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Mad Max: Interceptor – opera prima di George Miller

Questo film del 1979 è l’inizio di una trilogia che appassionerà il mondo intero, cui si aggiungerà un tardivo quarto capitolo “Mad Max: Fury Road” nel 2015 e un quinto è in uscita nell’estate 2024 col titolo “Furiosa: A Mad Max Saga”. È l’opera prima di George Miller, regista che in seguito pur mantenendosi fedele a stile e tematiche non mancherà di misurarsi anche con altri generi. È anche erroneamente indicato come il debutto di Mel Gibson che però era avvenuto un paio d’anni prima con “Summer City – Un’estate di fuoco” dopo tanti piccoli ruoli nella tv australiana, poiché protagonisti e film vengono tutti da lì: periferia estrema delle produzioni cinematografiche che nei decenni successivi ha dato molte star al cinema internazionale: in fondo all’articolo la lista dei nomi.

Ma come cinematografia specifica quella australiana faticherà sempre a decollare nonostante le molte eccellenti produzioni che verranno. È nel 1978 che si registrò l’anno di svolta per un’industria cinematografica ancora inesistente con ben 13 film piazzati al Festival di Cannes (rimando all’ultimo paragrafo chi volesse approfondire i titoli e i nomi di Cannes ’78) e possiamo affermare che la cinematografia australiana arriva per la prima volta al mondo intero grazie a questo film del 1979, il primo di una saga che viene definita post-apocalittica fantascientifica e distopica ma che effettivamente in questo debutto a bassissimo costo c’è ancora ben poco di quello che verrà. Ma andiamo con ordine partendo dall’autore debuttante.

Byron Kennedy e George Miller al missaggio del sonoro del film

George Miller si è appassionato al cinema mentre ancora studiava medicina e risalgono a quel periodo i suoi primi esperimenti: durante il suo ultimo anno all’Università del Nuovo Galles del Sud realizza insieme a uno dei suoi fratelli un cortometraggio di un minuto che vince il primo premo di un concorso studentesco, e il premio era un corso di cinema all’Università di Melbourne dove conosce Byron Kennedy, insieme al quale gira il corto “Violence in cinema: part 1” molto splatter e molto satirico sulla violenza nei film che ottenne consensi anche fuori dall’Australia e questo spinse i due a creare una propria casa di produzioni, la “Kennedy Miller” con la quale si avvieranno verso questo progetto: insieme scrivono la sceneggiatura ispirati dal film australiano “Stone” di Sandy Harbutt del 1974 che raccontava le gang di motociclisti che terrorizzavano gli isolati abitanti dell’outback e che aveva nel cast molti di quegli stessi criminali.

All’inizio del film una scritta ci avverte: “Few years from now…” a pochi anni da adesso, un futuro assai prossimo e senza effetti speciali: c’era la fantasia ma non c’erano i soldi e il grosso dello sforzo produttivo è andato nella realizzazione delle auto che insieme alle motociclette creano spettacolari scene d’azione su strada che sono l’hard-core del film – che oggi va visto come documento di quell’epoca: un ipotetico futuro che per noi è già vintage.

la V8 Interceptor

Maxwell Rockatansky, che poi si meritò l’appellativo di Mad Max, è un poliziotto che guida una V8 Interceptor per la realizzazione della quale sin dal 1976 durante la fase di pre-produzione, George Miller, consapevole che l’automobile sarebbe stata insieme agli attori una protagonista del suo film d’azione, incaricò lo scenografo Jon Dowding di realizzare una vettura che fosse “nera australiana e cattiva”; l’attenzione andò subito a un’auto di costruzione esclusivamente australiana, la Ford Falcon XB GT Coupé prodotta in un numero esiguo e che oggi è un rarissimo esemplare da collezione; e Dowding incaricò una società di personalizzazione di auto per modificarla; lì Peter Arcadipane, Ray Beckerley e John Evans, con il decoratore di carrozzerie Rod Smithe, hanno trasformato l’auto secondo le esigenze cinematografiche.

Fra le altre variazioni di vetture c’è una versione di side-car con la seduta laterale coperta da una mezza sfera che gli conferisce un aspetto un po’ spaziale: la saga di “Star Wars” era cominciata nel ’77 e aveva già cominciato a influenzare l’immaginario collettivo. Mentre le motociclette usate dalla gang sono delle Kawasaki che la produzione era riuscita a ottenere in dono assicurando un rientro in pubblicità, come fu, e che sono state appositamente scenografate da una ditta specializzata che sfortunatamente fallì subito dopo l’uscita del film, mentre un’altra azienda giapponese, dato il successo delle Kawasaki modificate, ne ha ricreato delle copie per il mercato dei collezionisti fino ai primi anni 2000.

James Healey

Era il momento di comporre il cast. Miller avrebbe voluto un noto attore americano per garantire al film più ampia visibilità e andò anche a Hollywood per prendere contatti, ma resosi conto che l’attore da solo gli sarebbe costato l’intero budget tornò a Melbourne deciso a scritturare giovani sconosciuti a basso costo. La prima scelta fu l’irlandese lì trasferito con la famiglia James Healey che aveva già avuto dei ruoli in una serie tv ma che al momento lavorava in un macello aspettando di debuttare sul grande schermo: quale migliore occasione? ma l’attore lesse la sceneggiatura e rifiutò la parte perché la trovò “poco accattivante” e soprattutto il personaggio parlava poco mentre lui si riteneva un grande interprete: finirà col recitare sempre in soap opera come “Dinasty” e “Santa Barbara”.

Mel Gibson e Steve Bisley

A quel punto entra in scena Mel Gibson con la classica narrazione dell’amico che accompagna un amico e ottiene la parte al posto suo. La produzione si era rivolta agli insegnanti del NIDA, National Institute od Dramatic Art, specificando che cercavano dei giovani “con i capelli a punta”: era esplosa l’epoca punk; si presentò Steve Bisley accompagnato da Mel: entrambi avevano debuttato in “Summer City” ed entrambi furono scritturati ma Steve, da buon amico, ebbe il ruolo del buon amico. Gibson accettò un contratto secondo cui sarebbe stato pagato solo dopo l’uscita, e la buona riuscita, del film: fu lungimirante, al contrario di James Healey. Ma se Gibson divenne una star internazionale il suo amico Bisley si è mantenuto fermo su una carriera di tutto rispetto anche se in secondo piano. Nel ruolo della moglie del protagonista Joanna Samuel che resterà un’attrice di genere australiana.

Hugh Keays-Byrne

Più interessante il casting della banda di motociclisti: la maggior parte furono scritturati fra i veri fuorilegge che sulle moto battevano le superstrade australiane, appartenenti al clan dei Vigilanties e tre di essi, Hugh Keays-Byrne, Roger Ward e Vincent Gil avevano già recitato, come detto, in “Stone”. Il primo è qui nel ruolo del capobanda Toecutter, il tagliaditadeipiedi, e nel cinema troverà il suo futuro fino a concludere la sua carriera nel sequel di Mad Max del 2015. Ma intanto, data la scarsezza dei mezzi produttivi tutti la banda si era spostata a proprie spese da Sydney a Melbourne: cosa non si fa per l’arte.

Come sappiamo il film fu un clamoroso successo internazionale ma con un sostanziale distinguo: il film che era costato fra i 200mila e i 400mila dollari australiani (fonti diverse danno cifre diverse) incassò in patria più di 5 milioni raggiungendo in poco tempo il record mondiale di 100 milioni entrando nel Guinness dei Primati come il miglior film col minor costo e il maggior incasso, superato solo vent’anni dopo nel 1999 da “The Blair Witch Project”; ma per le manipolazioni subite l’unico Paese in cui il film non ebbe successo furono proprio gli Stati Uniti d’America. Vinse tre premi tecnici all’Australian Film Institute Awards per montaggio, sonoro e colonna sonora firmata da Brian May, compositore che aveva debuttato al cinema l’anno prima col B movie “Patrick” che ebbe un curioso sequel: avendo avuto successo nelle sale italiane, il regista di B movie italiani Mario Landi ne firmò un sequel apocrifo col titolo “Patrick vive ancora” in una deriva sexy come suggerisce la presenza di Carmen Russo nel cast. Tornando al film: vinse anche il premio speciale della giuria al Festival internazionale del film fantastico di Avoriaz.

Visto oggi il film, senza conoscerne il contesto, è un filmetto che sente il peso degli anni ed è davvero il documento di un’epoca e lo specchio di chi lo ha portato al successo, e va visto come il capostipite di una saga che ha avuto ben altro spessore. In ogni caso, dato il suo clamoroso successo che ha portato la cinematografia australiana nel mondo, esso è ancora oggi celebrato sul continente con feste e parate, tributi e anche ritrovi. Con i suoi sequel Mad Max è diventato un fenomeno culturale e con il suo futurismo distopico e apocalittico ha ispirato film come “1997: Fuga da New York” (John Carpenter 1981), la saga di “Terminator” (James Cameron 1984), “The Hitcher” e “I banditi della strada” (Robert Harmon, 1986 e 2004), oltre ai videogiochi “Fallout” e al manga “Ken il Guerriero”. Il prossimo capitolo “Interceptor – Il guerriero della strada” porterà la narrazione a un livello decisamente superiore… e da qui in poi non si parla più del film.

Richiami e rimandi bikexploitation

Vale la pena ricordare che inserendosi di diritto nel filone dei film con motociclette e motociclisti si può addirittura cominciare dal cinema muto che Miller ha detto di amare con “Lo spaventapasseri” dove Buster Keaton cavalca un sidecar Harley Davidson.

Un altro caposaldo è “Il selvaggio” con Marlon Brando che cavalcava una Triumph Thunderbird 6T del 1950, film diretto da Laszlo Benedek nel 1954 che è considerato un capostipite del genere bikexploitation che è esploso a metà degli anni ’60, e fra i film più noti c’è “I selvaggi” del 1966 che è considerato uno dei più grossi successi commerciali di Roger Corman: con un budget stimato di soli 360.000 dollari, il film ne incassò, solo negli Stati Uniti, circa 14 milioni; anche Corman, come Miller più di un decennio dopo, scritturò come comparse alcuni Hell’s Angels che però durante le riprese crearono non pochi problemi alla troupe. Sempre incentrato su quei terribili Hell’s Angels ci fu l’anno dopo “Angeli dell’inferno sulle ruote” di Richard Rush con Jack Nicholson in uno dei suoi primi ruoli da protagonista.

Si arriva al 1969 con un film che resterà nella storia: “Easy Rider” di e con Dennis Hopper, Peter Fonda e ancora Nicholson, un film il cui merito è andare oltre le narrazioni più o meno fuorilegge dei motociclisti, che al contrario qui sono degli innocui pacifisti che raccontano l’avanzata della contro cultura americana, la contestazione giovanile e l’antimilitarismo; il titolo viene da “Easy Life” che fu il titolo americano per il nostro “Il sorpasso” di Dino Risi a cui il film si ispira. E restando in Italia voglio ricordare la Moto Guzzi “Falcone Sport” che Alberto Sordi cavalca in “Il vigile” di Luigi Zampa del 1960.

Un po’ di star internazionali provenienti dal nuovo continente

In elenco Judy Davis, Cate Blanchett, Nicole Kidman con la sua amica Naomi Watts, Margot Robbie e Toni Collette fra le attrici; fra gli attori Hugh Jackman, Jason Clarke, Joel Edgerton, Guy Pearce, Geoffrey Rush, i fratelli Chris e Liam Hemsworth, il compianto Heath Ledger e Russell Crowe e Sam Neill che per correttezza sono neozelandesi; come neozelandese è Jane Campion fra i registi, con gli australiani Peter Weir, Phillip Noyce e Gillian Armstrong che proprio lo stesso anno di questo film firmò il più artistico “La mia brillante carriera” con Judy Davis che andò a vincere il BAFTA nel Regno Unito e Sam Neill che da lì in poi ha sviluppato una sua brillantissima carriera.

Approfondimento sul Festival di Cannes del 1978

Fra i titoli australiani vanno ricordati “The Chant of Jimmie Blacksmith” di Fred Schepisi e “Il sapore della saggezza” di Bruce Beresford. Quell’anno c’erano in concorso e fuori concorso molti grandi sui quali è interessante dare un’occhiata: “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi che vinse la Palma d’Oro e che si aggiudicò anche in ex aequo con “La spirale” di Krzystof Zanussi il Premio Ecumenico, mentre il Grand Prix Speciale della Giuria è stato assegnato ex-aequo a “Ciao maschio” di Marco Ferreri e “L’australiano” (che non è un film australiano ma è il titolo italiano per “The Shout”) del polacco Jerzy Skolimowski con produzione britannica; altro ex aequo per la migliore attrice a Jill Clayburgh per “Una donna tutta sola” di Paul Mazursky e Isabelle Huppert per “Violette Nozière” di Claude Chabrol; miglior attore Jon Voight per “Tornando a casa” di Hal Ashby; miglior regista Nagisa Ōshima per “L’impero della passione”; Gran Prix tecnico a “Pretty Baby” del francese Louis Malle che si era spostato negli Stati Uniti perché legatosi a Susan Sarandon protagonista di questo suo primo film americano; e per finire il premio FIPRESCI a “L’uomo di marmo” di Andrzej Wajda. Ma erano presenti anche titoli come il grandioso “Molière” di Ariane Mnouchkine, “Ecce Bombo” di Nanni Moretti, “Fuga di mezzanotte” di Alan Parker, “L’ultimo valzer” di Martin Scorsese, “Nel regno di Napoli” di Werner Schroeter. Non c’è da stupirsi se in questo contesto gli australiani venissero considerati degli alieni.

Comandante

Edoardo De Angelis è un regista napoletano, anzi un autore, da tenere d’occhio; e la napoletanità non è solo una nota biografica ma lo specifico della sua cinematografia. In una decina d’anni ha realizzato cinque film in una parabola crescente sia dal punto di vista dell’impatto su critica e pubblico che su quello prettamente stilistico. Si è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 2006 con il cortometraggio “Mistero e passione di Gino Pacino” dove racconta in napoletano stretto la storia surreale di un uomo che sogna di fare l’amore con Santa Lucia e che per il senso di colpa perde la vista: parabola tragica e grottesca; cortometraggio che va a finire in Serbia al “Küstendorf Film and Music Festival” dove, vincendo il premio della critica, incontra Emir Kusturica che lo supporterà nella realizzazione del primo lungometraggio, co-producendone nel 2011 l’opera prima “Mozzarella Stories”, Luca Zingaretti fra gli altri, una storia altrettanto grottesca e visionaria che continua a muoversi nell’ambiente partenopeo raccontando però una storia originalissima, che all’epoca pochi hanno visto ma che non passa inosservata alla critica; Francesco Alberoni scrisse sul “Corriere della Sera”: “Gli artisti spesso intuiscono il senso dei tempi. Lo ha fatto Edoardo De Angelis nel suo bellissimo e divertente film”. Un film che oggi varrebbe la pena recuperare.

Il talentuoso autore non perde tempo e con l’amico Pierpaolo Verga fonda la casa di produzioni “O’Groove” con la quale realizza nel 2014 il noir napoletano “Perez.”, Zingaretti protagonista, film col quale arrivano i primi riconoscimenti importanti: ai Nastri d’Argento viene candidato per il miglior soggetto e si aggiudica due premi, a Zingaretti va il Premio Hamilton Behind the Camera e a Simona Tabasco nel ruolo di sua figlia il Premio Guglielmo Biraghi; oltre al Globo d’Oro sempre al protagonista.

Nel 2016 dirige un episodio dei tre del collettivo “Vieni a vivere a Napoli” e l’intenso, tragico e doloroso, “Indivisibili”, che nella storia di due gemelle siamesi ritrova uno sprazzo di grottesco, ma ancora più amaro e feroce: le due gemelle si esibiscono come cantanti “fenomeno” nelle feste di paese, sfruttate dalla famiglia in un ambiente di squallida periferia partenopea, e arriva una caterva di altri riconoscimenti fra candidature, su cui sorvolo, e premi ricevuti: 6 David di Donatello, 6 Nastri d’Argento, 6 Ciak d’Oro, un Globo d’Oro, 4 premi minori al Festival di Venezia e altri 3 al Bari International Film Festival. Il 2018 è l’anno di un altro film di storie dolorose e di solitudini ancora ai margini del capoluogo campano, “Il vizio della speranza” e sono altri riconoscimenti fra cui finalmente quello al miglior regista, ma lontano, al Tokyo International Film Festival, che non è poco. Nel 2020 si dedica al teatro con una “Tosca” per il teatro San Carlo di Napoli, e la televisione realizzando per la Rai il primo di una trilogia delle commedie “in famiglia” di Eduardo De Filippo: “Natale in casa Cupiello” cui seguiranno “Non ti pago” e “Sabato, Domenica e Lunedì”. Il biennio 2021-22 lo dedica alla serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti” dal romanzo di Elena Ferrante.

E si arriva a questo “Comandante” con un triplo salto mortale: è il primo film che De Angelis gira lontano da Napoli, è il primo film italiano moderno ambientato in un sottomarino (c’è un precedente del 1955 che diremo) ed è il suo primo con un budget da film internazionale: 14 milioni e mezzo di euro con il pieno sostegno della Marina Militare che ha aperto alla produzione i suoi archivi con i diari di bordo di Salvatore Todaro, il personaggio protagonista interpretato da Pierfrancesco Favino sempre più a suo agio nel riprodurre le cadenze e i dialetti dei personaggi biografici che sempre più spesso interpreta. Alla sua uscita nell’autunno 2023 il film ha incassato poco più di 3 milioni restando assai lontano dal suo costo ma c’è ancora da rifarsi con i diritti tv – al momento è su Paramount+ – con lo streaming, i DVD, il mercato estero su cui non è ancora uscito e il probabile ritorno di fiamma nel pubblico di casa nostra dopo gli eventuali auspicabili premi nostrani.

il vero Salvatore Todaro

Pur iscrivendosi di diritto nel genere bellico, e nel sottogenere sottomarini, il film è crepuscolare, intellettuale, poetico. De Angelis continua la sua ricerca sui personaggi a disagio nel loro contesto, e con lo scrittore Sandro Veronesi che debutta come sceneggiatore, scrive un film con dialoghi e monologhi che hanno una cadenza da tragedia classica dove al protagonista si contrappone un coro, con momenti surreali, come quando tutti, comandante in testa, marciano cantando e ritmando “Parlami d’amore Mariù” come dedica d’amore alle donne che avevano lasciato a casa, e dedicata dal compositore Nino Bixio alla propria moglie, su testo di Ennio Neri per il film “Gli uomini, che mascalzoni…” diretto da Mario Camerini nel 1932 e per la voce del 30enne Vittorio De Sica; la canzone ebbe così tanto successo da divenire per tutti gli italiani un inno all’amore che successivamente fu cantata dai più grandi, anche della lirica.

Coraggiosi momenti surreali, nel film, e grotteschi persino, che si integrano perfettamente nella narrazione riuscendo a coinvolgere ed emozionare, perché il linguaggio alto e ricercato, poetico, da tragedia classica appunto, si sporca dei tanti dialetti che il sommergibile contiene nella sua varia umanità, così sintetizzato dal personaggio del comandante: “Questa è l’Italia unita. Arriva qui un livornese, un siciliano… sono più che stranieri, sono abitanti di due pianeti diversi, e lontani per lingua, cultura, temperamento… eppure proprio il crogiolo di tutti i dialetti, i piccoli manufatti e le grandi opere dell’ingegno, e le ottuse credenze pagane, la rivoluzione egualitaria del cristianesimo e le vecchie reliquie – si sono fusi… è il nostro tesoro. Proprio questo bordello, meraviglioso, e putrido, è l’Italia”: è un’altissima scrittura cinematografica che riesce a mettere insieme ispirazione letteraria e lingua parlata, con monologhi che potrebbero anche diventare repertorio da provino per attori e attrici – perché in un film necessariamente tutto al maschile non mancano le figure femminili: le brevi scene come cartoline ricordo della moglie del comandante, interpretata da Silvia D’Amico, e il monologo della donna che sul pontile guarda partire i marinai, monologo che è valso alla sua interprete Cecilia Bertozzi il Premio David Rivelazioni – Italian Rising Stars, un monologo recitato con voce fuori campo, come un pensiero, e che comincia: “Questo vento, io lo so dove li soffia tutti questi ragazzi, li soffia a morire…” giusto per dare qui il sapore del lirismo della scrittura di De Angelis e Veronesi, che dopo aver concluso il film hanno novellizzato la sceneggiatura per Bompiani.

Immagino che per questa sua scrittura che guarda dentro i cuori e le menti piuttosto che mostrare muscoli, il film potrà piacere più in Europa, e in Giappone dove l’autore è già stato premiato, che in quegli Stati Uniti che tanti film hanno dedicato ai sottomarini. Detto questo il film non manca di pathos e di tensione narrativa in un equilibrio assolutamente magistrale che esplora il limite fra la cieca obbedienza militaresca e la lungimirante pietas umana, con i tanti momenti riflessivi che si alternano a quelli d’azione e tensione: un gran film che secondo me non è stato compreso a fondo. Era in concorso al Festival di Venezia, anche come film d’apertura sostituendo il già programmato “Challengers” – il film americano di Luca Guadagnino la cui uscita è stata posticipata dalla Metro-Goldwyn-Mayer a causa dello sciopero degli attori – ma lì non ha ricevuto nessun premio, neanche minore; ricordiamo che il Leone d’Oro è andato a “Povere Creature” di Yorgos Lanthimos, mentre due Leoni d’Argento sono andati al giapponese Ryūsuke Hamaguchi per “Il male non esiste” e al nostro Matteo Garrone per “Io capitano” che si è aggiudicato anche il Premio Marcello Mastroianni per il debuttante senegalese Seydou Sarr, film che è anche candidato negli Stati Uniti come miglior straniero al Golden Globe e all’Oscar. Film che non ho ancora avuto l’opportunità di vedere. In ogni caso, da quello che leggo, troppa roba con cui confrontarsi, ma io resto un fan di questo film al quale auspico di rivalersi nei prossimi premi nazionali.

Il regista col protagonista

Riguardo ad alcune critiche sul web ne trovo un paio a firma femminile che ideologicamente, e per partito preso, accusano il film d’essere “testosteronico” e ironizzano sulle poche figure femminile come “prefiche”, senza minimamente aver compreso il film sul piano artistico e cinematografico: l’ideologia acceca ed è sciocco volere immaginare, e fin anche pretendere, figure femminili più importanti in una storia che non ne contiene: è come quel politically correct che pretende di rivedere storie e personaggi che appartengono a un’epoca in cui il politically correct non esisteva.

il Cappellini originale

Gran lavoro per lo scenografo Carmine Guarino, concittadino e collaboratore di De Angelis fin dal di lui debutto. Ha ricreato una copia a grandezza naturale del sommergibile Comandante Cappellini il cui nome completo era “Comandante Cappellini – Aquila III – U. IT. 24 – I. 503”. Tranne qualche rara immagine dello scafo non esistono fotografie dell’interno, che è stato costruito nel parco divertimenti Cinecittà World utilizzando come materiale di partenza la replica di un U-Boot costruita per il film statunitense del 2000 “U-571” diretto da Jonathan Mostow, mentre lo scafo esterno è stato costruito col supporto della Marina Militare e di Fincantieri nel bacino navale dell’Arsenale Militare di Taranto, nel cui mare ha poi navigato come una scatola vuota per le riprese esterne. Le riprese subacquee si sono svolte nel Mare del Nord al largo del Belgio da cui provengono alcuni dei personaggi e degli interpreti del film. Mentre gli effetti visivi, che hanno preso il 10% del budget, sono stati curati dall’americano Kevin Tod Haug, fedele collaboratore di David Fincher: un titolo su tutti “Fight Club”, 1999. La curiosità è che il Cappellini è comparso, sempre in copia più o meno conforme, nel 1954 nel film “La grande speranza” di Duilio Coletti; nel film tv anglo-tedesco “L’affondamento del Laconia”, un transatlantico inglese convertito al trasporto di truppe e prigionieri che fu affondato dai tedeschi nel 1942, con il Cappellini che fra altri soccorse i naufraghi; c’è poi un altro film tv del 2022 giapponese “Sensuikan Cappellini-go no boken” che però parte da un aneddoto per raccontare una storia di fantasia. E anche il film di De Angelis, come tanti altri film storici, è incorso in qualche errore o anacronismo: viene usato l’Inno dei Sommergibilisti che però fu creato un anno dopo la vicenda narrata.

Per comporre il cast l’autore partenopeo affida ai suoi fedeli i ruoli principali: il napoletano Massimiliano Rossi, fin qui sentito recitare solo in napoletano più o meno stretto, e col regista fin da “Mozzarella Stories”, è il comandante in seconda e intimo amico del protagonista col quale comunica – primizia assoluta – in dialetto veneto; e ricordiamo che il comandante Todaro era per nascita messinese ma trasferito a Chioggia con la famiglia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale; Gianluca Di Gennaro, nipote del cantante Nunzio Gallo, che ha cominciato a recitare da bambino vent’anni fa, qui alla sua prima collaborazione con De Angelis nel ruolo del marinaio Vincenzo Stumpo che dà la vita per salvare l’intero equipaggio, con un altro bellissimo monologo interiore mentre sott’acqua disincaglia il sommergibile da una mina inesplosa: “Andate voi, andate… tanto io sono morto… e che me ne fotte a me?” si conclude il suo monologo. A un altro giovane napoletano, Giuseppe Brunetti, va il ruolo del cuoco di bordo Gigino il Magnifico, già con De Angelis nel televisivo Rai “Natale in casa Cupiello” e anche nella serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti”, della cui scrittrice Elena Ferrante è stato anche nel cast della terza stagione della serie Rai “L’amica geniale” creata da Saverio Costanzo. I naufraghi belgi che il Comandante accoglie nel sommergibile sono interpretati da Johannes Wirix, che avendo studiato recitazione presso l’Accademia Silvio D’amico a Roma nell’ambito del Progetto Erasmus, recita anche in italiano e nel film fa da traduttore; Johan Heldenbergh interpreta il suo capitano e Lucas Tavernier è il marinaio belga infame, per usare un termine partenopeo.

Completano il cast Arturo Muselli, noto al pubblico televisivo per il suo ruolo nella serie Sky “Gomorra”; l’ex bambino Giorgio Cantarini che a 5 anni ha esordito come figlio di Roberto Benigni nel film premio Oscar “La vita è bella” aggiudicandosi come primo italiano, e come più giovane, il premio Young Artist Award scherzosamente detto Kiddie Oscar, e che tre anni dopo fu anche in un altro film da Oscar come figlio di Russell Crowe in “Il Gladiatore” di Ridley Scott, e oggi ventenne sta cercando una nuova collocazione artistica; per la rappresentanza siciliana c’è Giuseppe Lo Piccolo che abbiamo visto nell’opera prima di Giuseppe Fiorello “Stranizza d’amuri”. In un cameo l’87enne Paolo Bonacelli.

“Comandante”, titolo assoluto impegnativo ed esplicativo, è anche titolo di altri due film: il documentario del 2003 di Oliver Stone su Fidel Castro, e con l’articolo il fu un film con Totò del 1963. Questo di Edoardo De Angelis, oltre che a mio avviso bello, è anche importante in quanto film bellico biografico, e anche necessario, per conservare la memoria della storia e dei fatti, complessi e schizofrenici, che ci hanno condotto fin qui, a oggi. Dove noi siamo culturalmente più schizofrenici che complessi.