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Io capitano – l’Oscar che non c’è

Matteo Garrone non ce l’ha fatta agli Oscar 2024, come non ce l’ha fatta ai Golden Globe dove era altrettanto candidato, e a mio avviso non poteva farcela perché la concorrenza al Miglior Film Internazionale (ex Miglior Film Straniero) era di altissima qualità, nulla togliendo all’italiano. L’Italia, che in ogni caso mantiene il più alto numero di candidature in quella sezione, mancava esattamente da dieci anni quando nel 2014 fu presente con “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che si portò a casa la statuetta insieme al Golden Globe: Sorrentino come nemesi di Garrone? andiamo con ordine.

I due astri nascenti, diversissimi, si ritrovano a confronto in quel di Cannes nel 2008, Garrone con “Gomorra” dal libro inchiesta Roberto Saviano che poi ha moltiplicato pani pesci puntate e pubblico con le 5 stagioni della serie tv Sky, e Sorrentino con “Il Divo” sul mefistofelico Giulio Andreotti; entrambi erano in concorso per la Palma d’Oro che però restò in casa andando a Laurent Cantet per “La classe – Entre le murs” ma i nostri vennero premiati con le pergamene del Grand Prix Speciale della Giuria (quell’anno presieduta da Sean Penn con Sergio Castellitto come italiano fra i giurati) a “Gomorra” e il Premio della Giuria per “Il Divo”, tenendo presente che i due riconoscimenti sono lo stesso premio con due diverse diciture ed è il più importante dopo la Palma d’Oro: insomma due premi apparentemente diversi per non assegnare un ex-aequo. Da lì in poi la stampa ha inventato, o chissà forse solo registrato, una concorrenza diretta fra i due – che non analizzerò per non dilungarmi come al mio solito.

Tornando a oggi, qualsiasi sia la concorrenza vera o presunta fra i due (per certo non sono amici), entrambi sono assai stilosi e di Matteo Garrone si può certo affermare che il tema sociale, insieme al tema del magico e del favoloso, sia parte integrante del suo cinema, con radici coltissime nel favolistico di casa nostra o comunque europeo in generale, e dunque quanto di più lontano dal fumettistico fantastico ed effettistico statunitense: cosa, questa, che lo allontana dal pubblico d’oltreoceano più abituato agli effetti speciali e ai trucchi prostetici che alle atmosfere conturbanti e noir della nostra narrativa fantastica.

Partito ai suoi esordi con stile e contenuti decisamente neo-realistici si fa notare da critica e pubblico con “L’imbalsamatore” (2002) che gli valse il David di Donatello per la sceneggiatura, ma il film collezionò molti altri premi fra attori e produzione: già in questo film usa per il ruolo del protagonista l’attore nano Ernesto Mahieux come elemento di collegamento alla sua visione fantastica della narrativa cinematografica.

Anche il successivo assai disturbante “Primo amore” (2004) liberamente ispirato al romanzo “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini è una favola nera dove l’orco è uno psicopatico ossessionato dalle donne magrissime che spinge la protagonista alla fame in una relazione di amore malato. Segue il “Gomorra” del successo internazionale e dopo realizza “Reality” (2012) dove il protagonista si fa accecare dalle favole moderne e ingannatrici dei reality show, un film con cui torna all’indagine sociale e in cui scatena visivamente la sua vena surreale e grottesca.

Arriva il raffinatissimo, e per questo anche poco digeribile e poco digerito dal grande pubblico, “Il racconto dei racconti” (2015) che schierando un cast internazionale in una coproduzione con Francia e Regno Unito (per cui Garrone anche produttore ha messo un’ipoteca sulla sua casa) è stato distribuito anche col titolo “Tale of Tales”, dalla raccolta di fiabe seicentesche “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile; il film si concentra su tre racconti la cui narrazione si incrocia e incastra, e nell’insieme è un materiale enorme che potrebbe essere raccontato meglio in una coraggiosa produzione televisiva se solo Garrone si lasciasse tentare dalla serialità, cosa che ha fatto Sorrentino in Sky con “The Young Pope” e “The New Pope”, così tanto per dire. Il film di due ore e un quarto lascia un retrogusto amaro in bocca: quello del non perfettamente riuscito – ma la visione fantastica di Matteo Garrone è al suo fulgore massimo.

Ancora con i debiti da pagare accantona il suo successivo grandioso film su Pinocchio e rispolvera un vecchio progetto più a basso costo (4 milioni di euro contro i 15 del precedente) col quale torna alle sue origini di noir metropolitano di indagine sociale: “Dogman” (2018) su un fatto di cronaca nera romana che ebbe come protagonista un uomo detto “er canaro”, altra figura da favola horror, ed è di nuovo amore col Festival di Cannes che premia il protagonista Marcello Fonte, e trionfa ai Nastri d’Argento e ai David di Donatello, fra gli altri premi. E qui vale la pena spendere una curiosità: all’epoca della prima stesura di una decina d’anni prima, Garrone aveva proposto il ruolo a Roberto Benigni che poi sarà Geppetto nel successivo “Pinocchio”, grande favola che stavolta piacerà anche agli americani, molti dei quali ancora credono che il burattino sia un’invenzione di Walt Disney, e difatti riceve due candidature tecniche per costumi e trucco agli Oscar.

È evidente che Garrone, concorrenza o no, punta all’Oscar; del resto ha già trionfato in casa e in Europa e impugnare quella statuetta lo farebbe assurgere all’empireo ultimo, e qui film torna alle origini della sua ispirazione narrativa. Aveva debuttato nel 1996 con “Terra di mezzo” dove ha raccontato in tre e episodi la realtà di differenti immigrati in Italia, opera prima che al Torino Film Festival gli sono valsi il Premi Speciali della Giuria e il Premio Cipputi per il miglior film sul mondo del lavoro, premio ispirato al personaggio del metalmeccanico comunista creato da Altan; e col successivo “Ospiti” si concentra sulla figura di due ragazzi albanesi immigrati a Roma; dunque il tema dell’immigrazione lo appassiona e con quello che continua a succedere nel Mediterraneo era solo questione di tempo prima che anche Garrone ne traesse ispirazione, avendo già due titoli in una filmografia che è già un genere nella cinematografia italiana ricchissima di titoli a partire dalla fine degli anni ’80 con “Il tempo dei gitani” (1988) di Emir Kusturica cui segue a tambur battente “Pummarò” (1990) di Michele Placido, per dire solo i titoli più importanti, cui seguono “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio, “Vesna va veloce” (1996) di Carlo Mazzacurati, “La ballata dei lavavetri” di Peter Del Monte e “L’assedio” di Bernardo Bertolucci, entrambi del 1998 e fra i titoli che si fanno assai più numerosi nel nuovo millennio ricordiamo “Quando sei nato non puoi più nasconderti” di Marco Tullio Giordana, “Bianco e nero” di Cristina Comencini, “Terraferma” di Emanuele Crialese, “Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi ispirato agli scritti di Pier Paolo Pasolini, “Razzabastarda” opera prima di Alessandro Gassmann, “Fuocoammmare” di Gianfranco Rosi e il recentissimo “Nour” del 2020 di Maurizio Zaccaro.

I film fin qui realizzati si fermano a raccontare l’incontro-scontro degli immigrati con la realtà italiana e solo in pochi casi raccontano la tragicità del mare attraversato e dei viaggi, mentre Garrone – col suo team di co-sceneggiatori composto da Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e dall’attore Massimo Ceccherini che avendo nel curriculum uno suo spettacolo teatrale su Pinocchio già aveva affiancato come sceneggiatore Garrone nel di lui “Pinocchio” dove anche interpretò la Volpe – va oltre, sbarca in Africa, si addentra oltre il deserto per giungere in Senegal, nei villaggi e nelle case dove una certa politica vorrebbe rispedire i migranti.

Il soggetto di Garrone si ispira direttamente alle storie vere raccontate da Fofana Amara, Mamadou Kouassi Pli Adama, Arnaud Zohin, Brhane Tareka e Siaka Doumbia, tutti ragazzi che hanno realmente compiuto il viaggio dei due protagonisti del film, accreditati nei titoli come collaboratori alla sceneggiatura insieme a Chiara Leonardi e Nicola Di Robilant.

Il casting venne fatto in loco sotto la direzione del camerunense Henri-Didier Njikam che è incorso in un incidente diplomatico allorché gli fu negato dall’Ambasciata d’Italia a Rabat, Marocco, il visto d’ingresso in Italia per presenziare al Festival di Venezia; tempestivamente intervistato da “The Hollywood Reporter Roma”, Njikam ha accusato i responsabili di razzismo: “L’ambasciata ha giustificato il rifiuto sostenendo che non c’erano garanzie che avrei abbandonato il territorio italiano una volta entrato a Venezia. In pratica mi hanno trattato come un migrante, come se volessi approfittare della situazione per scappare. Ma io ho un lavoro, una tessera professionale del Centro Marocchino del Cinema. E, sinceramente, se avessi voluto lavorare in Europa, lo avrei già fatto: l’ente non ha guardato il mio curriculum né i miei documenti, ma solo il colore della mia pelle. Questo problema esiste solo con l’ambasciata italiana in Marocco, perché i miei colleghi dal Ghana e dalla Costa d’Avorio sono riusciti a partire. Se fossi stato bianco, non credo che sarei stato trattato così.”

Seydou Sarr insieme a Moustapha Fall sono i due ragazzi che abbagliati da sogni di notorietà e ricchezza lasciano la certezza di una tranquilla miseria quotidiana per l’incertissimo viaggio dispensatore di sofferenze e morte che tutti sconsigliavano; e Seydou, vero protagonista del film, è stato insignito a Venezia del Premio Marcello Mastroianni come attore emergente, ma l’intero cast è di altissimo livello e tutte le interpretazioni concorrono all’intensità narrativa del film costruito da Garrone senza sbavature e senza retorica, sempre focalizzato sulla tragedia umana di ragazzi che sognano un mondo migliore ma che trovano squali anche nelle sabbie del deserto.

Gli unici fugaci momenti in cui si indebolisce il racconto, a mio avviso, sono le due sequenza oniriche del protagonista che sogna, prima di salvare una donna nel deserto e poi volare indietro fino a casa ad osservare sua madre che dorme: due brevi momenti di abbagliante bellezza cinematografica che proseguono nella linea stilistica dell’autore ma che in questo caso deviano dall’intensità tragica del racconto, intensità universalmente riconosciuta da critica e pubblico.

Le curiosità: 1. resterà negli annali l’imbarazzante ultim’ora del Televideo Rai in cui il film veniva raccontato come la vicenda del capitano Schettino che abbandonò il comando della Costa Concordia incagliatasi sugli scogli dell’Isola del Giglio in Toscana nel 2012. Non si sa com’è andato l’incidente telematico, c’è chi parla di uno scherzo certo per minimizzare, c’è chi parla di un complotto certo per massimizzare, ma l’ipotesi più credibile è quella dell’intelligenza artificiale che ha creato la notizia pescando nel suo database, notizia farlocca che però è stata pubblicata da qualche intelligenza naturale… naturalmente a riposo.

2. le ultimissime di cronaca riferiscono di Claudio Ceccherini che ospite del programma Rai “Da noi a ruota libera” certo ispirato dal titolo ha parlato a ruota libera: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.” Va da sé che l’attore sceneggiatore non ha tutti i torti, solo che poteva esprimersi in modo diverso: i membri dell’Academy sono da sempre molto sensibili ai temi della Shoah tant’è che nel 1999 premiò “La vita è bella” di Roberto Benigni, miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Non si parla di corde in casa dell’impiccato, si tratta di buon senso ed educazione, e tanto più vanno ponderate le parole in questo periodo di feroce conflitto in Medio Oriente.

3. mia personale curiosità: leggo nella scheda tecnica del film i nomi dei doppiatori ma “Io capitano” è stato distribuito in originale, il wolof parlato in Senegal, il francese e l’inglese, e non c’è traccia di doppiaggio. Si tratta forse di un’altra versione che sarà distribuita nelle versioni Home e On demand?

Accantonata la delusione per non avere afferrato la statuetta dorata Matteo Garrone guarda già al futuro per il suo bellissimo film che proseguirà il viaggio tornando nei luoghi da cui è partito, con proiezioni nei villaggi del Senegal anche su tendoni improvvisati, per raccontare a chi resta che a volte è più coraggioso restare. Meglio che morire nel deserto o nel mare, meglio ancora che essere umiliati da società e apparati politici ciechi alle urgenze umane nel coltivare i loro minimi miserevoli giardinetti recintati e vietati agli estranei.

Il talento del calabrone – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Accantonando i film decisamente autorali – non si può vivere di soli autori – sembra che il cinema italiano stia tentando un rinnovamento, un riallineamento su stili e tematiche internazionali, riscoprendo al contempo i filoni della tradizione nostrana come i gloriosi poliziotteschi anni ’70 che sono tornati in forma di polizieschi noir arricchiti del sottogenere malavitoso generato dal fenomeno “Gomorra”; noir a volte notevoli ma più spesso solo espressione di evoluzione tecnologica ma non stilistica: un caso su tutti è “Calibro 9” che si propone come sequel di “Milano calibro 9”.

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Barbara Stanwyck

“Il talento del calabrone” ha il merito di esplorare in chiave tutta italiana quello che ormai negli USA è un vero e proprio genere inaugurato da “Il terrore corre sul filo” del 1948 con Barbara Stanwyck e Burt Lancaster regia di Anatole Litvak; genere di film dove il/la protagonista è al telefono tutto il tempo (o quasi) del film perché dall’altra parte del filo c’è un malintenzionato: il telefono come moderno mezzo di dialogo con uno sconosciuto – un’oscura paura nata con l’invenzione del telefono – che fa precipitare in situazioni pericolose e incontrollabili. Del 1960 è “Merletto di mezzanotte” di David Miller con Doris Day e Rex Harrison; “Quando chiama uno sconosciuto” del 1979 ha avuto un remake nel 2006; “Scream” di Wes Craven è del 1996 con Drew Barrymore; Colin Farrell nel suo primo ruolo da protagonista assoluto intrappolato in una cabina telefonica è “In linea con l’assassino” di Joel Schumacher, 2002; del 2004 è il notevole “Cellular” che si svolge anch’esso in tempo reale, con Kim Basinger diretta da David R. Ellis; Ryan Reynolds è protagonista del claustrofobico “Buried – Sepolto” del 2010 dove non c’è un pazzo di là dalla linea ma l’aiuto che spera di avere essendosi svegliato chiuso in una bara; nel 2013 Tom Hardy è protagonista di “Locke” altro film in tempo reale tutto girato all’interno dell’automobile da cui il personaggio parla al cellulare, regia di Steven Knight; con venature horror soprannaturali nel 2021 è uscito “Black Phone”.

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Anna Foglietta col regista Giacomo Cimini

Qui il film funziona, il suo meccanismo tiene inchiodati… se non fosse che gli autori della sceneggiatura, lo stesso regista Giacomo Cimini con Lorenzo Collalti anche ideatore del soggetto, a un certo punto, troppo appassionati del cinema d’azione hollywoodiano, dimenticano che il film è ambientato a Milano ed esagerano. La tensione narrativa, pur con degli inciampi che dirò, regge fino al finale ma lì, senza volere fare anticipazioni altrimenti dette americanamente spoiler, la sospensione dell’incredulità che si chiede a noi spettatori viene messa a dura prova. Credibilità messa a dura prova a cominciare dal personaggio del tenente colonnello dei carabinieri scritto, guardando al cinema internazionale, per una donna, ed esagerando nell’ispirazione: la signora, che era a un vernissage, viene chiamata sul luogo dell’azione (mentre i tenenti colonnelli donne, in Italia, ancora si occupano prevalentemente di temi sociali e non vanno in azione) ed essendo la tenente colonnello troppo elegantemente vestita, che fa? si toglie i tacchi e indossa un paio di scarponi come farebbe un’amabile un’eroina hollywoodiana; ma se in quei film siamo abituati a vedere donne che menano le mani e impugnano le armi ormai meglio e più dei maschi, e c’è da specificare che accade solo in film d’azione, nel nostro cinema, senza volere apparire sessista, questa cosa sfiora il ridicolo; soprattutto perché “Il talento del calabrone” è tutto impostato come un rigoroso film drammatico senza sbavature, ancorché thriller poliziesco col giovane Dj Steph intrappolato in diretta telefonica da un terrorista che, alla guida di un’autobomba a spasso per la città, ha già fatto saltare una non specificata torre in periferia e minaccia ulteriori tragiche rappresaglie: la tensione è sempre credibile come il procedere nel crescendo di colpi di scena – ma quando arriva la carabiniera dall’incazzatura facile che non esita a estrarre la pistola e a puntarla in faccia, come se fosse Lara Croft, tutto il plot fino a quel momento sapientemente costruito ha un arresto, per non dire che crolla.

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Lorenzo Richelmy

Anna Foglietta, chiamata a ricoprire il ridicolo infelice ruolo, fa del suo meglio ma il talento non basta a supplire l’insipienza degli sceneggiatori che delineano un personaggio davvero imbarazzante. Le fa da spalla come capitano dei carabinieri assolutamente in linea con la divisa che indossa, David Coco. Il Dj è interpretato dall’ex attore bambino Lorenzo Richelmy, figlio di attori teatrali e lui stesso interprete teatrale fin dall’infanzia; dodicenne debutta al cinema e poi recita in tivù in “I liceali”; da lì mette in pausa una facile carriera televisiva per iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia come attore più giovane mai ammesso. Si rimette sul mercato scegliendo con attenzione ruoli e opportunità e anche se al momento non è un volto noto al grande pubblico è sicuramente un giovane attore da tenere in considerazione e in questo film, non facile perché è praticamente sempre seduto alla consolle, tiene il personaggio e ne sviluppa le prospettive con grande adesione. Gli fa da contraltare, alla linea telefonica e sullo schermo, quel vecchio volpone che è Sergio Castellitto, anche lui in un ruolo non facile tutto interpretato all’interno di un’automobile – non lo vedremo mai a figura intera se non nei suoi ricordi – che risolve il suo personaggio con grande pathos, grazie alla sceneggiatura costruita per lui dagli autori – qui sì – davvero sempre sul pezzo.

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Sergio Castellitto

Il film, immiserito anziché arricchito dagli eccessi già detti, è però un prodotto assai ben fatto che veicola temi socialmente importanti, come il bullismo, intelligentemente innestati in un film dichiaratamente di genere, che però guarda troppo ad altri generi perdendo qua e là la bussola. Completano il cast Gianluca Gobbi come regista della trasmissione radiofonica e Cristina Marino come assistente-amica speciale del Dj alla quale l’ineffabile coppia degli sceneggiatori aggiunge una ulteriore rivelazione post-finale, della serie: finché la brace arde mettiamo altra carne al fuoco, senza mai considerare che siamo già sazi.

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Le curiosità del film sono che è ambientato negli studi milanesi di Radio 105 che mette al servizio del film nome e logo, ma non gli studi reali dato che tutta la scenografia è stata ricostruita a Roma con dei fondali che mostrano la Milano notturna, e il gioco dei fondali che rivelano ciò che realmente non c’è viene ripreso nel finale… che però non devo svelare. Per chi non sapesse qual è il talento del calabrone lascio la visione del film che vale una serata in tivù.

Del regista va detto che da ragazzo era appassionato di fumetti ma poi va in America a studiare cinema alla New York Film Academy; dirige videoclip e pubblicità e si trasferisce poi a Londra, dove tuttora risiede, per continuare a studiare il cinema alla London Film School. Il suo primo lungometraggio è una rivisitazione di Cappuccetto Rosso scritta e girata in inglese, “Red Riding Hood” del 2003, e 17 anni dopo – anni passati dietro alla realizzazione del superbo cortometraggio fantasy “The Nostalgist”, spesi prima nella raccolta fondi e poi nella minuziosa distribuzione in vari festival dove ha raccolto diversi premi. Cimini torna in Italia per scrivere e dirigere questo suo secondo lungometraggio che non ha avuto la buona sorte di uscire nelle sale, neanche per poco: la prima uscita era stata fissata per il marzo 2020, poi rimandata al novembre dello stesso anno e infine venduto direttamente ad Amazon Prime Video.

In chiusura possiamo ascoltare i brani di musica classica che il terrorista chiede di ascoltare in radio, e anche questo nel racconto filmico ha un suo perché.

Il cattivo poeta – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Meritevolissima opera prima del 49enne napoletano, laurea in filosofia, Gianluca Jodice, anche autore di soggetto e sceneggiatura: un nuovo autore che ha già all’attivo premi e riconoscimenti per i suoi cortometraggi e il cui merito è, oltre a quello di confezionare un film importante molto ben fatto, quello di tornare a raccontarci il nostro primo novecento, sempre meno recente e per questo più necessario da ritrovare, anche o forse soprattutto, attraverso figure secondarie: qui il vero protagonista, benché nel titolo si richiami al Gabriele D’Annunzio interpretato da Sergio Castellitto, è il giovane federale bresciano Giovanni Comini interpretato da un altro debuttante, il genovese Francesco Patanè dal cognome siciliano: faccia di bravo ragazzo della porta accanto molto funzionale al ruolo scritto dall’autore ma che manca, a mio avviso, di quel particolare fascino magnetico che devono avere i protagonisti (a meno che non parliamo di film di serie B e questo non lo è) ferma restando la sua interpretazione molto aderente e partecipata; del resto Patanè è stato candidato come migliore attore esordiente, insieme a Castellitto migliore protagonista e Gianluca Jodice miglior regista esordiente, ai Nastri d’Argento 2021 dove il film ha ricevuto solo i premi tecnici per la fotografia dell’eclettico Daniele Ciprì e i costumi di Andrea Cavalletto.

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Il film, che va decisamente recuperato, è un’occasione per esplorare le figure che racconta, a cominciare dal protagonista che è un federale, dispregiativamente definito nel film federalino per la sua giovane età: trent’anni. Il federale, come il podestà e il gerarca, sono figure oggi sparite ma assai specifiche dell’allora apparato fascista. Il podestà, come termine, esiste sin dal medioevo ma con le cosiddette leggi fascistissime il podestà tornò in vita sostituendo la figura del sindaco democraticamente eletto e a capo di una giunta: il podestà era nominato per regio decreto e non aveva intorno una giunta con cui confrontarsi o da cui farsi sostenere e di fatto era un’autorità unica che rispondeva al governo centrale; Il termine gerarca indicava gli alti dirigenti del Partito Nazionale Fascista (PNF) fondato nel 1921; il federale era il quarto in grado di importanza in quella gerarchia e dirigeva sul territorio le federazioni di fasci di combattimento, un po’ le sezioni di partito odierne che però, data la specifica natura di quel partito, fungeva anche da ufficio para militare e para poliziesco.

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Giovanni Comini è ricevuto da Achille Starace che si allena al vogatore nell’enorme sala che gli fa da ufficio all’interno di Palazzo Venezia; di lato quello che oggi diremmo il suo personal trainer insieme a una di quelle donne tuttofare a servizio dell’apparato fascista: un racconto cinematografico fatto di dettagli laterali che danno profondità e spessore all’intero racconto

Un ruolo assai impegnativo per il giovane Comini, già vice podestà di Brescia, che si sente addirittura un miracolato quando Achille Starace in persona, segretario del PNF, lo incarica di spiare Gabriele D’Annunzio introducendosi alla sua corte come ammiratore, e credibilmente, data la sua personale predisposizione alla poesia. Per il Vate, come tutti rispettosamente lo chiamano (appellativo dato anche a Giosuè Carducci) sono gli ultimi anni: il film si apre nel 1936 e si conclude nel 1938 con la sua morte, a 75 anni. D’Annunzio vive da auto esiliato nel complesso del Vittoriale degli Italiani, come ribattezzò una villa nella provincia bresciana, a Gardone Riviera, deluso dall’esito della sua impresa fiumana: nel 1919, alla fine della Prima Guerra Mondiale, si era improvvisato condottiero per riconquistare la città di Fiume che le potenze vincitrici avevano assegnato alla Jugoslavia: un’occupazione avvenuta senza fare vittime, denominata Reggenza Italiana del Carnaro come momento di passaggio all’effettiva annessione politica all’Italia; la reggenza si protrasse per quattro anni fino a quando il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi Croati e Sloveni, desiderosi di normalizzare i rapporti, dichiararono Fiume stato libero e indipendente; ma D’Annunzio si rifiutò di ritirarsi e la città fu attaccata dall’esercito italiano che allontanò i legionari dannunziani lasciando sul campo una cinquantina di vittime: eventi specifici la cui conoscenza, nel film, è raccontata per sommi capi, ma altrimenti non poteva essere: la figura di D’Annunzio è gigantesca e nel ripercorrerne un breve periodo non si può fare altro che sfoltire, anche pesantemente. Un D’Annunzio che in questa stessa stagione cinematografica è stato tratteggiato nell’episodio di un film dal tono completamente differente: “Qui rido io” di Mario Martone.

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D’Annunzio deve essere controllato perché è una figura ingombrante che il regime non sa come gestire: la sua ristretta cerchia del Vittoriale lo chiama ancora Capitano con memorie e rimpianti fiumani, e di fatto il suo atteggiamento è quello di una personalità pericolosamente alternativa a quella del Duce: sono entrambi dei superuomini, come erano di moda all’epoca, con richiami gloriosi allo Sturm und Drang e ai concetti filosofici di Friedrich Nietzsche, e il sommo poeta non può che disprezzare l’ex vigile urbano: il suo patriottismo, benché muscolare, è più sincero e pregno di valori più alti e spirituali di quelli di Mussolini, il quale in realtà sta solo costruendo il culto della propria personalità in parallelo a quello di quell’altro superuomo che si credeva di essere Hitler. Sono tempi oscuri per la gente ordinaria. Il Vate tenta di far ragionare il Duce che pericolosamente si sta avvicinando al Fuhrer: non vede di buon occhio quell’alleanza ma soprattutto disprezza la politica rozza e anti libertaria di Mussolini, benché sia stato e ancora sia additato come precursore ideologico del fascismo: inizialmente aderì al movimento fondato da Mussolini nel 1919, i Fasci Italiani di Combattimento, e fu uno dei primi firmatari del Manifesto degli Intellettuali Fascisti, ma non si iscrisse mai al PNF consapevole che l’affiliazione avrebbe minato la sua autonomia intellettuale e politica sempre protesa verso il primo posto di ogni podio: D’Annunzio e Mussolini erano come i classici due galli in un pollaio. E diversissimi fra loro. Già nel 1900 il Vate era stato eletto deputato nel Regio Parlamento fra le fila dell’estrema destra ma passò subito all’estrema sinistra con questa celebre frase: “Vado verso la vita”. Poi, nel suo governo provvisorio di Fiume varò una costituzione assai liberale e progressista che prevedeva, oltre ai diritti per i lavoratori e le pensioni di invalidità, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione e di religione, nonché libertà di orientamento sessuale con la depenalizzazione dell’omosessualità, e del nudismo e dell’uso di droga: aperture assai in anticipo su qualsiasi altra carta costituzionale dell’epoca, e toccando argomenti assai invisi al fascismo. Di fatto D’Annunzio esprimeva nella sua visione politica la sua intima natura di gaudente, di uomo sessualmente promiscuo e abituale consumatore di cocaina. Non che i fascisti fossero tutti eterosessuali o non facessero uso di droghe, ma vigeva il sempre diffuso atteggiamento del “predica bene e razzola male”. D’Annunzio, con tutti i suoi difetti, era un libertario perché era intimamente libero. Una figura troppo ingombrante e sempre potenzialmente esplosiva che il Duce pensò bene di tenere sotto controllo accordandogli cariche pubbliche anche non gradite e un perenne sostegno economico, purché se ne stesse buono nel suo Vittoriale.

In questi suoi ultimi due anni di vita percorsi dal film lo vediamo vecchio e malato, minato dall’abuso delle droghe e fortemente amareggiato dalla politica di Mussolini. Gli sono accanto le sue due fedeli muse-amanti Luisa Baccara, detta anche “la Signora del Vittoriale”, e la francese Amélie Mazoyer, figlia di contadini e “bruttina assai” secondo una precisa definizione del Vate, che pare avesse i meriti di “una mano donatrice d’oblio” e “una bocca meravigliosa” per la quale la rinominò Aélis, poetico richiamo al francese hélice, elica, dove per elica intendeva la sua lingua guizzante sulla sua intima virilità. Del resto D’Annunzio usava così, rinominava con epiteti curiosi e poetici di colte ispirazioni le varie contadinotte e prostitute che Aélis gli andava procurando, anche a dispetto della Baccara: le due donne non si sopportavano ma convivevano per amore del Vate.

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Sergio Castellitto lo rende con grande dolorosa partecipazione ma nella sua interpretazione così magistralmente intimistica mancano, a mio avviso, i guizzi del vecchio leone che, pure stanco e malato, non può avere del tutto abbandonato i suoi impeti, le ultime zampate; del dolente discorso che fa ai fedeli ex combattenti fiumani che sono venuti a omaggiarlo fa un encomiabile esercizio di stile interpretativo “di sottrazione”, rende il plateale intimistico, ma mancano così i toni retorici e solenni come io immagino lo stile di D’Annunzio, che era anche lo stile di Mussolini come di Hitler e di tutti coloro che parlavano in pubblico, perché era lo stile dell’epoca, pomposo nei toni come nel vocabolario: siamo negli anni ’30 del ‘900 e anche la gente comune non parlava come parliamo oggi, e mi pare che l’intero cast del film risenta di una mancanza di direzione artistica che indirizzi in uno stile comune preciso e ben riconoscibile. Basta tornare a vedere il lavoro che hanno fatto Mario Martone con gli interpreti del suo “Qui rido io” e Paolo Sorrentino con l’intero cast di “È stata la mano di Dio”, entrambi i film ambientati a Napoli, ma il primo in un primo ‘900 assai teatrale e il secondo nei più recenti anni ’80: recitazione senza sbavature.

Più in linea con lo stile dell’epoca l’Achille Starace di Fausto Russo Alesi, e Tommaso Ragno che interpreta l’architetto del Vittoriale Giancarlo Maroni, nel film raccontato come braccio destro del Vate. Le due femmes fatales sono molto adeguatamente interpretate dalla prevalentemente teatrale Elena Bucci che è Luisa Baccara, mentre nel ruolo della francese Amélie Mazoyer c’è la francese Clotilde Courau naturalizzata italiana, anzi savoiarda avendo sposato l’inutile Emanuele Filiberto di Savoia. Massimiliano Rossi è lo sfuggente commissario Giovanni Rizzo messo al Vittoriale da Mussolini in persona perché D’Annunzio senta la sua presenza istituzionale; Lino Musella tratteggia la necessaria e retorica figura dell’irreprensibile fascista, duro puro e banalmente violento, col quale deve misurarsi la purezza ideologica del giovane Giovanni Comini, che alla morte del Vate verrà rimosso da tutti i suoi incarichi nell’apparato di regime per aver vacillato nel credo fascista. Paolo Graziosi tratteggia la figura del di lui padre. L’ucraina Lidiya Liberman, benché padroneggiando un ottimo italiano, è un po’ stonata nel ruolo dell’amante del protagonista che coinvolge in un dramma personale.

Elena Bucci con Francesco Patanè e Clotilde Courau

Nel suo primo fine settimana di programmazione il film si è piazzato al primo posto incassando 198.730 euro: un primo posto decisamente povero se si pensa agli incassi si facevano in era pre-covid. Dunque eccolo adesso in tivù a racimolare i diritti dei passaggi televisivi.

I predatori – opera prima di Pietro Castellitto

Mi piace parlare di opere prime. Perché quando ritroviamo vecchi film di autori già affermati ne possiamo osservare i primi passi col senno di poi, in questo blog fra gli altri ci sono Bernardo Bertolucci, Clint Eastwood, Federico Fellini, Stanley Kubrick, Sergio Leone, Ettore Scola, Steven Spielberg; nel caso di attori famosi che passano alla regia è interessante vedere questo loro nuovo punto di vista, cosa li ispira, se si inserisce nel loro percorso di autocelebrazione anche come interpreti protagonisti o piuttosto non sia invece la necessità di esprimere la propria visione di cinema. Nel caso di opere prime assolute, invece, è intrigante cercare di intuire che regista sarà, o vuole essere, il/la debuttante, e cercare di immaginarne il percorso futuro.

Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini: “Per noi la famiglia è tutto” |  People
Qui una foto in posa della famiglia Castellitto-Mazzantini di quando il ragazzo era ancora più ragazzo
Giselda Volodi

Pietro Castellitto, come sappiamo, è doppiamente figlio d’arte, e se dal padre attore e regista Sergio ha imparato il cinema, dalla madre scrittrice e drammaturga Margaret Mazzantini (a sua volta figlia dello scrittore e storico del fascismo Carlo Mazzantini) sembra avere imparato la scrittura: in ogni caso si presenta già come una sintesi, e di successo, dei differenti talenti genitoriali, andando oltre gli specifici di entrambi; e non finisce qui perché Pietro è anche nipote d’arte (oltre che del nonno materno) da parte di zia, essendo sorella della mamma l’attrice Giselda (Mazzantini) in arte Volodi. Ha debuttato 13enne diretto dal padre nel film tratto dal romanzo della madre “Non ti muovere” e fra i successivi quattro film in altri due è stato diretto sempre da suo padre e sempre su sceneggiature della madre: una bottega a conduzione familiare che all’inizio non ha avuto il sostegno della critica tanto che il giovane Castellitto si è più volte definito in varie interviste un attore fallito. Ma il ragazzo ha fatto, come si dice, di necessità virtù, perché convinto di voler continuare nel mestiere del cineasta, al contrario degli altri suoi tre fratelli che non mostrano gli stessi interessi. Così, messa in pausa la recitazione, si è dedicato allo studio e alla scrittura per giungere a questo secondo fortunato momento della sua carriera: 30enne, come attore interpreta Francesco Totti nella miniserie Sky “Speravo de morì prima” e quasi in contemporanea realizza questo film con cui va oltre il padre e la madre, perché scrive dirige e interpreta con una sicurezza stilistica e interpretativa che finalmente gli dà credibilità in autonoma, disgiunta dalla famiglia; per la sceneggiatura vince a Venezia il Premio Orizzonti e a seguire il David di Donatello come regista esordiente.

Il film è un corale che si inserisce nel meglio della commedia italiana, senza mai scadere nel banale, nel volgare o nel già visto, pur restando in linea con illustri predecessori. Mette a confronto due tipiche famiglie romane: quella alto borghese dalle idee liberali e progressiste ma che mostra un gretto conservatorismo radicato nell’animo, un mondo cui ci si può ribellare solo idealmente solo rappando – e quella più rumorosa e generosa, più progressista e liberale nei fatti dove si permette al rampollo dodicenne di allenarsi al tiro di precisione con un fucile automatico; una tipica famiglia borgatara, di Ostia, laddove il borgo è anche notoriamente enclave di nazifascisti dai traffici naturalmente e necessariamente illeciti, perché dietro una legale armeria nascondono un traffico illegale di armi e una collusione con il crimine organizzato. Ma contrariamente a quanto ci si aspetta, e a quanto il nostro cinema ci ha abituato, le due realtà non collidono, non arrivano allo scontro, e il confronto che mette in scena Pietro Castellitto si svolge tutto sul piano morale, non a caso li chiama tutti predatori sin dal titolo, così come Victor Hugo intitolò “I miserabili” una storia che metteva a confronto le miserie fisiche e le miserie dell’animo.

I Predatori”, l'opera prima di Pietro Castellitto a Venezia 77 | RB Casting
La tavola dei borgatari: solare e colorata, all’aperto, iconica nella rappresentazione frontale e che si apre al nostro sguardo come ad eventuali nuovi arrivi
Cinema, Pietro Castellitto debutta alla regia con "I predatori" - Gazzetta  del Sud
La tavola degli intellettuali: al chiuso in un ristorante di lusso dai colori cupi, circolare e dunque autoconclusiva e chiusa all’esterno, ma che diventa anche palcoscenico di accesi scontri verbali per il pubblico intorno

La coralità e la diversità sociale fanno subito pensare a “Ferie d’agosto” di Paolo Virzì del già lontano 1996 – ma ancora vicino per le questioni che racconta, ancora irrisolte; e non è un caso se anche lì il capofamiglia dei borgatari fascistoidi è il titolare di un paio di armerie: la cronaca reale ispira la finzione. Ma “I predatori” richiama alla mente anche le coralità e i confronti intellettuali di diversi film di Ettore Scola e si inserisce di diritto nel filone della commedia italiana di taglio sociale, quella alta, che sa far pensare ma anche sorridere senza ricorrere alle facili scorciatoie di battute ad effetto, dove la comicità è fra le righe e assai corrosiva, e si sorride per la finezza con cui sono delineati personaggi e situazioni, personaggi e situazioni complessi che si offrono a differenti letture stratificate.

Il film si apre con una serie di inquadrature che piano piano ci introduce allo spazio in cui vedremo agire la varia umanità e nell’antefatto riconosciamo subito il predatore dichiarato, quello che si ammanta del fumo di una sigaretta elettronica, che lo nasconde e in cui sparisce, il truffatore che con modi garbati e affettuosi raggira l’anziana e poi sparisce per tutto il film, lasciando il campo agli altri predatori, quelli non immediatamente riconoscibili, che scopriamo un po’ alla volta senza capire cosa li lega, qual è il nesso della storia, che come in un thriller pacato si scopre un po’ alla volta e che dalla frammentarietà del puzzle iniziale si apre a scene drammaticamente complesse, molto parlate, girate in uniche sequenze di taglio teatrale grazie alla bravura degli interpreti, che anche quando si esprimono in romanesco non biascicano e sono comprensibili. Fra essi l’autore si ritaglia il personaggio di un nerd, che in americano è molto più sintetico e molto più significante del nostro secchione sfigato, un appassionato di Nietzsche con seri problemi comportamentali, che già di suo meriterebbe un premio all’interpretazione. Per il resto non fa sconti a nessuno: racconta i retroscena e il sottobosco in cui si muove il nazifascismo romano con sede a Ostia, ma è impietoso anche col mondo benestante e intellettuale da cui realmente proviene e nel cui racconto si colloca: autocelebrativi e immorali, con un significativo e divertente spaccato sul mondo del cinema nella figura della madre regista. Pietro Castellitto chiude almeno due cerchi: nel film il predatore truffatore che apre il film torna nel finale a sorriderci col suo fascino poco rassicurante, e nel suo percorso artistico e professionale chiude il cerchio dell’apprendistato fatto all’ombra della famiglia e si consacra in proprio autore di talento.

I predatori - Film (2020) - MYmovies.it

Il Tuttofare, commedia all’italiana 2.0

Sono sincero: le commedie italiane me le lascio da vedere in tv perché spesso, a mio avviso, non valgono il prezzo del biglietto e perché altrettanto spesso sono commedie “giovanilistiche” in cui i giovani e anche meno giovani autori non raccontano altro che tutto ciò che accade intorno al loro ombelico senza neanche il coraggio eversivo di scendere più giù verso le parti intime da fare un film da scandalo: circoscrivono e circoncidono le loro crisi esistenziali, le crisi sentimentali, le crisi professionali – spesso prendendosi troppo sul serio o senza essere affatto seri: in poche parole, mancando di spessore narrativo e maturità stilistica. Salvo poi sorprendermi qualche volta, in tv, nel vedere un film di cui mi dico che, però, avrei potuto vederlo al cinema. Come nel caso di “Smetto quando voglio” opera prima che il salernitano Sydney Sibilia dirige e scrive col suo amico Valerio Attanasio che qui, oltre che scriversi il film tutto da solo, fa il salto e se lo dirige pure: stessa qualità stilistica che merita attenzione. E siamo sempre nello stesso ambito dei laureati in cerca di occupazione: speriamo che non diventi un filone.

Sarò sincero per la seconda volta: sono andato a vedere il film attirato solo dall’interpretazione di Sergio Castellitto che dal trailer prometteva, e mantiene, un’interpretazione che io già candido ai David di Donatello – nulla sapendo dell’autore. Il film è molto ben scritto: partendo dalla piaga sociale dei trentenni laureati sfruttati e schiavizzati dalla precedente generazione di ex sessantottini che sono divenuti il peggior incubo dei loro stessi sogni di gioventù, non ne fa pedissequa denuncia ma fertile terreno sul quale innestare la sua storia, forse personale, sicuramente generazionale, senza però darci la sensazione di guardarsi l’ombelico, appunto, ma  preoccupandosi anzi di confezionare un prodotto assai gradevole, dal ritmo sicuro, e che offre a Castellitto un personaggio nel quale calarsi con gran divertimento e, davvero, giganteggiare: un principe del foro truffaldino degno erede della galleria dei personaggi cinici e divertenti che ci ha lasciato Alberto Sordi, uno di quei “mostri” della “commedia all’italiana” che degli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo arriva in questo nuovo millennio. E se Sydney Sibilia e Valerio Attanasio saranno gli eredi dei vari Steno, Scola, Monicelli, Comencini e via discorrendo, non possiamo saperlo, perché essendo contemporanei possiamo solo registrare il presente. Che lascia ben sperare, però.

Dell’altro protagonista, il vero protagonista, il tuttofare interpretato da Guglielmo Poggi (già nel cast di “Smetto quando voglio”) leggo in giro che non regge il confronto con Castellitto… è vero, ma è altrettanto vero che a volerlo confrontare coi tanti suoi coetanei che affollano il piccolo schermo delle “fiscion” italiane, ne esce a testa alta, come attore credibile che sa quello che dice, e che pensa quello che gli esce dalla bocca – a differenza dei tanti di cui dico che, recitando in presa diretta, sembrano addirittura doppiati distrattamente e maldestramente. Il suo personaggio ha il “torto” di essere quello attorno al quale la vicenda e con la sua giovane età manca esattamente del “peso specifico” del primattore: se mai lo è, o lo sarà, anche questo è tutto da vedere.

Da registrare la gradevolissima presenza di Elena Sofia Ricci dalle occhiate traverse, ripescata dalle troppe “fiscion” sospiranti e che dà una sferzata di energia al personaggio della moglie “iena” del grand’avvocato, e di Tonino Taiuti come ex sessantottino fallimentare e padre del giovane praticante. Completano il cast dei comprimari Clara Alonso e Marcela Serli come amante argentina e di lei madre. Da segnalare Alberto Di Stasio nel fugace ruolo di un ginecologo “amico”, altro degno erede della commedia all’taliana, e come divertenti mafiosi Domenico Centamore e il mio collega Mimmo Mignemi che è sempre piacevole rivedere e apprezzare sul grande schermo.

In definitiva: siamo nella “commedia all’italiana” del nuovo millennio? ce lo diranno i posteri, intanto prendiamoci quello che c’è.