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Il Legionario – opera prima di Hleb Papou

Pare che sia la migliore opera prima italiana del 2022 e il suo autore non ha un nome italiano: segno che nella realtà di tutti i giorni, e nel mondo culturale, e cinematografico in questo specifico, le cose cambiano più rapidamente che nella mente di chi fa politica. Un’opera prima che a tutti gli effetti si presenta come nuovissimo neorealismo italiano.

Il 32enne Hleb Papou, nato in Bielorussia ma cresciuto in Italia, è stato premiato al Festival di Locarno come miglior regista esordiente. Da bambino, nel condominio di Minsk dove è nato e cresciuto fino agli 11 anni, giocava coi suoi amici a guardie e ladri versione terzo millennio, ovvero rifacendo le scene d’azione dei film americani sparandosi addosso con i fucili ad aria compressa: dispositivi che non dovrebbero essere dati in mano a ragazzini, ma vabbè, anche riprendendo le battaglie con la videocamera VHS di un amico: insomma il cinema era già nelle sue prospettive anche se al momento era ancora troppo giovane per saperlo. Solo venendo in Italia con la madre e frequentando le scuole italiane si affina il suo gusto per il cinema e lasciato Lecco dopo il liceo si trasferisce a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia dove si diploma regista con il corto “Il legionario” che nel 2017 venne selezionato alla Settimana della critica di Venezia e, di conferme in conferme, il corto è poi diventato questo lungometraggio, un film che lui stesso preferisce collocare nel genere action, che è il suo genere di riferimento, forse poco sapendo del neorealismo italiano che questo suo film fa paradossalmente rivivere: interpreti non professionisti per tematiche di strettissima contingenza, ovvero emergenza sociale; che nel neorealismo classico era la ricostruzione del tessuto sociale dopo la fine della seconda guerra mondiale, e oggi è la costruzione ex novo di un tessuto sociale dove devono riuscire a incontrarsi e convivere realtà e culture diverse.

Germano Gentile

La cosa più interessante del film è che il suo autore, essendo nato all’estero, ha un’italianità acquisita e vede la realtà da un altro punto di vista: non va a cercare storie di disagi periferici – vedi gli ormai troppo osannati Fratelli D’Innocenzo – ma cerca le storie nel suo vissuto di immigrato e fra gli altri italiani figli di immigrati scorrettamente ancora definiti immigrati di seconda generazione con la precisa volontà politica, e anche culturale che in certi casi si spinge allo stigma morale, di non riconoscere la loro italianità. L’unico neorealismo possibile: un poliziotto di colore, che parla romanesco, in forza al reparto della squadra mobile ha nascosto ai colleghi che sua madre e suo fratello vivono nello stabile occupato (che realmente esiste e nel quale è stato girato sia il corto che il lungometraggio) che gli hanno appena ordinato di sgomberare; il film è la preparazione a questo scontro, che diventa scontro fra fratelli, all’interno del tormento interiore del protagonista dalle molteplici doppie identità: italiano e straniero, legalità e illegalità, gli atteggiamenti fascistoidi richiesti dallo stare fra i celerini e l’anima sinistroide ed eversiva di chi vive sui confini. Tecnicamente irreprensibile, perfetto come action dal ritmo serrato, non indietreggia di fronte ai tormenti tutti interiori del poliziotto nero e ne fa uno spettacolo sempre avvincente anche grazie alle interpretazioni dei protagonisti. Hleb Papou ha scritto il film con Giuseppe Brigante ed Emanuele Mochi suoi collaboratori già dal corto, coprodotto da Rai Cinema sul cui portale Rai Play è possibile vederlo.

Maurizio Bousso

Germano Gentile e Maurizio Bousso che sono i due fratelli, il poliziotto e l’attivista, appartengono alla nuova generazione di attori italiani di colore in una cinematografia che essendo specchio della società è in clamoroso ritardo sull’inclusione delle diverse etnie. Il professionista di lungo corso più teatrale e televisivo che cinematografico, Marco Falaguasta, come capo dei celerini romanissimo duro e puro, potrebbe fare tesoro di questa interpretazione per ricollocarsi con più visibilità nel cinema. Sabina Guzzanti si presta nel cameo della conduttrice della serata di spettacolo sociale di sostegno ai condomini sotto sfratto. L’unica cosa che sembra sbagliata è il titolo, che immediatamente fa pensare all’esperienza militare dei legionari francesi trattandosi di una storia moderna con un protagonista nero, ma certo nelle intenzioni dell’autore rimanda alle legioni dell’antica Roma dove non erano rari gli stranieri naturalizzati.

L’autore ha costruito la sua storia affiancandosi direttamente a un reparto della Celere e frequentando lo stabile occupato, e nel film entra anche la vicenda reale dell’elemosiniere del Papa che nel 2019 si prese la responsabilità, perché passibile di denuncia, di togliere fisicamente il blocco messo dal comune ai contatori elettrici del palazzo occupato. Durante la realizzazione del corto i tre amici, il regista e i due sceneggiatori, avevano cercato il supporto del Ministero dell’Interno che però non ha approvato la sceneggiatura perché non in linea con l’immagine della Polizia: per avere il supporto economico avrebbero dovuto scrivere un film più istituzionale ma per fortuna i tre giovani autori hanno proseguito per la loro strada.

“Avevo tanti stereotipi – ha dichiarato il regista – ma scrivendo ho imparato che se vuoi raccontare una storia devi lasciare a casa le tue opinioni personali e andare a esplorare i temi su cui si basa il racconto senza giudicare. Io e i due sceneggiatori siamo molto diversi, ma ci siamo messi al servizio della storia lasciando a casa le nostre convinzioni politiche o sociali. Nel caso della celere ho capito che dietro a un casco e a una divisa c’è una persona in carne e ossa che respira e ragiona, un essere umano con dei sentimenti. Non sono dei robot, ognuno può avere la propria idea, ed è assolutamente vero che a volte esagerano e sono violenti, però è tutto molto complicato. Lo stesso discorso vale per la casa occupata: è un microcosmo con una sua costituzione interna. Ho scoperto ad esempio che tra gli occupanti c’è chi vota Salvini e Meloni, non me lo sarei mai aspettato.” Poi arriva una piccola stoccata ai Fratelli D’Innocenzo: “A me basta solo non fare una cosa intellettualina, capito? Voglio pormi delle domande su dove vada la società. In questo film non ci sono le spaghettate, le lenzuola bianche, il parlare romano sbiascicato da periferia…” No non c’è e per questo è davvero un gran bel film da vedere.

La figlia oscura – opera prima di Maggie Gyllenhaal

Sono di quelli che pensano che se il mondo fosse governato dalle donne sarebbe un posto migliore… beh sto entrando nell’argomento per la via più lunga: Maggie Gyllenhaal, sorella di poco maggiore di Jake Gyllenhaal, debutta alla regia con un lungometraggio di gran classe, in linea con tutta la sua carriera, al contrario del fratello che si è ritagliato un profilo di star per tutte le stagioni, bravo e prestante giovanotto socialmente e politicamente impegnato, come la sorella, ma che artisticamente non ha ancora dato il suo colpo di coda.

Maggie e Jake sono gli ultimi rampolli di un’antica importante famiglia di origini svedesi. Il padre Stephen Gyllenhaal è un regista cinematografico non di prima grandezza che ha diretto entrambi i figli all’inizio delle loro carriere. Poi mentre Jake assurge alla fama nel 2001 come protagonista del cult fantasy “Donnie Darko” in cui Maggie recita in un ruolo minore, lei sarà protagonista l’anno dopo di un altro cult “Secretary”, per il quale riceverà candidature ai premi maggiori vincendo nelle sezioni dei premi minori, e da lì in poi, pur diversificando come il fratello, si ritaglia il ruolo di attrice più in linea col cinema di qualità che coi blockbusters, nulla togliendo alla qualità di questi. Poi nel 2015 vince il Golden Globe per la miniserie britannica “The Honourable Woman” e ancora, pur essendo ormai una punta di diamante nella cinematografia internazionale, continua a mancarle l’attenzione di quella grande fetta di pubblico che incorona le star. Fra il 2017 e il 2019 cop-roduce e co-interpreta con James Franco l’acclamata serie tv “The Deuce” sul mondo del porno negli anni ’70, riconfermandosi una cineasta di classe volta alla ricerca di produzioni non banali, e anche rischiose. Nel 2018 Maggie produce e interpreta “Lontano da qui”, remake di un film franco-israeliano incentrato sulla figura di una donna banale che cerca una via di fuga e di compensazione nella poesia. Il 2021 è l’anno di questo suo debutto di cui, oltre a essere regista, è anche produttrice e sceneggiatrice, e proprio con la sceneggiatura ha vinta il Premio Osella alla Mostra del Cinema di Venezia.

Il film è un adattamento del romanzo omonimo del 2006 dell’italiana Elena Ferrante, nom de plume di una scrittrice, certamente partenopea, che nonostante le indagini e le speculazioni, rimane anonima. Detto ciò il nome è stato inserito dal settimanale statunitense Time fra le cento persone più influenti al mondo, a dimostrazione del fatto che i suoi libri hanno larga diffusione oltreoceano. Il suo primo romanzo “L’amore molesto” già presenta le tematiche dell’autrice: l’indagine psicologica della mente femminile, senza compiacimenti e scudi morali o sociali, e il collasso psicologico delle protagoniste. Quel romanzo è diventato subito uno spiazzante film di Mario Martone, e anche il secondo romanzo “I giorni dell’abbandono” diventa un meno riuscito film diretto da Roberto Faenza. Segue “La figlia oscura” che diventa questo film, e poi inizia la serie di quattro romanzi di “L’amica geniale” opportunamente messa in cantiere come serie tv dall’americana HBO e poi coprodotta con l’italiana Fandango e con Rai Cinema, con la regia di Saverio Costanzo.

Maggie Gyllenhaal, pur avendo l’età giusta per interpretare la protagonista, preferisce restare dietro la macchina da presa e farsi regista pura, senza il fraintendimento dell’attrice che vuole mettersi al centro della scena, e offre il ruolo alla premio Oscar britannica Olivia Colman, che a sua volta in questo progetto che sia avvia a basso costo, si coinvolge anche come produttore esecutivo, che è colui o colei che ha la parola finale su tutto il progetto – probabilmente riducendo il suo compenso, il cui mancato introito va considerato come contributo economico alla produzione.

Nell’adattare il romanzo, Maggie, mantenendo il nome italiano della protagonista, Leda Caruso, che nella multietnicità americana ben si colloca, sposta dapprima l’azione dall’Italia – nel romanzo la protagonista è una professoressa in vacanza su una spiaggia dello Jonio – alla costa atlantica del New Jersey. Ma è già il 2020 e la pandemia Covid chiude tutti a casa, con l’aggravante che gli Stati Uniti saranno il territorio più colpito al mondo per la leggerezza e il ritardo con i quali vengono adottati i provvedimenti, dunque la produzione si blocca e l’autrice rischia di perdere i finanziamenti. Col virus in piena diffusione decide di spostare il set sull’isola greca di Spetses, che essendo a 35 miglia nautiche dalla terraferma era ancora abbastanza al riparo dai contagi e, come ha dichiarato lei stessa, non poteva permettersi di interrompere le riprese in caso qualcuno fosse risultato positivo, e che quindi ha girato il più velocemente possibile e in assoluta economia di mezzi, usando gli isolani al posto di figuranti e comparse professionisti. Di conseguenza anche i flashback, ambientati nel New Jersey, sono stati girati sull’isola.

Dakota Johnson, Maggie Gyllenhaal e Olivia Colman a Venezia

Il film, che ha un andamento lento e avvolgente è diretto con sicurezza dall’autrice esordiente, e vanno annotate le scene di intimità di coppia e di sesso che non sono mai banali quando sono dirette da una donna. E se da un lato il film si regge tutto sull’intensità di Olivia Colman, che riceve la candidatura all’Oscar nel 2022 (ha vinto Jessica Chastain per “Gli occhi di Tammy Faye“) per il resto ha lo spessore che gli conferiscono tutti gli altri interpreti di rango, a cominciare dalla protagonista Leda Caruso di vent’anni prima interpretata dall’irlandese Jessie Buckley, attrice talentuosa e pluripremiata non ancora nota al grande pubblico, anche lei candidata come non protagonista (ha vinto Ariana DeBose per il “West Side Story” di Steven Spielberg). Nel cast anche il veterano di lusso Ed Harris e il marito di Maggie, Peter Sarsgaard, anche grande amico del cognato Jake. L’ex modella Dakota Johnson, assurta a discusso sex symbol cinematografica con la trilogia delle “Cinquanta Sfumature di…” grigio rosso e nero, impersona la giovane madre nonché donna inquieta in cui la protagonista si identifica e che ne scatena il crollo psicologico. Completano il cast i britannici Oliver Jackson-Cohen, Paul Mescal e Jack Farthing (chi se lo ricorda come cattivissimo George Warleggan nella serie tv “Poldark”?). Chiudono il cast principale la polacca naturalizzata statunitense Dagmara Domińczyk e l’italiana Alba Rohrwacher già legata al mondo di Elena Ferrante per essere stata la voce narrante delle prime stagioni di “L’amica geniale” come voce matura della protagonista Elena, detta Lenù, e che vedremo in video nella quarta e ultima stagione.

Atri riconoscimenti andati al film: candidatura a Maggie Gyllenhaal per la migliore sceneggiatura non originale agli Oscar; candidatura ai Golden Globe per regista e protagonista, e a seguire altre candidature ai Critics’ Choice Awards, ai BAFTA e Screen Actors Guild Award. Al botteghino non ha avuto il riscontro meritato confermandosi per quello che è: un film di nicchia e d’autore; e Maggie, debuttando come autrice senza volersi mettere dentro anche attrice, merita tutta l’attenzione.