nei primi due film aveva doppiato Gian Maria Volonté.

Nel 2014 l’editore Bompiani pubblica il romanzo di Nelson Martinico “Il buono, il brutto e il figlio del cattivo” fatto ritirare dal commercio dagli eredi di Leone, ma per chi lo volesse esistono delle copie in vendita online. L’idea del figlio del cattivo lascia supporre un sequel, che in effetti fu pensato dallo script-doctor Luciano Vincenzoni che pure aveva abbandonato Leone e la sua impresa, Leone che dal canto suo non aveva nessuna intenzione di realizzare un seguito; ma come ormai ci è evidente l’ineffabile Vincenzoni era uno che amava forzare la mano, e avendo scritto una prima traccia di sceneggiatura ambientata venti anno dopo, aveva anche contattato gli attori per sentirne la disponibilità; Eli Wallach fu subito della partita e della sceneggiatura dirà “Tuco sta ancora cercando quel figlio di puttana. E scopre che il Biondo è stato ucciso. Ma suo nipote è ancora vivo, e sa dove è nascosto il tesoro. Così Tuco decide di inseguirlo.” Clint Eastwood pare che sin da subito non fu entusiasta del progetto tanto che il testimone del suo personaggio passa a un probabile nipote, si rende però disponibile come voce narrante ma soprattutto voleva entrare nella produzione: piatto ricco mi ci ficco. Accertato che anche Sergio Leone non era disponibile come regista, lo sceneggiatore contattò Joe Dante offrendo a Leone il ruolo di coproduttore: era necessario che il titolare del franchising fosse della partita in un qualsiasi ruolo; ma l’ormai maestro dello spaghetti-western guardava molto oltre e non diede il permesso di utilizzare il suo titolo né i suoi personaggi. Fine della storia. Però per il suo successivo film, “C’era una volta il West” in cui finalmente avrà nel cast il tanto desiderato Charles Bronson, Leone aveva contattato i tre attori per chiedergli di interpretare dei camei: i tre killer che attendono il protagonista alla stazione, sarebbe stato divertente e iconico; Van Cleef e Wallach furono subito disponibili ma Eastwood si negò e l’autore dovette ripiegare su altri caratteristi.

Chi volesse acquistare una copia del famoso poncho lo può cercare online

Sotto finale Clint Eastwood trova un poncho e lo indossa, diventando il personaggio dei due primi film: un’auto citazione dell’autore, nient’altro. Ma questo ha scatenato tutti quelli che ancora oggi cercano nei tre film connessioni e riferimenti incrociati, volendo addirittura stabilire una cronologia; così se nell’ultimo film Eastwood trova il poncho significa che è un prequel, ma storicamente non funziona perché la guerra civile è posteriore alla conquista americana del Texas ancora messicano dei primi film. Di fatto i tre film sono nati autonomamente e anche casualmente, senza un preciso ordine né progetto da parte di Sergio Leone che però, negli anni, ricamando la sua stessa leggenda, dirà che sin dall’inizio aveva pensato nella sua interezza la Trilogia del Dollaro.

Le riprese avvennero come sempre principalmente in Spagna, e stavolta con l’approvazione del regime franchista che mise a disposizione l’esercito spagnolo per assistenza tecnica, e perché no anche spionaggio, e ben 1500 soldati entrarono a far parte del ricchissimo cast di comparse e figuranti. Esercito che venne in aiuto per la scena in cui il ponte viene fatto esplodere. Ricorda Donati: “Il miglior ‘artificiere’ del cinema allora era Baciucchi, a ‘living legend’: ma non aveva mai avuto a che fare con un botto di quelle dimensioni. Mise una trentina di cariche di tritolo, ma ogni volta l’esplosione delle prime mandava a puttane il resto dei contatti elettrici, così il ponte non saltava tutto in una volta come voleva Sergio.” Il ponte che Leone aveva fatto costruire era vero, transitabile e lungo quaranta metri, ma poiché l’artificiere di Cinecittà aveva fallito arrivò un colonnello dell’esercito spagnolo con una squadra di specialisti e per riprendere l’azione erano state piazzate ben dodici macchine da presa. Durante il conto alla rovescia, al “meno dieci” il capitano dell’esercito confuse una parola detta da un tecnico delle cineprese con il segnale di far esplodere il ponte: avevano concordato in spagnolo vaya, ma a un vai in italiano il militare premette il pulsante dieci secondi prima del tempo convenuto e le macchine da presa, avviate in tutta fretta, riuscirono a filmare solo la ricaduta dei detriti. Leone andò su tutte le furie: “Adesso lo ammazzo!” andava gridando, ma il colonnello gli disse: “Ricostruirò io il ponte, ma non fucili quest’uomo.” e il ponte fu ricostruito in una notte, pronto per un altro botto, e Eastwood e Wallach rischiarono di esserne travolti. Eastwood ricorda: “Se io e Wallach ci fossimo trovati nel punto stabilito da Leone, con tutta probabilità ora non sarei qui a raccontarvelo.” Fu proprio lui a volersi mettere in una posizione più sicura, e nonostante ciò, solo per un caso fortuito non venne colpito da un grosso frammento di pietra proiettato dall’esplosione a meno di un metro dalla sua testa, come si può chiaramente notare rivedendo la sequenza. Eastwood avrà molto a ridire sull’approssimazione della sicurezza nei set di Leone tanto da consigliare a Wallach di “non fidarsi mai di nessuno in un film italiano.”

Ma le disgrazie non finiscono qui: Eli Wallach rischiò di lasciarci la pelle per ben tre volte: prima per poco non si avvelenò con una bottiglia di acido che un tecnico aveva lasciato vicino alla sua bottiglia di acqua minerale; poi, in una delle scene delle finte impiccagioni, allo sparo il cavallo si imbizzarrì e corse via al galoppo con l’attore in groppa e con le mani legate dietro la schiena; un’altra scena assai rischiosa fu quella in cui lui e Mario Brega dovevano saltare dal treno in corsa, e la sequenza fu perfetta, ma nella scena successiva, quella in cui per spezzare la catena la mette sul binario dove passerà il treno, i tecnici e lui stesso non si erano resi conto che i gradini di ferro del treno sporgevano di circa 30 centimetri e che se l’attore si fosse alzato qualche attimo prima sarebbe stato decapitato; ma per fortuna era andata bene, e siccome cinematograficamente si poteva sempre migliorare, Leone chiese a Wallach di ripeterla: e a quel punto l’attore dove mandò il regista?

E mentre le riprese del film procedevano, la notizia che il nuovo western di Sergio Leone era in produzione fece subito il giro del mondo, quel mondo in cui Leone era già famoso. A questo punto il regista si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa e in un’intervista per Il Messaggero dirà: “Sì, adesso posso fare quello che voglio. Ho firmato un contratto favoloso con la United Artists. Sono padrone di scegliere quello che voglio, soggetti, attori, tutto. Mi danno quello che voglio, mi danno. Solamente i signori burocrati del cinema italiano cercano di mettermi i bastoni fra le ruote. Loro fanno i film a tavolino col bilancino del farmacista. Quattro attori e mezzo italiani, due virgola cinque spagnoli, uno statunitense. No, gli ho detto, voi i film me li dovete far fare come voglio io, oppure me ne vado in America o in Francia, dove mi aspettano a braccia aperte!”

Le novità stilistiche introdotte da Sergio Leone sono tante e una è aver spogliato i personaggi del western da quel manicheismo tutto americano in cui i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi, e vi introduce una complessità psicologica che condurrà al western moderno, e questo pur restando nell’ambito delle maschere che come tali agiscono, dei tipi ben precisi che però con la sua narrazione apportano alla storia punti di vista diversi. E veniamo al triello: se nel duello sono in due nel triello sono in tre. Grandissimo finale, grandissima invenzione che farà scuola. Il maestro se la prende comoda, allunga i tempi e crea tensione, alterna campi lunghi a primissimi piani in un montaggio che da lento si fa via via più veloce. Una sequenza che non avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo se non ci fosse stato il commento sonoro di Ennio Morricone. Leone ha ricordato: “Volevo un cimitero che potesse evocare un antico circo. Non ne esisteva nemmeno uno. Così mi rivolsi al responsabile spagnolo degli effetti pirotecnici che si era occupato della costruzione e della distruzione del ponte. Mi prestò 250 soldati, e questi costruirono il tipo di cimitero di cui avevo bisogno, con diecimila tombe. Quegli uomini lavorarono per due giorni pieni, e fu fatto tutto. Da parte mia non si trattava di un capriccio, l’idea dell’arena era cruciale, con una morbosa strizzatina d’occhio, perché i testimoni di questo spettacolo erano tutti morti. Insistetti perché la musica esprimesse la risata dei cadaveri all’interno delle tombe. I primi tre primi piani degli attori ci presero tutta la giornata: volevo che lo spettatore avesse l’impressione di guardare un balletto. La musica diede un certo lirismo a tutte queste immagini, così la scena divenne una questione di coreografia quanto di suspense.” Sono sette minuti senza alcun dialogo e anche all’inizio del film non si sente una sola parola prima di dieci minuti: parlano gli sguardi. George Lucas ha dichiarato di aver preso ispirazione dai primi piani leoniani per le riprese di “Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith” nel duello finale tra Anakin Skywalker e Obi-Wan Kenobi. Inoltre la sequenza del triello viene studiata all’università del cinema di Los Angeles, fotogramma per fotogramma, come mirabile esempio di montaggio. Inoltre diverse scene del film sono state utilizzate per uno studio sulle funzioni superiori del cervello umano pubblicato il 12 marzo 2004 sulla rivista “Science”.

Per la prima volta Ennio Morricone scrive la sua musica sulla sceneggiatura e non più sul girato, una colonna sonora che ancora una volta venderà in tutto il mondo e avrà centinaia di scopiazzature; e qui introduce uno di quei suoi adagi larghi e solenni che vanno dritti al cuore, uno di quelli che ameremo in “C’era una volta in America” o “Mission”. E come la colonna sonora, il film spopolò in tutto il mondo lasciando a bocca aperta i boss della United Artists perché mai nessun altro western doc aveva raggiunto quei risultati, e al box office si piazzò terzo dopo “La Bibbia” di John Huston e “Il Dottor Zivago” di David Lean.

Alcuni stralci della critica. L’americano Roger Ebert, che successivamente incluse il film nella sua personale lista dei migliori film, affermò che nella sua prima recensione “descrisse un film da 4 stelle dandogliene solo 3, forse perché si trattava di uno spaghetti-western e quindi non poteva essere considerata arte”Enzo Biagi: “Per fare centro tre volte, come è appunto il caso di Sergio Leone, bisogna essere dotati di vero talento. Non si imbroglia la grande platea, è più facile ingannare certi giovanottoni della critica, che abbondano in citazioni e scarseggiano in idee.” Assolutamente ingeneroso Alberto Moravia che era più vicino al cinema di Pier Paolo Pasolini: “Il film western italiano è nato non già da un ricordo ancestrale bensì dal bovarismo piccolo borghese dei registi che da ragazzi si erano appassionati al western americano. In altri termini il western di Hollywood nasce da un mito; quello italiano dal mito del mito. Il mito del mito: siamo già nel pastiche, nella maniera.” Ma siamo anche in un altro mondo dove i grandi sono grandi ognuno a suo modo.