Archivi tag: seconda guerra mondiale

I magnifici sette – con un ritratto di Yul Brynner

All’inizio c’è “I sette samurai” del 1954 di Akira Kurosawa con Toshiro Mifune che fu un successo internazionale candidato ai BAFTA nel 1956 e agli Oscar nel 1957 ma già vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia del 1954. Poi ci fu Yul Brynner.

Yul Brynner in una foto del 1943

Julij Borisovič Briner all’epoca era già la star Yul Brynner ma vediamone un ritrattino, a cominciare dalla data della sua nascita sulla quale ha inspiegabilmente mentito invecchiandosi, forse per darsi più autorevolezza e restiamo nell’ambito delle ipotesi perché le sue motivazioni non sono mai state chiarite; sulla sua tomba è riportato come anno di nascita il 1920 ma lui aveva dichiarato alla stampa di essere nato nel 1915 sull’isola russa di Sachalin col nome di Tadje Khan cercando di vantare una discendenza da Gengis Khan: nulla di strano in un ambiente, Hollywood, dove le biografie s’inventavano a tavolino, solo che lui non lasciò che altri lo facessero per lui. In realtà era nato a Vladivostok da padre russo ingegnere minerario di origine svizzera e da madre con ascendenze nomadi Buriati e Rom, tanto che lui fu sempre molto vicino a quei popoli fino a diventare presidente onorario dell’Unione Mondiale Rom. Quando Julij aveva sette anni la madre si separò dal marito fedifrago e se lo portò in Manciuria, Cina, all’epoca sotto il controllo giapponese dove, avviando un fiorente commercio internazionale, iscrisse lui e la sorella maggiore Vera alla sede locale della londinese YMCA, Young Men’s Christian Association, sigla che fu un grande successo dei Village People del 1978 che hanno ironizzato sullo stare in una scuola cattolica e che ancora oggi fa ballare chiunque, cattolici e non.

Julij e Vera studiarono anche musica e canto e impararono il cinese, ma temendo l’aggravarsi delle tensioni col Giappone la madre ritrasferì la famiglia, stavolta a Parigi, dove tutti impararono anche il francese, e dove il ragazzo esercitò vari mestieri, debuttando quattordicenne come chitarrista al cabaret “Hermitage” cantando canzoni russe e rom: la conoscenza della musica che aveva studiato con la sorella sarà fondamentale nella sua carriera.

Fu anche eccezionalmente trapezista nel “Cirque d’Hiver”, a riprova delle sue capacità ginniche, dove però in seguito a una caduta, ancora 17enne divenne dipendente da oppioidi per sedare il dolore costante alla spina dorsale. Ma non tutti i mali vengono per nuocere se si è nati sotto una buona stella: una sera mentre acquistava oppio da uno spacciatore conobbe un altro consumatore abituale, il poeta scrittore drammaturgo e artista visuale Jean Cocteau che lo introdusse nel bel mondo bohemien facendogli conoscere Pablo Picasso, Salvador Dalì, Marcel Marceau e il giovane bell’attore Jean Marais con cui Cocteau aveva una relazione, frequentazioni che lo incuriosirono al mondo dell’arte recitativa, e non si esclude che anche il giovanissimo aitante Julij abbia sperimentato all’epoca l’omoerotismo; di fatto lui e Cocteau restarono amici per la vita e nel 1960 parteciperà al film sperimentale e autobiografico dell’autore francese “Il testamento di Orfeo”. Intanto, per la sua dipendenza il giovanotto fu mandato in Svizzera dove guarì definitivamente dagli oppioidi, che però sostituì col vizio del fumo che lo condurrà alla morte per un cancro ai polmoni.

Il futuro divo hollywoodiano tornò a Parigi riprendendo a frequentare i bohemien fra i quali conobbe un amico americano di Cocteau, il fotografo George Platt Lynes che ritroverà a New York quando a vent’anni raggiunse, insieme alla madre, la sorella che si era già trasferita negli USA per inseguire la carriera di cantante lirica: nel 1950 Vera fu nel cast dell’opera “Il Console” di Gian Carlo Menotti e fu anche la protagonista della “Carmen” di Georges Bizet in una produzione tv: la loro madre che da giovane aveva studiato come attrice e cantante si realizzò attraverso i figli.

Erano gli anni in cui gli Stati Uniti furono coinvolti dal Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, e i timori di quel conflitto avevano fatto arrivare in America, insieme a tantissimi altri artisti europei, anche un altro russo, l’attore regista Michail Čechov, nipote del drammaturgo Anton Čechov, nella cui compagnia Brynner iniziò a studiare recitazione mentre lavorava come speaker in francese per le trasmissioni dell’esercito USA alla Resistenza europea. Alla fine della guerra, mentre il suo maestro veniva candidato all’Oscar come non protagonista per “Io ti salverò” di Alfred Hitchcock, Julij, che ancora parlava uno scarso inglese con forte accento russo, in cerca di soldi facili poserà per la collezione privata di nudi maschili del fotografo Platt Lynes – all’epoca gli omosessuali danarosi andavano spesso in giro armati di macchine fotografiche… – foto che poi verranno pubblicate solo dopo la morte dell’attore e che ancora oggi sono oggetto di collezionismo. Cominciò a calcare le scene a Broadway finché nel 1949 debuttò nel poliziesco “Il porto di New York” noto da noi anche come “La belva di New York” dell’ungherese László Benedek. Nel 1951 arriva il momento di svolta: è protagonista del musical “The King and I” musicato da Richard Rodgers su libretto di Oscar Hammerstein II, dove per interpretare il Re del Siam si rasò a zero la testa, dato che peraltro stava già perdendo i capelli, e per la sua interpretazione vinse il Tony Award.

Arrivarono anche i produttori cinematografici sempre alla ricerca di successi e macchine per far soldi: Charles Brackett Darryl F. Zanuck acquisirono i diritti della pièce per trarne un film, affidando la regia a Walter Lang e confermando nel ruolo del protagonista maschile l’ancora sconosciuto ma già premiato Brynner, anche insostituibile per la sua specificità. “Il re ed io” fu un altro grande successo e lanciò l’attore fra le stelle del cinema procurandogli l’Oscar nel 1957 per la migliore interpretazione maschile, battendo calibri come James Dean e Rock Hudson per “Il gigante” diretto da George Stevens, Kirk Douglas che era stato Vincent Van Gogh in “Brama di vivere” diretto da Vincent Minnelli, e Laurence Olivier anche regista di “Riccardo III” da William Shakespeare. Nel ricevere la statuetta dalle mani di Anna Magnani, che aveva vinto l’anno prima con “La Rosa Tatuata” di Daniel Mann, Brynner pronunciò una battuta che diverrà famosa: “Spero non sia un errore, perché non lo darò indietro per nulla al mondo”. Fu anche il primo divo a sfoggiare la testa pelata e anche per questa novità, oltre al suo indubbio fascino, divenne un sex symbol e molti altri uomini rinunciarono a toupet e parrucchini sfoggiando orgogliosi la pelata “alla Yul Brynner”: aveva lanciato non una moda ma uno stile di vita, e anche se per esigenze produttive in alcuni film sfoggiò di nuovo la chioma, personalmente mantenne lo stile per il resto della vita. Il film ispirò anche una serie televisiva del 1972 intitolata “Anna ed io” in cui Brynner riprese il suo ruolo.

Quel 1956 fu per l’ormai 36enne attore un anno magico perché interpretò altri due grandi successi: nel congeniale ruolo di un russo in “Anastasia” dell’ucraino Anatole Litvak accanto a una Ingrid Bergman in gran spolvero per il suo ritorno a Hollywood dopo la pausa italiana col marito Roberto Rossellini che ne aveva appannato l’immagine internazionale, film che le fece vincere l’Oscar lo stesso anno in cui lo vinse Brynner; ma soprattutto lui fu il crudele faraone Ramses nel kolossal “I dieci comandamenti” di Cecil B. De Mille starring Charlton Heston nel ruolo di Mosè, un ruolo e un film che lo confermarono come star internazionale.

E di film in film duetta anche con la nostra Gina Lollobrigida sostituendo in corsa Tyrone Power che era morto durante le riprese in “Salomone e la Regina di Saba” diretto da King Vidor che dopo questo film abbandonerà il cinema, salvo dirigere un documentario nel 1980; l’improvviso coinvolgimento in quel film fece posticipare all’attore il suo progetto di un film su Spartacus, e se ne avvantaggiò Kirk Douglas che a sua volta c’era rimasto malissimo perché William Wyler gli aveva preferito Charlton Heston per “Ben-Hur”, e accelerando i tempi Douglas interpretò il suo “Spartacus” con la veloce sceneggiatura di Dalton Trumbo e la regia di Stanley Kubrick: in quei giochi di potere fra star Yul Brynner, che era l’ultimo arrivato, restò col cerino più corto in mano, ma lui non era tipo da cerino corto.

I magnifici sette in una foto promozionale: Yul Brynner, Steve McQueen, Horst Buchholz, Charles Bronson, Robert Vaughn, Brad Dexter, e James Coburn.

Poco male. L’attore, che aveva già messo su una propria casa di produzioni, stava già lavorando a un altro progetto: “I magnifici sette” come remake di “I sette samurai”. L’attore aveva acquisito i diritti di una sceneggiatura con la quale aveva deciso di debuttare come regista avendo Anthony Quinn come protagonista; erano amici sin da quando Quinn aveva debuttato come regista in “I bucanieri” e ora progettavano uno scambio di ruoli e di cortesie: Brynner alla regia con Quinn protagonista: troppo bello per essere vero, perché il nostro decise di prendersi il ruolo del protagonista abbandonando la regia per la quale non si sentiva pronto – e non fu mai regista – affidandola a Martin Ritt dal quale era già stato diretto l’anno prima in “L’urlo e la furia”. Questo improvviso cambio di programma mandò su tutte le furie Anthony Quinn che citò in giudizio l’amico Brynner asserendo che loro due insieme avevano sviluppato il progetto ed elaborato molti dettagli del film, ma poiché non c’era nulla di scritto il querelante perse la causa: fine di un’amicizia. Nel frattempo “L’urlo e la furia” si era rivelato un fiasco al botteghino e questo raffreddò i rapporti fra il regista e l’attore-produttore che affidò la regia a John Sturges, il quale aveva infilato una serie di successi a cominciare dal western “Sfida all’O.K. Corral”. Anche la sceneggiatura fu oggetto di contese ma tralasciamo i dettagli tecnici per andare diretti a un’altra ben più sostanziosa contesa: quella con Steve McQueen.

Sturges lo voleva nel cast essendo rimasto entusiasta della sua performance in un ruolo secondario nel suo precedente film bellico “Sacro e profano” con Frank Sinatra e Gina Lollobrigida; l’attore era un nome emergente che da protagonista al cinema aveva solo interpretato l’horror fantascientifico di serie B “Blob, fluido mortale” perché al momento era sotto contratto come protagonista per la serie tv “Ricercato vivo o morto”, 1958-1961, prodotta da Dick Powell che aveva lasciato la carriera di attore cinematografico per passare alla regia e alla produzione televisiva dove era al momento impegnato con l’ultima sua prova d’attore “I racconti del west”, 1956-1961, e alla morte di Powell nel ’61 le serie vennero chiuse; ma intanto, poiché la lavorazione del western si sarebbe accavallata con le riprese televisive, Powell non volle liberare McQueen dall’impegno; ma lui, che era già noto per le sue intemperanze, essendo notoriamente anche un provetto pilota, su consiglio del suo agente inscenò un finto incidente automobilistico per il quale si fece rilasciare un finto referto medico secondo il quale avrebbe dovuto indossare un tutore cervicale: la lavorazione della serie fu messa in pausa e nel suo periodo “di recupero” McQueen fu libero di girare con Sturges e Brynner, tanto il film sarebbe stato girato in Messico lontano da occhi indiscreti: allora non c’erano gli smartphone e i social a sputtanarci.

Durante le riprese, però, si creò una notevole tensione tra lui e Yul Brynner che era di fatto l’unico vero protagonista, e a McQueen non andava giù che il suo personaggio avesse solo sette battute nella sceneggiatura originale e a nulla era valsa la rassicurazione del regista che gli aveva promesso di inserirlo il più possibile in ogni inquadratura anche se non aveva battute: e infatti nel film lo vediamo che gigioneggia di lato o appena dietro mentre il protagonista fa la sua scena; come i peggiori guitti del palcoscenico fece di tutto per disturbare il protagonista e attirare l’attenzione su di sé, come lanciare una moneta durante uno dei discorsi di Brynner o facendo tintinnare le cartucce del suo fucile; c’era poi che Brynner, essendo più basso di lui, costruiva un piccolo cumulo di terra per sembrare alto quanto lui, dandogli l’opportunità di scalciare via quel cumulo di terra quando gli passava accanto. Finché Brynner esasperato una volta non lo afferrò per le spalle e da qui in poi si riconosce lo stile dei due: Brynner disse alla stampa, che era venuta a conoscenza delle tensioni, che lui non aveva mai litigato con i colleghi ma semmai con le produzioni. Mentre McQueen non si trattenne e dichiarò: “Non andavamo d’accordo. Una volta mi è venuto contro, davanti a tante altre persone, e mi ha afferrato per le spalle. Era arrabbiato per qualcosa. Lui non cavalca bene e non sa niente di armi, quindi deve aver pensato che io rappresentassi per lui una minaccia. Io ero nel mio elemento, lui no. Quando lavori in una scena con Yul, dovresti stare assolutamente immobile e a tre metri di distanza… beh io non lavoro così.” Era evidente che non lavorasse così. La parola definitiva la appose Robert Vaughn nella sua autobiografia del 2008, allorquando era l’ultimo superstite di quei magnifici sette: “Steve era estremamente competitivo. Non gli bastava avere solo successo: doveva avere più successo di chiunque altro.”

Robert Vaughn festeggia col suo amico James Coburn il riconoscimento della stella sulla Hollywood Walk of Fame nel 1998.

Robert Vaughn fu scritturato per il ruolo del pistolero tormentato che indossa sempre i guanti come simbolo del distacco che vuole mettere fra sé e quello che fa; fin lì era stato un attore con molta televisione nel curriculum e che era stato appena candidato a Oscar e Golden Globe per il suo primo ruolo importante accanto a Paul Newman in “I segreti di Filadelfia” diretto da Vincent Sherman, e come l’attore dichiarerà l’aiuto del più importante collega era stato determinante: i due frequentavano la stessa palestra e Vaughn, che aveva appena ricevuto la proposta per un provino, gliene parlò sapendolo scritturato come protagonista; Newman si disse entusiasta, lo vedeva perfettamente nel ruolo, e si offrì di fargli da spalla al provino: cosa inaudita dato che i provini si facevano e si fanno con qualcuno dello staff che legge fuori campo, e ovviamente il sostegno del divo fu determinante. Sturges lo aveva scelto proprio per quella sua interpretazione e al colloquio gli disse: “Non abbiamo una sceneggiatura, solo il film di Kurosawa su cui lavorare. Ti dovrai fidare. Ma gireremo a Cuernavaca, ci sei mai stato? la adorerai: è la Palm Springs del Messico.” Ovviamente l’attore ci stava e il regista continuò: “Ottima scelta, giovanotto. E conosci altri bravi giovani attori? ho altri quattro posti da riempire.” Vaughn suggerì l’amico ed ex compagno di studi James Coburn che venne scritturato come l’esperto lanciatore di coltelli, ma essendo praticamente uno sconosciuto avrà il nome per ultimo e in piccolo sul cartellone. In ogni caso il tormentato ruolo di Robert Vaughn, dopo quello del protagonista è il più definito e interessante, e l’attore ha reso magnificamente la lotta interiore del personaggio in tensione fra la codardia e l’eroismo. Per Coburn, invece, che era un fan accanito di “I sette samurai” avendolo già visto per ben 15 volte, essere dentro il remake era per lui come realizzare un sogno e avrebbe accettato qualsiasi ruolo, e gli toccò quello che era stato rifiutato dal più anziano e già protagonista di altri western Sterling Hayden.

Charles Bronson e Brad Dexter

Anche per Charles Bronson il film fu una svolta: faccia da duro ma dall’atteggiamento mite aveva avuto numerosi ruoli secondari in decine film fra cinema e televisione compreso quel “Sacro e profano” da cui il regista avrebbe cooptato anche McQueen, e da “I magnifici sette” in poi fu considerato una star. Anche Brad Dexter aveva alle spalle decine di partecipazioni con ruoli secondari ma al contrario degli altri “magnifici” rimase un caratterista generico oggi dimenticato, qui alla sua apparizione più significativa.

A completare il cast dei “sette” venne chiamato dalla vecchia Europa il giovane tedesco emergente Horst Buchholz su cui i produttori hollywoodiani avevano appuntato gli occhi dopo averlo apprezzato come protagonista del film “Le confessioni del filibustiere Felix Krull” tratto da un romanzo di Thomas Mann e diretto da Kurt Hoffmann, vincitore nel 1958 del Golden Globe come miglior film straniero. Dopo il ruolo del protagonista Chris Adams di Brynner e quello del tormentato Lee di Vaughn il suo Chico è il personaggio più accattivante, anche perché a lui sono assegnate – fra i vari siparietti che raccontano i diversi personaggi – le scene romantiche del nascente amore fra il giovane pistolero e la chicana Petra di Rosenda Monteros. E se Rosenda restò perlopiù a recitare in Messico film e telenovelas, Horst si avviò a una carriera internazionale che lo vide spesso anche sui set italiani.

Ma non dimentichiamo il cattivissimo contro cui si battono tutt’e sette gli eroi malgrado loro: il non più giovanissimo – ha 45 anni – Eli Wallach che all’epoca aveva nel curriculum solo tre film in cui si era messo benissimo in luce, e che avrà una lunghissima carriera come comprimario spesso in ruoli da cattivo e caratterista di lusso, anche lui spesso in Italia a cominciare dagli spaghetti-western di Sergio Leone. Nel ruolo del vecchio messicano saggio e filosofo Brynner ha voluto il già vecchio conterraneo Vladimir Sokoloff che da giovane aveva studiato recitazione a Mosca proprio insieme a quel Kostantin Stanislavskij il cui metodo diverrà il nuovo vangelo degli attori di qua e di là dell’Atlantico; fu un eccellente caratterista che per la sua maschera vagamente esotica ha interpretato nella sua carriera più di una trentina di etnie diverse.

Quando Akira Kurosawa vide questo remake del suo “I sette samurai” si complimentò con John Sturges che rimase assai impressionato e commosso per i complimenti del maestro giapponese. Ma in chiusura non dimentichiamo la musica di Elmer Bernstein che s’impone sin dalle prime note all’inizio del film e che oggi è diventata un classico da riascoltare fra le migliori colonne sonore: nel 2005 l’American Film Institute l’ha inserita all’ottavo posto fra le 25 migliori colonne sonore, così come il film stesso è divenuto un classico da vedere e rivedere, che ebbe tre sequel (1966-69-72) una serie televisiva (1998-2000) e il remake in chiave fantascientifica “I magnifici sette nello spazio” diretto da Jimmy T. Murakami e dal non accreditato Roger Corman, in realtà remake non ufficiale in quanto il titolo originale era “Battle Beyond the Stars”, esplicitato nella distribuzione italiana; in entrambe le produzioni c’è il ritorno di Robert Vaughn con differenti personaggi. Del 2016 è il remake col nero Denzel Washington nel ruolo del protagonista per quanto fosse assai improbabile che nell’epoca narrata un nero avesse un ruolo così di rilievo.

Di quei magnifici sette il primo a lasciarci fu Steve McQueen a 50 anni nel 1980, a causa di un tumore da esposizione all’amianto, materiale che era impiegato negli ambienti da lui frequentati: studi cinematografici, navi, ambienti motoristici. Era scampato a morte violenta quando l’8 agosto del 1969, invitato dall’amico Jay Sebring sarebbe dovuto andare a casa della comune amica Sharon Tate la notte in cui furono uccisi dagli hippies psicopatici della cosiddetta Manson Family di Charles Manson che non partecipò all’agguato in quanto solo mandante. L’attore ne rimase così scosso che da quel momento in poi portò sempre con sé una pistola. Le sue ceneri sono state disperse nell’Oceano Pacifico.

Il 10 ottobre 1985 a 65 anni morì Yul Brynner per cancro ai polmoni e alcuni mesi prima volle registrare un breve video da rendere pubblico dopo la sua morte in cui esortava a non fumare: “Adesso che non ci sono più ti dico: non fumare. Qualunque cosa tu faccia, non fumare.” E’ sepolto in Francia e a Vladivostok la sua casa natale è stata trasformata in museo e gli è stata eretta una sua statua a grandezza naturale, che lo ritrae con i costumi del Re del Siam, nella classica posa più volte assunta nel film: gomiti larghi, pugni chiusi sui fianchi. Il suo stesso giorno morì anche Orson Welles con cui aveva recitato nel 1969 in “La battaglia della Neretva” diretto dal montenegrino Veljko Bulajić.

Nel 2002 se ne sono andati in tre: l’82enne Charles Bronson per una polmonite, benché negli ultimi anni la sua salute andasse peggiorando velocemente su più fronti: prima aveva subito un intervento per una protesi all’anca e alla fine gli erano stati diagnosticati l’Alzheimer e un carcinoma del polmone. È sepolto in un cimitero nel Vermont, vicino a casa sua. il 74enne James Coburn se n’è andato a causa di un arresto cardiaco, e le sue sue ceneri sono state interrate in un cimitero di Los Angeles. E Brad Dexter, morto a causa di un enfisema, all’età di 85 anni. Il 2003 è l’anno di Horst Buchholz che morì 69enne a causa di una polmonite contratta dopo un intervento chirurgico all’anca in un ospedale di Berlino. L’ultimo ad andarsene è stato l’84enne Robert Vaughn per leucemia nel 2016. Ma il bello del cinema è che saranno sempre vivi.

Audace colpo dei soliti ignoti

1959, l’anno successivo al clamoroso successo di “I soliti ignoti” è già pronto il sequel perché il ferro va battuto finché è caldo. Mario Monicelli lascia perché già impegnato sui suoi prossimi due progetti: il documentario “Lettere dei condannati a morte” sulla Resistenza Antifascista in contemporanea col suo prossimo capolavoro “La grande guerra” dove con un salto all’indietro scavalca la Seconda Guerra Mondiale per tornare a raccontare la Prima sfrondando i ricordi da sentimentali idealismi per raccontarne le miserie, un misto di neo-realismo e commedia amara, quella commedia all’italiana che aveva contribuito a fondare l’anno prima proprio con “I soliti ignoti”.

Garrone, Manfredi, Gassman, Murgia, Salvatori, Ludovisi

Per l’audace colpo il soggetto è sempre di Age & Scarpelli che stavolta scrivono il film col nuovo regista Nanni Loy, il quale è alla sua prima regia in solitaria dopo aver co-diretto due film con Gianni Puccini, il brillante “Parola di ladro” col ladro gentiluomo Gabriele Ferzetti e “Il marito” film costruito intorno ad Alberto Sordi; Puccini fu un autore attivo con dieci film in dieci anni, principalmente ricordato per il sul ultimo lavoro “I sette fratelli Cervi”. Il breve curriculum di Loy, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia e già assistente di bei nomi come Goffredo Alessandrini, Luigi Zampa e Augusto Genina, con quei due film brillanti si era messo in luce e parve al produttore Franco Cristaldi e a duo Age & Scarpelli un nome su cui puntare e Nanni Loy si coinvolse anche nella scrittura della sceneggiatura poiché era ciò che aveva fatto fino a quel momento. Il film che ne viene fuori ha un ritmo più veloce e maggiore freschezza accantonando le amarezze dello stile monicelliano e scampando il pericolo del già-visto sempre in agguato nei sequel. Er Pantera, il personaggio di Vittorio Gassman che dal precedente film uscì vincente (ai Nastri d’Argento) vincendo soprattutto la scommessa sulla sua non ancora sperimentata comicità, acquista un po’ più spazio sugli altri spianando la strada al Gassman che si farà conoscere come Mattatore sia in tv che al cinema nel biennio 1959-1960.

L’azione si sposta da Roma a Milano dove il disastrato gruppetto dei malviventi viene cooptato da Virgilio il milanese per rapinare il furgone che trasporta gli incassi del Totocalcio: ovviamente non tutto va a segno come dovrebbe e contrattempi e disavventure sono sempre dietro l’angolo, ma c’è di nuovo rispetto al primo film che stavolta il colpo va a segno – ma poi tutti rinunciano al bottino perché in fondo sono degli onesti fregnoni (romanesco derivato da fregna, che volgarmente è la vagina; fregnone sta dunque per mammone, ragazzo o uomo ancora attaccato alla fregna di mamma, dunque stupido, minchione).

L’insieme degli interpreti è sempre al meglio con l’ingresso in batteria di Nino Manfredi col personaggio di Ugo piede amaro, chissà forse inizialmente pensato per Ugo Tognazzi probabilmente impossibilitato per i troppi impegni: in quel 1959 uscì con ben dodici film; numeri che oggi sembrano impossibili da replicare ma che all’epoca era consueti per i nomi di punta in una cinematografia al massimo della sua attività: la televisione non era ancora entrata nelle case di tutti gli italiani. Entra Manfredi perché esce Marcello Mastroianni senza colpo ferire: nessun riferimento al suo personaggio, mentre invece viene ricordato il Dante Cruciani di Totò, anch’egli non più della partita.

Gianni Bonagura e Vicky Ludovisi

Entra a gamba tesa il sedicente gangster milanese di Riccardo Garrone che si porta dietro la pupa bionda Floriana, svampita quanto basta ma soprattutto sexy e disinibita che introduce nel pacchetto un che di pruriginoso che supera senza problemi i visti dei censori, evidentemente più preoccupati dagli aspetti politici e religiosi che dalle grazie di ragazzine discinte: Vicky Ludovisi ha appena quindici anni e con la sua disinibita e fresca naturalezza ha stracciato tante altre concorrenti ai provini fatti dal regista, imponendosi come nuovo elemento femminile della banda sempre formata da Renato Salvatori che continua ad amoreggiare con Claudia Cardinale sempre tenuta sotto chiave dal geloso fratello Ferribotte di Tiberio Murgia; e completa la gang il sempre stralunato e affamato Capannelle di Carlo Pisacane. Del precedente cast dei generici tornano il commissario Mario Feliciani e la “mamma” Elena Fabrizi dell’orfanotrofio dove è cresciuto Mario-Renato Salvatori. Nel ruolo di un libraio c’è il non ancora noto Gastone Moschin già ottimo attore teatrale che dopo tanti poliziotteschi e commedie varie sarà uno dei protagonisti di “Amici miei”, altro capolavoro di Monicelli. Un altro ottimo interprete teatrale che nel cinema non ha avuto altrettanta fortuna è Gianni Bonagura qui nell’importante ruolo del ragioniere del Totocalcio che si fa talpa e complice dell’audace colpo.

Generalmente apprezzato dalla critica il film non accede a nessun premio ma al botteghino incalza da vicino l’exploit dell’originale. Passeranno 25 anni prima che la nostalgia, e la crisi del cinema, faranno mettere in cantiere il secondo sequel: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Anche questo film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

I soliti ignoti – e per la prima volta sullo schermo Claudia Cardinale e Tiberio Murgia

Questo film del 1958 è un caposaldo del cinema italiano ma partiamo da più lontano nel tempo e nello spazio, dalla Hollywood dei primi anni ’50 che con film come “Giungla d’asfalto” di John Huston dal genere thriller, o noir per dirla alla francese, sviluppa il sottogenere caper movie detto anche heist movie, ovvero film dove una banda di malviventi organizza un colpa grosso; e se heist è comprensibile in quanto significa rapina, caper è meno chiaro perché letteralmente significa cappero ma in realtà è stato coniato fra i malavitosi italo-americani che hanno anglicizzato l’italiano capriola con riferimento ai salti mortali e a tutte le acrobazie che dovevano fare per sfuggire alle forze dell’ordine. Sta di fatto che il genere piacque molto al pubblico, e fra i principali caper movie bisogna ricordare “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick mentre in Francia ci fu il grande successo di “Rififi” di Jules Dassin, e scavalcando gli anni ’60 in Italia Marco Vicario diresse il dittico “Sette uomini d’oro” e “Il grande colpo dei sette uomini d’oro” al servizio di sua moglie Rossana Podestà; del 1969 è il francese “Il clan dei siciliani” di Henri Verneuil con Jean Gabin, Alain Delon e Lino Ventura; per tornare a Hollywood con “La stangata” di George Roy Hill del 1974 starring Paul Newman e Roibert Redford; poi primeggia il corale “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992 fino al trittico di Steven Soderbergh iniziato con “Ocean’s Eleven”, con George Clooney capo brigata, che a sua volta era il remake di “Colpo grosso” del 1960 di Lewis Mileston col Rat Pack Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr. Insomma ce n’è per tutti i gusti.

Aldo Reggiani, Loretta Goggi e Arnoldo Foà protagonisti dello sceneggiato Rai

Ma torniamo in Italia alla fine degli anni ’50. Il genere imperante era il neorealismo nato sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, e ancora resistevano i generi peplum (e vale la pena ricordare il debutto cinematografico di Sergio Leone con “Il colosso di Rodi”) e cappa e spada (nessun film italiano memorabile, supplisce lo sceneggiato Rai “La freccia nera” diretto da Anton Giulio Majano dal romanzo di Robert Luis Stevenson) mentre il cinema spensierato dei telefoni bianchi che imitava le commedie sofisticate hollywoodiane era stato sostituito dalla commedia rosa o sentimentale che abbandonando le ambientazioni scintillanti e irrealistiche si era adattato alla nostra realtà con gli operai e le commesse “Poveri ma belli” di Dino Risi del 1957.

Scena da “I cadetti di Guascogna”, in primo piano da sinistra Riccardo Billi, Mario Riva, Carlo Campanini, Carlo Croccolo e seduto sulla branda Walter Chiari

Sul piano del film comico, film per ridere, si era fermi alle pellicole che derivavano dai palcoscenici dell’avanspettacolo e del varietà (ad esempio “I cadetti di Guascogna” che vide il debutto di Ugo Tognazzi e Carlo Croccolo) con interpreti che da lì venivano con le loro maschere e le loro gag (Mario Riva, Riccardo Billi, Carlo Campanini, Macario, Renato Rascel) di cui Totò era il più prolifico esponente, non amato dalla critica colta per quei suoi filmetti senza spessore. In questa brulicante vivacissima realtà si muoveva un gruppo di soggettisti e sceneggiatori che sentivano l’urgenza di raccontare la realtà, la loro realtà, quella realtà di quel preciso momento storico, il dopoguerra e il boom economico, mettendone in evidenza tutte le contraddizioni, l’impossibilità di conciliare il vecchio con il nuovo, l’ipocrisia e l’effimero: una realtà che autori come Pier Paolo Pasolini (“Accattone”) o Bernardo Bertolucci (“La commare secca”) presero di petto, mentre scrittori dalla penna più leggera e ironica e spesso caustica, e forse per questo più incisiva (ricordiamo l’adagio latino “castigat ridendo mores”) come Age & Scarpelli qui autori del soggetto e sceneggiatori insieme a Suso Cecchi D’Amico e allo stesso regista Mario Monicelli, che aveva esordito come braccio destro di Pietro Germi e fu poi regista di Totò che aveva sdoganato in un ruolo drammatico nella co-regia con Steno “Guardie e ladri” che valse all’attore l’ambito Nastro d’Argento e che lo convinse che poteva abbandonare il genere avanspettacolo che lo aveva reso ricco e famoso, ma con la media di cinque film l’anno in cantiere, il successo del pubblico e le pressioni dei produttori, passò ancora qualche anno fino a che concluse la sua carriera lavorando con Pasolini: “Uccellacci e uccellini”, “La terra vista dalla luna” nel film a episodi “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel film a episodi “Capriccio all’italiana”.

Monicelli e Totò durante una pausa sul set

Quando il gruppetto di amici si riunì per buttare giù una nuova sceneggiatura non sapevano che stavano cominciando a scrivere una pagina della storia del cinema. Partirono dall’idea di fare una parodia di quel genere tanto di moda, il caper movie, e presero come modello il noir “Rififi” tanto che il primo titolo pensato per il film in scrittura fu “Rufufù”, ma non erano autori da fermarsi al semplice parodistico e come altra ispirazione ebbero il racconto di Italo Calvino “Furto in una pasticceria”.

Memmo Carotenuto con Gassman

Poi c’era la realtà sociale in cui il gruppetto voleva collocare storia e personaggi, e pur condividendo con Pasolini il degrado della periferia romana in cui il boom sarebbe tardato ad arrivare e ancora si sarebbe vissuto di espedienti, i loro ladruncoli non hanno l’innocente cattiveria degli accattoni e dei ragazzi di vita pasoliniani, ma risentendo della leggerezza della Commedia dell’Arte (che i nostri ovviamente conoscono) sono Arlecchino e Brighella e Pulcinella i cui espedienti per procurarsi il tozzo di pane rimangono fallimentari e grotteschi, come certi capitomboli del fanfarone Er Pantera, ma sono qui intessuti dell’umanità di persone reali che soffrono e addirittura – novità assoluta in commedia – muoiono tragicamente, come il personaggio motore della storia interpretato da Memmo Carotenuto. Il risultato è un dolce-amaro, un grottesco patetico venato di tristezza, qualcosa di talmente simile alla vita reale da portare al cinema folle di spettatori che ridevano insieme delle loro stesse sventure, e però non mancano le battute folgoranti come quando Capannelle chiede a un ragazzino di un certo Mario e quello gli risponde che lì nel quartiere ce ne sono cento; sì ma questo è stato in galera, specifica Capannelle, sempre cento sono, risponde il ragazzino.

Tiberio Murgia nell’atrio del cinema dove si proietta il Kean di e con Vittorio Gassman in un corto circuito di citazioni

A scrittura ultimata sarebbe stata fondamentale la scelta del cast. I produttori, Franco Cristaldi in testa, avrebbero voluto scritturare i soliti noti che venivano dal varietà e dall’avanspettacolo, a cominciare da Alberto Sordi nel ruolo del pugile suonato Peppe er Pantera per il quale Monicelli e gli altri sceneggiatori – che avevano creato tutti i personaggi intorno ad un baricentro realistico, senza vezzi e gag, corredandoli però di un patrimonio di battute e situazioni brillanti e folgoranti sulle quale si sarebbe dovuta giocare tutta la comicità del film – si erano impuntati su Vittorio Gassman, in quale venendo dal teatro impegnato nel cinema aveva per lo più interpretato ruoli da cattivo, e con la sua aria da intellettuale non dava ai produttori nessuna garanzia di successo come attore comico, ma alla fine dovettero cedere alle argomentazioni di Monicelli & company, che con l’aiuto del truccatore Romolo De Martino crearono per Gassman un pesante trucco che con una parrucca gli abbassava l’attaccatura sulla fronte, e accentuando il profilo del naso e rendendo le labbra leggermente calanti lo ridisegnarono proprio come quel pugile suonato di periferia che avevano immaginato sulla carta, e l’invenzione poi della sibilante balbuzie completò il personaggio, sdoganando Gassman in un mondo ancora per lui inesplorato. Va segnalato che nel film viene omaggiato ritraendo la locandina del suo “Kean – genio e sregolatezza” che aveva diretto e interpretato a teatro e poi diretto e interpretato anche sullo schermo con l’importante contributo tecnico di Francesco Rosi.

Nel calibratissimo cast Renato Salvatori (doppiato da Marcello Prando) entrò come secondo nome (in percentuale di misura più piccola rispetto a Gassman) e come segno di continuità con la commedia rosa di cui era protagonista, anche qui protagonista di una storia amorosa ovviamente assai contrastata. Il caratterista Memmo Carotenuto, fratello di Mario, faccia da duro e voce roca è al terzo posto nei titoli di testa e probabilmente nel suo ruolo più significativo. Con le lettere che continuano a rimpicciolirsi segue Rossana Rory (Rossana Coppa sui documenti) già fotomodella e foto-attrice per “Sogno” che qui è l’unica componente femminile della banda e anche nel suo ruolo più importante (doppiata da Monica Vitti): nonostante l’impegno, andò a studiare recitazione presso la londinese Royal Academy of Dramatic Art, non riuscì a sfondare e pochi anni dopo, dopo aver partecipato a “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, si ritirò dalla carriera artistica. Segue nei titoli la 17enne in rapida ascesa Carla Gravina qui al suo terzo film e che aveva debuttato 15enne in “Guendalina” dello scopritore di Lolite Alberto Lattuada. Dopo di lei nei titoli di testa viene la non ancora ventenne Claudia Cardinale (doppiata dalla palermitana Lucia Guzzardi) qui al suo debutto cinematografico italiano e per la quale vale la pena spendere qualche parola in più.

Era nata a Tunisi da genitori altrettanto tunisini per nascita ma di discendenza siciliana. Va ricordato che la Tunisia era un protettorato francese e durante la Seconda Guerra Mondiale (Claudia nata nel ’38 era ancora bambina) l’Italia mussoliniana con la Germania hitleriana occuparono Tunisi con gravi e diverse conseguenze per tutta l’enclave italiana che lì viveva; nello specifico il padre di Claudia che aveva mantenuto rapporti con la famiglia d’origine in Sicilia, non aveva preso la nazionalità francese mantenendo quella italiana, e se in quel frangente ciò poteva giocare a suo favore agli occhi del regime, nei fatti tutti quegli italiani d’Africa furono vittime di un diffuso e paradossale sentimento italiano anti-italiano, con italo-tunisini che sposarono la causa fascista, altri che restarono fedeli alla Francia e altri ancora che volevano restare neutrali come fu per la famiglia Cardinale. Superato il disagio della guerra l’adolescente Claudia parlava solo arabo tunisino, francese e il siciliano trapanese appreso in famiglia, e come tutte le ragazze della sua generazione era una fan della Brigitte Bardot esplosa con “E Dio creò la donna” di Roger Vadim, star con la quale duetterà anni dopo, nel 1971, nel brutto western “Le pistolere” di Christian-Jacque. In ogni caso il cinema la attendeva: a diciotto anni partecipò a un cortometraggio documentaristico che omaggiava l’intraprendenza delle donne tunisine nell’immediato dopoguerra: “Les Anneaux d’or” di René Vautier che al Festival di Berlino vinse l’Orso d’Argento.  Bastò l’unico primo piano di quel film per farla diventare una celebrità locale ed essere richiesta dal regista Jacques Baratier che la volle per un ruolo secondario in “I giorni dell’amore”, ruolo che accettò con riluttanza perché aspirava a quello della protagonista nel quale la produzione volle un’attrice di pura nazionalità tunisina; protagonista maschile il giovane egiziano Omar Sharif in un film candidato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes che per la nostra riluttante Claudia fu il primo vero impegno come attrice cinematografica, per il quale in ogni caso aveva ottenuto la dicitura in cartellone “e la partecipazione di” essendo ancora in pratica una sconosciuta. Claudia avrebbe duettato da protagonista con Sharif nel 1991 in “Mayrig” del franco-armeno Henri Verneuil, che l’anno dopo ebbe il seguito “Quella strada chiamata paradiso”, film che raccontano il genocidio armeno che però hanno avuto scarsa diffusione.

Momentaneamente accantonata la non del tutto per lei soddisfacente, benché di qualità, esperienza cinematografica, la giovane scalpitava e non sapeva come uscire dall’impasse della sua vita borghese tunisina, così non le parve vero quando a Tunisi si tenne la “Settimana del Cinema Italiano” organizzata da “Unitalia FilmRivista trimestrale dell’Unione nazionale per la diffusione del film italiano all’estero”, durante la quale vinse – “in modo del tutto involontario e inconsapevole” recitano le cronache – il concorso “La più bella italiana di Tunisia” dove probabilmente si era iscritta in modo del tutto altrettanto involontario e inconsapevole: ma la ragazza, come vedremo, era fortemente motivata e consapevole.

Claudia Cardinale in quel fatale 1957 a Venezia

Il premio del concorso consisteva in una vacanza spesata alla Mostra del Cinema di Venezia in cui seppe mettersi in mostra agli occhi dei tanti pigmalioni, registi e giornalisti e soprattutto produttori lì presenti, Franco Cristaldi in testa. Dicono sempre le cronache che accettò l’invito da parte del produttore Salvatore Argento (padre del regista Dario Argento) e del giornalista Lidio Bozzini l’offerta di fermarsi a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, che la ragazza accettò – non si sa a che titolo: chi pagava cosa e per cosa? Probabilmente oggi è lecito immaginare che i due fossero i prestanome del produttore Cristaldi, che di 14 anni più anziano della ragazza e già sposato, non si poteva esporre in quell’epoca in cui il divorzio era illegale in un Paese ultra cattolico in cui le relazioni extraconiugali creavano scandalo e condanna sociale: oggi sappiamo che Franco Cristaldi e Claudia Cardinale avevano già cominciato una relazione. Ma gli studi di recitazione e dizione, sua insegnante al Centro fu Tina Lattanzi, misero in evidenza la sua scarsa attitudine sia alla recitazione che all’apprendimento e dopo appena un trimestre abbandonò l’impresa per tornare a Tunisi… ma dato che la sua fotogenia era indiscutibile e la sua relazione con Cristaldi solida, si fece di necessità virtù e fu dato eco sulla stampa, con copertina sul settimanale “Epoca”, a quel suo inconcepibile rifiuto di continuare la carriera cinematografica: anche gli handicap se ben gestiti posso diventare vantaggi nelle mani di un solido ufficio stampa. Del suo stile recitativo, una volta diventata famosa, coerentemente dirà: “Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica.”

Moglie e marito, produttore e protagonista, sul set di “La tenda rossa” diretto da Michail Kalazotov

Ancora di quell’intenso periodo è un’altra pagina che resterà oscura nella vita dell’attrice: la gravidanza del suo primogenito Patrick che partorirà a Londra, lontano da occhi indiscreti, dopo la fine della lavorazione del film. Durante la lavorazione ha tenuto segreta la gravidanza, come segreta rimarrà la genesi: verrà raccontato in seguito che rimase vittima di uno stupro da parte di uno sconosciuto ma alla luce dei fatti è lecito pensare che il figlio fosse del produttore e che l’invenzione dello stupro servisse anche, ancora una volta, a far di necessità virtù – ma questa è mia personale speculazione essendo a tutt’oggi la vicenda narrata così come fu data sin dall’inizio. E se dal lato professionale questo ruolo di siciliana illibata ritagliato su di lei la portò all’immediato successo, sul piano privato fu per lei un periodo assai difficile: era consapevole che la relazione con Cristaldi non poteva essere ufficiliazzata e soffriva lo stereotipo dell’immagine della giovane avventura del produttore attempato. Con l’avvio della sua carriera la famiglia la raggiunge a Roma e durante i primi anni mostrerà in pubblico suo figlio presentandolo come un fratellino.

In seguito, anni dopo, dichiarerà di non essersi mai sentita davvero la compagna di Cristaldi, quanto piuttosto un trofeo da tenere sotto vetro, una “Cenerentola gratificata dalla sua generosità” per l’aiuto dato nel difficile momento della gravidanza segreta e per, va da sé, l’impegno profuso per costruirle una carriera e un’immagine professionale adeguata; ma per il resto si era sentita in trappola: per il doppio legame, personale e professionale, si sentiva schiacciata e costantemente sotto controllo attraverso lo staff – il responsabile stampa, la segretaria e l’autista personali – che facevano riferimento a Cristaldi che probabilmente aveva perso la testa per la ragazza e finì col rinchiuderla in una gabbia dorata, una torre d’avorio, sempre ricordandole e rinfacciandole che lui l’aveva creata e che dunque gli apparteneva. Conducevano sempre vite separate, tranne qualche breve viaggio, e anche dopo il matrimonio che nel 1966 lui organizzò negli Stati Uniti avendo ottenuto l’annullamento della precedente unione dalla Sacra Rota, lei non lo chiamò mai Franco ma sempre e solo Cristaldi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel 1975, allorché Claudia si era innamorata del regista Pasquale Squitieri conosciuto sul set di “I guappi”. Col matrimonio Cristaldi aveva adottato legalmente il primogenito dell’attrice. E sarebbe ancora lunga la narrazione su Claudia Cardinale se non fosse che devo rientrare nei ranghi del film che l’ha lanciata.

il gruppo dei ladruncoli al completo: Totò, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Di spalle l’agente di controllo per il Dante Cruciani di Totò, attore non accreditato.

Al suo nome seguono nei titoli di testa i primi tre insieme dopo i nomi da solisti: Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e Gina Rovere, lei nel ruolo secondario della moglie in galera di Marcello Mastroianni, è una caratterista romana che avrà i suoi ruoli più importanti nei prossimi “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il napoletano Pisacane viene invece dalla gloriosa filodrammatica partenopea e aveva cominciato a fare cinema già in gioventù all’epoca del muto per poi proseguire come caratterista generico e qui è al suo primo personaggio importante, quel Capannelle che gli porterà talmente fortuna e fama da venire accreditato nelle produzioni future anche come solo Capannelle; il suo riuscitissimo accento bolognese è dovuto al doppiaggio del friulano Nico Pepe.

I debuttanti Claudia Cardinale e Tiberio Murgia come sorella e fratello.

Il sardo Tiberio Murgia è al suo debutto cinematografico diventando siciliano col doppiaggio del napoletano Renato Cominetti e anche il suo personaggio ha talmente fortuna che proseguirà la carriera continuando a essere scritturato come siciliano. Prima di approdare al cinema ha un passato rocambolesco: di famiglia povera emigra in Belgio per andare a fare il minatore a Marcinelle dal cui disastro scampa perché si era dato malato per stare con la moglie di un collega di cui era divenuto amante, ma l’intera storia è oggi ritenuta falsa perché viene da un articolo della rivista “Gente” di genere scandalistico-propagandistico per favorire la carriera del neo-attore. Di fatto Murgia fu veramente minatore in Belgio e poi lavapiatti in un ristorante di Roma dove fu notato da un assistente di Monicelli e da lì si avviò la sua carriera di caratterista siciliano.

Va dato merito al regista e al suo staff di co-sceneggiatori l’avere inserito nel cast dei coprotagonisti due piccoli caratteristi, Carlo Pisacane di antica scuola teatrale e Tiberio Murgia preso dalla strada: due personaggi veramente costruiti a tavolino che nulla avevano e avranno a che fare col carisma dell’interprete; due facce che già da sé erano maschere, ma personaggi creati col supporto di altri due professionisti a dare loro la voce: in pratica per ogni personaggio due attori, uno davanti e l’altro dietro la macchina da presa, perché senza quelle voci e quegli accenti le due maschere non sarebbero mai esistite. Pratica oggi irrealizzabile per fortuna, per la dignità professionale degli interpreti, ma che allora era prassi comune se si pensa che anche molti dei protagonisti venivano doppiati e la cosa non creava scandalo. Qui c’è Renato Salvatori che praticamente sarà sempre doppiato in tutta la sua carriera e se ciò non fosse stato consentito probabilmente si sarebbe impegnato a studiare recitazione e dizione laddove la fotogenia non sarebbe bastata più; per molti anni Claudia Cardinale fu doppiata, però si è battuta per recitare con la sua voce, e anche Totò che verso la fine era ormai quasi cieco e aveva come doppiatore ufficiale Carlo Croccolo. I titoli di testa continuano col resto dei generici fra i quali bisogna ricordare Elisa Fabrizi che è un errore di trascrizione trattandosi in realtà di Elena Fabrizi, sorella di Aldo Fabrizi, che dopo la scomparsa del fratello diverrà nota come Lella Fabrizi o più semplicemente Sora Lella, attrice intrattenitrice e proprietaria di una trattoria sull’isola Tiberina a Roma. I titoli si concludono “con” Marcello Mastroianni le cui lettere riprendono la misura massima che Gassman aveva avuto in apertura, “e con la partecipazione straordinaria” di Totò. Non è accreditato il prevalentemente radio-televisivo Mario Feliciani nel ruolo del commissario di polizia che tornerà nel sequel dell’anno dopo messo in cantiere a tambur battente.

Sul momento nessuno si rese conto di cosa era accaduto: il fatto più evidente fu il clamoroso successo del film che fu distribuito praticamente in tutto il mondo: negli USA e nel Regno Unito col titolo “Big Deal on Madonna Street” e lì avrebbe avuto grande risonanza soprattutto fra gli addetti ai lavori tanto che nei decenni a seguire avrebbero realizzato ben due remake; mentre in Spagna fu ripreso il primo titolo provvisorio “Rufufù” e in Francia si optò per “Le Pigeon” il piccione, vai a capire perché, mentre in Argentina e Brasile fecero una fedele traduzione del titolo: “Los desconocidos de siempre” e Os eternos Desconhecidos“.

Dovette passare qualche anno perché ci si rendesse conto che “I soliti ignoti” era diventato il capostipite di un nuovo genere cinematografico: la commedia all’italiana. Che era un po’ quello che era successo secoli prima nel teatro quando dalla Commedia dell’Arte si passò alla commedia brillante borghese dove i caratteri avevano perso la fissità delle maschere per diventare esseri umani a tutto tondo con i loro chiaroscuri. Da quel film in poi tutti dovettero fare i conti con quel modo di scrivere e realizzare pellicole brillanti e in un paio di decenni si realizzarono grandi film, molti dei quali a episodi, fino a che la commedia all’italiana non morì verso la fine degli anni Settanta stretta fra le spire della commedia sexy. Mario Monicelli fu candidato agli Oscar nella categoria Miglior Film Straniero e vinse lo spagnolo Festival di San Sebastian; ai Nastri d’Argento vinse Vittorio Gassman come miglior protagonista e l’intera squadra degli scrittori fu premiata per la miglior sceneggiatura.

L’anno dopo uscì il sequel “Audace colpo dei soliti ignoti” con Nanni Loy che prese il controllo dell’impresa, e un secondo tardivo nostalgico seguito si ebbe nel 1985 diretto da Amanzio Todini: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Del 2020 è l’adattamento teatrale andato in scena al Teatro La Pergola di Firenze, diretto e interpretato da Vinicio Marchioni su copione di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli. Altro adattamento teatrale ma in musical fu quello che Bob Fosse realizzò nel 1986, “Big Deal”, che non vide praticamente nessuno: 6 anteprime e 69 repliche, a Broadway. Due i remake americani, dicevamo: il primo è “Crackers” del 1984 diretto da Louis Malle con Donald Sutherland e Sean Penn, mentre del 2002 è “Welcome to Collinwood” diretto dai fratelli Anthony & Joe Russo e prodotto da George Clooney che si è collocato nel ruolo che fu di Totò. Nel 2000 Woody Allen fece un’importante citazione-omaggio nel suo “Criminali da strapazzo”. Un altro importante omaggio è nel film “A/R Andata + Ritorno” del 2004, terza regia di Marco Ponti.

Fra le curiosità: il film sarebbe dovuto uscire col titolo “Le Madame” che era il soprannome con cui i criminali chiamavano i poliziotti e che venne rigettato dalla censura perché non si poteva ironizzare sulle forze dell’ordine. La Via delle Madonne in cui viene tentato il colpo, ripreso dal titolo americano, in realtà non esiste, trattandosi della scalinata di Via della Cordonata che scende su Via delle Tre Cannelle, dietro Piazza Venezia. La ragazza che litiga col fidanzato sotto il lucernario su cui restano appesi i ladruncoli è l’ungherese Edith Bruck, scampata ai campi di concentramento nazisti, che si era stabilita a Roma dopo aver tentato di rientrare in patria, dove non aveva più nessuno, per poi di trasferirsi in Israele nel 1948 a ridosso della formazione del nuovo stato, immaginato “di latte e miele”, come scriverà, ma percorso da altri insopportabili conflitti. Come ancora oggi è. A Roma frequenta ovviamente l’ambiente intellettuale dove conosce e poi sposerà il poeta-regista Nelo Risi, fratello di Dino, e debutterà come scrittrice nel 1959 con “Chi ti ama così” scrivendo in lingua italiana, una lingua non sua, come spiegherà, che le consente il necessario distacco per descrivere la sua esperienza nei campi di concentramento. Ultima curiosità: i nomignoli Capannelle e Ferribotte erano stati orecchiati nella vita reale: a Capannelle c’è l’ippodromo di Roma ed era il soprannome di un assiduo scommettitore sulle corse dei cavalli, caratteristica che nel personaggio del film non c’è, mentre Ferribotte è la storpiatura di ferry boat, il traghetto che i siciliani prendevano per raggiungere il continente e come molti ancora lo chiamavano: ferribotte o ferribotto. Entrambi i personaggi torneranno nel prossimo sequel mentre solo Ferribotte sopravvivrà vent’anni dopo.

Edith Bruck

Il film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

XXX FILM EROTICI DI EXPLOITATION E COMMEDIE SEXY – 1

L’articolo contiene argomenti sensibili
e può urtare la suscettibilità di qualcuno.

Tutto quello che nel cinema ruota intorno al sesso viene sempre guardato con molta attenzione: o perché si è dei cultori del genere o perché è considerato spazzatura, addirittura con l’etichetta di immorale laddove il giudizio non è strettamente cinematografico ma intimamente personale. E partendo dal personale tento un’analisi dei generi, dove pur restando nel più ristretto ambito italiano sarà necessario uno sguardo all’estero.

Tanto per essere chiari e professionali: per film erotico si intende comunemente un film che può suscitare eccitazione, sia fisica che anche solo mentale, e benché mostri nudità e simuli rapporti sessuali si distingue dal pornografico il cui fine è mostrare il reale atto sessuale nel dettaglio senza alcuna forma di censura né pretesa artistica; nel film erotico d’autore, poi, c’è un regista che punta sia all’estetica che al messaggio: indagine sociale o anche opinione politica di rottura con le tradizioni; il film erotico si sviluppa in diversi sottogeneri: dramma, thriller, di formazione.

Il film erotico nasce insieme al cinema dei primordi così come erotismo e pornografia esistevano nella genitrice fotografia: erano cortometraggi destinati alla diffusione clandestina. Per individuare i primi film erotici d’autore bisogna andare alla fine degli anni ’20 quando il boemo Georg Wilhelm Pabst nel 1929 girò in Germania due film con la statunitense Louise Brooks che preferì alla tedesca Marlene Dietrich per il lato oscuro della sua anima: Louise a 9 anni era stata violentata da un vicino di casa e la madre addirittura la rimproverò accusandola di aver provocato il “pover’uomo”; conseguentemente Louise crebbe incapace di provare amore e con un temperamento chiuso e problematico: “Per me, gli uomini carini, gentili, non sono abbastanza – ebbe a dichiarare – deve sempre esserci un elemento di dominazione nel rapporto. Pabst e Brooks girarono insieme “Il vaso di Pandora” e Diario di una donna perduta” basati su testi teatrali di Frank Wedekind dove l’attrice fu Lulù, figura che rimarrà nell’immaginario erotico collettivo; inoltre nel film vengono raccontati con estrema modernità gli impulsi sessuali, mettendo in scena una delle prime lesbiche del cinema. Altro film cui far risalire il genere è sempre tedesco, “L’Angelo Azzurro” del 1930 di Josef Von Sternberg con Marlene Dietrich. Per quanto riguarda l’Italia viene comunemente ricordato lo storico “La cena delle beffe” diretto da Alessandro Blasetti dal dramma di Sem Benelli in quanto mostra il primo seno nudo per gentile concessione della diva dell’epoca Clara Calamai che incorse in un anatema pontificio mentre il film fu vietato ai minori di 16 anni; ma il vero primo seno nudo è dell’anno prima in un altro film storico, “La corona di ferro” sempre diretto da Blasetti dove si intravede il seno della giovane e meno nota Vittoria Carpi neanche accreditata nel film in quanto semplice figurante, come sarà il resto della sua breve carriera.

Per trovare altre produzioni specifiche degne dell’etichetta film erotico bisogna andare negli Stati Uniti alla fine degli anni ’50. Il sessuologo Alfred Kinsey aveva pubblicato i suoi controversi saggi per i quali la Corte Suprema determinò, con grande modernità, che sessualità e oscenità non sono sinonimi – dichiarazione mai introiettata abbastanza sia in America che nel resto del mondo sessuofobo e ipocrita. Questo rivoluzionario cambiamento di prospettiva spinse alcuni produttori cinematografici indipendenti e registi sperimentatori a realizzare film a basso costo che creeranno una vera e propria ondata creativa che verrà definita sexploitation, da sex più exploitation, dove per exploitation (di sfruttamento) si intende un genere cinematografico che accantona la ricerca dei valori artistici per portare sullo schermo elementi più forti come l’esibizione esplicita di scene di sesso e di violenza, anche veicolando messaggi politici e sociali, come detto.

L’exploitation avrà diversi sottogeneri, come il sexploitation appunto, e la blaxploitation (da black +) girati da neri per neri e che raccontavano miserie quotidiane, droga, delinquenza e prostituzione; sottogenere dalla cui costola nacque il woman in prison movie, dove carcerate nere venivano torturate e stuprate. Ci fu poi la shoxploitation (da shock +) il cui intento era terrorizzare il pubblico con argomenti ritenuti tabù in film girati con estremo realismo come violenza, stupro, incesto e zoofilia; genere che a sua volta degenererà nello snuff movie (snuff, spegnere lentamente) che riprendono vere torture con le vittime che muoiono realmente: in pratica omicidi filmati momento per momento; con l’avvento degli smartphone e dei video faidate si è semplificata la pratica e la diffusione online di questi omicidi con tortura, anche in diretta streaming sul darkweb, e con un’ulteriore degenerazione nella pedo pornografia.

Altro sottogenere è il bikexploitation dedicato ai motociclisti il cui film capostipite sembra essere “Il selvaggio” del 1953 con Marlon Brando diretto dall’ungherese naturalizzato americano László Benedek. Altro sottogenere è il nazisploitation che si concentra su storie con nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, in cui generalmente ci sono donne prigioniere che subiscono violenze e crudeltà e il cui titolo più rappresentativo è “Ilsa, la belva delle SS” diretto da Don Edmonds nel 1975.

Ed ecco un elenco più o meno completo di tutte le exploitation immaginate nel fantasioso mondo cinematografico: Bruceploitation che cercavano di lucrare dalla recente morte di Bruce Lee, spesso con protagonisti sosia del celebre attore, mentre con la discoploitation di fine anni ’70 si tentò di lucrare sul successo di “La Febbre del Sabato Sera”. Con la Christploitation si ebbero e ancora si hanno film con forti connotazioni religiose cristiane che al contrario dei classici film a tema religioso sono filmetti in cui la religione è trattata grossolanamente e spesso con involontarie derive comiche, però quasi sempre con intento didascalico e moralistico. I teensploitation sono film interpretati da attori adolescenti per un pubblico adolescente che in genere trattano argomenti come droga, sesso, alcol, violenza e criminalità. Gli hippiesploitation furono film realizzati fra gli anni ’60 e ’70 incentrati sulla controcultura hippie e mostrano in maniera sensazionalistica stereotipi come l’uso di allucinogeni, marijuana e LSD, l’amore libero e tutto l’ambaradan psichedelico. I redsploitation sono film che hanno come protagonisti personaggi nativi americani quasi sempre però interpretati da attori bianchi truccati da indiani che di solito cercano vendetta sui loro aguzzini bianchi, quelli veri, dopo avere subito una lunga serie di brutali abusi. Non possono mancare i film con le monache in circostanze pericolose o erotiche, i nunsploitation; e i nani nelle midgetsploitation, film con persone affette da nanismo e altre simili patologie messe in genere in situazioni grottesche dove la loro particolarità fisica diventa l’argomento principale del film, come i freak show dei tempi precedenti; genere cui il controcorrente tedesco Werner Herzog dedicò il suo secondo lungometraggio nel 1970, “Anche i nani hanno cominciato da piccoli” con cui già fa tagliente critica sociale.

E ci sono anche i gaysplotation, ogni spiegazione è superflua, e i dyxplotation che sono con film con lesbiche. In Italia abbiamo avuto la Spencerhillsplotation a ricasco del successo della coppia Bud Spencer e Terence Hill, ideona venuta nientemeno che al serioso Mauro Bolognini e che ebbe protagonisti due pseudo sosia comunemente chiamati Simone e Matteo ma che rispondevano ai nomi di Paul L. Smith, nome reale di un attore americano, e Michael Coby che invece è il nome americano dell’italiano Antonio Cantafora: i due furono protagonisti di cinque film in un triennio in cui la coppia originale si era scoppiata per recitare separatamente in altro genere di film. Sempre da noi ci fu il Djangosploitation sulla scia del successo del film omonimo di Sergio Corbucci. E per concludere le esploitescion italiane abbiamo anche avuto l’etruriansplotation che erano film horror che avevano nella storia antichi manufatti etruschi. Abbiamo anche avuto la corrente del film giallo o thriller (oggi classificati senza suffisso) con contenuto erotico e/o violento.

Un genere molto frequentato nella nostra cinematografia di sfruttamento fu il mondo film, sorta di documentari shock che solleticavano le curiosità più basse con argomenti sensazionali, sensazionalistici e sensazionalizzati, che non si potevano certo trovare fra i classici documentari informativi di Mamma Rai; erano film che raccontavano argomenti tabù nella nostra cultura come le abitudini sessuali e i nudi dei popoli tribali, e le scene di violenza di certe iniziazioni rituali, o i rituali di morte, con riprese abbastanza realistiche da documentario appunto, anche se in molti casi la finzione filmica è evidente. Fu un genere assimilabile all’americano shoxploitation per la sua dichiarata intenzione di scioccare, e nonostante ciò ci furono dei mondo film di buona qualità che veicolavano una certa dose di materiale educativo e informativo. Sul finire degli anni ’70 da noi il genere andò ad estinguersi scivolando nel cannibal movie, etichetta che si spiega da sé, film che mettevano insieme avventura, splatter, erotismo e una reale violenza su animali che li fa accostare agli snuff movie; c’era però la morale finale: i protagonisti cosiddetti civili si rivelavano moralmente abietti e sul piano morale peggio degli stessi cannibali che se non altro erano selvaggi.

A tutti questi sottogeneri ne vanno aggiunti pochi altri ancora in produzione, anche con attori di rango che non hanno il suffisso exploitation ma rientrano nel pacchetto: rape and revenge con la protagonista (ma ce ne sono anche con personaggi maschili) che subisce prima una violenza sessuale, o una gravissima umiliazione o persecuzione come nel caso di protagonista uomo, con conseguente vendetta: è un genere di film di serie B che prendono smalto da attori di serie A pescati fra i 50-60enni che alternano questo tipo di produzioni ad altre di qualità superiore; fra questi attori ci sono sicuramente Denzel Washington, Bruce Willis, Nicholas Cage e Harrison Ford, con personaggi vittime di complotti, con le figlie o le mogli rapite, le famiglie sterminate, le carriere distrutte. E poi ci sono gli slasher con protagonista uno psicopatico omicida spesso mascherato che dà la caccia a un gruppo di persone, spesso adolescenti, meglio se adolescenti cattivacci che bevono e si drogano e non rispettano le raccomandazioni di mamma e papà, e meglio se in spazi circoscritti per facilitare la caccia e il cruento sterminio: la morale? fa’ il bravo bambino!

CONTINUA NEL PROSSIMO ARTICOLO CON UNO SGUARDO APPROFONDITO
AL NOSTRO CINEMA EROTICO E ALLA COMMEDIA SEXY ALL’ITALIANA

BBB – Breve storia delle riviste di cinema in Italia

Le riviste di cinema esistono in Italia da quando il cinema esiste, prima strettamente legate al nuovo “fenomeno” poi via via sempre più slegate dalle notizie specifiche, titolo trama eccetera, per allargarsi a considerazioni più ampie, finendo in alcuni casi col fare da “palestra” a intellettuali e teorici insieme ai cineasti veri e propri: gli sceneggiatori e i registi; queste “palestre” a loro volta si sono sempre più differenziate dai semplici rotocalchi informativi che mischiavano pubblicità e divismo, e dalle riviste di critica che nei decenni si fecero sempre più militanti fino a spingersi all’indagine sociologica che il cinema, non a torto, consentiva, e ancora consente.

In questo link possiamo sfogliare on line la rivista grazie al sito Internet Archive.

1900-1910. Quelle che oggi vengono considerate i prototipi delle riviste cinematografiche derivano a loro volta dai primi materiali stampati che in un modo o nell’altro parlavano del cinema nell’epoca oggi detta “pre-cinema”: erano bollettini tecnico-scientifici che discettavano del nuovo fenomeno fra i quali va ricordato l’Optical Lantern and Cinematograph Journal pubblicato a Londra fra il 1904 e il 1907 e su cui già si parlava del valore educativo e incantatorio delle immagini in movimento. A partire da quegli anni, al diffondersi di una vera e propria industria cinematografica, sulla carta stampata si accompagnano sia le analisi estetiche e tecniche che le vere e proprie dichiarazioni di poetica e di stile dei primi cineasti autodidatti: è così che la stampa comincia ad accompagnare la fotografia in movimento.

Oltralpe esisteva già la pubblicazione Pathé-Journal della casa di produzione omonima, ma in Italia ricordiamo come data di nascita delle riviste di cinema il 1907 a seguito dello sviluppo delle nostre prime imprese cinematografiche: quelle prime pubblicazioni erano non più che cataloghi di titoli e trame rivolti agli esercenti delle sale, prodotti con finalità pubblicitarie dalle stesse case di produzione; ne abbiamo un esempio in Lux del 1908 rivista della SIGLASocietà Italiana Gustavo Lombardo Anonima, del napoletano Gustavo Lombardo, appunto, che fu prima distributore per le regioni centrali ma anche produttore in proprio fino a fondare nel 1928 la Titanus. Nel primo decennio del Novecento le riviste cinematografiche erano già molte ma poiché l’interesse storico per questo materiale è un fatto recente, si sono conservate poche solo copie poiché a lungo ritenute materiale di scarsa importanza.

Erano per lo più foglietti settimanali o quindicinali che annunciavano le uscite e le programmazioni nelle sale, con uno spazio dedicato ad attrici e attori, i quali utilizzavano quegli spazi per pubblicizzare la loro partecipazione a progetti in corso, come anche la propria disponibilità in veri e propri annunci di ricerca di impiego. Le notizie sui film erano accompagnate da fotografie e brevi sinossi delle trame, generalmente ad opera degli stessi produttori e registi, con indicazioni tecniche sull’uso di lenti e obiettivi e delle specifiche di stampa delle pellicole – altro modo con cui verranno chiamati i film, anzi le film: l’articolo femminile era traslato dal sostantivo femminile pellicola di cui film era la traduzione. Ma già cominciano ad affacciarsi su quelle riviste ciò che oggi consideriamo recensioni: ce ne sono su L’arte muta, che si dedica ai divi del momento analizzandone l’arte sia sul palcoscenico che sullo schermo; e una delle prime firme che diverranno importanti sarà quella di Anton Giulio Bragaglia, regista critico e saggista nonché poliedrico sperimentatore e personaggio dell’epoca, che scrive su Apollon – Rassegna di arte cinematografica. È possibile sfogliare on line la rivista Apollon n° 1 del 1916 questo link sul sito del Museo Nazionale del Cinema dove si trovano digitalizzate molte altre riviste d’epoca.

Ricordando che le più importanti e prolifiche case di produzione erano sorte a Torino, Milano, Roma e Napoli, da lì vengono anche le prime riviste cinematografiche:

Il Cinema-Chantant: giornale artistico internazionale Napoli 1907
Il Cinema-Teatro: notiziario internazionale dell’arte cinematografica Roma 1910 
L’illustrazione cinematografica: rivista quindicinale illustrata Milano 1912
L’Olimpo: quindicinale illustrato dei teatri di varietà, caffè-concerti, cinema, teatri di vita dell’ambiente Livorno 1913
Le Maschere: rivista illustrata d’arte, teatro e cinema Catania 1914
La Rassegna del Cinema: arte e letteratura cinematografica Roma 1917
Cinema music-hall: rivista mensile del varietà e della cinematografia Taranto 1920
Corriere del cinema e del teatro Torino 1920

e poco altro ancora, ricordando che ciascuna rivista non aveva distribuzione nazionale e che per lo più morivano dopo poche o addirittura una sola pubblicazione; fra quelle più fortunate e durevoli ci sono state la torinese La Vita Cinematografica (1910-1934) e la veneziana Cinemundus (1918-1946) che avrà una nuova serie fra gli anni 1952-1966.

1920. I ruggenti Anni Venti, The Roaring Twenties, come gli americani ce li hanno tramandati con la loro letteratura il loro cinema e la loro musica che esplose nel jazz, furono per loro un creativissimo decennio di espansione industriale che sarebbe imploso con la tremenda crisi del 1929 e del proibizionismo. In Europa, che era appena uscita dalla Prima Guerra Mondiale e dalla febbre spagnola, i ruggenti Anni Venti ebbero altre espressioni: Les Année Folles in Francia e nel francofono Canada, Goldene Zwanziger in Germania e Felices Años Veinte in Spagna, denominazioni che mettono l’accento sulla follia l’oro e la felicità; ma da noi fu un decennio che, pur risentendo di quelle caratteristiche, si presentò più complesso: come in Germania – dove alla fine del conflitto il marco, il papiermark, stampato in gran quantità per pagare le spese della perduta guerra finì col non valere più nulla e le banconote vennero addirittura usate per accendere il fuoco, che almeno scaldava – in Italia si sentiva altrettanto forte l’incertezza del dopoguerra e si crearono i presupposti di un esperimento sociale: il nascente Fascismo si proponeva con istanze di rivendicazione sociale e partecipazione di massa alla cosa pubblica, salvo poi pretendere di imporsi come pensiero unico e avere una svolta autoritaria e repressiva.

In quel clima il cinema continua ad espandersi perché affare redditizio, e le sue riviste diventano una realtà stabile facendosi libretti con più pagine e a pubblicazione regolare; ad esempio, nel 1923 a Bologna viene creato Eco del Cinema: periodico cinematografico mensile e a Firenze Cinema: pubblicazione settimanale mentre nel 1927 a Palermo si tenta la via della rivista di lusso con Serraglio: quindicinale del teatro e del cinema, e tutte si distinguono, secondo un criterio odierno, per approssimazione e incompetenza: praticamente latita la qualità critica e letteraria degli interventi e gli autori sono ancora autodidatti che con molta faccia tosta spacciano una professionalità ancora in divenire: vengono esaltati i titoli e si discute delle qualità tecniche. Escono anche le prime monografie divistiche, ad esempio su Francesca Bertini, Rina De Liguoro, Leda Gys, Pola Negri e il naturalizzato americano Rodolfo Valentino per restare sui nomi italiani – non per adesione politica a un certo pensiero contemporaneo ma solo perché qui si parla del cinema italiano; dunque le riviste di cinema diventano anche intrattenimento per il pubblico e via via si separano dalle riviste più tecniche che più specificamente si vanno rivolgendo agli addetti ai lavori.

Cominciano ad affermarsi sulla carta stampata anche, e parallelamente, i primi nomi che professionalmente si affermano nell’industria cinematografica: Alessandro Blasetti, che fu regista e sceneggiatore ma anche montatore oltre che critico cinematografico, che fonda nel 1926 Il mondo e lo schermo, poi semplificato in Lo schermo, che l’anno dopo trasforma ancora in cinematografo con l’iniziale eccezionalmente (per l’epoca) minuscola, cui fa seguire ancora Lo Spettacolo d’Italia che però avrà vita più breve. Sul finire dei Venti e scavallando il seguente decennio escono, fra l’altro, il rotocalco La Rivista Cinematografica e Mondana a Palermo nel 1927 e Cine romanzo a Milano nel 1929, entrambe a forte imitazione dei modelli americani ed entrambe avviano un nuovo modello editoriale: il rotocalco cinematografico, che si svilupperà nei decenni a seguire.

Il rotocalco, che prende il nome dalla tecnica rotocalcografica, nasce in seguito a quella nuova possibilità di stampa; fino a quel momento erano in uso le rotative a lastre di piombo che verranno sostituite da cilindri di rame che consentono di riprodurre le sfumature di colore, le mezzetinte, migliorando di molto la resa della fotografie; e poiché ricco di immagini il rotocalco avrà grande diffusione popolare anche fra quanti erano semi o totalmente analfabeti: farsi vedere mentre si sfoglia un rotocalco è un nuovo status sociale. Il primo rotocalco italiano proviene dal settimanale Il Secolo Illustrato che era stato fondato nel 1913 come supplemento al quotidiano Il Secolo, che Arnoldo Mondadori acquistò nel 1923 e che due anni dopo cominciò a stampare con la nuova tecnica. Ma il grande successo del genere rotocalco si deve proprio alle pubblicazioni cinematografiche. Del 1929 abbiamo detto è la rivista Cine-Romanzo, e seguirono: Films e Cinema Illustrazione presenta nel 1930; Stelle nel 1933.

1930. E da qui in poi i rotocalchi cinematografici si moltiplicheranno talmente che cercare di ricordarli tutti produrrebbe uno sterile elenco. Utile ricordare che i rotocalchi erano in genere settimanali di 16 pagine circa che inventarono il cineromanzo, ovvero la narrazione romanzata della trama del film, che se da un lato invogliava ad andare in sala dall’altro consentiva di immaginarsi al cinema a chi non poteva, con uno stile che riecheggiava i feuilleton ottocenteschi, mentre le vite dei divi venivano raccontate come vere e proprie favole di principi e principesse: vite favolose; cineromanzi che accompagnati da fotografie e didascalie saranno i capostipiti dei fotoromanzi che verranno.

1940. Nei primi anni Quaranta insieme al cinema neorealista arriva anche la prima pubblicazione di stampo neorealista: esce prima col nome di Taccuino che presto viene cambiato in Si gira che annovera fra i suoi collaboratori nomi ancora oggi noti: Vitaliano Brancati, Carlo Lizzani, Antonio Pietrangeli e Cesare Zavattini, fra gli altri. E nascono in quegli anni gli scritti d’autore, che spostano la semplice recensione verso una vera e propria critica, teorica ed estetica del mezzo, con spazio all’autore che esprime un suo stile e un suo linguaggio; qualcosa di così specialistico e intellettuale che non trovando più spazio sulle riviste popolari comincia a spostarsi su altri tipi di pubblicazioni: i primi libri sul cinema e più estesamente su altri tipi di riviste che mischiavano i discorsi sul cinema a considerazioni di tipo politico e sociale: L’Europeo, Oggi, Omnibus, Mondo.

La prima metà di quegli anni Quaranta sono anche gli anni della Seconda Guerra Mondiale alla fine della quale c’è da noi il crollo del fascismo, che se da un lato aveva dato un forte impulso all’industria cinematografica – intesa però come strumento di propaganda e di controllo delle masse – dall’altro aveva messo su una cinematografia, quella detta dei telefoni bianchi, che raccontava benesseri e felicità totalmente fasulli, favole senza nessun appiglio con la realtà; oppure si producevano drammi storici con l’intento di esaltare l’italianità. Da quel crollo di ideali e di cinema patinato o in costume nasce il neorealismo, che da un lato è un movimento di presa di coscienza e dunque di ideologia, e dall’altro è un necessario modello produttivo povero, che gira fuori dagli studi direttamente sulle strade e fra le macerie, prendendo dalla strada molti attori non professionisti ad affiancare quei professionisti che non hanno il birignao della recitazione sofisticata. E a parlare di cinema su quelle riviste ci sono anche Vittorio De Sica, Pietro Germi, Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Camillo Mastrocinque, Giuseppe De Santis, Michelangelo Antonioni.

Alla fine della guerra venne anche istituita una commissione per l’epurazione di registi e sceneggiatori che avevano collaborato col fascismo, e in realtà si arrivò solo a una blanda punizione e nomi come Goffredo Alessandrini, Carmine Gallone e Augusto Genina furono solo sospesi dall’attività, salvo poi rimettersi al lavoro pochi anni dopo: niente a che vedere con le feroci persecuzioni della contemporanea Hollywood che però se la prendeva coi comunisti, perché erano gli anni in cui si inaugurò la cosiddetta guerra fredda. Nel 1946 i nostri critici cinematografici, ormai diventati una realtà professionale, si sono organizzati nel sindacato SNGCI, Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, che pubblicherà il suo Cinemagazine che copia il nome dalla preesistente rivista francese. Mentre Ferrania, che produce pellicole e lampade, pubblica una propria rivista col nome dell’impresa.

Yvonne De Carlo che si infila fra Sophia Loren e Gina Lollobrigida per non perdere lo scatto al Berlin Film Festival del 1954

1950. Negli anni Cinquanta si assesta e si arricchisce il panorama delle riviste cinematografiche che cominciano anche a parlare di un nuovo fenomeno, la televisione, e ormai anche quasi tutti i quotidiani hanno le loro rubriche di cinema; arrivano inoltre le prime collane di libri sul cinema con monografie su registi e sceneggiatori, e dato l’ormai gran numero di pubblicazioni, e di penne specificamente addette, si registra uno strano corto circuito: le recensioni sulle riviste cominciano a parlare dei libri e della altre riviste, e viceversa, in un focus narrativo che si allontana dal principale oggetto del contendere: il cinema. La critica omaggia se stessa: quanto lontani si è dalle prime pubblicazioni con quegli scarni e ingenui bollettini, bollettini che però vengono ancora pubblicati dalla Lux Film e dalla Titanus, e si deve a quest’ultima testata e alla genialità del suo patron Gustavo Lombardo l’invenzione della rivalità fra Sophia Loren e Gina Lollobrigida cui tanti ancora oggi credono, e che ha fatto scuola fra i rotocalchi scandalistici che ancora oggi inventano rivalità e amori e tradimenti fino a scadere nel più becero pettegolezzo cui ormai si aggrappano solo quei disperati che vivacchiano ai margini dello show business, altro che Loren e Lollobrigida.

1960. Negli anni Sessanta, mentre aprono nuove testate, resistono in edicola Rivista del cinematografo, Bianco e Nero e Filmcritica, mentre Cinema Nuovo diretto da Guido Aristarco rallenta e da quindicinale diventa bimestrale. Altre riviste degne di nota sono Cineclub, vissuta fino al 1998, e Cineforum che è ancora in edicola e che nacque a Bergamo nel 1961 come bollettino della cattolica Federazione Italiana Cineforum che riuniva le associazioni culturali senza scopo di lucro sorte su tutto il territorio nazionale finalizzate alla diffusione e alla preservazione della cultura e dell’arte cinematografica, che fra le varie attività – dibattiti, conferenze, fondazioni di biblioteche e cineteche, produzione di film sperimentali – organizzavano le proiezioni di quei film che non trovavano spazio nella distribuzione regolare, oggi detta mainstream: tali luoghi di ritrovo si chiamarono Cine Club, poi cineclub o cineforum, copiati dai francesi Ciné-Club dagli inglesi Film Society e dai tedeschi Filmfreunden; cineclub che ebbero, appunto, la loro rivista omonima.

Ciak sul set di un film sperimentale fascista dei CineGuf.

Quei club erano guidati da un’ideologia politica sempre più spostata a sinistra e via via si perde la memoria dei primi sperimentali circoli cinematografici italiani degli anni Venti e Trenta e dei fascisti CineGuf. Coi cineclub viene anche lanciato il concetto giuridico di cinema d’essai o film d’essai che abbrevia la qualifica “Cinéma d’art et d’essai” (cinema d’arte e di prova) che si erano attestati in Francia sin dagli anni ’40 come sale in cui si faceva una programmazione di film sperimentali di derivazione avanguardista e indirizzati a un pubblico di nicchia, più colto; qui da noi questi cosiddetti cineclub arrivarono vent’anni dopo e la prima sala italiana ad avvalersi della qualifica legale di “Cinema d’essai” fu il Quirinetta a Roma nel 1960, cui seguirono il Cinema Centrale a Milano e il Nuovo Romano a Torino. Questa capillarizzazione dei club sfornarono subito una nuova generazione di spettatori più preparati che portarono al successo commerciale film d’autore come “La dolce vita” di Federico Fellini e “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, entrambi del 1960; cosicché i club, ora incalzati dalle sale mainstream che scoprivano il cinema d’autore, si riorganizzarono creando l’Associazione Italiana Amici Cinema d’Essai (AIACE) come stimolo verso un circuito di sale con una programmazione alternativa altrettanto mainstream.

1970-2023. Negli anni Settanta escono Edav Educazione Audiovisiva, ancora in edicola, e Cinema & Cinema che chiuderà i battenti nel 1994. Dagli anni Ottanta in poi possiamo dire di essere entrati nell’era odierna con testate che aprono e chiudono come nei decenni passati. Resistono le riviste specialistiche Immagine. Note di Storia del Cinema e Segnocinema, mentre fra le riviste più commerciali troviamo in edicola Nocturno, che si specializza nei film di genere horror e poliziesco arrivando ai film hard passando per l’exploitation; Best Movie che fondata nel 2002 è stata inizialmente distribuita gratuitamente nei cinema e che dal 2004 esiste in quattro versioni: continua la gratuita ma in versione ridotta, più completa la versione in edicola e solo in abbonamento con spedizione a casa la versione da collezione con copertina priva di didascalie, e infine la versione online dove è disponibile il download gratuito.

La parte del leone ce l’ha a tutt’oggi Ciak, fondata nel 1985 come mensile legato a TV Sorrisi e Canzoni e già l’anno dopo, nel 1986, ha dato vita al premio Ciak d’Oro, premio per il cinema italiano, che ha avuto anche le sue serate tv sulle reti Mediaset e che si inventa sempre nuovi premi – Ciak d’oro Stile d’Attore e Stile d’Autore o Premio speciale Aspettando il Festival, tanto per dirne un paio – che lasciano il tempo che trovano ma che comunque spargono a piene mani polvere di stelle.

Fra tutte queste avventure editoriali sul cinema, nel 1953 ci fu il curioso esperimento Lo Spettatore che visse di un solo numero e che come un cineromanzo monografico presentava il film a episodi “L’amore in città”. Andremo a darci un’occhiata, sia alla rivista che al film.

Cassandra Crossing, rivisto in tv

Il virus si trasmette per via aerea, si manifesta prima con febbre alta e poi attacca i polmoni. Non esiste cura ed è letale. Sembra la descrizione dell’attuale Covid detto CoronaVirus, ma nella realtà narrativa non ha un nome e viene liberato da un incidente all’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, dove degli improvvidi terroristi svedesi volevano attivare una bomba. Mi rimane la domanda senza risposta: perché svedesi? Negli anni ’70 – il film è del 1976 – l’Europa pullulava di gruppi eversivi ma non se ne hanno notizie dalla Svezia. Cinematograficamente parlando gli anni ’70 sono quelli dei disaster movie e qui di seguito elenco i principali: “Airport” 1970, “l’Avventura del Poseidon” 1972, “Terremoto” e “L’Inferno di Cristallo” 1974, “Airport ’75”, “Inondazione” 1976, “Valanga” 1978, “Meteor” 1979.

Da notare che sono tutte produzioni statunitensi, e non certo tutte di prima qualità: è dunque un caso che la stampa americana abbia stroncato questo film? In qualche caso le critiche sono giustificate ma il tono generale è da zero in condotta: il New York Times: “Profondamente e offensivamente stupido” con una Sophia Loren “fuori ruolo” e con Ava Gardner “terribile in un ruolo terribile” e qui c’è del vero, ma la signora spiegò: “The real reason I’m in this picture is money, baby, pure and simple”; così il “Chicago Tribune”: “Un’involontaria parodia di un film catastrofico”; Per “Variety” è “Un film catastrofico stanco, forzato e a tratti involontariamente divertente”; per il “Los Angeles Time” è “Un film catastrofico di nome e di fatto”; e per “The Monthly Film Bulletin” è “che alla distanza, il bello è che Cassandra Crossing non è proporzionato in nulla: dalle interpretazioni alla trama, allo stile della ripresa e agli effetti speciali: si supera costantemente nella sua monumentale sciocchezza.” Già all’anteprima per la critica il film era stato fischiato. Giudizi ingenerosi è dir poco se consideriamo i titoli che hanno preceduto e seguito questa produzione. Ma bisogna ragionare che la produzione era anglo-italiana, messa su dall’inglese Lew Grade e dall’italiano Carlo Ponti, marito di Sophia; ma soprattutto nel film si sostiene, come dal romanzo da cui è tratto, che l’Intelligence americana stava studiando in segreto e al di fuori di ogni protocollo, presso l’OMS a Ginevra, il virus sfuggito al controllo, e gli americani sono molto attenti all’immagine che vogliono dare di sé al resto del mondo: su questo – virus e americani – tornerò alla fine.

Il romanzo è di Robert Katz, che non è l’ultimo arrivato: è un giornalista investigativo americano, scrittore pluri-premiato, studioso della Seconda Guerra Mondiale e della storia d’Italia; ha collaborato con la RAI e il primo film tratto da un suo libro è “Rappresaglia” del 1973, seconda regia del greco George Pan Cosmatos, e prodotto sempre da Ponti. Segue questo “Cassandra Crossing” col medesimo terzetto autore-produttore-regista, una storia di fantasia che però ha seri riferimenti alla Storia con la maiuscola. Se il giornalista investigativo parla di virus letali in laboratori segreti è perché sa qualcosa, ma non può parlare apertamente; dunque immagina una fiction in cui per un incidente il virus esce dal laboratorio e ci costruisce su una trama thrilling di tutto rispetto.

Il paziente “zero” che si intrufola sul treno Ginevra-Stoccolma è interpretato dallo svedese naturalizzato italiano Lou Castel, già protagonista dell’opera prima di Marco Bellocchio “I pugni in tasca”. E devo convenire che la prima parte film sembra un B-movie: l’azione terroristica è decisamente girata e montata male, con la musica di Jerry Goldsmith troppo enfatica; i vari personaggi entrano in scena e vengono presentati, quasi teatralmente, con duetti-battibecchi tra Sophia Loren-Richard Harris e Ava Gardner-Martin Sheen davvero imbarazzanti, dialoghi brillanti con battute ad incastro da sit-com, e qui i critici americani hanno ragione. Solo quando l’azione prende il sopravvento il film si fa serio e avvincente: un paio di personaggi non sono quello che sembrano e neanche quello che ci fanno immaginare, in un doppio svelamento: il prete di OJ (Orenthal James) Simpson ha un tatuaggio sul polso che lo fa intendere malvivente travestito ma poi si rivela poliziotto che insegue un trafficante di droga; Martin Sheen non è soltanto il giovane amante annoiato della matrona Ava Gardner, ma il trafficante di droga che a sua volta si rivela un acrobatico eroe (era alpinista) nel tentativo di salvare il treno in corsa. Sophia Loren, moglie di cotanto marito produttore, è di servizio nel ruolo della ex moglie (due matrimoni e due divorzi che si concluderanno con un terzo) del medico di fama Richard Harris che si ritroverà a gestire l’emergenza sanitaria sul treno, ma anche una salvifica rivolta.

Perché l’emergenza sanitaria lascia il posto al vero catastrofismo: il treno, sigillato e presidiato da militari in tuta biologica, corre verso il disastro perché è stato deviato e dovrà passare su un vecchio ponte di ferro ad arco – come ce ne sono in tutta Europa sulla scuola di Gustave Eiffel – da anni in disuso, che i locali chiamano Kasundruv, dalla principessa Cassandra, veggente di sventure, perché conduceva verso la sventura di un campo di concentramento – riconvertito in campo sanitario e verso cui è stato indirizzato il convoglio in quarantena. Il ponte è vecchio e non reggerà il peso del treno che corre veloce verso uno spettacolare disastro.

Diventa essenziale nella storia il vecchio ebreo interpretato da Lee Strasberg, direttore dell’Actors Studio, attraverso cui apprendiamo la storia del ponte e il cui sacrificio salverà molte vite. Altri interpreti sul treno sono: Lionel Stander come capotreno, Ray Lovelock e Ann Turkel come giovane coppia che sfiora la tragedia, e una già anziana Alida Valli in un piccolo ruolo. Nel palazzo dell’OMS a Ginevra dibattono Burt Lancaster nello scomodo ruolo del colonnello americano che insiste nel contenere il contagio anche a costo di sacrificare l’intero treno con tutti i passeggeri, e la dottoressa che vuole salvarli, interpretata dalla svedese Ingrid Thulin.

Del regista George Pan Cosmatos resta da dire che nonostante sia stato strapazzato dalla stampa statunitense ha poi diretto con Sylvester Stallone “Rambo 2” e “Cobra” e il successone western “Tombstone” chiudendo la carriera con un totale di soli 10 film. “Cassandra Crossing” ha ottenuto in Italia e in Europa un ottimo successo, e coi soli incassi del Giappone (i giapponesi amano il catastrofico) sono state coperte tutte le spese di produzione.

E per concludere un’ipotesi di complottismo accennata in questo video che rimanda a contro.tv.