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I soliti ignoti – e per la prima volta sullo schermo Claudia Cardinale e Tiberio Murgia

Questo film del 1958 è un caposaldo del cinema italiano ma partiamo da più lontano nel tempo e nello spazio, dalla Hollywood dei primi anni ’50 che con film come “Giungla d’asfalto” di John Huston dal genere thriller, o noir per dirla alla francese, sviluppa il sottogenere caper movie detto anche heist movie, ovvero film dove una banda di malviventi organizza un colpa grosso; e se heist è comprensibile in quanto significa rapina, caper è meno chiaro perché letteralmente significa cappero ma in realtà è stato coniato fra i malavitosi italo-americani che hanno anglicizzato l’italiano capriola con riferimento ai salti mortali e a tutte le acrobazie che dovevano fare per sfuggire alle forze dell’ordine. Sta di fatto che il genere piacque molto al pubblico, e fra i principali caper movie bisogna ricordare “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick mentre in Francia ci fu il grande successo di “Rififi” di Jules Dassin, e scavalcando gli anni ’60 in Italia Marco Vicario diresse il dittico “Sette uomini d’oro” e “Il grande colpo dei sette uomini d’oro” al servizio di sua moglie Rossana Podestà; del 1969 è il francese “Il clan dei siciliani” di Henri Verneuil con Jean Gabin, Alain Delon e Lino Ventura; per tornare a Hollywood con “La stangata” di George Roy Hill del 1974 starring Paul Newman e Roibert Redford; poi primeggia il corale “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992 fino al trittico di Steven Soderbergh iniziato con “Ocean’s Eleven”, con George Clooney capo brigata, che a sua volta era il remake di “Colpo grosso” del 1960 di Lewis Mileston col Rat Pack Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr. Insomma ce n’è per tutti i gusti.

Aldo Reggiani, Loretta Goggi e Arnoldo Foà protagonisti dello sceneggiato Rai

Ma torniamo in Italia alla fine degli anni ’50. Il genere imperante era il neorealismo nato sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, e ancora resistevano i generi peplum (e vale la pena ricordare il debutto cinematografico di Sergio Leone con “Il colosso di Rodi”) e cappa e spada (nessun film italiano memorabile, supplisce lo sceneggiato Rai “La freccia nera” diretto da Anton Giulio Majano dal romanzo di Robert Luis Stevenson) mentre il cinema spensierato dei telefoni bianchi che imitava le commedie sofisticate hollywoodiane era stato sostituito dalla commedia rosa o sentimentale che abbandonando le ambientazioni scintillanti e irrealistiche si era adattato alla nostra realtà con gli operai e le commesse “Poveri ma belli” di Dino Risi del 1957.

Scena da “I cadetti di Guascogna”, in primo piano da sinistra Riccardo Billi, Mario Riva, Carlo Campanini, Carlo Croccolo e seduto sulla branda Walter Chiari

Sul piano del film comico, film per ridere, si era fermi alle pellicole che derivavano dai palcoscenici dell’avanspettacolo e del varietà (ad esempio “I cadetti di Guascogna” che vide il debutto di Ugo Tognazzi e Carlo Croccolo) con interpreti che da lì venivano con le loro maschere e le loro gag (Mario Riva, Riccardo Billi, Carlo Campanini, Macario, Renato Rascel) di cui Totò era il più prolifico esponente, non amato dalla critica colta per quei suoi filmetti senza spessore. In questa brulicante vivacissima realtà si muoveva un gruppo di soggettisti e sceneggiatori che sentivano l’urgenza di raccontare la realtà, la loro realtà, quella realtà di quel preciso momento storico, il dopoguerra e il boom economico, mettendone in evidenza tutte le contraddizioni, l’impossibilità di conciliare il vecchio con il nuovo, l’ipocrisia e l’effimero: una realtà che autori come Pier Paolo Pasolini (“Accattone”) o Bernardo Bertolucci (“La commare secca”) presero di petto, mentre scrittori dalla penna più leggera e ironica e spesso caustica, e forse per questo più incisiva (ricordiamo l’adagio latino “castigat ridendo mores”) come Age & Scarpelli qui autori del soggetto e sceneggiatori insieme a Suso Cecchi D’Amico e allo stesso regista Mario Monicelli, che aveva esordito come braccio destro di Pietro Germi e fu poi regista di Totò che aveva sdoganato in un ruolo drammatico nella co-regia con Steno “Guardie e ladri” che valse all’attore l’ambito Nastro d’Argento e che lo convinse che poteva abbandonare il genere avanspettacolo che lo aveva reso ricco e famoso, ma con la media di cinque film l’anno in cantiere, il successo del pubblico e le pressioni dei produttori, passò ancora qualche anno fino a che concluse la sua carriera lavorando con Pasolini: “Uccellacci e uccellini”, “La terra vista dalla luna” nel film a episodi “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel film a episodi “Capriccio all’italiana”.

Monicelli e Totò durante una pausa sul set

Quando il gruppetto di amici si riunì per buttare giù una nuova sceneggiatura non sapevano che stavano cominciando a scrivere una pagina della storia del cinema. Partirono dall’idea di fare una parodia di quel genere tanto di moda, il caper movie, e presero come modello il noir “Rififi” tanto che il primo titolo pensato per il film in scrittura fu “Rufufù”, ma non erano autori da fermarsi al semplice parodistico e come altra ispirazione ebbero il racconto di Italo Calvino “Furto in una pasticceria”.

Memmo Carotenuto con Gassman

Poi c’era la realtà sociale in cui il gruppetto voleva collocare storia e personaggi, e pur condividendo con Pasolini il degrado della periferia romana in cui il boom sarebbe tardato ad arrivare e ancora si sarebbe vissuto di espedienti, i loro ladruncoli non hanno l’innocente cattiveria degli accattoni e dei ragazzi di vita pasoliniani, ma risentendo della leggerezza della Commedia dell’Arte (che i nostri ovviamente conoscono) sono Arlecchino e Brighella e Pulcinella i cui espedienti per procurarsi il tozzo di pane rimangono fallimentari e grotteschi, come certi capitomboli del fanfarone Er Pantera, ma sono qui intessuti dell’umanità di persone reali che soffrono e addirittura – novità assoluta in commedia – muoiono tragicamente, come il personaggio motore della storia interpretato da Memmo Carotenuto. Il risultato è un dolce-amaro, un grottesco patetico venato di tristezza, qualcosa di talmente simile alla vita reale da portare al cinema folle di spettatori che ridevano insieme delle loro stesse sventure, e però non mancano le battute folgoranti come quando Capannelle chiede a un ragazzino di un certo Mario e quello gli risponde che lì nel quartiere ce ne sono cento; sì ma questo è stato in galera, specifica Capannelle, sempre cento sono, risponde il ragazzino.

Tiberio Murgia nell’atrio del cinema dove si proietta il Kean di e con Vittorio Gassman in un corto circuito di citazioni

A scrittura ultimata sarebbe stata fondamentale la scelta del cast. I produttori, Franco Cristaldi in testa, avrebbero voluto scritturare i soliti noti che venivano dal varietà e dall’avanspettacolo, a cominciare da Alberto Sordi nel ruolo del pugile suonato Peppe er Pantera per il quale Monicelli e gli altri sceneggiatori – che avevano creato tutti i personaggi intorno ad un baricentro realistico, senza vezzi e gag, corredandoli però di un patrimonio di battute e situazioni brillanti e folgoranti sulle quale si sarebbe dovuta giocare tutta la comicità del film – si erano impuntati su Vittorio Gassman, in quale venendo dal teatro impegnato nel cinema aveva per lo più interpretato ruoli da cattivo, e con la sua aria da intellettuale non dava ai produttori nessuna garanzia di successo come attore comico, ma alla fine dovettero cedere alle argomentazioni di Monicelli & company, che con l’aiuto del truccatore Romolo De Martino crearono per Gassman un pesante trucco che con una parrucca gli abbassava l’attaccatura sulla fronte, e accentuando il profilo del naso e rendendo le labbra leggermente calanti lo ridisegnarono proprio come quel pugile suonato di periferia che avevano immaginato sulla carta, e l’invenzione poi della sibilante balbuzie completò il personaggio, sdoganando Gassman in un mondo ancora per lui inesplorato. Va segnalato che nel film viene omaggiato ritraendo la locandina del suo “Kean – genio e sregolatezza” che aveva diretto e interpretato a teatro e poi diretto e interpretato anche sullo schermo con l’importante contributo tecnico di Francesco Rosi.

Nel calibratissimo cast Renato Salvatori (doppiato da Marcello Prando) entrò come secondo nome (in percentuale di misura più piccola rispetto a Gassman) e come segno di continuità con la commedia rosa di cui era protagonista, anche qui protagonista di una storia amorosa ovviamente assai contrastata. Il caratterista Memmo Carotenuto, fratello di Mario, faccia da duro e voce roca è al terzo posto nei titoli di testa e probabilmente nel suo ruolo più significativo. Con le lettere che continuano a rimpicciolirsi segue Rossana Rory (Rossana Coppa sui documenti) già fotomodella e foto-attrice per “Sogno” che qui è l’unica componente femminile della banda e anche nel suo ruolo più importante (doppiata da Monica Vitti): nonostante l’impegno, andò a studiare recitazione presso la londinese Royal Academy of Dramatic Art, non riuscì a sfondare e pochi anni dopo, dopo aver partecipato a “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, si ritirò dalla carriera artistica. Segue nei titoli la 17enne in rapida ascesa Carla Gravina qui al suo terzo film e che aveva debuttato 15enne in “Guendalina” dello scopritore di Lolite Alberto Lattuada. Dopo di lei nei titoli di testa viene la non ancora ventenne Claudia Cardinale (doppiata dalla palermitana Lucia Guzzardi) qui al suo debutto cinematografico italiano e per la quale vale la pena spendere qualche parola in più.

Era nata a Tunisi da genitori altrettanto tunisini per nascita ma di discendenza siciliana. Va ricordato che la Tunisia era un protettorato francese e durante la Seconda Guerra Mondiale (Claudia nata nel ’38 era ancora bambina) l’Italia mussoliniana con la Germania hitleriana occuparono Tunisi con gravi e diverse conseguenze per tutta l’enclave italiana che lì viveva; nello specifico il padre di Claudia che aveva mantenuto rapporti con la famiglia d’origine in Sicilia, non aveva preso la nazionalità francese mantenendo quella italiana, e se in quel frangente ciò poteva giocare a suo favore agli occhi del regime, nei fatti tutti quegli italiani d’Africa furono vittime di un diffuso e paradossale sentimento italiano anti-italiano, con italo-tunisini che sposarono la causa fascista, altri che restarono fedeli alla Francia e altri ancora che volevano restare neutrali come fu per la famiglia Cardinale. Superato il disagio della guerra l’adolescente Claudia parlava solo arabo tunisino, francese e il siciliano trapanese appreso in famiglia, e come tutte le ragazze della sua generazione era una fan della Brigitte Bardot esplosa con “E Dio creò la donna” di Roger Vadim, star con la quale duetterà anni dopo, nel 1971, nel brutto western “Le pistolere” di Christian-Jacque. In ogni caso il cinema la attendeva: a diciotto anni partecipò a un cortometraggio documentaristico che omaggiava l’intraprendenza delle donne tunisine nell’immediato dopoguerra: “Les Anneaux d’or” di René Vautier che al Festival di Berlino vinse l’Orso d’Argento.  Bastò l’unico primo piano di quel film per farla diventare una celebrità locale ed essere richiesta dal regista Jacques Baratier che la volle per un ruolo secondario in “I giorni dell’amore”, ruolo che accettò con riluttanza perché aspirava a quello della protagonista nel quale la produzione volle un’attrice di pura nazionalità tunisina; protagonista maschile il giovane egiziano Omar Sharif in un film candidato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes che per la nostra riluttante Claudia fu il primo vero impegno come attrice cinematografica, per il quale in ogni caso aveva ottenuto la dicitura in cartellone “e la partecipazione di” essendo ancora in pratica una sconosciuta. Claudia avrebbe duettato da protagonista con Sharif nel 1991 in “Mayrig” del franco-armeno Henri Verneuil, che l’anno dopo ebbe il seguito “Quella strada chiamata paradiso”, film che raccontano il genocidio armeno che però hanno avuto scarsa diffusione.

Momentaneamente accantonata la non del tutto per lei soddisfacente, benché di qualità, esperienza cinematografica, la giovane scalpitava e non sapeva come uscire dall’impasse della sua vita borghese tunisina, così non le parve vero quando a Tunisi si tenne la “Settimana del Cinema Italiano” organizzata da “Unitalia FilmRivista trimestrale dell’Unione nazionale per la diffusione del film italiano all’estero”, durante la quale vinse – “in modo del tutto involontario e inconsapevole” recitano le cronache – il concorso “La più bella italiana di Tunisia” dove probabilmente si era iscritta in modo del tutto altrettanto involontario e inconsapevole: ma la ragazza, come vedremo, era fortemente motivata e consapevole.

Claudia Cardinale in quel fatale 1957 a Venezia

Il premio del concorso consisteva in una vacanza spesata alla Mostra del Cinema di Venezia in cui seppe mettersi in mostra agli occhi dei tanti pigmalioni, registi e giornalisti e soprattutto produttori lì presenti, Franco Cristaldi in testa. Dicono sempre le cronache che accettò l’invito da parte del produttore Salvatore Argento (padre del regista Dario Argento) e del giornalista Lidio Bozzini l’offerta di fermarsi a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, che la ragazza accettò – non si sa a che titolo: chi pagava cosa e per cosa? Probabilmente oggi è lecito immaginare che i due fossero i prestanome del produttore Cristaldi, che di 14 anni più anziano della ragazza e già sposato, non si poteva esporre in quell’epoca in cui il divorzio era illegale in un Paese ultra cattolico in cui le relazioni extraconiugali creavano scandalo e condanna sociale: oggi sappiamo che Franco Cristaldi e Claudia Cardinale avevano già cominciato una relazione. Ma gli studi di recitazione e dizione, sua insegnante al Centro fu Tina Lattanzi, misero in evidenza la sua scarsa attitudine sia alla recitazione che all’apprendimento e dopo appena un trimestre abbandonò l’impresa per tornare a Tunisi… ma dato che la sua fotogenia era indiscutibile e la sua relazione con Cristaldi solida, si fece di necessità virtù e fu dato eco sulla stampa, con copertina sul settimanale “Epoca”, a quel suo inconcepibile rifiuto di continuare la carriera cinematografica: anche gli handicap se ben gestiti posso diventare vantaggi nelle mani di un solido ufficio stampa. Del suo stile recitativo, una volta diventata famosa, coerentemente dirà: “Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica.”

Moglie e marito, produttore e protagonista, sul set di “La tenda rossa” diretto da Michail Kalazotov

Ancora di quell’intenso periodo è un’altra pagina che resterà oscura nella vita dell’attrice: la gravidanza del suo primogenito Patrick che partorirà a Londra, lontano da occhi indiscreti, dopo la fine della lavorazione del film. Durante la lavorazione ha tenuto segreta la gravidanza, come segreta rimarrà la genesi: verrà raccontato in seguito che rimase vittima di uno stupro da parte di uno sconosciuto ma alla luce dei fatti è lecito pensare che il figlio fosse del produttore e che l’invenzione dello stupro servisse anche, ancora una volta, a far di necessità virtù – ma questa è mia personale speculazione essendo a tutt’oggi la vicenda narrata così come fu data sin dall’inizio. E se dal lato professionale questo ruolo di siciliana illibata ritagliato su di lei la portò all’immediato successo, sul piano privato fu per lei un periodo assai difficile: era consapevole che la relazione con Cristaldi non poteva essere ufficiliazzata e soffriva lo stereotipo dell’immagine della giovane avventura del produttore attempato. Con l’avvio della sua carriera la famiglia la raggiunge a Roma e durante i primi anni mostrerà in pubblico suo figlio presentandolo come un fratellino.

In seguito, anni dopo, dichiarerà di non essersi mai sentita davvero la compagna di Cristaldi, quanto piuttosto un trofeo da tenere sotto vetro, una “Cenerentola gratificata dalla sua generosità” per l’aiuto dato nel difficile momento della gravidanza segreta e per, va da sé, l’impegno profuso per costruirle una carriera e un’immagine professionale adeguata; ma per il resto si era sentita in trappola: per il doppio legame, personale e professionale, si sentiva schiacciata e costantemente sotto controllo attraverso lo staff – il responsabile stampa, la segretaria e l’autista personali – che facevano riferimento a Cristaldi che probabilmente aveva perso la testa per la ragazza e finì col rinchiuderla in una gabbia dorata, una torre d’avorio, sempre ricordandole e rinfacciandole che lui l’aveva creata e che dunque gli apparteneva. Conducevano sempre vite separate, tranne qualche breve viaggio, e anche dopo il matrimonio che nel 1966 lui organizzò negli Stati Uniti avendo ottenuto l’annullamento della precedente unione dalla Sacra Rota, lei non lo chiamò mai Franco ma sempre e solo Cristaldi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel 1975, allorché Claudia si era innamorata del regista Pasquale Squitieri conosciuto sul set di “I guappi”. Col matrimonio Cristaldi aveva adottato legalmente il primogenito dell’attrice. E sarebbe ancora lunga la narrazione su Claudia Cardinale se non fosse che devo rientrare nei ranghi del film che l’ha lanciata.

il gruppo dei ladruncoli al completo: Totò, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Di spalle l’agente di controllo per il Dante Cruciani di Totò, attore non accreditato.

Al suo nome seguono nei titoli di testa i primi tre insieme dopo i nomi da solisti: Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e Gina Rovere, lei nel ruolo secondario della moglie in galera di Marcello Mastroianni, è una caratterista romana che avrà i suoi ruoli più importanti nei prossimi “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il napoletano Pisacane viene invece dalla gloriosa filodrammatica partenopea e aveva cominciato a fare cinema già in gioventù all’epoca del muto per poi proseguire come caratterista generico e qui è al suo primo personaggio importante, quel Capannelle che gli porterà talmente fortuna e fama da venire accreditato nelle produzioni future anche come solo Capannelle; il suo riuscitissimo accento bolognese è dovuto al doppiaggio del friulano Nico Pepe.

I debuttanti Claudia Cardinale e Tiberio Murgia come sorella e fratello.

Il sardo Tiberio Murgia è al suo debutto cinematografico diventando siciliano col doppiaggio del napoletano Renato Cominetti e anche il suo personaggio ha talmente fortuna che proseguirà la carriera continuando a essere scritturato come siciliano. Prima di approdare al cinema ha un passato rocambolesco: di famiglia povera emigra in Belgio per andare a fare il minatore a Marcinelle dal cui disastro scampa perché si era dato malato per stare con la moglie di un collega di cui era divenuto amante, ma l’intera storia è oggi ritenuta falsa perché viene da un articolo della rivista “Gente” di genere scandalistico-propagandistico per favorire la carriera del neo-attore. Di fatto Murgia fu veramente minatore in Belgio e poi lavapiatti in un ristorante di Roma dove fu notato da un assistente di Monicelli e da lì si avviò la sua carriera di caratterista siciliano.

Va dato merito al regista e al suo staff di co-sceneggiatori l’avere inserito nel cast dei coprotagonisti due piccoli caratteristi, Carlo Pisacane di antica scuola teatrale e Tiberio Murgia preso dalla strada: due personaggi veramente costruiti a tavolino che nulla avevano e avranno a che fare col carisma dell’interprete; due facce che già da sé erano maschere, ma personaggi creati col supporto di altri due professionisti a dare loro la voce: in pratica per ogni personaggio due attori, uno davanti e l’altro dietro la macchina da presa, perché senza quelle voci e quegli accenti le due maschere non sarebbero mai esistite. Pratica oggi irrealizzabile per fortuna, per la dignità professionale degli interpreti, ma che allora era prassi comune se si pensa che anche molti dei protagonisti venivano doppiati e la cosa non creava scandalo. Qui c’è Renato Salvatori che praticamente sarà sempre doppiato in tutta la sua carriera e se ciò non fosse stato consentito probabilmente si sarebbe impegnato a studiare recitazione e dizione laddove la fotogenia non sarebbe bastata più; per molti anni Claudia Cardinale fu doppiata, però si è battuta per recitare con la sua voce, e anche Totò che verso la fine era ormai quasi cieco e aveva come doppiatore ufficiale Carlo Croccolo. I titoli di testa continuano col resto dei generici fra i quali bisogna ricordare Elisa Fabrizi che è un errore di trascrizione trattandosi in realtà di Elena Fabrizi, sorella di Aldo Fabrizi, che dopo la scomparsa del fratello diverrà nota come Lella Fabrizi o più semplicemente Sora Lella, attrice intrattenitrice e proprietaria di una trattoria sull’isola Tiberina a Roma. I titoli si concludono “con” Marcello Mastroianni le cui lettere riprendono la misura massima che Gassman aveva avuto in apertura, “e con la partecipazione straordinaria” di Totò. Non è accreditato il prevalentemente radio-televisivo Mario Feliciani nel ruolo del commissario di polizia che tornerà nel sequel dell’anno dopo messo in cantiere a tambur battente.

Sul momento nessuno si rese conto di cosa era accaduto: il fatto più evidente fu il clamoroso successo del film che fu distribuito praticamente in tutto il mondo: negli USA e nel Regno Unito col titolo “Big Deal on Madonna Street” e lì avrebbe avuto grande risonanza soprattutto fra gli addetti ai lavori tanto che nei decenni a seguire avrebbero realizzato ben due remake; mentre in Spagna fu ripreso il primo titolo provvisorio “Rufufù” e in Francia si optò per “Le Pigeon” il piccione, vai a capire perché, mentre in Argentina e Brasile fecero una fedele traduzione del titolo: “Los desconocidos de siempre” e Os eternos Desconhecidos“.

Dovette passare qualche anno perché ci si rendesse conto che “I soliti ignoti” era diventato il capostipite di un nuovo genere cinematografico: la commedia all’italiana. Che era un po’ quello che era successo secoli prima nel teatro quando dalla Commedia dell’Arte si passò alla commedia brillante borghese dove i caratteri avevano perso la fissità delle maschere per diventare esseri umani a tutto tondo con i loro chiaroscuri. Da quel film in poi tutti dovettero fare i conti con quel modo di scrivere e realizzare pellicole brillanti e in un paio di decenni si realizzarono grandi film, molti dei quali a episodi, fino a che la commedia all’italiana non morì verso la fine degli anni Settanta stretta fra le spire della commedia sexy. Mario Monicelli fu candidato agli Oscar nella categoria Miglior Film Straniero e vinse lo spagnolo Festival di San Sebastian; ai Nastri d’Argento vinse Vittorio Gassman come miglior protagonista e l’intera squadra degli scrittori fu premiata per la miglior sceneggiatura.

L’anno dopo uscì il sequel “Audace colpo dei soliti ignoti” con Nanni Loy che prese il controllo dell’impresa, e un secondo tardivo nostalgico seguito si ebbe nel 1985 diretto da Amanzio Todini: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Del 2020 è l’adattamento teatrale andato in scena al Teatro La Pergola di Firenze, diretto e interpretato da Vinicio Marchioni su copione di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli. Altro adattamento teatrale ma in musical fu quello che Bob Fosse realizzò nel 1986, “Big Deal”, che non vide praticamente nessuno: 6 anteprime e 69 repliche, a Broadway. Due i remake americani, dicevamo: il primo è “Crackers” del 1984 diretto da Louis Malle con Donald Sutherland e Sean Penn, mentre del 2002 è “Welcome to Collinwood” diretto dai fratelli Anthony & Joe Russo e prodotto da George Clooney che si è collocato nel ruolo che fu di Totò. Nel 2000 Woody Allen fece un’importante citazione-omaggio nel suo “Criminali da strapazzo”. Un altro importante omaggio è nel film “A/R Andata + Ritorno” del 2004, terza regia di Marco Ponti.

Fra le curiosità: il film sarebbe dovuto uscire col titolo “Le Madame” che era il soprannome con cui i criminali chiamavano i poliziotti e che venne rigettato dalla censura perché non si poteva ironizzare sulle forze dell’ordine. La Via delle Madonne in cui viene tentato il colpo, ripreso dal titolo americano, in realtà non esiste, trattandosi della scalinata di Via della Cordonata che scende su Via delle Tre Cannelle, dietro Piazza Venezia. La ragazza che litiga col fidanzato sotto il lucernario su cui restano appesi i ladruncoli è l’ungherese Edith Bruck, scampata ai campi di concentramento nazisti, che si era stabilita a Roma dopo aver tentato di rientrare in patria, dove non aveva più nessuno, per poi di trasferirsi in Israele nel 1948 a ridosso della formazione del nuovo stato, immaginato “di latte e miele”, come scriverà, ma percorso da altri insopportabili conflitti. Come ancora oggi è. A Roma frequenta ovviamente l’ambiente intellettuale dove conosce e poi sposerà il poeta-regista Nelo Risi, fratello di Dino, e debutterà come scrittrice nel 1959 con “Chi ti ama così” scrivendo in lingua italiana, una lingua non sua, come spiegherà, che le consente il necessario distacco per descrivere la sua esperienza nei campi di concentramento. Ultima curiosità: i nomignoli Capannelle e Ferribotte erano stati orecchiati nella vita reale: a Capannelle c’è l’ippodromo di Roma ed era il soprannome di un assiduo scommettitore sulle corse dei cavalli, caratteristica che nel personaggio del film non c’è, mentre Ferribotte è la storpiatura di ferry boat, il traghetto che i siciliani prendevano per raggiungere il continente e come molti ancora lo chiamavano: ferribotte o ferribotto. Entrambi i personaggi torneranno nel prossimo sequel mentre solo Ferribotte sopravvivrà vent’anni dopo.

Edith Bruck

Il film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

Blow-up – per ricordare Jane Birkin

Il 16 luglio di questo 2023 a 76 anni se n’è andata Jane Birkin, che viene universalmente ricordata non tanto per la sua carriera di attrice che pure ha avuto dei picchi importanti, quanto perché è stata un’icona sexy e, prima che attrice, è stata anche più attiva come cantante. Aveva cominciato a 17 anni a calcare le scene londinesi seguendo la madre Judy Campbell, attrice e cantante famosa per i musical di Noël Coward, mentre il padre David nulla aveva a che fare col mondo dello spettacolo essendo un comandante della Royal Navy. La 18enne Jane debuttò anche lei in un musical del compositore John Barry, autore delle colonne sonore di 007 e non solo, che finì con lo sposare l’anno dopo. Lo stesso anno debutta sullo schermo con un piccolo ruolo nel film di Richard Lester che fu Palma d’Oro al Festival di Cannes “Non tutti ce l’hanno” ed è col film successivo, questo “Blow-up” del 1966 che accende la fantasia di tutti mostrando il seno nudo e diventando un’icona della Swinging London, la Londra del boom economico, che caratterizzò la seconda metà degli anni Sessanta.

Il film di Michelangelo Antonioni si inscrive a pieno titolo nel cinema che espresse quella dondolante e altalenante Londra, la Swinging London, che fu un movimento sociale e culturale che si espresse anche nella moda – il cui personaggio chiave fu Mary Quant con la sua minigonna – e nella musica – includendo band come i Beatles, i Rolling Stones e i Who. Antonioni, che aveva debuttato nel 1950 con “Cronaca di un amore” imponendosi come un autore rivolto al rinnovamento degli stili, un decennio dopo fra il ’60 e il ’62 realizzò la sua famosa “trilogia dell’incomunicabilità” o “esistenziale” con riferimento anche all’alienazione e al disagio mentale, protagonista la sua compagna dell’epoca Monica Vitti. Ma è con il successivo “Il deserto rosso” del 1964, Leone d’Oro al Festival di Venezia, che si impose all’attenzione internazionale e gli si aprirono le porte per realizzare questo suo film inglese. L’idea gli era venuta con la lettura del racconto “Le bave del diavolo” dell’argentino Julio Cortázar da cui prese solo lo spunto sviluppando una sua personalissima storia – nel racconto il crimine è la pedofilia, nel suo film è un omicidio – storia intrisa ancora del suo disagio sull’incomunicabilità ma che nello sviluppo narrativo diventa anche documento, ancora attualissimo, di quella Swinging London: cos’era, com’era, cosa si faceva, che musica si ascoltava. Alla fine dell’articolo il link dove leggere il racconto completo che ha ispirato il soggetto di Michelangelo Antonioni.

Nella prima versione della sua sceneggiatura c’erano anche scene di sesso ma poi Antonioni si autocensurò ricordando i problemi che aveva avuto con “L’avventura” e non voleva che il suo primo film internazionale potesse incorrere in alcun incidente, ma nonostante ciò la magistratura italiana sequestrò il film per oscenità – e davvero non c’è oscenità nel film, se non il seno di Jane Birkin appunto, e qualche altro nudo e degli amplessi di quel sesso libero ma con inquadrature veloci e in campo lungo: ovviamente oggi abbiamo una differente percezione dell’oscenità. E da questo punto di vista, quello strettamente sociale e politico, il film dovette essere stato considerato osceno per il suo angosciante pessimismo, intriso di nichilismo antireligioso e antisociale: mette in discussione la percezione stessa della realtà, e in un’epoca di boom economico e di edonismo spinto era un punto di vista disturbante, perché la visione del film non era quella di una realtà momentaneamente distorta dalle droghe psichedeliche ma una realtà messa in discussione per principio, e come fine ultimo della narrazione. Il fotografo scopre nei dettagli sempre più ingranditi dei suoi scatti la prova di un probabile omicidio, fino a trovare fisicamente il cadavere. Salvo poi non trovarlo più quando torna armato di macchina fotografica per provare il crimine – che resta solo nelle immagini sgranate degli scatti rubati, tanto sgranati da sembrare irreali, e forse davvero irreali.

Alla fine del film il protagonista si distrae con una coppia di mimi che gioca a tennis senza racchette e senza palla, seguiti da un pubblico di altri mimi che seguono la traiettoria della palla inesistente, e anche la macchina da presa la comincia a seguire nei suoi rimbalzi, e cominciamo anche a sentire i colpi di racchette inesistenti sulla palla inesistente; finché la palla vola oltre il recinto da dove il protagonista osservava, e invitato va egli stesso a raccogliere la palla inesistente: la realtà la si può inventare, è tutto frutto di fantasia. Un messaggio potente, da uno che fa cinema, fotografia in movimento.

Il fotografo di moda protagonista del film è lui stesso alla moda: il regista chiese a David Hemmings di vestirsi “à la Sachs” ovvero come il playboy tedesco Gunther Sachs all’epoca sulle pagine di tutti i rotocalchi come marito di Brigitte Bardot: camicia azzurra, jeans bianchi e mocassini senza calze. Ma è un fotografo tormentato, appunto: disprezza le fotomodelle e la loro vacuità, e sta lavorando a un libro fotografico d’impegno sociale dove ritrae gli hippy ma soprattutto i diseredati, i senzatetto, e difatti il film si apre con lui che esce da un dormitorio pubblico dove ha passato la notte.

Jean Birkin, per l’occasione bionda, ha davvero un ruolo secondario, che però risalta perché la narrazione intorno al protagonista è tutta fatta di ruoli di contorno; Vanessa Redgrave ha il ruolo più importante: è la donna coinvolta nel complotto che il fotografo crede di svelare; l’altro nome di punta è Sarah Miles come amica del protagonista; l’indossatrice Veruschka compare come sé stessa. David Hemmings, qui doppiato da Giancarlo Giannini, giunge alla notorietà e alla maturità artistica con questo film ma è sulle scene sin dall’infanzia, prima come boy soprano, ovvero voce bianca, sul quale il compositore Benjamin Britten compose anche un’opera; col sopraggiungere dell’adolescenza e la perdita della voce bianca il ragazzo passò alla recitazione ed è qui nel suo primo ruolo adulto importante. Vanessa Redgrave, figlia e sorella d’arte e già attrice shakespeariana nonché moglie del regista Tony Richardson che tra l’altro la diresse insieme a Hemmings in “I seicento di Balaklava”, anche lei raggiunge la fama internazionale grazie a questo film. Nel terzetto di nomi femminili di punta Sarah Miles è quella che meno viene ricordata dal pubblico: raggiunge il picco come protagonista in “La figlia di Ryan” nel 1970 di David Lean che le frutta una candidatura all’Oscar, ma dal 2004 non è più attiva.

Veruschka è il nome d’arte della contessa tedesca Vera Gottliebe Anna von Lehndorff-Steinort, il cui padre conte, in controtendenza alla nobiltà prussiana del suo tempo era stato antinazista, e poi accusato di aver preso parte a un complotto contro Hitler fu giustiziato nel 1944 quando Vera aveva 5 anni; insieme alle sue sorelle, mentre la madre incinta veniva internata in un campo di lavoro, fu trasferita in una cittadina di provincia insieme ai figli di tutti gli altri congiurati in una sorta di kindergarten per sorvegliati speciali; finita la guerra e tornata libera la ragazza venne a studiare in Italia dove a 20 anni fu scoperta dal fotografo Ugo Mulas che la lanciò come modella; ma non riscosse il successo sperato e tornando in Germania sparse la voce che fosse una fuoruscita russa, Veruschka appunto, e lo stratagemma riuscì.

Il film si sarebbe dovuto ambientare a Parigi, come nel racconto originale. Ma ad Antonioni, che già da tempo pensava all’estero come naturale sbocco della sua cinematografia, l’idea di collocare il suo film in quella Swinging London, che così bene ha saputo raccontare, venne quando andò a trovare la sua compagna Monica Vitti sul set di “Modesty Blaise – la bellissima che uccide” di Joseph Losey. Scrisse la sua sceneggiatura col suo fedele Tonino Guerra e per l’ottimizzazione dei dialoghi in inglese si affidò al drammaturgo Edward Bond. Per rendere viva e attuale la sua Londra, Antonioni inserì nel film alcune celebrità dell’epoca: la giornalista Janet Street-Porter balla insieme ad alcune spogliarelliste mentre nel concerto rock del prefinale si esibiscono gli Yardbirds con Jimmy Page e Jeff Beck che come da prassi sfascia la chitarra. Costato un milione e ottocentomila dollari ne incassò venti milioni in tutto il mondo. Osannato dalla critica, film e regista ebbero la nomination all’Oscar, sceneggiatura e regista furono anche nominati ai Golden Globe, e dopo altre tre nomination ai britannici BAFTA finì col vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes e l’italiano Nastro d’Argento ad Antonioni come miglior regista per un film straniero.

Grazie a questo film Jane Birkin soffiò una parte da protagonista alla top-model americana Marisa Berenson che dovette aspettare ancora qualche anno prima di diventare attrice debuttando nel 1971 con Luchino Visconti in “Morte a Venezia”. Il film in questione era il dimenticabile “Slogan” diretto da Pierre Grimblat e scritto su misura del protagonista Serge Gainsbourg, e il resto è storia. Il divo francese, nonché tombeur de femmes, che da poco aveva rotto con Brigitte Bardot che per lui aveva rotto col precedente marito Gunther Sachs, non aveva gradito la sostituzione della Berenson, sulla quale aveva probabilmente fatto un pensierino, e sul set maltrattò non poco la Birkin; l’inglesina, anche lei fresca di separazione da John Barry e decisamente attratta dagli uomini più maturi, chiese al regista la cortesia di organizzare un’uscita a tre per poi allontanarsi a metà serata: lo stratagemma riuscì e si formò la coppia-scandalo di quegli anni. Lui poi, su suggerimento dell’amica Mireille Darc, tirò fuori dal cassetto l’esplicita canzone che parla di sesso “Je t’aime… moi non plus” che aveva già inciso con la Bardot ma che era stata messa via su richiesta della diva francese timorosa dello scandalo che l’ancora marito cornuto Gunther Sachs le aveva promesso. Il brano uscì con tutto lo scandalo che seguì, particolarmente nel Regno Unito patria della Birkin, e in Italia, patria del Vaticano, il cui organo di stampa L’Osservatore Romano pubblicò una sgangherata e peggiorativa traduzione del testo per allarmare i propri lettori, e il distributore del disco viene scomunicato; va da sé che la Rai ne vietò la trasmissione radiofonica finché la Procura della Repubblica di Milano non ordinò il sequestro e la distruzione di tutte le copie sul territorio nazionale, che però venne importato clandestinamente e venduto a 3000 lire anziché 750, mentre veniva trasmesso dalle emittenti estere Radio Monte Carlo e Radio Capodistria che erano ricevute nell’etere italiano. Ovviamente seguirono molte reinterpretazioni nelle varie lingue e anche parodie. In Italia il testo fu riscritto da Daiano, “Ti amo… ed io di più” e fu interpretato dagli improbabili divi teatrali Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer all’epoca compagni di vita. Ma ci fu anche una versione adattata da Gian Piero Simontacchi, “Ti amo… io di più” senza ed, per Ombretta Colli con la voce maschile dello sconosciuto Gianfranco Aiolfi amico e collaboratore di Ombretta e del marito Giorgio Gaber.

Nel 1976 Serge Gaisbourg pensò bene di farne anche un film e debuttò come autore cinematografico dirigendo la sua Jane Birkin che recitò quasi sempre nuda accanto a Joe D’Alessandro, star americano del porno gay lanciato da Andy Warhol, nel ruolo di un camionista omosessuale che inizia una relazione con la donna dall’aspetto androgino, che perciò si chiama Johnny, e con la quale ha soltanto rapporti anali. Viene da chiedersi chissà quanta droga circolasse sul set. In ruoli di contorno i non ancora famosi Gérard Depardieu e Michel Blanc.

La carriera di Jane, che nel frattempo aveva preso la nazionalità francese, proseguì da un lato continuando continuando a incidere le canzoni di lui divenendo una delle più apprezzate cantanti d’oltralpe, e dall’altro continuando la carriera di attrice anche in produzioni internazionali. Nel 1971 nacque la loro figlia Charlotte Gainsbourg e nel 1980 la coppia scoppiò perché lei, maturando, si era stancata delle sregolatezze di lui, e pur continuando a incidere i suoi brani scelse uno stile di vita più regolato legandosi al regista Jacques Doillon. Lavorò anche con Jean-Loc Godard, Patrice Leconte, Alain Resnais, Roger Vadim, Jacques Rivette, Bertrand Tavernier e il Paul Morissey che aveva contribuito al successo di Joe D’Alessandro, ma soprattutto ebbe un’intensa e proficua collaborazione con Agnès Varda che nel 1988 le dedicò il film “Jane B. par Agnès V.” Nel 2007 dirige anche il film di fiction autobiografica “Boxes – Les boîtes” mentre nel 2021 sua figlia Charlotte la dirige nel film-documentario-intervista “Jane by Charlotte” in questi giorni su Sky in cui finalmente sentiamo Jane Birkin che manda affanculo Serge Gainsbourg.

Tre passi nel delirio

Uno dei pochi film a episodi che non abbiano per tema il sesso o estensivamente le relazioni fra uomo e donna. E già per questo degno di attenzione. C’è in più che i tre episodi sono liberamente ispirati a tre racconti di Edgar Allan Poe, inventore dei racconti polizieschi, della letteratura gotica o dell’orrore e dei gialli psicologici, senza dimenticare che fu un poeta romantico precursore del simbolismo e della figura del poeta maledetto: praticamente tutta la letteratura di questi filoni si deve a lui.

Così come grande letteratura non è sinonimo di romanzo voluminoso altrettanto il grande cinema non sempre è fatto di lungometraggi: ci sono sia racconti che cortometraggi di grandissimo valore artistico, ma se nella narrativa è più facile trovarli nella cinematografia l’impresa è più ardua, se non altro perché nel cinema italiano, da quegli anni in poi, i cortometraggi che compongono i film a episodi sono tutti figli del Boccaccio e del suo Decamerone, che in alcuni casi diverranno esercizio di stile per attori e registi che si guadagneranno oltre che l’attenzione del pubblico anche premi prestigiosi; fino alla deriva dei film ai episodi che diventeranno un’accozzaglia di volgarità da barzelletta i cui ultimi esempi risalgono ormai agli anni ’80.

Sono del parere che la produzione dei film a episodi andrebbe incoraggiata organizzando i giovani talenti che producono in ordine sparso; perché in genere i cortometraggi, oggi, non sono altro che personalissimi esercizi di stile per farsi vedere sul mercato, nei festival, magari raccogliere qualche riconoscimento per riuscire ad approdare all’agognato lungometraggio: una sorta di passaggio di formazione da abbandonare non appena si raggiunge l’obiettivo della produzione distribuita nelle sale. E’ un peccato perché il cortometraggio, come il racconto in letteratura, può avere un suo valore intrinseco, ammesso che dietro ci sia una volontà produttiva e distributiva.

I giovani registi, costretti a lavorare individualmente, purtroppo nella solitudine delle loro auto produzioni si convincono di essere autori a tutto tondo e così non è: ci sono corti ben scritti e mal girati se il giovane è forte in letteratura, mal scritti e ben girati se è forte in fotografia, e in entrambi i casi spesso male recitati perché i giovani registi non hanno esperienza di lavoro con gli attori e di recitazione, e per lo più, per ragioni economiche e/o affettive, coinvolgono amici complici e amanti tanti carini, tanto efficaci sul piano visivo ma senza alcuna formazione su quello artistico. Basterebbe che le major, Rai Mediaset Sky Netflix Amazon eccetera, organizzassero delle produzioni e dei percorsi narrativi a tema, come in questo film tratto da Poe: giovani sceneggiatori e giovani registi supervisionati e indirizzati in un progetto specifico, una sorta di laboratorio permanente per cortometraggi di qualità da distribuire singolarmente o riuniti in film a episodi. Ne gioveremmo tutti, spettatori e giovani talenti.

“Tre passi nel delirio” è stato distribuito in francese come “Histoires Extraordinaires” dal titolo che Charles Baudelaire diede alla prima raccolta di racconti di Poe che, traducendoli, pubblicò in francese; e in lingua inglese il film fu distribuito come “Spirits of the Dead” dal titolo di una poesia di Poe. Il film si apre con questa citazione di Poe: “Orrore e Fatalità hanno imperato in ogni tempo. Perché dunque segnare una data alle storie che devo raccontarvi?” Il cast è rigorosamente presentato per ordine alfabetico: Brigitte Bardot, Alain Delon, Jane Fonda e Terence Stamp, e quest’ultimo benché interprete di prima grandezza non diventerà mai una vera star come gli altri; in alcune locandine il suo nome non compare mentre in quella americana è aggiunto quello di Peter Fonda, fratello di Jane e interprete con lei nel primo episodio.

Metzengerstein

Roger Vadim & Jane Fonda in France. She's beautiful in this photo. | Jane  fonda, Jane fonda barbarella, Lady jane
Roger Vadim e Jane Fonda

Fu la coppia glamorous del regista francese e della rampolla d’arte americana a pensare al film. Erano reduci da “Barbarella”, un pasticcio fantasy grande insuccesso di pubblico e critica che negli anni diverrà un cult, e dunque perché non continuare su quella strada? Lui a dire il vero non era un grande regista, sfornava solo film pseudo-erotici ed era famoso come tombeur de femme: aveva debuttato in regia lanciando la sua prima moglie in “Piace a troppi (Et Dieu… créa la femme)”, lei era Brigitte Bardot, che lasciò per sposare Annette Strøyberg che abbiamo visto in “Il sorpasso”, che poi tradì con Catherine Deneuve, e poi sposò Jane Fonda che aveva diretto in “Il piacere e l’amore”. Ma l’attività satiresca del regista non si fermò, anzi: continuava coi suoi tradimenti addirittura coinvolgendo Jane in orge con più donne, e lei scriverà nella sua autobiografia: “Mi ero convinta che era quello che anch’io desideravo, salvo scoprire che stava uccidendo il nostro amore”. Anche quel matrimonio ovviamente finì e lui continuò a passare di letto in letto… Ed è questa la fantasia che mette in scena nel suo episodio.

Amazon.it: Metzengerstein: A Tale in Imitation of the German - Poe, Edgar  Allan - Libri in altre lingue

“Metzengerstein: A Tale In Imitation of the German” era il primo racconto di Poe in cui protagonista è il giovane Frederick, ultimo della ricca stirpe dei Metzengerstein, dissipatore crudele e dissoluto, che porta avanti una vecchia faida con la famiglia Berlifitzing, e secondo una profezia sarà un cavallo a mettere fine all’antica contesa; il patriarca Von Berlifitzing resta ucciso nell’incendio delle sue stalle, da cui sfugge un poderoso stallone nero, mentre il rampollo della famiglia rivale viene sospettato di aver provocato l’incendio e l’omicidio. Frederick, soggiogato dal fascino del nero stallone comincia a cavalcarlo incessantemente e quando il suo stesso castello prende fuoco il destriero ve lo conduce dentro, realizzando la profezia.

Roger Vadim adatta il racconto alle sue fantasie erotiche. Frederick diventa la 22enne Fredericka scritta su misura per la 32enne Jane Fonda, attrice seria e blasonata che aveva rilanciato come sex symbol, e la rimette in scena come nuova Barbarella del ‘500 europeo la cui dissolutezza si manifesta in statiche e stanche orge con esuberanza di gentil sesso, e in poche ridicole battute che ci fanno capire quanto la contessina sia capricciosa e crudele. Eh sì perché la sceneggiatura non sa far altro che riscrivere un lungo racconto con voce fuori campo che qua e là occasionalmente dà spazio a striminziti dialoghi fatti di quattro battute; il vecchio Von Berlifitzing diventa un aitante cugino della casa nemica – interpretato da Peter Fonda – di cui Fredericka si innamora e poiché non ricambiata gli fa incendiare le stalle e il cugino amato nemico muore; per il resto è tutto cartoline di castelli e rovine, lunghe cavalcate e fuochi purificatori. Un’occasione più che sprecata che sfiora il ridicolo, una sfilata di moda per Jane Fonda che indossa fantasiosi costumi anni ’60 che occhieggiano al ‘500, una Jane Fonda che non avendo nulla da recitare bamboleggia secondo le fantasie del suo improvvido consorte regista, ma che l’anno seguente verrà candidata all’Oscar per “Non si uccidono così anche i cavalli?” di Sydney Pollack a riprova delle sue capacità artistiche.

William Wilson

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Il secondo episodio, “William Wilson”, è adattato e diretto da Louis Malle che vi rimane abbastanza fedele. In realtà il regista partecipa a quest’operazione che reputa commerciale solo perché ha bisogno di soldi per finanziare il film a cui sta lavorando: “Soffio al cuore”. William Wilson è il protagonista di una storia grottesca sul tema del doppio che racconta in prima persona della persecuzione che subisce sin dall’infanzia da un suo omonimo, che paradossalmente gli è anche estremamente somigliante. Nel finale W.W. affronta il suo persecutore una volta per tutte e, trascinatolo in una stanza lo sfida a duello, e avendo la meglio sul suo avversario riesce a infliggergli un colpo mortale; si accorge però di trovarsi di fronte a uno specchio, Il cui riflesso gli bisbiglia la frase conclusiva: “Tu hai vinto ed io cedo. Ma tu pure, da questo momento, sei morto – sei morto al Mondo, al Cielo, alla Speranza! In me tu esistevi – e ora, nella mia morte, in questa mia immagine che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso.”

Alain Delon e Brigitte Bardot in una pausa sul set

Nel film il racconto in prima persona è trasferito in una confessione a un prete interpretato da Renzo Palmer; altra comprensibile variazione è la trasformazione del giovane da spennare barando al tavolo da gioco in una ambigua donna, per inserire una figura femminile in un racconto tutto al maschile di cui è protagonista assoluto Alain Delon, divo del momento definito uomo più bello del mondo, qui in un’interpretazione assai convincente. Per il ruolo dell’incallita giocatrice d’azzardo, fascinosa e ambigua, figura che nel film non racconta alcun tentativo di seduzione in aggiunta al gioco di carte, non asessuata ma distaccata, Louis Malle avrebbe voluto l’androgina Florinda Bolkan, che da hostess brasiliana poliglotta era stata appena lanciata da Luchino Visconti con un piccolo ruolo in “La Caduta degli Dei”, ma i produttori, fra cui l’italiano Alberto Grimaldi, volevano un nome di prima grandezza e gli imposero Brigitte Bardot, che bontà sua accettò il piccolo ruolo, ma per la quale il regista non nascose il disappunto definendola inadatta; a sua volta le impose una parrucca nera simil Florinda Bolkan che però la fece somigliare a Claudia Cardinale, ma B.B. recitò il suo ruolo come dovuto, con freddo distacco e senza bamboleggiare; inevitabilmente però le manca l’ambiguità che il regista aveva immaginato inserendo una donna, unica, in una sala da gioco completamente al maschile. Purtroppo Louis Malle a mio avviso sbaglia il finale togliendogli il fascino del mistero: trasferisce il duello all’aperto e il doppio mortalmente ferito non si riflette più da uno specchio ma è lì fisicamente presente davanti a lui, pur maledicendolo con la frase finale del racconto.

Toby Dammit

Toby Dammit: The Italian Connection #2 |

Protagonista del terzo episodio diretto da Federico Fellini è Toby Dammit, dal racconto “Mai scommettere la testa con il diavolo” in cui Poe racconta di un giovanotto pieno di cattive abitudini che la severissima educazione impartitagli dalla mamma nell’infanzia ha incoraggiato anzichenò, dato che le punizioni materne invece di scacciare il male via da lui, al contrario, in lui introducevano il male; fra le varie cattive abitudini di Toby Dammit c’è quella di ripetere continuamente “scommetto la mia testa col diavolo”… e poiché il diavolo vince tutte le scommesse lo sconsiderato giovanotto morirà in un incidente – decapitato. Nomen omen: per lui lo scrittore inventa il cognome Dammit che suona come damn it! un’imprecazione che sta per dannazione! e associata a un nome specifico, Toby, diventa maledetto Toby.

Toby Dammit (1968) di Federico Fellini - Recensione | Quinlan.it

Federico Fellini spazza via tutto il contesto del racconto e tiene solo il personaggio che inserisce nel suo mondo, contemporaneo e insieme fantastico. Toby Dammit diventa un attore britannico, come il suo interprete Terence Stamp, trentenne in ascesa dalla carriera assai promettente, candidato all’Oscar già al suo debutto cinematografico e poi protagonista con i più grandi registi del momento, ma negli anni ’70 la sua carriera langue e lavorerà per lo più in ruoli di supporto grazie alla sua versatilità interpretativa che lo condurrà nel 1995 alla candidatura ai Golden Globe per l’interpretazione di un transessuale in “Priscilla la regina del deserto” di Stephen Elliot. Come Toby Dammit è per Fellini una star alcolizzata che prelevato all’aeroporto di Roma viene condotto in auto da un prete, Salvo Randone che sarà di nuovo con Fellini nel successivo “Satyricon”, che come religioso sta collaborando alla sceneggiatura di un western cattolico con un Gesù cowboy, ironia al vetriolo felliniana sui contemporanei spaghetti-western dell’innovatore Sergio Leone. Sin dall’inizio, con un gruppo di suore i cui veli svolazzano nell’atrio dell’aeroporto, il regista ci introduce nel suo mondo, una sfilata di tipi e situazioni che Toby intravede nel lungo percorso per le vie di Roma sull’auto che lo condurrà allo studio televisivo dove va in scena in diretta tivù la serata in cui anche lui verrà premiato con la Lupetta d’Oro, anch’essa invenzione felliniana. Va da sé che lo spettacolo è un ulteriore palcoscenico con cui il regista-autore mette in scena le sue fantasmagorie cui però l’attore britannico, molto preso dall’alcol, sembra poco interessato, anche perché non capisce nulla: parla solo inglese, nel film non tradotto e non sottotitolato, e quello che dice, benché comprensibile oggi più di quanto lo fosse all’epoca quando la conoscenza della lingua non era così diffusa, arriva allo spettatore parzialmente incomprensibile tanto quanto l’attore non comprende gli italiani: è un dialogo fra sordi, un’incomprensione reciproca di cui si danno per scontati i temi, le frasi, i luoghi comuni, il chiacchiericcio italiano come il biascicare inglese, entrambi reciprocamente incomprensibili e come tali archiviati e portati avanti fino all’estremo di un’intervista con domande senza risposte, condotta da Milena Vukotic, già con Fellini in “Giulietta degli spiriti”. Il genio di Fellini è tutto qui: fa del racconto morale di Poe un racconto immorale del suo mondo contemporaneo, in cui mostra la sua Roma e il suo teatro di posa a Cinecittà come simboli di tutta l’italianità, grottesca e becera, arrogante e rumorosa, colorata e cupa al contempo, cattolica e strafottente. E Toby Dammit, che aveva preteso una Ferrari da guidare spericolatamente così come ha vissuto, va incontro al destino che Poe aveva scritto per lui. A Fellini importa poco di quel Toby Dammit ma non per questo ne fa un film minore, anzi lascia il segno del suo indiscutibile genio e questo episodio è in assoluto il migliore dei tre, presentati sullo schermo per ordine di riuscita artistica per il gradimento in crescendo di noi spettatori, adesso in cerca degli altri due film a episodi a cui Fellini ha partecipato: “L’amore in città” del 1953 e “Boccaccio ’70” del 1962. Da ricordare che nel 1977 è uscito nelle sale il film “2 Fellini 2” che metteva insieme “Toby Dammit” e “I Clowns”.

La bambina di Mario Bava, che in realtà è interpretata da un maschietto, Valerio Valeri, a confronto con la bambina di Federico Fellini interpretata da Marina Yaru

Una curiosità. Fellini immagina che Toby Dammit sia perseguitato dalla visione di una inquietante bambina tutta bianca con le unghie smaltate di rosso: è il suo demone, il diavolo che attende la sua testa. Questa figura di bambina inquietante il regista la prende pari pari da un film horror che Mario Bava aveva girato un paio d’anni prima, “Operazione paura”, che è il fantasma di una bambina morta anni prima in un incidente e che ora, in cerca di vendetta, causa le morti misteriose del film. Quando Mario Bava vide “Toby Dammit” se ne lamentò con Giulietta Masina: “E’ la stessa del mio film!” E la moglie di Fellini alzò le spalle: “Sai com’è Federico…”

Il sorpasso – incidente ferragostano in cronaca

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1962. In una Roma deserta per il ferragosto, un tizio in spiderino con fiancata appena uscita dal carrozziere senza verniciatura, che subito ci dice del suo stile di guida, cerca sigarette e soprattutto un telefono pubblico per chiamare gli amici con cui doveva partire in vacanza alle 11: Ma come sono le 12 e so’ già partiti? non è un campione di puntualità. Come apprenderemo si chiama Bruno Cortona, tipico romano de Roma che nel piccolo del suo particolare è il simbolo dell’italiano medio, dell’epoca, e purtroppo tocca pure dire, di sempre: sbruffone, arrogante, pressapochista, seduttivo, opportunista. Lo interpreta il 40enne Vittorio Gassman, già prim’attore teatrale di cui basta ricordare “Otello” del 1956, anche regia, in cui ogni sera si alternava col collega Salvo Randone nei ruoli del Moro e di Iago.

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Paolo Ferrari e Vittorio Gassman

Anche nel cinema era stato molto attivo e dopo il clamoroso successo di “Riso amaro”, 1949, si ritaglierà anche una carriera hollywoodiana con ruoli di aitante affascinante vilain; ha all’attivo pure “I soliti ignoti” col sequel “L’audace colpo dei soliti ignoti”, 1958-59, e con “La grande guerra”, sempre del ’59, conferma le doti comiche del suo indubbio istrionismo. Sempre del ’59, anno per lui evidentemente magico, è il successo tv “Il mattatore” che sarà anche film nel ’60: una serie di sketch in cui Gassman istrioneggiava con il supporto di altri talenti dell’epoca, il più noto dei quali è Paolo Ferrari.

Inizialmente, col titolo “Il giretto”, il film era stato pensato per Alberto Sordi che era sotto contratto in esclusiva con Dino De Laurentiis, ma la sceneggiatura passò di mano e andò a Mario Cecchi Gori che aveva sotto contratto Vittorio Gassman e con la guida del regista co-sceneggiatore Dino Risi il progetto prese corpo; andava però girato in 60 giorni altrimenti Gassman sarebbe costato un’addizionale, secondo contratto. La sceneggiatura non era definitiva e neanche il cast era completo: mancava addirittura il coprotagonista ma Risi cominciò a girare proprio a ferragosto, filmando la reale città deserta, e mettendo accanto al Mattatore una controfigura. Nella prima inquadratura alla finestra, il nuovo compagno d’avventura è in penombra e quando dopo scorrazzano per la città, l’auto è filmata in campo lungo, con la controfigura che col braccio si copre il viso.

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Brigitte Bardot in costume di scena con Jean-Louis Trintignant preso per mano dal regista Roger Vadim sul set di “E Dio creò la donna”

Come ha poi raccontato Dino Risi in un’intervista: “Cominciai il film senza sapere chi sarebbe stato il compagno di Bruno Cortona: sapevo solo che doveva essere di piccola statura, biondo e, naturalmente, giovane.” Quindi fu scelta una controfigura con queste caratteristiche. Poi, per accordi produttivi e di distribuzione fe fatto venire da Parigi l’attore francese Jean-Louis Trintignant: “Per me sconosciuto. Lo vidi e dissi subito: è lui. Gentile, timido, educato, era il perfetto antagonista di Gassman.” Grave lacuna questa del regista poiché Trintignant era già un giovane divo in patria, giunto al successo nel 1956 con “Piace a troppi” meglio noto come “E Dio creò la donna”, diretto da Roger Vadim, con protagonista femminile Brigitte Bardot, moglie del regista, che durante la lavorazione del film fu colta da amour fou per il collega Trintignant, che a sua volta era sposato con Stéphane Audran, creando sul set un clamoroso triangolo amoroso da prima pagina: i due matrimoni non ressero l’impasse ma anche la relazione fra i due fedifraghi bruciò rapidamente. Evidentemente Dino Risi non aveva visto il film né letto i giornali scandalistici…

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Gassman con Dino Risi sul set del film “Il Mattatore”

Risi è già un regista di successo dalla metà degli anni ’50 ma è negli anni ’60 che il suo talento verrà consacrato, maestro della commedia all’italiana insieme a Mario Monicelli e Luigi Comencini. Lui personalmente verrà paragonato dai critici a Billy Wilder. Aveva già diretto Gassman in “Il Mattatore” e sapeva di dover lasciare all’attore lo spazio per l’improvvisazione, ma tutto doveva rientrare nel percorso stabilito di una rigida sceneggiatura che alternava i momenti su strada ai vari siparietti: alla commedia contrappone l’indagine sociale con sequenze ancora debitrici di quel neorealismo che lui stesso aveva sperimentato a inizio carriera: “Il sorpasso” è un’indagine sociale, anche spietata benché condotta con mano leggera, sugli italiani del boom economico, qui alle prese con la vacanza effimera del ferragosto, trasversale, che va da chi viaggia in pullman o su macchinette stracariche di gente e masserizie, ai benestanti in trasferta nelle seconde case a Castiglioncello. Non è un caso se il film parte dal quartiere romano della Balduina, Roma nord, regno dei palazzinari dell’epoca subito abitato da attori e cantanti per la qualità che offriva, oltre che da professionisti cum laurea e ricchi commercianti. E dalla Balduina Bruno Cortona si immette sull’Aurelia, la consolare che conduce verso l’alto Lazio, alle località di villeggiatura come Civitavecchia, Fregene, Santa Marinella, Capalbio: una via, l’Aurelia, che diventa percorso e simbolo dei viaggiatori vacanzieri e spensierati. Così come la vettura, non a caso anch’essa Aurelia, Lancia Aurelia B24 potenziata, spider scoppiettante largamente in uso fra i bon vivant di quei primi anni ’60 ma i cui ultimi modelli erano usciti di fabbrica nel 1958. Non va dimenticato il pacchiano clacson tritonale che molti italiani, apprezzando, fecero installare sulle proprie vetture.

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Sono simbolici anche i due personaggi: se Bruno Cortona rappresenta il peggio, l’italiano rumoroso, affarista e anche un po’ meschino, lo studente di legge Roberto Mariani racconta l’altra Italia, quella silenziosa e produttrice che però soccombe al fascino dell’arrogante e si lascia traviare dalla retta via. Novità assoluta l’uso – che oggi ci sembra vecchio – della soggettiva narrativa di Roberto: un’invenzione del Dino Risi laureato in medicina e specializzato in psichiatria secondo i voleri della famiglia. Per la prima volta lo spettatore ascolta il pensiero del personaggio, viene portato al cinema l’io narrante di tanta narrativa, che però qui si limita a momenti circoscritti per descrivere un disagio e un’opposizione che nei fatti vengono sempre disattesi. La voce di Roberto Mariani è quella di Paolo Ferrari. Altra novità che il film introduce nel filone della commedia è quella che gli americani chiameranno buddy-buddy, amiconi e compagnoni, qui impegnati in un duello psicologico di sottile sopraffazione e di un’opposizione indebolita dalla piacevolezza della via narrata in discesa, ma che nasconde curve pericolose. Ulteriore novità è il racconto su strada, e anche gli americani faranno presto a dare una definizione vincente: road movie. “Il sorpasso” è l’antesignano dei road movie, ma questo termine arriva dopo che il film è diventato un cult negli Stati Uniti, e Dennis Hopper vi si ispira per il suo “Easy Rider” del 1969, primo road movie della storia del cinema – quella raccontata dagli americani. Negli USA il film era stato presentato col titolo di “Easy Life”, ben cogliendo l’essenza del film, mentre i francesi l’hanno intitolato “Le Fanfaron”, ponendo l’accento sul carattere del personaggio, italiano, e dunque da deridere. Fu un tale successo internazionale che ancora oggi in Argentina la parola “sorpasso” viene da alcuni usata come “spaccone”. Il film introduce un’ulteriore novità: canzoni tra le più in voga come accompagnamento sonoro, caratterizzazione del personaggio e dei contesti, pratica oggi diffusissima che prende il nome di compilation.

Benché coprotagonista assoluto il nome di Jean-Louis Trintignant nei titoli e in cartellone viene terzo, dopo quello di Catherine Spaak, una giovanissima francese di origine belga, nota in Italia più di Trintignant, il quale, dopo il successo di “E Dio creò la donna” dovette mettere in pausa la carriera per il servizio militare svolto ad Algeri. La 17enne Spaak è figlia di un amico del regista Alberto Lattuada che a 15 anni l’aveva fatta debuttare nel discusso e censurato “Dolci inganni”, una storia morbosa sulla falsariga del romanzo “Lolita” di Nabokov giunto al successo in quegli anni; a Catherine Spaak rimase appiccicato il cliché dell’adolescente spregiudicata, che anche qui interpreta come figlia di Bruno Cortona che si accompagna al maturo Bibì interpretato da Claudio Gora; la moglie separata di Bruno è interpretata da Luciana Angiolillo, attrice che aveva debuttato da protagonista ma che dal Sorpasso in poi non riesce a uscire dalla spirale dei secondi ruoli e preferirà abbandonare il cinema. Nell’affollata sequenza di Castiglioncello ci sono le famiglie: Gassman aveva chiesto a Risi di girare lì perché vi soggiornava l’ex moglie Nora Ricci con la figlia Paola, di modo che durante le pause potesse stare in famiglia. La 17enne Paola, coetanea della Spaak, debuttò come figurante, così come i due figli di Claudio Gora, Andrea e Carlo Giordana; ci sono anche un giovanissimo Giancarlo Magalli come ragazzo sul muretto e Vittorio figlio del produttore Cecchi Gori. Una delle due turiste tedesche è la danese Annette Strøyberg, bionda pseudo-Bardot già moglie di Roger Vadim appena sei mesi dopo il divorzio dalla Bardot originale; che nel periodo delle riprese è già l’amante di Gassman, relazione che darà a Vadim il fastidio di un altro divorzio; relazione però di breve durata, come le successive, dato che la danese finirà puntualmente nei letti dei colleghi: Alain Delon, Warren Beatty, Omar Sharif…

“Il sorpasso” è il primo film commedia con un finale tragico, finale che pare sia stato lasciato alla sorte: il produttore Cecchi Gori avrebbe voluto un lieto fine coi due che sfrecciavano felici verso il futuro, e dopo lunghe discussioni si affidarono alla meteorologia: se ci fosse stato bel tempo Dino Risi avrebbe girato il suo finale tragico, e per fortuna così fu – considerando però che un regista accorto è sempre informato sulle condizioni meteo possiamo affermare che Risi ha barato. E in chiusura uno scherzo: sul cruscotto dell’Aurelia c’è uno di quei magneti, come usavano, con scritte benaugurali in cui mettere la foto di una persona cara, su cui è scritto “Ti aspetto a casa” e c’è la foto di Brigitte Bardot: fanfaronata di Bruno Cortona e sberleffo a Jean-Louis Trintignant.

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