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Cape Fear – Il promontorio della paura

Cape Fear - Il promontorio della paura - Film (1991) - MYmovies.it

La violenza, imbrigliata dalla censura nel film del 1962, nel remake di Martin Scorsese del 1992 esplode sfrenata e porta il racconto cinematografico su un altro livello: lo psicopatico di Robert Mitchum che aveva covato vendetta in otto anni di galera e l’aveva in quel tempo raffreddata e affilata, con un Robert De Niro altrettanto sornione e calcolatore la violenza si fa fisica e visibilmente spettacolare.

Ma tutto parte dallo sceneggiatore di film d’azione Wesley Strick che aggiunge alla vecchia sceneggiatura connessioni e conflitti interni che rendono la storia più moderna e dinamica. Sam Bowden non è più solo il testimone che manda in galera Max Cody ma l’avvocato d’ufficio che nasconde una prova a discarico per mandare in galera il poco di buono, venendo meno alla sua deontologia professionale. La famiglia Bowden non è più un rassicurante quadretto borghese ma i coniugi litigano e discutono mentre la figlia quindicenne non è più una bambina innocente ma un’adolescente con gli ormoni in subbuglio che sta scoprendo la sua sessualità, e questo personaggio prende il risalto maggiore con una scena intensa e riuscitissima in cui il lupo ammantato da pecorella tenta la ragazza con illeciti pensieri di libertà ed emancipazione, e a questa ragazza viene affidata la voce fuori campo che introduce il racconto e poi lo conclude dando al film un punto di vista inedito. Altrettanto la moglie non è più la signora borghese dai capelli sempre a posto che lava i piatti ma una professionista in carriera disegnatrice d’interni che mal sopporta il trasferimento in periferia in una villa isolata proprio a Cape Fear, accanto al fiume omonimo dove è ormeggiato il battello di famiglia. Anche la vittima dell’inaudita violenza non è più la prostituta del film originale ma una cancelliera del tribunale dove lavora l’avvocato Bowden e di cui è dichiaratamente innamorata, ma che lui tiene a distanza perché già colpevole in passato di aver tradito la moglie. In sintesi un intrico di rapporti pronti ad esplodere al passaggio del ciclone Max Cody. E la scena finale, il corpo a corpo che fra i due protagonisti avveniva nelle acque basse della palude, qui diventa una scena da film catastrofico con l’imbarcazione in balia delle rapide del fiume in una notte di tempesta: il meglio del meglio che si poteva immaginare in una storia che da thriller freddo e ragionato diventa un film d’azione.

Episode 1: Bridge Of Spies with Steven Spielberg and Martin Scorsese by The  Director's Cut
Martin Scorsese e Steven Spielberg

Inizialmente la regia doveva essere di Steven Spielgberg, che da anni stava lavorando al progetto di “Schlinder’s List” per la regia del quale si era pensato a Martin Scorsese dopo che era fallita la prospettiva di riportare sul set l’ultraottantenne ebreo ashkenazita Billy Wilder, il cui ultimo film era stato, e resterà, la commedia del 1981 con Jack Lemmon e Walter Matthau “Buddy Buddy”. Anche Roman Polański, ateo di origine ebraica che bambino era riuscito a sfuggire dal ghetto di Cracovia durante l’occupazione nazista, si defilò per l’impegno molto personale che il film richiedeva, dedicandosi alla preparazione di un film a suo dire più “leggero”: “Il Pianista”. Tornando a “Cape Fear” Spielberg ritenne il film troppo violento e pur restando nel parterre dei produttori lasciò la regia a Martin Scorsese che dal canto suo aveva rinunciato a “Schindler’s List”: insomma fecero un cordiale scambio fra amici. Poi anche Scorsese, come il precedente regista J. Lee Thompson, omaggerà Hitchcock nello stile delle riprese.

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Billy Wilder

Inizialmente Scorsese avrebbe voluto Harrison Ford nel ruolo dell’avvocato ma l’attore voleva fare il cattivo, ruolo per il quale Spielberg aveva già contattato Bill Murray: una scelta che all’epoca poteva sembrare bislacca dato che l’attore era un divo di successi comici e brillanti, ma se guardiamo a questa scelta insieme a quella di volere affidare la regia a Billy Wilder si legge chiaramente l’intenzione di voler dare una svolta drammatica a delle carriere spese nel cinema brillante: un salto di steccato che nel caso di Bill Murray abbiamo avuto l’opportunità di apprezzare il seguito, mentre per Billy Wilder non ci furono altre occasioni di tornare sul set: morì dieci anni dopo nel 2002.

Nick Nolte nei panni di un pugile nella serie tv “Il ricco e il povero”, 1976 che gli valse l’Emmy Award

Fu Nick Nolte a proporsi per il ruolo dell’avvocato e a spuntarla. Veniva da una carriera altalenante fra ruoli di protagonista e altri di supporto come caratterista, e questo ruolo gli darà la giusta considerazione e collocazione nello star system hollywoodiano: l’anno dopo sarà chiamato da Barbra Streisand regista e interprete di “Il principe delle maree” a interpretare il tormentato sensibilissimo protagonista che gli regalerà la nomination all’Oscar e la vittoria ai Golden Globe.

Robert De Niro - Cape Fear" T-shirt by FLIXPIX | Redbubble

Va da sé che il ruolo del cattivo sarà dell’attore feticcio di Scorsese, Robert De Niro. Come per il film del 1962 c’è un gap fisico fra i due protagonisti: Nick Nolte che è anche più alto ha dovuto perdere peso, mentre De Niro si è allenato per mettere su massa muscolare e non solo: pagò 5000 dollari a un dentista per farsi limare i denti e avere un aspetto più minaccioso e poi gliene diede altri 20.000 per farseli rimettere a posto, normale prassi per l’attore che per “Toro scatenato” del 1980 sempre Scorsese alla regia, era ingrassato e poi dimagrito di 30 kili.

Juliette Lewis and Jessica Lange

Nel ruolo dell’inquieta moglie moderna Jessica Lange in un ruolo che rimane di servizio nonostante i funzionali e funzionanti aggiornamenti alla sceneggiatura. Per il molto ampliato ruolo della figlia erano state provinate Drew Barrymore e Reese Witherspoon ma ebbe la meglio l’ancora poco nota Juliette Lewis che si assicurerà insieme a De Niro le nomination a Oscar e Golden Globe, vincendo un paio di premi minori e assicurandosi una carriera in cui con “Natural Born Killers” di Oliver Stone due anni dopo riceverà il Premio Pasinetti a Venezia; è stata una delle attrici più promettenti di fine millennio ma poi si è in parte persa per strada e negli anni 2000 intraprende anche la carriera di musicista e cantante – non sapremo mai se come ripiego alla carriera di attrice che langue, o proprio come motivo di questo languire. Illeana Douglas, in quegli anni compagna di Martin Scorsese, è la vittima del maniaco che, al contrario della prostituta del 1962 che scappa, è una legale che decide di non parlare perché conosce dall’interno le trappole del sistema giudiziario e non vuole dare in pasto alla stampa la sua passione non ricambiata per Bowden.

Negli altri ruoli Joe Don Backer nella parte del detective che fu di Telly Savalas; Robert Mitchum, invecchiato e stazzonato, è ancora molto efficace tornando nel ruolo del poliziotto che fu di Martin Balsam, il quale a sua volta passa al ruolo del giudice; Gregory Peck, qui alla sua ultima apparizione cinematografica, morirà 87enne nel 2003, gigioneggia nell’unica breve scena in cui è l’avvocato difensore del criminale.

Robert Mitchum and Gregory Peck who played Max Cady and Sam Bowden in Cape  Fear (1962) have cameos in Martin Scorsese's remake (1991). In a role  reversal of sorts Mitchum plays a


“Il promontorio della paura” restano due bei film, ognuno per la sua epoca, da rivedere possibilmente uno di seguito all’altro, per evidenziarne le differenze e apprezzare il generoso ritorno delle vecchie star in ruoli secondari.

L’inquilino del terzo piano – rivisto in tv

1976. Roman Polanski viene da successi internazionali come “Rosemary’s Baby”, cui “l’Inquilino” si accomuna per le atmosfere di horror quotidiano che scaturiscono da relazioni sociali degenerate, e “Chinatown”, ultimo film americano del regista polacco; che però è anche reduce dal criticato “Macbeth” per i nudi ma soprattutto per le scene di cupa violenza che, come dissero le critiche allora, erano forse dovute al trauma che Polanski aveva subito: l’assassinio ad opera della setta di Charles Manson della moglie incinta, Sharon Tate, a due settimane dal parto.

Quando lo vidi al cinema avevo 17 anni: mi inquietò ma non capii molto e rivederlo a così tanti anni di distanza è stato illuminante. Trovo che Polanski come protagonista sia insieme il punto di forza e il punto debole. Con la sua faccia ordinaria è perfetto come impiegato sopraffatto dalle circostanze: vi mette se stesso, la sua nazionalità polacca, le sue difficoltà a inserirsi in nuovi ambienti e culture. Il film, che ha nel cast interpreti sia francesi che americani, viene girato nelle due lingue, e in post produzione doppiato per i rispettivi mercati: lui si doppia col suo accento polacco sia in inglese che in francese e anche italiano facendone davvero un’opera sua a tutto tondo. Ma come attore oggi trovo che non fosse all’altezza: a mio avviso non interpreta adeguatamente la progressione di follia in cui precipita il personaggio, così che a un certo punto la follia arriva come all’improvviso. Di tutt’altro tono la regia, sempre sicura nel condurre lo spettatore in questa spirale insensata di persecuzioni e trasfigurazioni.

La sceneggiatura che Polanski ha scritto insieme a Gérard Brach è tratta dal romanzo di Roland Topor, attore (in Italia sarà nel film “Ratataplan” di Maurizio Nichetti, 1979) ma anche scrittore illustratore scenografo e altro ancora, ebreo polacco nato nel 1938 e rifugiato con la famiglia in Savoia per sfuggire ai nazisti che nel ’39 invasero la Polonia. Nei primi anni ’60 sarà tra i fondatori del movimento surrealista Panico, assieme a Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowsky: frequentazioni e umori creativi che certamente pervadono il suo romanzo “Le locataire chimérique” inizialmente tradotto in Italia come “L’inquilino stregato” prima che il film lo sdoganasse come “del terzo piano”: non ho letto il romanzo ma leggo delle sue atmosfere surreali e fortemente simboliche, che però Polanski trasferisce in una quotidiano naturalismo, straniante e davvero angosciante che, come nel romanzo, non trova una vera spiegazione nel finale che chiude il cerchio con l’inizio: è un rompicapo psicologico in cui ognuno può trovare ciò che vuole secondo le proprie immaginazione e sensibilità. In ogni caso il film, non amato dal pubblico e dalla critica contemporanei, rimane un gioiello di genialità.

il cast è ricco e variegato e in ruoli di contorno troviamo interpreti già acclamati a riprova del fatto che Roman Polanski era già nell’empireo dei grandi registi del cinema internazionale con cui tutti vogliono lavorare: altrimenti non si spiega Isabelle Adjani, fresca di Oscar e di David di Donatello per “Adele H” di François Truffaut, come spalla in un ruolo senza particolare appeal. Altrettanto sprecata mi pare Shelley Winters, due Oscar e due candidature in una carriera atipica fatta di protagoniste come di secondi ruoli: nell’Inquilino fa la portinaia e da spettatore mi aspetto sempre che il suo personaggio decolli, dato il peso dell’interprete, ma così non è. Nel ruolo dell’inquietante padrone di casa c’è la vecchia star hollywoodiana Melvyn Douglas (Oscar 1964) e in quello dell’altrettanto inquietante vicina troviamo Jo Van Fleet (Oscar 1956). Altri interpreti del cinema francese. già noti e che lo saranno in futuro: Lila Kedrova (Oscar 1965), Claude Piéplu, Rufus, Michel Blanc e Josiane Balasko.

Un remake? Forse con Johnny Depp.