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La stranezza

Quest’anno ben due film su Luigi Pirandello. Il primo, “Leonora addio” di Paolo Taviani è uscito a inizio anno e “La stranezza” di Roberto Andò ha visto la luce a ottobre al Festival del Cinema di Roma e nelle sale si è subito piazzato al primo posto degli incassi, mentre il film di Taviani, spiace dirlo, non ha avuto altrettanta fortuna. Dunque non è Pirandello che porta la gente al cinema e, tocca dirlo, neanche Andò, un autore rinomato e premiato dalla critica ma mai abbastanza dal pubblico: questo è il suo primo vero successo commerciale, cui certamente seguiranno i dovuti premi.

Roberto Andò è un intellettuale palermitano che deve praticamente tutto alla sua amicizia con Leonardo Sciascia al quale dedica questo film; fu l’altro siciliano eccellente, scrittore assai rappresentato al cinema e in teatro, a spingerlo alla scrittura e a introdurlo nel mondo del cinema, dove Andò sarà assistente di Francesco Rosi, Giacomo Battiato e Federico Fellini fra i grandi italiani, e Michael Cimino e Francis Ford Coppola fra gli americani venuti a girare in Sicilia. Così va imparando il mestiere col meglio del panorama cinematografico mentre apprende l’arte della messinscena a teatro, sempre con progetti di alto livello culturale e debutta con un testo che gli è stato affidato nientemeno che da Italo Calvino e Andrea Zanzotto e messo in scena con i bozzetti di Renato Guttuso: meglio di così!… Impiegherà una decina d’anni per realizzare il suo primo lungometraggio, “Diario senza date” una docu-fiction ambientata in quella sua Palermo, i cui misteri indaga attraverso testimonianze e interviste vere e inventate; mentre il suo primo lungometraggio totalmente di finzione narrativa è una finzione che racconta la realtà ispirandosi alla biografia di un altro siciliano eccellente, Giuseppe Tomasi di Lampedusa con “Il manoscritto del principe”; dopo una serie di film i cui protagonisti sono sempre degli intellettuali, perché quello è il suo mondo e il suo immaginario, torna con questo scherzo biografico su Luigi Pirandello e fa tombola.

Abbandona i suoi più congeniali toni pensosi e ai tormenti personali e sempre inevitabilmente intellettuali del Pirandello, colto nel periodo in cui sta scrivendo i “Sei personaggi in cerca d’autore”, contrappone una favola ironica e grottesca degna del miglior cinema sul teatro e del miglior cinema di ambientazione siciliana: una coppia di teatranti amatoriali mette in scena un dramma che ovviamente si rivolge in farsa e la cui interazione fra teatranti e pubblico si rivela di grande ispirazione per il tormentato autore che non sa dare forma ai suoi personaggi-fantasma. “La stranezza”, titolo quanto mai efficace perché misteriosamente accattivante, è detta nel film dalla balia del Pirandello bambino che era vittima di parossismi estatici e creativi che la balia illetterata poteva descrivere solo come stranezza, una stranezza che nel presente narrativo diventerà la stranissima, per l’epoca, “Sei personaggi in cerca d’autore, commedia da fare” che debutterà al Teatro Valle di Roma, oggi minuziosamente ricostruito in studio con l’impiantito e le poltroncine di legno, il 9 maggio del 1921, e sarà un clamoroso insuccesso, con pochi sostenitori che verranno alle mani con molti dei buggeratori che accoglieranno l’autore gridandogli “Manicomio! manicomio!”, invettiva specifica speciosa e ad arte, sicuramente lanciata per prima da qualcuno che conoscendo la personale tragedia di Pirandello voleva colpirlo nell’intimo: due anni prima l’autore era stato costretto a far rinchiudere in un manicomio la moglie pazza.

A essere onesti quel pubblico non aveva tutti i torti: abituato al teatro classico e ai drammi borghesi, improvvisamente si trova ad assistere a un’ardita sperimentazione che mette in discussione l’intero impianto teatrale, la concezione dei personaggi e il ruolo degli attori. Avevano imparato a conoscere e apprezzare Pirandello sin dal suo grande successo letterario “Il fu Mattia Pascal” pubblicato nel 1904 prima a puntate sulla rivista Nuova Antologia e poi in volume, un successo determinato proprio dai lettori prima che dalla critica che si era mostrata tiepida; una disattenzione che ferì nell’intimo l’autore, che di rimando se la prese pubblicamente con coloro che, osannati dalla medesima critica, egli non riteneva degni: Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli, alla cui uscita delle opere dichiarò di detestarli nel modo più assoluto, e ancor di più gli brucerà l’essere ignorato da D’Annunzio mentre Pascoli beffardamente lo apostrofò “Pindirindello”. Passeranno pochi anni e Pindirindello avrà la sua rivincita vincendo il Premio Nobel per la letteratura.

Oggi sorprende e fa sorridere che grandi nomi che abbiamo studiato sui libri di scuola siano stati esseri umani con tutte le umane debolezze annesse. In ogni caso lettori e pubblico teatrale avevano fin lì amato Pirandello, a cominciare dalle sue prime prove sceniche che si rifacevano alla classica narrativa siciliana: “Cecè” “Liolà” “Pensaci, Giacomino!” fra gli altri; nella sua seconda fase, l’Agrigentino si discosta da quello che in qualche modo rinnovava il teatro di tradizione dell’Isola, e si avvia verso i drammi borghesi con incursioni nel grottesco anche di tono drammatico, e nell’umoristico, ad esempio: “Così è (se vi pare)” “Il berretto a sonagli” “L’uomo, la bestia e la virtù”. A quel punto, ed è questo il periodo sul quale si concentra il film di Andò, Pirandello dà un’ultima svolta, quella decisiva, al suo teatro col dirompente “Sei personaggi in cerca d’autore”, una fase poi definita di teatro nel teatro: ricordando che egli fu regista delle sue messe in scena, rendendosi conto che la rappresentazione non poteva essere soltanto parola ma anche spettacolo visivo, tornò di fatto al teatro shakespeariano con la tecnica del palcoscenico multiplo, ovvero spazi scenici diversi in cui gli attori agiscono contemporaneamente; inoltre viene mostrato il teatro come work in progress, lo diciamo oggi, il teatro che racconta se stesso.

La scena nella scena, il palcoscenico multiplo dei “Sei personaggi”
La quarta parete fa parte della sospensione dell’incredulità esistente tra l’opera di finzione e lo spettatore. Il pubblico di solito accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali.

E ancora, Pirandello rimuove l’immaginaria quarta parete, concettualmente codificata da Denis Diderot (metà ‘700) per far comprendere la necessità di una recitazione più realistica, dove l’azione scenica si completa nel suo spazio e nel suo tempo che prescinde da quello reale in cui è il pubblico; di fatto la quarta parete era un concetto già noto sin dai tempi dell’antica Roma, tanto che il commediografo Plauto (250 a.C.) fu fra i primi a romperla facendo comunicare gli attori direttamente col pubblico in un’azione dichiaratamente di finzione per entrambe le parti, con dialogo e interazione molto apprezzati dal pubblico popolare e che sarà connaturata nella Commedia dell’Arte dove con gli a parte i personaggi si rivolgono direttamente al pubblico per metterli in guardia su quanto sta per accadere o per sollecitarne personali simpatie. Dunque, dopo quasi tre secoli, Pirandello rompe di nuovo la quarta parete in un teatro ormai sterilmente imborghesito e lo fa a tutto tondo, facendo agire i suoi personaggi fra il pubblico in sala che, dato il contesto e la consuetudine, non poteva comprendere: Manicomio! manicomio!

Raccontano i biografi di Pirandello su Pirandelloeweb.net di come una volta dei muratori che lavoravano davanti alle finestre della casa dello scrittore, sospendessero il lavoro per contemplare, stupiti e affascinati, quanto avveniva nel suo studio: Pirandello si era messo “a parlare da solo, gesticolare, strabuzzando gli occhi, e facendo le più strane facce del mondo”. Quegli operai avranno pensato di aver sorpreso il drammaturgo, evidentemente pazzo, in un momento di delirio; In realtà egli era impegnato in uno dei suoi frequenti colloqui coi personaggi, di cui parla nella novella omonima che si può leggere o ascoltarne la lettura nel link dato. Scrisse la commedia fra l’ottobre del 1920 e il gennaio del 1921 avendo come fonte narrativa anche le altre sue novelle “Personaggi”, “La tragedia di un personaggio”.

Foto di gruppo della compagnia del 1921, al centro Dario Niccodemi seduto, alla sua sinistra sono riconoscibili Vera Vergani e Jone Frigerio.
Pirandello con Dario Niccodemi

Dario Niccodemi fu accortamente anche un impresario che produsse Pirandello, ma era principalmente un drammaturgo che scriveva commedie sentimentali e ironiche ambientate nell’alta società borghese, il cui successo di punta fu “La nemica”, opera che Lev Tolstoj disse di preferire ai lavori dello stesso Pirandello o ai romanzi di Giovanni Verga. Egli aveva appena costituito la sua compagnia nella quale era prima attrice Vera Vergani, sentimentalmente e direi opportunamente a lui legata, e prim’attore era Lugi Cimara che con la Vergani formò un’affiatata coppia scenica, e mai sapremo quanto affiatata fu anche in privato: chiacchiere di antichi corridoi; altro attore di punta era Luigi Almirante, forte carattere espressivo che ebbe un suo personale successo proprio con le opere pirandelliane a partire da questi “Sei personaggi” in cui interpretò il Padre, con Jone Frigerio nel ruolo della Madre, l’acclamatissima Vergani come Figliastra e Cimara come Figlio. Nonostante il contrastato esordio romano, l’impresario Niccodemi non si fece intimorire e portò lo spettacolo a Milano dove fu degnamente acclamato: in questo link la critica dalla rivista Comoedia dell’ottobre 1921. Più tardi, nel 1925, Pirandello aggiunse una prefazione nella quale spiegava la genesi e le intenzioni del dramma, per meglio disporre il pubblico alla comprensione.

Roberto Andò ci accompagna in un viaggio immersivo nel disorientamento di un Pirandello in lutto per la morte della vecchia balia, distrutto dalla follia della moglie e tormentato dai suoi fantasmi-personaggi che ancora non sa come portare in scena – e lo fa regalandosi e regalandoci una leggerezza narrativa che scivola su tutto il racconto drammatico come un balsamo lenitivo: si sorride, si ride anche, mentre si palpita e ci si emoziona per questo Pirandello così misteriosamente umano ed empatico.

Lo interpreta un Toni Servillo sempre in gran spolvero quando c’è da rendere dei personaggi realmente esistiti: è stato Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi e Ennio Doris per Paolo Sorrentino (“Il divo” e “Loro”), Giuseppe Mazzini e Eduardo Scarpetta per Mario Martone (“Noi credevamo” e “Qui rido io”), e Paolo VI in “Esterno notte” di Marco Bellocchio. Gli fanno da contraltare la coppia Ficarra e Picone, Salvatore Ficarra e Valentino Picone, che si esibiscono come cabarettisti a partire dal 1993; nel 2000 partecipano separatamente con piccoli ruoli in “Chiedimi se sono felice” film del trio Aldo Giovanni e Giacomo, e già dal 2002 avviano la loro personale sequenza di film di derivazione cabarettistica; in questo “La stranezza” sono per la prima volta protagonisti di una commedia, grottesca sì ma dai risvolti drammatici, in cui benché sempre facendo coppia sono altro e meglio del loro standard, già alto: il loro ultimo film pre-pandemia “Il primo natale” era in testa nella classifica del botteghino.

Il resto del nutrito cast è una felicissima carrellata di facce perfette, cinematograficamente parlando, facce che altrettanto felicemente corrispondono ad interpreti di razza, e si intuisce un minuzioso lavoro di casting. Renato Carpentieri interpreta il Giovanni Verga che Pirandello va ad omaggiare per i suoi ottant’anni, e al quale rivolge i suoi dubbi esistenziali e creativi. Aurora Quattrocchi è la vecchia balia, e la catanese Donatella Finocchiaro, già protagonista per Andò in “Viaggio segreto” del 2006, qui interpreta in una sola intensa scena muta la moglie pazza di Pirandello. A conclusione dei personaggi che ruotano attorno a Pirandello va senz’altro nominato il suo storico suggeritore Battaglia interpretato da Antonio Ribisi La Spina. Altro centratissimo interprete di una scena muta, perché muto è il personaggio, è l’ultima grande maschera del teatro catanese, Tuccio Musumeci, nel ruolo del suocero di Nofrio (Picone) sempre in mezzo sulla sua sedia a rotelle e con uno sguardo sempre preventivamente punitivo. Rosario Lisma è il corrotto impiegato comunale la cui vicenda è una storia nella storia.

In primo piano Antonio Ribisi La Spina
Cartolina ricordo della compagnia filodrammatica

Fra gli attori amatoriali della “Compagnia Filodrammatica Siciliana Principato e Vella” spiccano la puntuta Marta Lìmoli, del cui personaggio non sappiamo le vicende ma che potrebbe essere una sartina come una bidella come la moglie del farmacista, e il bonaccione Franz Cantalupo anche becchino per la coppia dei capocomici impresari funebri: entrambi attori provenienti dalla scuola catanese che benissimo hanno saputo mimetizzarsi, anche linguisticamente, in un cast girgentino-palermitano: è cosa nota che siciliani dell’est e dell’ovest hanno cadenze e musicalità diverse e che non sempre sono in grado di fingersi gli uni per gli altri. Nella compagnia amatoriale spicca anche Brando Improta che è Fofò, il torvo trovarobe innamorato di Santina, la sorella del gelosissimo Bastiano (Ficarra) che però finirà col fare coppia col di lui amico Nofrio che per lei lascerà la famiglia e romperà la storica amicizia col collega d’impresa funebre e d’arte. Santina è interpretata da Giulia Andò, figlia del regista e col quale ha praticamente solo lavorato, e forse meriterebbe di spiccare il volo dal nido. Visibilmente appesantita ma per questo efficacissima nel ruolo della prostituta che allieta i momenti intimi di Bastiano, è Tiziana Lodato, un’altra catanese che fu protagonista ventenne al suo debutto in “L’uomo delle stelle” di Giuseppe Tornatore. Completano il cast dei filodrammatici Laura Giordani, già vista in “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, Aldo Failla protagonista di una divertente gag, Adele Tirante e Alberto Molonia.


Adele Tirante, Laura Giordani, Franz Cantalupo e Aldo Failla nella compagnia amatoriale

Nella catartica messa in scena dei “Sei personaggi” Filippo Luna è il direttore di scena, Luigi Lo Cascio il capocomico, Fausto Russo Alesi il Padre, Galatea Ranzi la Madre, Giordana Faggiano la Figliastra e Paolo Briguglia il Figlio, in una inappuntabile e coinvolgente ricostruzione storica di quell’evento, col pubblico che venne alle mani e Pirandello che dovette fuggire insieme alla figlia. I due teatranti amatoriali venuti dalla Sicilia ad assistere allo spettacolo rimangono chiusi nel teatro vuoto e non sapremo che ne sarà di loro perché non importa: sono ulteriori fantasmi che hanno animato la stranezza creativa di Luigi Pirandello in un’invenzione narrativa che veicola un momento biografico e storico. Nel complesso un film di cui sentiremo ancora parlare, con diversi piani di lettura e di un autore in stato di grazia che, va detto, l’ha scritto con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso. Premi in arrivo per tutti.

Il cast del ricostruito Teatro Valle

E’ stata la mano di Dio

Un film in stato di grazia. Candidato per l’Italia agli Oscar 2022 ma l’Academy deve ancora decidere se rientrerà nella selezione, candidato al Golden Globe, in concorso per il Leone d’Oro a Venezia ha vinto quello d’Argento Gran Premio della Giuria (quello d’oro è andato all’unanimità al francese “La scelta di Anne”), sempre da Venezia il Premio Marcello Mastroianni al migliore esordiente Filippo Scotti e il Pasinetti assegnato dai giornalisti come miglior film e migliore attrice a Teresa Saponangelo, e fra altri premi minori e candidature la lista internazionale è ancora lunga.

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Ormai sappiamo che i film di Paolo Sorrentino, sceneggiatore e regista, non passano inosservati, sin dal suo primo lungometraggio “L’uomo in più” (2001) col quale vince il Nastro d’Argento come migliore regista esordiente e col quale inizia il suo sodalizio con Toni Servillo, suo attore feticcio. Di film in film e di premio in premio arriva a prendersi l’Oscar nel 2014 con “La grande bellezza” e oggi è in lizza per fare il bis, e i numeri ci sono tutti, il film è di quelli che piacciono agli americani ma bisognerà fare i conti con gli altri candidati di cui al momento nulla si sa.

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Un film in stato di grazia, dicevo, commedia tragica, ché dirlo tragicommedia sembra riduttivo perché sembra volerlo relegare in un sottogenere, mentre questo film percorre tanti generi, dal biografico al film di formazione. Sorrentino ci mette se stesso, la sua giovinezza spensierata di secchione (oggi si dice nerd) che commenta le situazioni coi versi del sommo Dante e che dopo il diploma (ha 17 anni circa) vuole iscriversi a filosofia. Un ragazzo come tanti in una famiglia come tante allargata a parenti ed amici, figure che via via che si allontanano dalla cerchia ristretta del nucleo familiare diventano vieppiù macchiette da raccontare con pochi tratti, poche pennellate sempre magistrali, perché il chiaroscuro dei dettagli e la profondità di indagine e di immagine è conservata per gli affetti più cari, i genitori e il fratello maggiore, riservando alla sorella l’emblematica figura di un personaggio incognito, sempre chiusa in bagno, da cui la vedremo uscire con una maschera dolorosa all’accadere della tragedia.

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Paolo Sorrentino è un narratore eccezionale e fa della sua biografia un racconto esemplare anche e soprattutto nelle piccole cose, perché a raccontare grandi cose, barzellette e tragedie, siamo buoni tutti; tutti abbiamo nelle nostre famiglie soggetti con disturbi della personalità e nelle nostre giovinezze personaggi fuori dalla norma e sopra le righe: Sorrentino ne fa dei ritratti esemplari, ancora una volta, e di straziante bellezza narrativa: la zia Patrizia e la signora Gentile.

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Durante la gita in barca tutti a prua a guardare imbarazzati il nudo integrale di Patrizia
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La Patrizia di Luisa Ranieri della quale sul web non circolano ancora le immagini del nudo integrale nel film, ma solo nudi in film precedenti che non prendo in prestito

La prima afflitta (e nel termine afflitta non vuole esserci giudizio morale) da una esuberanza erotica (o ninfomania) che viaggiando di pari passo a un disagio psichico la porta a prostituirsi per poi raccontare di avere avuto incontri fantastici e e miracolosi con San Gennaro e la mitica figura partenopea del monaciello: il sacro e il profano; la seconda come amica di famiglia, donna dura chiusa in un suo mondo interiore, che a dispetto del cognome Gentile manda sempre affanculo tutti con i termini più coloriti della lingua napoletana, e da tutti sempre derisa: l’attenzione di Sorrentino per questo personaggio di contorno, e il suo affetto sincero, prendono corpo quando nel momento del dolore sarà l’unica a rivolgere al giovane protagonista dei versi di Dante in un dialogo fra pari che si sono compresi fuori dal coro.

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Dora Romano come Signora Gentile

Dora Romano la interpreta con sguardi di furore trattenuto e grande adesione. Alla zia Patrizia, sua musa ispiratrice e sogno erotico, Sorrentino dedica tutto l’inizio del film – dopo una lunga silenziosa ripresa aerea che dal mare entra in città a esplorare la lunga fila di maschere grige alla fermata dell’autobus nella quale brilla di erotica bellezza, coi capezzoli dei seni generosi che quasi bucano la camicetta, la zia che si lascia irretire da un fascinoso San Gennaro in limousine con autista che la conduce in un fatiscente palazzo nobiliare dove le compare anche il monaciello della tradizione partenopea: un momento di puro cinema surrealista, o immaginifico alla Federico Fellini, in un film che qua e là si aprirà su altri momenti e scenari emblematici, com’è nel gusto di Sorrentino – “La grande bellezza” in testa – e nella qui dichiarata ispirazione al cinema di Fellini che diventa a sua volta personaggio in commedia. La napoletana del Vomero (come l’autore) Luisa Ranieri si dà completamente a questo bellissimo personaggio che Sorrentino dichiaratamente ama sin dall’adolescenza, ed è forse per lei – che ha debuttato con Pieraccioni vent’anni fa e passando anche per la tv sia come attrice che come conduttrice – l’interpretazione più carismatica della sua carriera.

Vale la pena annotare che il fascinoso signore di mezza età che lei vede come San Gennaro è interpretato da Enzo Decaro, il bello del trio cabarettistico La Smorfia formato nella seconda metà degli anni ’70 con Massimo Troisi e Lello Arena. Sorrentino nel 1991 gli è stato assistente alla regia quando Decaro tentò il percorso di autore cinematografico parimenti ai suoi ex colleghi Arena e Troisi, con differenti esiti.

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In questo film corale è protagonista assoluto l’io narrante Fabietto Schisa alter ego dell’autore che affida il ruolo al ventenne Filippo Scotti nativo della provincia di Como ma trasferitosi a Napoli con la famiglia: i genitori sono entrambi insegnanti. Il ragazzo, già da bambino è interessato alla recitazione e a 11 anni si iscrive a dei laboratori teatrali e da lì in poi si avvia al teatro e poi partecipa a dei cortometraggi; con un piccolo ruolo nel televisivo Sky “1994” e poi con una presenza più consistente nel Netflix “La luna nera” a vent’anni ha già la maturità professionale per questo ruolo da protagonista a cui si richiede il vero talento, secondo la scuola dell’autore Sorrentino, che in questo film mette insieme un cast eterogeneo di professionisti e debuttanti che tutti insieme diventano, sotto la direzione del maestro, un esempio di come si dovrebbe recitare. A tal proposito Sorrentino si prende la briga, attraverso il personaggio del suo primo maestro di cinema Antonio Capuano, qui interpretato da Ciro Capano, di dare una lezione morale di recitazione a quegli attori troppo autoreferenziali e stilosi.

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I genitori sono Toni Servillo (una volta tanto non al centro del film) e una sorprendente e già premiata Teresa Saponangelo, attrice da tenere in gran considerazione fin qui relegata sempre in ruoli di supporto. L’importante personaggio del fratello maggiore è andato a Marlon Joubert, nome mezzo americano e mezzo francese per un attore di cui si sa poco o nulla, neanche l’età grazie al fatto che evita i social; dal curriculum sulla pagina del suo agente cinematografico si evince un po’ di teatro, qualche cortometraggio due dei quali come autore e soprattutto un ruolo ricorrente nella serie tv Sky “Romulus”; qui è alla sua prima esperienza con un importante ruolo da coprotagonista e la mia attenzione è dovuta al fatto che è un attore da tenere in considerazione per il futuro; al suo personaggio di fratello maggiore, che lui interpreta con sincera ed emotiva partecipazione, vanno molti dei momenti più significativi del film: è lui che rinuncia ai suoi sogni di gloria – come ogni giovane ne ha – scegliendo la rassicurante banale felicità del quotidiano fatto di piccole cose, gli spinelli gli amici e l’amore, benedicendo il fratello minore che se ne va con il pesante fardello della perseveranza alla ricerca del successo e, implicitamente, della tortuosa infelicità dell’artista.

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Nel resto del cast che sarebbe da premiare tutto in blocco, ritroviamo come zio filosofo l’ormai “grande vecchio” del cinema napoletano Renato Carpentieri qui alla sua prima volta con Sorrentino; nel ruolo dell’ambigua anziana baronessa facciamo la conoscenza della teatrale Betty Pedrazzi ancora poco presente al cinema e sono certo che la rivedremo. Della cinematografia napoletana rivediamo Massimiliano Gallo, Roberto De Francesco, Cristiana Dell’Anna e Lino Musella. La giovane russa Sofya Gershevich fa l’attrice straniera che recita la Salomè di Oscar Wilde in italiano incorrendo nelle ire del purista Antonio Capuano di cui ho già detto. Sorprendente per freschezza e adesione l’interpretazione dell’ex scugnizzo dei Quartieri Spagnoli Biagio Manna che è passato dalla vita di strada alla recitazione, come tanti suoi coetanei che hanno trovato un senso di vita migliore grazie alla frequentazione dei set, non ultima la serie Sky “Gomorra” appena conclusa dopo cinque gloriose stagioni.

La Mano di Dio del titolo è quella che nel 1984, anno in cui si svolge la vicenda, ha portato a Napoli Diego Armando Maradona con grande esultanza di tutti i tifosi fra i quali si annovera Paolo Sorrentino che fa di questo suo film, in seconda istanza, anche un omaggio al grande calciatore; e per dire quanto l’autore sia appassionato di calcio basta ricordare che la sua opera prima “L’uomo in più” si ispira proprio alla vita di un altro calciatore, il meno noto e più sfortunato Agostino Di Bartolomei.

Il prossimo appuntamento è il 9 gennaio per l’assegnazione dei Golden Globe dove Sorrentino se la dovrà vedere con Pedro Almodòvar e il suo “Madre paralelas” che a Venezia si è aggiudicato la migliore interpretazione femminile per Penelope Cruz. Gli altri film in concorrenza vengono da Iran Giappone e Finlandia, da non sottovalutare perché sono stati vincitori in diverse sezioni al Festival di Cannes.

La Paranza dei Bambini, ovvero la Gomorra dei teenager

Il titolo è potente, la paranza è sia la pesca a strascico che il peschereccio. Nel gergo camorristico è il gruppo di fuoco. Nel suo ulteriore romanzo-inchiesta sulla camorra Saviano affronta il tema dei giovanissimi che si sostituiscono alle vecchie generazioni, i cui esponenti o sono morti o pentiti o in galera o ai domiciliari. Dunque una Gomorra di adolescenti. Qui l’occasione narrativa segue la vicenda di Nicolas, figlio di una lavandaia e del cui padre non è dato sapere. Ha 15 anni e tanta voglia di riscatto sociale nonché di soldi per potersi permettere le magliette da 150 euro e i 500 euro d’ingresso come vip in discoteca. In queste vite non c’è accenno di ricerca di altre opportunità: studio, lavoro, talento personale. L’ignoranza impera e l’oggetto del desiderio sono le armi sempre più potenti e i mobili neo-barocco dove anche gli sportelli in cucina sono filettati d’oro. Nicolas ha molta iniziativa e diventa un piccolo boss con una sua dirittura morale e sociale e una sua goffa storia d’amore propedeutica al racconto che si mischia all’inchiesta.

Ma la sensazione è quella del già visto. Gomorra ha fatto scuola: prima un film di successo e poi una acclamata serie tv dove la narrazione da un lato si fa via via più complessa, necessariamente, siamo alla quarta stagione in uscita, ma dall’altro gira su se stessa fra alleanze e tradimenti e attentati e sparatorie che se ben orchestrate possono andare avanti all’infinito e da un romanzo-inchiesta di successo si passa alla telenovela internazionale: nell’ultima stagione vista si spaziava fino in Venezuela e nella prossima si annuncia Londra. La camorra va in giro per il mondo e il prodotto tv si adegua felicemente.

Questa “Paranza dei Bambini” non è altro che un sottoprodotto ed è un peccato perché Saviano è un eccellente narratore di inchieste e anche le sue incursioni televisive in prima persona sono sempre assai argute e significative. Ma qui la sensazione è che stia raschiando il fondo del barile e l’unica nota positiva è il ricco apporto alla cinematografia partenopea trovando occasionale lavoro agli scugnizzi che per una stagione possono sognare altre glorie che non quelle della vera paranza.

Fra gli interpreti un solo professionista di lungo corso nel ruolo del vecchio boss in pantofole: Renato Carpentieri. Come boss all’opera ritroviamo l’Aniello Arena già protagonista di “Reality” di Matteo Garrono che gli è valso il Nastro d’Argento: girava quel film durante i permessi dalla detenzione. Valentina Vannino, che qui è la madre di Nicolas, è l’altra attrice di breve corso che ha debuttato un paio d’anni fa come protagonista di “L’intrusa” di Leonardo Di Costanzo. Nicolas e Letizia, i due protagonisti innamorati sono i debuttanti Francesco Di Napoli e Viviana Aprea, credibili e centrati nei loro ruoli: se son fiori, o se sono veri attori, fioriranno.

Il film ha appena vinto l’Orso d’Argento a Berlino per la sceneggiatura scritta da Saviano con Maurizio Braucci e il regista Claudio Giovannesi che lo stesso scrittore ha voluto come regista del film per la sua capacità di vedere del buono laddove nella sua stessa scrittura non c’è. Giovannesi si è fatto notare, e premiare, con “Alì ha gli occhi azzurri” e “Fiore”. E personalmente mi pongo in attesa di ulteriori necessari sviluppi: sia della narrativa camorristica di Saviano che delle carriere di tutti gli altri.