Archivi tag: raimondo vianello

L’arbitro – in omaggio alla memoria di Lando Buzzanca

il film completo

Anche Lando Buzzanca ha preso la via dei più. Aveva compiuto 87 anni ed è stato professionalmente attivo praticamente fino alla fine: la sua ultima partecipazione cinematografica è del 2017 nell’opera prima di Cesare Furesi “Chi salverà le rose?” che è uno spin-off di “Regalo di Natale” di Pupi Avati, film che riprende il personaggio interpretato da Carlo Delle Piane al suo ultimo film; mentre l’ultima partecipazione in assoluto di Buzzanca è nel film tv del 2019 “W gli sposi” di Valerio Zanoli, ultimo film anche per Gianfranco D’Angelo e Paolo Villaggio: tristi conteggi quando i cast sono composti da vecchie glorie.

Lando (Gerlando) nasce a Palermo in una famiglia già nell’ambiente dello spettacolo a vario titolo: lo zio Gino Buzzanca aveva cominciato nel teatro di tradizione e poi ha avuto una lunga carriera cinematografica come caratterista; mentre il padre Empedocle Buzzanca, di mestiere proiezionista, si reinventò anch’egli come caratterista siciliano in alcuni film sulla scia delle carriere di fratello e figlio. Ma Gerlando ha altri obiettivi e 17enne si trasferisce nella capitale per studiare recitazione con Pietro Sharoff mentre per mantenersi campa di lavoretti, cominciando pure a fare piccole cose sia in teatro che al cinema: la classica gavetta, insomma. Il suo debutto ufficiale è in un film di grande successo, “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi che poi lo scritturerà di nuovo per “Sedotta e abbandonata”, e nel frattempo compare in diversi altri film con ruoli grandi e piccoli, e purtroppo pur di lavorare sceglie qualsiasi cosa ritagliandosi il ruolo del siciliano belloccio ma ingenuo se non addirittura tonto in commedie di serie B con qualche incursione nello spaghetti-western e un paio di film con Totò.

Unica perla in quel periodo è il ruolo da protagonista in “Don Giovanni in Sicilia” regia di Alberto Lattuada dal romanzo di Vitaliano Brancati, e in generale anche se la critica resta con lui severa, e a ragione, il pubblico comincia ad amarlo per quel che è: un simpaticone che accende le fantasie femminili senza però diventare davvero minaccioso per i loro mariti che lo trovano sì divertente ma non un modello da imitare né da invidiare o temere. Il vero successo arriva con la televisione dove nel 1970 al fianco di Delia Scala interpreta “Signore e Signora”, un varietà che indagando in chiave grottesca i costumi delle coppie sposate moderne, dell’epoca, è una sorta di sit-com ante litteram; e in risposta al successo televisivo comincia ad avere un suo seguito anche al cinema, fino al successo internazionale con “Il merlo maschio” del 1971 di Pasquale Festa Campanile, un film su voyerismo-esibizionismo che esponendo le grazie di Laura Antonelli è a tutt’oggi è un cult anche in diverse parti del mondo. È in quel periodo, forte del successo personale, che comincia davvero a scegliere i suoi film fra le proposte che gli arrivano sempre più numerose, mostrando però di prediligere il genere per cui i critici lo criticano severamente: la commedia di costume con apprezzabili intenti satirici e di blanda denuncia, ma sempre e inevitabilmente in bilico fra il cinema di serie A e quello di serie B. Pare siano sue le idee dei film “All’onorevole piacciono le donne” il cui titolo completo è “Nonostante le apparenze… e purché la nazione non lo sappia… All’onorevole piacciono le donne” diretto da Lucio Fulci, un maestro del cinema di genere e di tutti i generi, il cui protagonista si ispira all’allora presidente del consiglio Emilio Colombo e che grande scandalo creò; e nello stesso anno, il 1972, del più serio “Il sindacalista” diretto da Luciano Salce, film che omaggia la figura del sindacalista Giuseppe Di Vittorio.

Anche “L’arbitro”, anno 1974, trae ispirazione da un personaggio reale pur facendone chiaramente una bonaria divertita parodia che non suscita reazioni scomposte: l’arbitro siracusano Concetto Lo Bello che nel film diventa l’acese Carmelo Lo Cascio, un altro maschio siculo alle prese con la sua prestanza fisica messa seriamente in discussione e che, insieme allo stress di dover mantenere alti i suoi livelli di professionalità sportiva e l’integerrimo rigore morale, lo porta all’abuso di anfetamine e alla catartica – e comoda per un finale che non si sapeva dove condurre – pazzia. Il film è gradevolmente furbo: pur solleticando il gusto per la commedia sexy e introducendo lo scivoloso ma anche divertente tema della cacarella da febbre intestinale, non diventa mai volgare e si mantiene in bilico sul grottesco e sul satirico senza però mai graffiare. Furbo anche il tema calcistico che mostra riprese dal vero negli stadi e negli spalti, abilmente montate alla narrativa fittizia, con frammenti di vere partite – la Roma-Hellas Verona disputata l’anno prima e conclusa 1-0; in altri frammenti intravediamo in campo gli interisti Sandro Mazzola e Roberto Boninsegna, oltre alle partecipazioni straordinarie dei giornalisti e commentatori sportivi Maurizio Barendson, Nicolò Carosio, Alfredo Pigna e Bruno Pizzul; mentre il laziale Giorgio Chinaglia canta la canzone dei titoli di testa “Football Crazy” senza molta convinzione e con scarsa tecnica canora.

Nel cast brilla per avvenenza la londinese Joan Collins che diventerà una star hollywoodiana di media caratura nonostante i bei ruoli in bei film al fianco di importanti star maschili: viene sempre relegata nel ruolo dell’amante spesso frivola, e l’attrice si adegua anche ai film storici e in costume. Era arrivata in Italia nel 1960 girando a Cinecittà da protagonista “Ester e il Re” di Raoul Walsh, e poi girerà con Ettore Scola “La congiuntura”, e “L’amore breve” con Romano Scavolini in un periodo professionale principalmente europeo in cerca di un riscatto artistico che non raggiungerà. “L’arbitro” è il suo terzo film italiano e vi interpreta una giornalista sportiva, figura assai avanti coi tempi in quel mondo allora esclusivamente maschile, che fa perdere la testa all’arbitro: un ruolo di supporto al protagonista assoluto Lando Buzzanca, oggetto erotico suo malgrado – ma decisamente intenzionale per l’attore – che fa fatica a soddisfare anche la legittima moglie interpretata da una centratissima Gabriella Pallotta, attrice che aveva intrapreso alla grande la sua carriera lavorando con registi importanti ma che poi, essendosi un po’ persa per strada – succede, la fortuna ha un ruolo fondamentale nelle carriere artistiche – decise di smettere di lavorare due film dopo questo; qui è doppiata da Rita Savagnone.

Gabriella Pallotta, con gli occhiali per non fare concorrenza alla Collins, come moglie dell’arbitro che sta asciugando dopo una doccia e dal quale implora la sua razione di sesso settimanale.

Fa da importante spalla all’arbitro il suo guardalinee nonché amico complice e confidente interpretato dall’altro palermitano Ignazio Leone, anch’egli di scuola teatrale dialettale che aveva cominciato in palcoscenico al fianco della coppia destinata al successo Franco e Ciccio. A comporre il quartetto delle due coppie amiche c’è Marisa Solinas come moglie del guardalinee e amica della moglie dell’arbitro con la quale discetta di argomenti come la sessualità femminile e l’orgasmo, temi all’epoca centrali negli slogan delle femministe ma qui nel film relegati a sberleffo come ridicole opinioni da rotocalco femminile, nel film detto Metropolitan orecchiando il reale Cosmopolitan. Altro ruolo importante va al messinese Massimo Mòllica, attore regista e impresario, figura centrale del teatro della sua città. In un ruolo di contorno intravediamo il giovane Alvaro Vitali che presto sarà protagonista di quelle commedie davvero scollacciate e volgari cui Lando Buzzanca ha rinunciato quando a metà dei suoi anni Settanta la commedia satirica di costume, che lui aveva scelto come suo scenario ideale, cede il passo alla commedia sexy di bassa lega. Si darà alla radio dove in “Gran Varietà” creerà la maschera di Buzzanco come erede del suo personaggio tv di “Signore e Signora”.

Tornando al film, è diretto con sagace leggerezza da Luigi Filippo D’Amico, che fu nipote dello storico critico teatrale Silvio D’Amico, da un suo soggetto che ha sceneggiato insieme a Giulio Scarnicci, storico collaboratore della coppia Tognazzi-Vianello, Sandro Continenza, anch’egli braccio destro del Vianello televisivo, e dallo stesso Raimondo Vianello, sceneggiatore di lusso di tante commedie e fine intenditore del tema calcistico. Ne consegue che i dialoghi, che pretendono di essere siculofoni, restano romanocentrici nella costruzioni delle frasi e nel vocabolario; a inizio film Buzzanca pronuncia un improbabile “E che minchia mi dici che va tutto bene, ah?” dove anche l’ah, benché esclamato da un palermitano, risulta finto; inoltre l’arbitro indirizza un primo “figlio di mignotta” specificando che lo dicono a Roma, ma poi una volta sdoganata la mignotta in questo sicilianese da Cinecittà, essa torna nel linguaggio dell’arbitro di Aci Reale come un abituale intercalare. L’unica esclamazione linguisticamente davvero credibile è quando l’uomo, impegnato in un amplesso con la giornalista, al sentire il campanello della porta le dice “Futtitinni!”.

il trenino del liquid party

Fra le modernità che gli sceneggiatori si compiacciono di inserire nel film, e che restano passaggi alquanto appiccicati, c’è il liquid party, dichiaratamente importato dall’Inghilterra, sorta di fluido preludio a un’orgia che non ci sarà, un ridicolo trenino dove ci struscia l’un l’altro e definito dai partecipanti “un millepiedi” che l’arbitro prontamente commenta “e cinquecento culi!”; ovviamente c’è anche l’immancabile macchietta dell’omosessuale che fa l’occhiolino all’imbarazzato maschio alfa. Ci sono poi gli speciosi studi della giornalista sull’acido lisergico che compone l’allucinogeno LDS: momenti di trasgressione cinematograficamente all’acqua di rose, in cui il protagonista si ritrova suo malgrado perché nonostante le sue malefatte extraconiugali egli resta un provinciale dagli integerrimi principi. Sul piano strettamente pruriginoso Lando Buzzanca, mostrandosi come maschio sexy orgogliosamente oggetto – che in una lettura psicologica potremmo definire passivo-aggressivo perché nella sostanza resta sempre un maschio dominante e maschilista – bontà sua con la sua ripetuta nudità da ripetute docce sportive trova il modo di farci intravedere anche il culo in un’amplesso interrotto dove la compiacente Joan Collins ci concede altrettanto, ma assai più fugacemente, perché i centimetri di pelle dell’anglo-americana si misurano in dollari sonanti.

C’è anche il tema politico tratteggiato nella figura del figlio neofascista che, con metodi a dire il vero più sinistroidi e alternativi che fascistoidi e conservativi, contesta l’autorità paterna a suon di pernacchie e poi con morale finale: sembra che il personaggio sia stato scritto proprio per essere di sinistra ma stranamente è diventato di destra – forse proprio per volontà dello stesso protagonista che non ha mai nascosto la sua fede destrorsa e che, nel successivo periodo di declino della sua carriera, ha accusato i produttori e l’intero sistema cinematografico di boicottarlo per questo. Salvo poi diventare a sua volta oggetto di critiche da parte della destra che si è sentita tradita nell’occasione della messa in onda del film tv di Luciano Odorisio “Mio figlio” in cui l’ormai anziano attore interpreta un commissario di polizia che dovrà fare i conti con l’omosessualità del figlio, prima rifiutandola e poi finendo col comprenderla e accettarla; critiche anche queste inutili a dimostrazione del fatto che a voler leggere in chiave politica eventi che di per sé non ne hanno è sempre una grande e anche dannosa sciocchezza. Umana debolezza.

Nel 1965 ha vinto il Laceno d’Oro all’Attor Giovane al Festival del Cinema Neorealistico per “La Parmigiana” di Antonio Pietrangeli e nel 2008 il David di Donatello e il Globo d’Oro come protagonista di “I Viceré” di Roberto Faenza; e nel 2014 riceve anche la Colonna d’Oro alla carriera al Magna Graecia Film Festival di Catanzaro. L’importante è chiudere in bellezza.

Noi siamo 2 evasi – nel centenario della nascita di Raimondo Vianello

Ricordiamo Raimondo Vianello, un altro della classe del ’22, come già abbiamo ricordato Pier Paolo Pasolini, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi che con Vianello formò una coppia di successo nella nascente Rai Radiotelevisione Italiana e che quello stesso anno, il 1959, girarono insieme altri due film, mentre il solo Tognazzi in quell’anno partecipò a ben 14 pellicole, nel segno di una fiorentissima carriera che avrebbe lasciato indietro l’amico Vianello che cinematograficamente non fu mai protagonista assoluto, ma che resta nei nostri ricordi come gran signore della televisione in coppia con la moglie Sandra Mondaini. E come vediamo nel manifesto e nei titoli il suo nome viene terzo dopo Tognazzi e la francese Magali Noël, già attrice e cantante di successo in patria che aveva varcato le Alpi l’anno prima per girare da protagonista “È arrivata la parigina” di Camillo Mastrocinque ma che resta scolpita nel nostro immaginario per i tre film girati con Federico Fellini.

Raimondo nacque a Roma da padre veneto con carriera nella marina militare e dunque soggetto a diversi spostamenti, e con dei quarti di nobiltà per parte di madre che gli conferiranno la sua innegabile eleganza nell’esprimere una comicità, a volte anche noir, più all’inglese rispetto a quella del suo compagno di scena più sanguigno: diversi e complementari. Da adolescente conobbe al liceo il coetaneo Vittorio Gassmann (che poi avrebbe tolto una N al cognome tedesco, doppia consonante recuperata dal figlio Alessandro) quando ancora entrambi non pensavano alla carriera artistica. Neolaureato in giurisprudenza con voti scarsi si dette alla carriera militare e fu sottufficiale dei Bersaglieri, e come tale aderì alla nascente Repubblica Sociale Italiana, anche nota come Repubblica di Salò, che s’instaurò nel Nord Italia fra il 1943 e il 1945: gli Alleati erano già sbarcati in Sicilia risalendo il territorio italiano fino a Napoli, e da Roma in su venne istituito quel regime come cuscinetto e baluardo all’avanzata degli Anglo-Americani, voluto da Adolf Hitler e guidato da Benito Mussolini. Alla fine della guerra e con la caduta del regime nazi-fascista, Vianello fu detenuto nel campo di prigionia creato dagli Alleati a Coltano, presso Pisa, dove si ritrovò – per restare nell’ambito dello spettacolo – con Enrico Maria Salerno, altro giovincello che affascinato dal Fascio aveva aderito alla Repubblica di Salò; con Walter Chiari, che era passato attraverso vari impieghi senza ancora capire cosa fare nella vita e si era arruolato nella Xª Flottiglia MAS e da lì, con un bel salto di qualità, era passato nella Wehrmacht e inviato a combattere in Normandia dove fu leggermente ferito durante il D-Day; altro nome di spicco è Dario Fo, che avendo ricevuto la cartolina precetto della neonata Repubblica si arruolò come volontario nell’esercito fascista, finendo anche lui nel campo e con molte aspre polemiche nei successivi anni ’70 quando diventerà un intellettuale di spicco della sinistra italiana. Anche Tognazzi fu un giovane camerata che aderì alla Brigata Nera della sua Cremona dopo che l’8 settembre del 1943 fu firmato l’armistizio con gli Alleati, ma di questo nelle sue biografie pubbliche non rimane traccia. Altrettanto, Giorgio Albertazzi, con più gravi e precise responsabilità, fu un repubblichino che invece che al campo fu mandato in carcere, dove rimase due anni e poi amnistiato, perché accusato di collaborazionismo e di aver comandato un plotone per l’esecuzione di un partigiano, tutte accuse che lui ha sempre rigettato.

Raimondo Vianello con Mirko Tremaglia

Dunque, molti giovani all’epoca scelsero “la parte sbagliata” come oggi si dice con spirito di pacificazione: alcuni, come Tognazzi appunto, fecero perdere traccia del loro passato, altri rimasero fedeli alle loro idee politiche, e Vianello fu tra questi, pur mantenendo nel privato il suo credo nella consapevolezza che il mondo dello spettacolo è fondamentalmente di sinistra. Alla sua morte però molti fascisti omaggiarono sul web l’onore del camerata Vianello. Mirko Tremaglia, figura storica della destra italiana, ricorderà: “Vianello era con me al campo di prigionia di Coltano, vicino Pisa, nell’estate del ’45. Eravamo 36 mila della Repubblica sociale. Non ha mai rinnegato la sua storia. Come Tognazzi. Come Walter Chiari. Come Giorgio Albertazzi. Loro, quelli di noi che sono diventati personaggi di spettacolo, hanno contribuito molto alla pacificazione, ci hanno avvicinato alla gente.

Alla fine della guerra Raimondo si dedicò allo sport come atleta e dirigente del Centro Nazionale Sportivo Fiamma, sempre vicino all’ambiente fascista come suggerisce il nome, fondata con lo scopo di “contribuire all’elevazione della persona umana e della società in cui vive per mezzo della diffusione e della propaganda della pratica sportiva in tutte le sue forme: agonistica, formativa, ricreativa”, ideali condivisibili in ogni luogo ed epoca, se non quando diventano mezzo di propaganda per idee politiche più specifiche; ente ancora attivo, riconosciuto nel 1976 dal CONI e oggi riconosciuto come “Ente europeo di promozione sportiva, assistenziale, promozione sociale e difesa ambientale”: il tempo smussa ogni asperità. Tornando a Raimondo, non si sa come (la cronaca latita) già nel 1944 era finito sul palcoscenico con la rivista “Cantachiaro” diretta da Garinei e Giovannini e che schierava nomi come Anna Magnani e Carlo Ninchi, titolari della compagnia, oltre a Ave Ninchi cugina di Carlo, Gino Cervi, Marisa Merlini, Lea Padovani, Ernesto Calindri, Gianni Agus e Massimo Serato che era anche compagno di vita della Magnani: nomi che si avvicendarono nelle tre edizioni della rivista; Raimondo, allora come Raimondo Viani, si mise subito in evidenza e da lì il salto al cinema fu ovvio, prima con piccoli ruoli nei film di Totò, Franco e Ciccio, Renato Rascel e Walter Chiari, e poi salendo di ruolo come caratterista e spalla.

Il successo personale arrivò in tv col programma di varietà “Un due tre” che andò in onda dal 1954 al ’59 e dove fece coppia con Tognazzi col quale si era già esibito in palcoscenico fin dal 1951, una coppia che, come vediamo in questo film, funziona benissimo e che avrebbe potuto avere lunga vita come l’altra coppia cinematografica formata da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ma che con il successo personale di Tognazzi, non ebbe seguito. La chiusura forzata del programma fu decisa dopo che la coppia di burloni si permise di ironizzare su un incidente occorso al presidente Giovanni Gronchi: a una prima alla Scala di Milano, per fare il galante con una signora aveva mancato la sedia finendo col culo per terra; fatto che la stampa ignorò autocensurandosi, ma il duo Tognazzi-Vianello ripeté la scena in tv: Vianello tolse la sedia a Tognazzi che cadde per terra, e alla domanda di Vianello “Chi ti credi di essere?” Tognazzi rispose: “Be’, presto o tardi, tutti possono cadere!” La parodia costò il posto anche al direttore della sede Rai di Milano.

Al banchetto del matrimonio, di fronte a loro s’intravede l’amico Ugo

Nel 1958 durante una scrittura teatrale conobbe la sua futura compagna di vita Sandra Mondaini, che in quegli anni si stava affermando come un nuovo modello di soubrette, più ragazza della porta accanto che femme fatale. Non fu colpo di fulmine, entrambi erano già sentimentalmente impegnati, lei soprattutto stava per accasarsi, ma durante la noia di una tournée si guardarono con più attenzione e quattro anni dopo si sposarono creando anche la longeva coppia artistica di successo che sappiamo. Oltre che nella veste di presentatore e intrattenitore televisivo, quasi sempre accanto alla moglie, fu anche commentatore sportivo e per quasi un ventennio fu co-autore e protagonista con Sandra di “Casa Vianello”. Ma fu anche sceneggiatore cinematografico di commedie, l’ultima delle quali fu l’omaggio al personaggio televisivo inventato da Sandra, “Sbirulino” del 1982 diretto da Flavio Mogherini. A dieci anni dalla morte di entrambi i coniugi, nel 2020 è stato emesso un francobollo commemorativo.

Nel 1961 rifiutò di fare da spalla a Tognazzi nel film “Il federale” diretto da Luciano Salce perché metteva in ridicolo il fascismo, ma per l’amico Ugo si prestò a un cameo nel suo film d’esordio come regista di “Il mantenuto”. Negli ultimi anni Tognazzi, che morì nel 1990, insisteva perché Raimondo scrivesse un film su loro due, che mostrasse alle nuove generazioni di comici quello che si faceva quarant’anni prima, la satira politica passibile di censura, ma Raimondo continuò a declinare l’invito dicendo che sarebbero stati solo due vecchi attori patetici. Sempre nel 1961 nacque il Secondo Canale Televisivo, poi Rai 2, e un dirigente aveva chiesto a Vianello, che era stato allontanato dalla Rai, se avesse qualcosa di pronto da proporre per il nuovo palinsesto, al che lui aveva risposto “Una cosa sul papa” e le porte della Rai giust’appena ridischiuse gli si richiusero in faccia. Come non detto. Tornò in video nel 1963, per la prima volta accanto alla moglie e l’accoppiata, presentandosi rassicurante e affatto trasgressiva, si avviò al successo che sappiamo.

Il film, scritto da Castellano e Pipolo e diretto da Giorgio Simonelli, regista di commedie che aveva contribuito a creare il successo della coppia Franco e Ciccio e che dunque dirige con mano sicura un film scritto bene, è tutto al servizio della nuova coppia che passa da un travestimento all’altro, ed è farcito di battute che ancora oggi fanno sorridere nonostante non siano più fresche di giornata; un film sapientemente costruito a tavolino con dosaggi perfetti di azione e puro divertimento grottesco e surreale, passando per il sexy e con incursioni nel sentimentale con il siparietto della bella e possibile Magali Noël col povero ma bello Maurizio Arena (doppiato da Pino Locchi) qui in partecipazione straordinaria perché all’epoca divo virile e prestante insieme a Renato Salvatori della nascente commedia all’italiana; nel film c’è anche un corredo musicale di tutto rispetto curato da Carlo Rustichelli con i fondamentali interventi anche in video di Fred Buscaglione, che è autore della canzone dei titoli, e che l’anno dopo morirà 38enne in un incidente stradale; mentre Arena morirà 45enne nel 1979 per cause naturali.

Il fotogramma è colorato a posteriori dato che il film è in bianco e nero

La storia comincia con due criminali evasi, uno detto il Bello e l’altro lo Strangolatore, interpretati da Tiziano Cortini e Mirko Ellis, che vagamente somigliano a Bernardo e Camillo, Tognazzi e Vianello, i quali sono banali contabili presso un’agenzia di assicurazioni guidata con pugno di ferro da una nostalgica del regime nazista, di cui il film si fa beffe, interpretata dalla lady di ferro Titina De Filippo che ha una graziosa nipote, Sandra Mondaini già in amore con Raimondo sia nel film che nella vita; i due criminali organizzano la fuga facendosi sostituire dai due sprovveduti quasi sosia, che a loro volta fuggono diventando altrettanto due evasi che passeranno da un travestimento all’altro, anche prostitute e frati, al fine di recuperare la propria innocenza. Il film non perde un colpo ed è certamente ancora oggi molto visto su YouTube data la massiccia presenza di pubblicità, che notoriamente va dove ci sono più visualizzazioni.

Concludono il cast l’altra francese Irène Tunc (doppiata da Maria Pia Di Meo) che è un’ex Miss Francia subito importata nelle commedie italiane, e purtroppo altra morte prematura e violenta: incidente stradale a 37 anni. Olimpia Cavalli e Lilia Landi sono le due prostitute, la mora e la bionda; Maria Del Valle e l’americano Jackie Jones sono i coniugi coinvolti loro malgrado nella vicenda, e per la quota spagnola della coproduzione ci sono Josè Calvo, Julio Riscal e Josè Jaspe. Notevole Magali Noël, che nel recitato è doppiata da Rosetta Calavetta, in un’autocitazione quando nel tabarin (che nei prossimi anni ’60 si sarebbe americanizzato in night club) canta Rififi come già aveva fatto nel noir omonimo di Jules Dassin pochi anni prima.

Nanni Moretti ebbe a dire di Raimondo: “Vianello è un attore di serie A che si accontenta di giocare in serie B”, ma lui aveva un’altra opinione di sé: “Ho meritato quel che ho avuto perché non ho mai cercato niente, non mi sono impegnato. Non ci ho messo la volontà. Mi ha aiutato il caso”. 

Il mantenuto – opera prima di Ugo Tognazzi

Il film completo

In questo 2022 cade anche il centenario della nascita di Ugo Tognazzi, di cui avevo precedentemente parlato nel beffardo “Vogliamo i colonnelli” bucando la notizia dell’anniversario, ma eccomi a rimediare con la sua prima regia che, detto con l’ammirazione di sempre, non è un capolavoro. Di passaggio va detto che Tognazzi, Ottavio all’anagrafe, nacque il 23 marzo del 1922 a Cremona dove da adulto lavorerà come ragioniere presso il salumificio Negroni, recitando nella filodrammatica del dopolavoro aziendale. Durante la Seconda Guerra Mondiale, chiamato alle armi, organizza spettacoli di varietà per i commilitoni, e concluso il conflitto si trasferisce a Milano con l’intento di avviarsi definitivamente nella carriera artistica e lì, partecipando a una serata per dilettanti, viene notato e scritturato per la compagnia della divina Wanda Osiris, e solo nel 1950, già 27enne e con una solida carriera teatrale alle spalle, debutta al cinema facendo coppia con Walter Chiari nel filmetto “I cadetti di Guascogna” diretto da Mario Mattoli; e una decina di anni e molti film dopo, nessuno dei quali ancora da antologia, Tognazzi si fa regista di se stesso con questo film di segno amorfo, non più neorealismo e non del tutto commedia all’italiana benché come tale sia stato scritto. In questo classico ritratto dell’italiano medio, nello specifico un ragioniere come lui stesso era stato, è molto a suo agio, e anche come regista ha buone intuizioni: eccellente ritmo nell’inizio del film che inquadra dalle ginocchia in giù le gambe di una donna, che sul treno prima rifiuta con fastidio l’approccio di un uomo dalle mani lunghe e poi, avendo cambiato scompartimento ed essendosi andata a sedere di fronte a un prete, lo fa scappare non appena lei accavalla le gambe: un ritrattino accattivante ma fine a se stesso perché, pure introducendo la protagonista femminile, nulla ha a che vedere con la storia del film, scritto da Luciano Salce con Castellano e Pipolo insieme alla meno nota coppia Giulio Scarnicci ed Enzo Tarabusi che avevano scritto per Tognazzi quando aveva fatto coppia in tv con l’amico Raimondo Vianello; Vianello che nel film, non accreditato nei titoli, gli regala un divertito cameo dove interpreta un altro italiano medio che in auto va alla ricerca serale di prostitute.

E l’intera sceneggiatura prosegue così, fra momenti che vogliono essere surreali, come quando il ragioniere litiga con la calcolatrice impazzita, ma che non vengono spinti all’estremo in una regia che mantiene l’intera struttura entro i limiti, qui angusti, della sobrietà: una tendenza al naturalismo che nuoce a una commedia che è stata concepita come commedia degli inganni, dove un banale ragioniere (il Fantozzi creato da Paolo Villaggio riuscirà a spingere al limite massimo il grottesco insito nel personaggio) vive solo come un cane e con un cane, nel seminterrato di un palazzo elegante, ed è innamorato della bella segretaria del capo; in solitudine la sera porta a spasso il cane e lì, una prostituta che esercita il mestiere senza la protezione di un pappone, lo indica come tale per togliersi dai guai; da qui tutta una serie di qui pro quo in uno sciorinarsi di scene che si dilatano e accavallano senza riuscire ad amalgamarsi in una storia pienamente godibile, né particolarmente divertente e neanche umanamente coinvolgente, in una chiave secondo la quale Ugo Tognazzi avrebbe forse voluto accreditarsi come interprete maturo.

Coprotagonista nel ruolo della prostituta che lo coinvolge anche sentimentalmente è Ilaria Occhini, attrice che darà il meglio di sé a teatro e in televisione; mentre la bionda segretaria è la bionda modella norvegese Margarete Robsahm, che poi non ha fatto molto altro, e c’è da segnalare che in tempi recenti, nel 2008, la signora ha attirato l’attenzione dei media norvegesi per aver ricevuto dal governo, in sedici anni, ben 2,3 milioni di corone per finanziamenti artistici, soldi coi quali lei non ha prodotto neanche un film: i norvegesi, gente composta, non hanno mosso a lei personalmente nessuna critica ma è sorto un dibattito pubblico sul sistema dei finanziamenti governativi, roba che da noi avrebbe fatto volare stracci e fango a destra e a sinistra; la modella restò in Italia a fare altri tre film non indispensabili dando a Tognazzi un secondo figlio (il primo era stato Ricky avuto con la ballerina britannica Pat O’Hara) che ha preso il cognome della madre e che a tre anni, quando la relazione fra i genitori finì, la madre portò con sé per crescerlo in Norvegia: oggi Thomas Robsahm è un regista e produttore cinematografico anch’egli figura non indispensabile nella cinematografia internazionale.

Margarete e Ugo, l’inarrivabile segretaria e il banale ragioniere
La segretaria col capo, ovviamente anch’egli innamorato

Come capo aziendale ritroviamo il sempre in linea e autorevole Mario Carotenuto mentre nel ruolo della ricca vedova vogliosa c’è una coinvolgente Marisa Merlini che finirà con l’accalappiare quest’uomo medio senza reale fascino, e che renderà quel mantenuto che è nel titolo. Nel resto del cast il ragioniere Armando Bandini col personaggio scritto per lui e col suo nome, che già abbiamo trovato sempre come ragioniere in “Il mattatore”; Gianni Musy come pappone in concorrenza, Franco Giacobini come commissario di polizia, Pinuccia Nava e Olimpia Cavalli come coppia di prostitute finte sboccate; Franco Ressel, Franco Ciuchini, Aldo Berti e il pittore attore Renato Mambor, nei ruoli di malviventi.

Nel 1990 Ugo Tognazzi morirà nel sonno a 68 anni per emorragia cerebrale, dopo aver sofferto negli ultimi anni di depressione; ultimi anni nei quali era tornato al teatro con spettacoli e ruoli impegnativi: “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello, “L’avaro” di Molière e il contemporaneo “M. Butterfly” di David Henry Hwang che pochi anni dopo diverrà il film omonimo diretto da David Cronenberg con Jeremy Irons. Dopo questa sua prima regia dirigerà altri quattro film, nessuno dei quali memorabili, e la miniserie tv dove è anche protagonista “FBI – Francesco Bertolazzi Investigatore” del 1970 – non riuscendo ad accreditarsi nell’immaginario collettivo cinematografico anche come autore, non scrivendo lui i suoi film, a differenza dei colleghi Nino Manfredi che da autore ha debuttato con il notevole “Per grazia ricevuta” e Alberto Sordi che rimane il più prolifico come regista fra i cinque grandi divi del cinema italiano della seconda metà del Novecento. Potremmo dire che Ugo se n’è andato troppo presto ma voglio ricordare il consolante adagio secondo il quale un artista muore quando ha già dato tutto di sé.