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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

Comandante

Edoardo De Angelis è un regista napoletano, anzi un autore, da tenere d’occhio; e la napoletanità non è solo una nota biografica ma lo specifico della sua cinematografia. In una decina d’anni ha realizzato cinque film in una parabola crescente sia dal punto di vista dell’impatto su critica e pubblico che su quello prettamente stilistico. Si è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 2006 con il cortometraggio “Mistero e passione di Gino Pacino” dove racconta in napoletano stretto la storia surreale di un uomo che sogna di fare l’amore con Santa Lucia e che per il senso di colpa perde la vista: parabola tragica e grottesca; cortometraggio che va a finire in Serbia al “Küstendorf Film and Music Festival” dove, vincendo il premio della critica, incontra Emir Kusturica che lo supporterà nella realizzazione del primo lungometraggio, co-producendone nel 2011 l’opera prima “Mozzarella Stories”, Luca Zingaretti fra gli altri, una storia altrettanto grottesca e visionaria che continua a muoversi nell’ambiente partenopeo raccontando però una storia originalissima, che all’epoca pochi hanno visto ma che non passa inosservata alla critica; Francesco Alberoni scrisse sul “Corriere della Sera”: “Gli artisti spesso intuiscono il senso dei tempi. Lo ha fatto Edoardo De Angelis nel suo bellissimo e divertente film”. Un film che oggi varrebbe la pena recuperare.

Il talentuoso autore non perde tempo e con l’amico Pierpaolo Verga fonda la casa di produzioni “O’Groove” con la quale realizza nel 2014 il noir napoletano “Perez.”, Zingaretti protagonista, film col quale arrivano i primi riconoscimenti importanti: ai Nastri d’Argento viene candidato per il miglior soggetto e si aggiudica due premi, a Zingaretti va il Premio Hamilton Behind the Camera e a Simona Tabasco nel ruolo di sua figlia il Premio Guglielmo Biraghi; oltre al Globo d’Oro sempre al protagonista.

Nel 2016 dirige un episodio dei tre del collettivo “Vieni a vivere a Napoli” e l’intenso, tragico e doloroso, “Indivisibili”, che nella storia di due gemelle siamesi ritrova uno sprazzo di grottesco, ma ancora più amaro e feroce: le due gemelle si esibiscono come cantanti “fenomeno” nelle feste di paese, sfruttate dalla famiglia in un ambiente di squallida periferia partenopea, e arriva una caterva di altri riconoscimenti fra candidature, su cui sorvolo, e premi ricevuti: 6 David di Donatello, 6 Nastri d’Argento, 6 Ciak d’Oro, un Globo d’Oro, 4 premi minori al Festival di Venezia e altri 3 al Bari International Film Festival. Il 2018 è l’anno di un altro film di storie dolorose e di solitudini ancora ai margini del capoluogo campano, “Il vizio della speranza” e sono altri riconoscimenti fra cui finalmente quello al miglior regista, ma lontano, al Tokyo International Film Festival, che non è poco. Nel 2020 si dedica al teatro con una “Tosca” per il teatro San Carlo di Napoli, e la televisione realizzando per la Rai il primo di una trilogia delle commedie “in famiglia” di Eduardo De Filippo: “Natale in casa Cupiello” cui seguiranno “Non ti pago” e “Sabato, Domenica e Lunedì”. Il biennio 2021-22 lo dedica alla serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti” dal romanzo di Elena Ferrante.

E si arriva a questo “Comandante” con un triplo salto mortale: è il primo film che De Angelis gira lontano da Napoli, è il primo film italiano moderno ambientato in un sottomarino (c’è un precedente del 1955 che diremo) ed è il suo primo con un budget da film internazionale: 14 milioni e mezzo di euro con il pieno sostegno della Marina Militare che ha aperto alla produzione i suoi archivi con i diari di bordo di Salvatore Todaro, il personaggio protagonista interpretato da Pierfrancesco Favino sempre più a suo agio nel riprodurre le cadenze e i dialetti dei personaggi biografici che sempre più spesso interpreta. Alla sua uscita nell’autunno 2023 il film ha incassato poco più di 3 milioni restando assai lontano dal suo costo ma c’è ancora da rifarsi con i diritti tv – al momento è su Paramount+ – con lo streaming, i DVD, il mercato estero su cui non è ancora uscito e il probabile ritorno di fiamma nel pubblico di casa nostra dopo gli eventuali auspicabili premi nostrani.

il vero Salvatore Todaro

Pur iscrivendosi di diritto nel genere bellico, e nel sottogenere sottomarini, il film è crepuscolare, intellettuale, poetico. De Angelis continua la sua ricerca sui personaggi a disagio nel loro contesto, e con lo scrittore Sandro Veronesi che debutta come sceneggiatore, scrive un film con dialoghi e monologhi che hanno una cadenza da tragedia classica dove al protagonista si contrappone un coro, con momenti surreali, come quando tutti, comandante in testa, marciano cantando e ritmando “Parlami d’amore Mariù” come dedica d’amore alle donne che avevano lasciato a casa, e dedicata dal compositore Nino Bixio alla propria moglie, su testo di Ennio Neri per il film “Gli uomini, che mascalzoni…” diretto da Mario Camerini nel 1932 e per la voce del 30enne Vittorio De Sica; la canzone ebbe così tanto successo da divenire per tutti gli italiani un inno all’amore che successivamente fu cantata dai più grandi, anche della lirica.

Coraggiosi momenti surreali, nel film, e grotteschi persino, che si integrano perfettamente nella narrazione riuscendo a coinvolgere ed emozionare, perché il linguaggio alto e ricercato, poetico, da tragedia classica appunto, si sporca dei tanti dialetti che il sommergibile contiene nella sua varia umanità, così sintetizzato dal personaggio del comandante: “Questa è l’Italia unita. Arriva qui un livornese, un siciliano… sono più che stranieri, sono abitanti di due pianeti diversi, e lontani per lingua, cultura, temperamento… eppure proprio il crogiolo di tutti i dialetti, i piccoli manufatti e le grandi opere dell’ingegno, e le ottuse credenze pagane, la rivoluzione egualitaria del cristianesimo e le vecchie reliquie – si sono fusi… è il nostro tesoro. Proprio questo bordello, meraviglioso, e putrido, è l’Italia”: è un’altissima scrittura cinematografica che riesce a mettere insieme ispirazione letteraria e lingua parlata, con monologhi che potrebbero anche diventare repertorio da provino per attori e attrici – perché in un film necessariamente tutto al maschile non mancano le figure femminili: le brevi scene come cartoline ricordo della moglie del comandante, interpretata da Silvia D’Amico, e il monologo della donna che sul pontile guarda partire i marinai, monologo che è valso alla sua interprete Cecilia Bertozzi il Premio David Rivelazioni – Italian Rising Stars, un monologo recitato con voce fuori campo, come un pensiero, e che comincia: “Questo vento, io lo so dove li soffia tutti questi ragazzi, li soffia a morire…” giusto per dare qui il sapore del lirismo della scrittura di De Angelis e Veronesi, che dopo aver concluso il film hanno novellizzato la sceneggiatura per Bompiani.

Immagino che per questa sua scrittura che guarda dentro i cuori e le menti piuttosto che mostrare muscoli, il film potrà piacere più in Europa, e in Giappone dove l’autore è già stato premiato, che in quegli Stati Uniti che tanti film hanno dedicato ai sottomarini. Detto questo il film non manca di pathos e di tensione narrativa in un equilibrio assolutamente magistrale che esplora il limite fra la cieca obbedienza militaresca e la lungimirante pietas umana, con i tanti momenti riflessivi che si alternano a quelli d’azione e tensione: un gran film che secondo me non è stato compreso a fondo. Era in concorso al Festival di Venezia, anche come film d’apertura sostituendo il già programmato “Challengers” – il film americano di Luca Guadagnino la cui uscita è stata posticipata dalla Metro-Goldwyn-Mayer a causa dello sciopero degli attori – ma lì non ha ricevuto nessun premio, neanche minore; ricordiamo che il Leone d’Oro è andato a “Povere Creature” di Yorgos Lanthimos, mentre due Leoni d’Argento sono andati al giapponese Ryūsuke Hamaguchi per “Il male non esiste” e al nostro Matteo Garrone per “Io capitano” che si è aggiudicato anche il Premio Marcello Mastroianni per il debuttante senegalese Seydou Sarr, film che è anche candidato negli Stati Uniti come miglior straniero al Golden Globe e all’Oscar. Film che non ho ancora avuto l’opportunità di vedere. In ogni caso, da quello che leggo, troppa roba con cui confrontarsi, ma io resto un fan di questo film al quale auspico di rivalersi nei prossimi premi nazionali.

Il regista col protagonista

Riguardo ad alcune critiche sul web ne trovo un paio a firma femminile che ideologicamente, e per partito preso, accusano il film d’essere “testosteronico” e ironizzano sulle poche figure femminile come “prefiche”, senza minimamente aver compreso il film sul piano artistico e cinematografico: l’ideologia acceca ed è sciocco volere immaginare, e fin anche pretendere, figure femminili più importanti in una storia che non ne contiene: è come quel politically correct che pretende di rivedere storie e personaggi che appartengono a un’epoca in cui il politically correct non esisteva.

il Cappellini originale

Gran lavoro per lo scenografo Carmine Guarino, concittadino e collaboratore di De Angelis fin dal di lui debutto. Ha ricreato una copia a grandezza naturale del sommergibile Comandante Cappellini il cui nome completo era “Comandante Cappellini – Aquila III – U. IT. 24 – I. 503”. Tranne qualche rara immagine dello scafo non esistono fotografie dell’interno, che è stato costruito nel parco divertimenti Cinecittà World utilizzando come materiale di partenza la replica di un U-Boot costruita per il film statunitense del 2000 “U-571” diretto da Jonathan Mostow, mentre lo scafo esterno è stato costruito col supporto della Marina Militare e di Fincantieri nel bacino navale dell’Arsenale Militare di Taranto, nel cui mare ha poi navigato come una scatola vuota per le riprese esterne. Le riprese subacquee si sono svolte nel Mare del Nord al largo del Belgio da cui provengono alcuni dei personaggi e degli interpreti del film. Mentre gli effetti visivi, che hanno preso il 10% del budget, sono stati curati dall’americano Kevin Tod Haug, fedele collaboratore di David Fincher: un titolo su tutti “Fight Club”, 1999. La curiosità è che il Cappellini è comparso, sempre in copia più o meno conforme, nel 1954 nel film “La grande speranza” di Duilio Coletti; nel film tv anglo-tedesco “L’affondamento del Laconia”, un transatlantico inglese convertito al trasporto di truppe e prigionieri che fu affondato dai tedeschi nel 1942, con il Cappellini che fra altri soccorse i naufraghi; c’è poi un altro film tv del 2022 giapponese “Sensuikan Cappellini-go no boken” che però parte da un aneddoto per raccontare una storia di fantasia. E anche il film di De Angelis, come tanti altri film storici, è incorso in qualche errore o anacronismo: viene usato l’Inno dei Sommergibilisti che però fu creato un anno dopo la vicenda narrata.

Per comporre il cast l’autore partenopeo affida ai suoi fedeli i ruoli principali: il napoletano Massimiliano Rossi, fin qui sentito recitare solo in napoletano più o meno stretto, e col regista fin da “Mozzarella Stories”, è il comandante in seconda e intimo amico del protagonista col quale comunica – primizia assoluta – in dialetto veneto; e ricordiamo che il comandante Todaro era per nascita messinese ma trasferito a Chioggia con la famiglia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale; Gianluca Di Gennaro, nipote del cantante Nunzio Gallo, che ha cominciato a recitare da bambino vent’anni fa, qui alla sua prima collaborazione con De Angelis nel ruolo del marinaio Vincenzo Stumpo che dà la vita per salvare l’intero equipaggio, con un altro bellissimo monologo interiore mentre sott’acqua disincaglia il sommergibile da una mina inesplosa: “Andate voi, andate… tanto io sono morto… e che me ne fotte a me?” si conclude il suo monologo. A un altro giovane napoletano, Giuseppe Brunetti, va il ruolo del cuoco di bordo Gigino il Magnifico, già con De Angelis nel televisivo Rai “Natale in casa Cupiello” e anche nella serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti”, della cui scrittrice Elena Ferrante è stato anche nel cast della terza stagione della serie Rai “L’amica geniale” creata da Saverio Costanzo. I naufraghi belgi che il Comandante accoglie nel sommergibile sono interpretati da Johannes Wirix, che avendo studiato recitazione presso l’Accademia Silvio D’amico a Roma nell’ambito del Progetto Erasmus, recita anche in italiano e nel film fa da traduttore; Johan Heldenbergh interpreta il suo capitano e Lucas Tavernier è il marinaio belga infame, per usare un termine partenopeo.

Completano il cast Arturo Muselli, noto al pubblico televisivo per il suo ruolo nella serie Sky “Gomorra”; l’ex bambino Giorgio Cantarini che a 5 anni ha esordito come figlio di Roberto Benigni nel film premio Oscar “La vita è bella” aggiudicandosi come primo italiano, e come più giovane, il premio Young Artist Award scherzosamente detto Kiddie Oscar, e che tre anni dopo fu anche in un altro film da Oscar come figlio di Russell Crowe in “Il Gladiatore” di Ridley Scott, e oggi ventenne sta cercando una nuova collocazione artistica; per la rappresentanza siciliana c’è Giuseppe Lo Piccolo che abbiamo visto nell’opera prima di Giuseppe Fiorello “Stranizza d’amuri”. In un cameo l’87enne Paolo Bonacelli.

“Comandante”, titolo assoluto impegnativo ed esplicativo, è anche titolo di altri due film: il documentario del 2003 di Oliver Stone su Fidel Castro, e con l’articolo il fu un film con Totò del 1963. Questo di Edoardo De Angelis, oltre che a mio avviso bello, è anche importante in quanto film bellico biografico, e anche necessario, per conservare la memoria della storia e dei fatti, complessi e schizofrenici, che ci hanno condotto fin qui, a oggi. Dove noi siamo culturalmente più schizofrenici che complessi.

Omaggio a Sandra Milo

di Vincenzo Filippo Bumbica dal suo libro
“CIAK: Donne e uomini dello spettacolo nell’età dell’oro” edito da Gli Aedi

Non è poi tanto strano che, arrampicata sui tacchi, un’ultra ottantenne (l’articolo è stato scritto alcuni anni fa, n.d.r.) Sandra Milo decisamente imbellettata, in una calda serata romana, si presenti a un party con pantaloni in raso neri, reggiseno rosso abbinato al vistoso rossetto e una maglia super trasparente. E neanche sorprende che abbia dichiarato, ancora una volta, la sua assoluta estraneità alla monogamia: ”Io la fedeltà non l’ho mai capita”. Immagine e parole all’unisono confermano la vera natura di un personaggio che insegue il tempo con infantile entusiasmo ma conserva una consapevolezza che rende intatta la voglia di stupire sé stessa più che gli altri. Alla ricerca costante di un suo personale ritorno al futuro ritrova sempre con naturalezza la sua vera dimensione di donna moderna attraverso le ardite risposte ricevute dalla vita.

Un susseguirsi di alterne vicende che basta ripercorrere all’indietro a partire dalla sua diversità congenita condita da strani amori (a soli 15 anni sposa il marchese Cesare Rodighiero e si separa dopo 21 giorni) e chiacchiericci pruriginosi (amanti famosi, mariti maneschi e flirt estemporanei); parallela a una carriera abbarbicata alla sua incontenibile avvenenza: stereotipo di scontata superficialità per alcuni e visione d’incanto per altri. Quel perfetto profilo greco esaltato dal grazioso nasino all’insù continua il suo sinuoso disegno nelle morbide curve di quella vistosa studentessa universitaria proveniente da Vicopisano che nel 1953 sul set di Tivoli posa per un servizio fotografico. Il giornale si chiama “Le Ore” e il titolo recita: ”la Milo di Tivoli”. Tale dicitura coincide col suo desiderio di adottare un dolce pseudonimo e dunque Salvatrice, Elena Greco, nata a Tunisi nel 1933, si trasforma in Sandra Milo.

Appena ventenne debutta come comparsa nella pellicola: “Via Padova 46” diretto da Giorgio Bianchi in un cast di prim’ordine che comprende tra gli altri Peppino De Filippo, Alberto Sordi, Giulietta Masina, Massimo Dapporto e Virna Lisi, ma nonostante la sua figura gradevole passa quasi inosservata. Qualcuno però intuisce che quel corpo maestoso animato da una vocina in falsetto nasconde tra tutte le sue virtù la meno apparente: una non comune limpidezza di recitazione. È il regista Antonio Pietrangeli, un fine dicitore attento e acuto osservatore dell’universo femminile, capace come pochi di scoprire, rivelare e raccontare la donna attraverso i suoi ritratti cinematografici. Due anni dopo la propone nel ruolo della giovane Gabriella, un’attraente bruna dal dolce sorriso costipata nella divisa da hostess, di cui si invaghisce per un poco il vacuo dongiovanni Alberto Sordi di “Lo scapolo”.

con Vittorio De Sica in “Il generale Della Rovere”

Passa un quinquennio e il fortunato e proficuo sodalizio si ricongiunge sul set di: “Adua e le compagne” un film di forte impatto sociale, dove una splendida Sandra Milo, fornisce un eccellente prova delle sue poco riconosciute qualità drammatiche nei panni della prostituta Lolita. Un tipo di donna dalle molteplici sfaccettature che aveva già ottimamente impersonato accanto a un mirabile Vittorio De Sica nel tragico contesto de Il generale Della Rovere”, firmato Roberto Rossellini. L’attrice appare invece molto ironica e pungente nel successivo film dell’anno dopo che i due girano assieme ”Fantasmi a Roma”, una surreale messinscena per raccontare una favola metropolitana attraverso le brillanti interpretazioni di attori italiani di rango quali: Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo, Tino Buazzelli e Claudio Gora. Lo splendido connubio tra i due si chiude nel 1963 nella malinconica cornice del film ”La visita”, tratto da un romanzo di Carlo Cassola. Qui affiancata dal maturo Francois Périer, supera sé stessa nella caratterizzazione di Pina, una donna di mezza età che cerca compagnia sentimentale per non abituarsi al dolce abbandono della solitudine.

Quasi in contemporanea, anticipato dal clamore già suscitato in una società dibattuta tra perbenismo e scandalo dal precedente film del 1960 “La Dolce vita”, esce sugli schermi “Otto e mezzo”, ancora un capolavoro supremo del cinema italiano diretto dallo stesso regista Federico Fellini, dove una strepitosa Sandrocchia, la chiamava così affettuosamente questo suo famoso pigmalione, interpreta Carla una femme fatale tutta mossette e moine: l’amante predestinata che raffigura l’immaginario erotico maschile sempre in contrasto con la mentalità borghese della moglie. Due anni dopo con “Giulietta degli spiriti” l’ultimo film di quella fantastica trilogia del maestro riminese, si chiude la loro fattiva collaborazione e Sandra Milo dimostra ancora una volta qualità insospettate nel tratteggiare con briosa eleganza l’ambigua personalità di una donna opportunista: la vicina di casa Susy, o all’occorrenza Iris se non Fanny. Per entrambe queste interpretazioni vince il Nastro d’argento come migliore attrice non protagonista.

Risultato non da poco considerato che la commedia è il genere in cui la Milo si trova meglio, Nel ruolo di effervescente biondona gioiosa e spigliata riesce appieno a dimostrare candidamente l’altra faccia della sua luna artistica. Dopo aver girato il satirico “Le voci bianche”, eccola rigogliosa e solare spiccare nel cast di “Frenesia dell’estate”, regia di Luigi Zampa accanto a Vittorio Gassman, Philippe Leroy e Amedeo Nazzari e subito dopo affianca amorevolmente un Totò bisognoso di cure nel paradossale episodio di “Le belle famiglie”. In possesso di un adatto physique du rôle è perfetta nel personaggio di Giuliana la moglie inquieta e disinibita del maturo ingegnere Enrico (un impareggiabile Enrico Maria Salerno), a disagio nell’infuocata calura estiva della Riccione vacanziera che fa da sfondo al film “L’ombrellone” di Dino Risi. Nel 1967, seppure in una particina, brilla luminosa in quella specie di jet set internazionale proposto dal film “Come imparai ad amare le donne” di Luciano Salce, al confronto di abbaglianti star quali Michele Mercier, Elsa Martinelli, Nadja Tiller e Anita Ekberg.

Da qui in poi solo qualche estemporaneo cammeo chiude di fatto la sua carriera cinematografica e dunque Sandra Milo ritorna in tv dove era stata applaudita protagonista di cinque puntate di Studio Uno del 1966. Conduce negli anni 80 con la consueta verve, vari programmi d’intrattenimento tra i quali uno sul tema del costume all’interno del programma Mixer e si distingue per la freschezza con cui anima l’originale spazio dedicato ai bambini “Piccoli Fans”. Tra altri programmi targati Rai e Fininvest, attivismo politico con conseguenti legami affettivi e impreviste vicende giudiziarie, scorre la sua nuova carriera fino agli anni 2000. Poi salutari botte di vita teatrali alternate a discutibili partecipazioni a reality e apparizioni a gogò in qualsivoglia evento mondano. Prossima ai novant’anni, Sandra Milo si reinventa con i suoi look a effetto, gigioneggia tra rimorsi e rimpianti e insegue un’altra forma di complicità con la vita: basta che provi ancora qualche emozione che sarà forse anche rara ma di certo allontana di parecchio la parola rassegnazione.

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I soliti ignoti – e per la prima volta sullo schermo Claudia Cardinale e Tiberio Murgia

Questo film del 1958 è un caposaldo del cinema italiano ma partiamo da più lontano nel tempo e nello spazio, dalla Hollywood dei primi anni ’50 che con film come “Giungla d’asfalto” di John Huston dal genere thriller, o noir per dirla alla francese, sviluppa il sottogenere caper movie detto anche heist movie, ovvero film dove una banda di malviventi organizza un colpa grosso; e se heist è comprensibile in quanto significa rapina, caper è meno chiaro perché letteralmente significa cappero ma in realtà è stato coniato fra i malavitosi italo-americani che hanno anglicizzato l’italiano capriola con riferimento ai salti mortali e a tutte le acrobazie che dovevano fare per sfuggire alle forze dell’ordine. Sta di fatto che il genere piacque molto al pubblico, e fra i principali caper movie bisogna ricordare “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick mentre in Francia ci fu il grande successo di “Rififi” di Jules Dassin, e scavalcando gli anni ’60 in Italia Marco Vicario diresse il dittico “Sette uomini d’oro” e “Il grande colpo dei sette uomini d’oro” al servizio di sua moglie Rossana Podestà; del 1969 è il francese “Il clan dei siciliani” di Henri Verneuil con Jean Gabin, Alain Delon e Lino Ventura; per tornare a Hollywood con “La stangata” di George Roy Hill del 1974 starring Paul Newman e Roibert Redford; poi primeggia il corale “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992 fino al trittico di Steven Soderbergh iniziato con “Ocean’s Eleven”, con George Clooney capo brigata, che a sua volta era il remake di “Colpo grosso” del 1960 di Lewis Mileston col Rat Pack Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr. Insomma ce n’è per tutti i gusti.

Aldo Reggiani, Loretta Goggi e Arnoldo Foà protagonisti dello sceneggiato Rai

Ma torniamo in Italia alla fine degli anni ’50. Il genere imperante era il neorealismo nato sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, e ancora resistevano i generi peplum (e vale la pena ricordare il debutto cinematografico di Sergio Leone con “Il colosso di Rodi”) e cappa e spada (nessun film italiano memorabile, supplisce lo sceneggiato Rai “La freccia nera” diretto da Anton Giulio Majano dal romanzo di Robert Luis Stevenson) mentre il cinema spensierato dei telefoni bianchi che imitava le commedie sofisticate hollywoodiane era stato sostituito dalla commedia rosa o sentimentale che abbandonando le ambientazioni scintillanti e irrealistiche si era adattato alla nostra realtà con gli operai e le commesse “Poveri ma belli” di Dino Risi del 1957.

Scena da “I cadetti di Guascogna”, in primo piano da sinistra Riccardo Billi, Mario Riva, Carlo Campanini, Carlo Croccolo e seduto sulla branda Walter Chiari

Sul piano del film comico, film per ridere, si era fermi alle pellicole che derivavano dai palcoscenici dell’avanspettacolo e del varietà (ad esempio “I cadetti di Guascogna” che vide il debutto di Ugo Tognazzi e Carlo Croccolo) con interpreti che da lì venivano con le loro maschere e le loro gag (Mario Riva, Riccardo Billi, Carlo Campanini, Macario, Renato Rascel) di cui Totò era il più prolifico esponente, non amato dalla critica colta per quei suoi filmetti senza spessore. In questa brulicante vivacissima realtà si muoveva un gruppo di soggettisti e sceneggiatori che sentivano l’urgenza di raccontare la realtà, la loro realtà, quella realtà di quel preciso momento storico, il dopoguerra e il boom economico, mettendone in evidenza tutte le contraddizioni, l’impossibilità di conciliare il vecchio con il nuovo, l’ipocrisia e l’effimero: una realtà che autori come Pier Paolo Pasolini (“Accattone”) o Bernardo Bertolucci (“La commare secca”) presero di petto, mentre scrittori dalla penna più leggera e ironica e spesso caustica, e forse per questo più incisiva (ricordiamo l’adagio latino “castigat ridendo mores”) come Age & Scarpelli qui autori del soggetto e sceneggiatori insieme a Suso Cecchi D’Amico e allo stesso regista Mario Monicelli, che aveva esordito come braccio destro di Pietro Germi e fu poi regista di Totò che aveva sdoganato in un ruolo drammatico nella co-regia con Steno “Guardie e ladri” che valse all’attore l’ambito Nastro d’Argento e che lo convinse che poteva abbandonare il genere avanspettacolo che lo aveva reso ricco e famoso, ma con la media di cinque film l’anno in cantiere, il successo del pubblico e le pressioni dei produttori, passò ancora qualche anno fino a che concluse la sua carriera lavorando con Pasolini: “Uccellacci e uccellini”, “La terra vista dalla luna” nel film a episodi “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel film a episodi “Capriccio all’italiana”.

Monicelli e Totò durante una pausa sul set

Quando il gruppetto di amici si riunì per buttare giù una nuova sceneggiatura non sapevano che stavano cominciando a scrivere una pagina della storia del cinema. Partirono dall’idea di fare una parodia di quel genere tanto di moda, il caper movie, e presero come modello il noir “Rififi” tanto che il primo titolo pensato per il film in scrittura fu “Rufufù”, ma non erano autori da fermarsi al semplice parodistico e come altra ispirazione ebbero il racconto di Italo Calvino “Furto in una pasticceria”.

Memmo Carotenuto con Gassman

Poi c’era la realtà sociale in cui il gruppetto voleva collocare storia e personaggi, e pur condividendo con Pasolini il degrado della periferia romana in cui il boom sarebbe tardato ad arrivare e ancora si sarebbe vissuto di espedienti, i loro ladruncoli non hanno l’innocente cattiveria degli accattoni e dei ragazzi di vita pasoliniani, ma risentendo della leggerezza della Commedia dell’Arte (che i nostri ovviamente conoscono) sono Arlecchino e Brighella e Pulcinella i cui espedienti per procurarsi il tozzo di pane rimangono fallimentari e grotteschi, come certi capitomboli del fanfarone Er Pantera, ma sono qui intessuti dell’umanità di persone reali che soffrono e addirittura – novità assoluta in commedia – muoiono tragicamente, come il personaggio motore della storia interpretato da Memmo Carotenuto. Il risultato è un dolce-amaro, un grottesco patetico venato di tristezza, qualcosa di talmente simile alla vita reale da portare al cinema folle di spettatori che ridevano insieme delle loro stesse sventure, e però non mancano le battute folgoranti come quando Capannelle chiede a un ragazzino di un certo Mario e quello gli risponde che lì nel quartiere ce ne sono cento; sì ma questo è stato in galera, specifica Capannelle, sempre cento sono, risponde il ragazzino.

Tiberio Murgia nell’atrio del cinema dove si proietta il Kean di e con Vittorio Gassman in un corto circuito di citazioni

A scrittura ultimata sarebbe stata fondamentale la scelta del cast. I produttori, Franco Cristaldi in testa, avrebbero voluto scritturare i soliti noti che venivano dal varietà e dall’avanspettacolo, a cominciare da Alberto Sordi nel ruolo del pugile suonato Peppe er Pantera per il quale Monicelli e gli altri sceneggiatori – che avevano creato tutti i personaggi intorno ad un baricentro realistico, senza vezzi e gag, corredandoli però di un patrimonio di battute e situazioni brillanti e folgoranti sulle quale si sarebbe dovuta giocare tutta la comicità del film – si erano impuntati su Vittorio Gassman, in quale venendo dal teatro impegnato nel cinema aveva per lo più interpretato ruoli da cattivo, e con la sua aria da intellettuale non dava ai produttori nessuna garanzia di successo come attore comico, ma alla fine dovettero cedere alle argomentazioni di Monicelli & company, che con l’aiuto del truccatore Romolo De Martino crearono per Gassman un pesante trucco che con una parrucca gli abbassava l’attaccatura sulla fronte, e accentuando il profilo del naso e rendendo le labbra leggermente calanti lo ridisegnarono proprio come quel pugile suonato di periferia che avevano immaginato sulla carta, e l’invenzione poi della sibilante balbuzie completò il personaggio, sdoganando Gassman in un mondo ancora per lui inesplorato. Va segnalato che nel film viene omaggiato ritraendo la locandina del suo “Kean – genio e sregolatezza” che aveva diretto e interpretato a teatro e poi diretto e interpretato anche sullo schermo con l’importante contributo tecnico di Francesco Rosi.

Nel calibratissimo cast Renato Salvatori (doppiato da Marcello Prando) entrò come secondo nome (in percentuale di misura più piccola rispetto a Gassman) e come segno di continuità con la commedia rosa di cui era protagonista, anche qui protagonista di una storia amorosa ovviamente assai contrastata. Il caratterista Memmo Carotenuto, fratello di Mario, faccia da duro e voce roca è al terzo posto nei titoli di testa e probabilmente nel suo ruolo più significativo. Con le lettere che continuano a rimpicciolirsi segue Rossana Rory (Rossana Coppa sui documenti) già fotomodella e foto-attrice per “Sogno” che qui è l’unica componente femminile della banda e anche nel suo ruolo più importante (doppiata da Monica Vitti): nonostante l’impegno, andò a studiare recitazione presso la londinese Royal Academy of Dramatic Art, non riuscì a sfondare e pochi anni dopo, dopo aver partecipato a “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, si ritirò dalla carriera artistica. Segue nei titoli la 17enne in rapida ascesa Carla Gravina qui al suo terzo film e che aveva debuttato 15enne in “Guendalina” dello scopritore di Lolite Alberto Lattuada. Dopo di lei nei titoli di testa viene la non ancora ventenne Claudia Cardinale (doppiata dalla palermitana Lucia Guzzardi) qui al suo debutto cinematografico italiano e per la quale vale la pena spendere qualche parola in più.

Era nata a Tunisi da genitori altrettanto tunisini per nascita ma di discendenza siciliana. Va ricordato che la Tunisia era un protettorato francese e durante la Seconda Guerra Mondiale (Claudia nata nel ’38 era ancora bambina) l’Italia mussoliniana con la Germania hitleriana occuparono Tunisi con gravi e diverse conseguenze per tutta l’enclave italiana che lì viveva; nello specifico il padre di Claudia che aveva mantenuto rapporti con la famiglia d’origine in Sicilia, non aveva preso la nazionalità francese mantenendo quella italiana, e se in quel frangente ciò poteva giocare a suo favore agli occhi del regime, nei fatti tutti quegli italiani d’Africa furono vittime di un diffuso e paradossale sentimento italiano anti-italiano, con italo-tunisini che sposarono la causa fascista, altri che restarono fedeli alla Francia e altri ancora che volevano restare neutrali come fu per la famiglia Cardinale. Superato il disagio della guerra l’adolescente Claudia parlava solo arabo tunisino, francese e il siciliano trapanese appreso in famiglia, e come tutte le ragazze della sua generazione era una fan della Brigitte Bardot esplosa con “E Dio creò la donna” di Roger Vadim, star con la quale duetterà anni dopo, nel 1971, nel brutto western “Le pistolere” di Christian-Jacque. In ogni caso il cinema la attendeva: a diciotto anni partecipò a un cortometraggio documentaristico che omaggiava l’intraprendenza delle donne tunisine nell’immediato dopoguerra: “Les Anneaux d’or” di René Vautier che al Festival di Berlino vinse l’Orso d’Argento.  Bastò l’unico primo piano di quel film per farla diventare una celebrità locale ed essere richiesta dal regista Jacques Baratier che la volle per un ruolo secondario in “I giorni dell’amore”, ruolo che accettò con riluttanza perché aspirava a quello della protagonista nel quale la produzione volle un’attrice di pura nazionalità tunisina; protagonista maschile il giovane egiziano Omar Sharif in un film candidato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes che per la nostra riluttante Claudia fu il primo vero impegno come attrice cinematografica, per il quale in ogni caso aveva ottenuto la dicitura in cartellone “e la partecipazione di” essendo ancora in pratica una sconosciuta. Claudia avrebbe duettato da protagonista con Sharif nel 1991 in “Mayrig” del franco-armeno Henri Verneuil, che l’anno dopo ebbe il seguito “Quella strada chiamata paradiso”, film che raccontano il genocidio armeno che però hanno avuto scarsa diffusione.

Momentaneamente accantonata la non del tutto per lei soddisfacente, benché di qualità, esperienza cinematografica, la giovane scalpitava e non sapeva come uscire dall’impasse della sua vita borghese tunisina, così non le parve vero quando a Tunisi si tenne la “Settimana del Cinema Italiano” organizzata da “Unitalia FilmRivista trimestrale dell’Unione nazionale per la diffusione del film italiano all’estero”, durante la quale vinse – “in modo del tutto involontario e inconsapevole” recitano le cronache – il concorso “La più bella italiana di Tunisia” dove probabilmente si era iscritta in modo del tutto altrettanto involontario e inconsapevole: ma la ragazza, come vedremo, era fortemente motivata e consapevole.

Claudia Cardinale in quel fatale 1957 a Venezia

Il premio del concorso consisteva in una vacanza spesata alla Mostra del Cinema di Venezia in cui seppe mettersi in mostra agli occhi dei tanti pigmalioni, registi e giornalisti e soprattutto produttori lì presenti, Franco Cristaldi in testa. Dicono sempre le cronache che accettò l’invito da parte del produttore Salvatore Argento (padre del regista Dario Argento) e del giornalista Lidio Bozzini l’offerta di fermarsi a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, che la ragazza accettò – non si sa a che titolo: chi pagava cosa e per cosa? Probabilmente oggi è lecito immaginare che i due fossero i prestanome del produttore Cristaldi, che di 14 anni più anziano della ragazza e già sposato, non si poteva esporre in quell’epoca in cui il divorzio era illegale in un Paese ultra cattolico in cui le relazioni extraconiugali creavano scandalo e condanna sociale: oggi sappiamo che Franco Cristaldi e Claudia Cardinale avevano già cominciato una relazione. Ma gli studi di recitazione e dizione, sua insegnante al Centro fu Tina Lattanzi, misero in evidenza la sua scarsa attitudine sia alla recitazione che all’apprendimento e dopo appena un trimestre abbandonò l’impresa per tornare a Tunisi… ma dato che la sua fotogenia era indiscutibile e la sua relazione con Cristaldi solida, si fece di necessità virtù e fu dato eco sulla stampa, con copertina sul settimanale “Epoca”, a quel suo inconcepibile rifiuto di continuare la carriera cinematografica: anche gli handicap se ben gestiti posso diventare vantaggi nelle mani di un solido ufficio stampa. Del suo stile recitativo, una volta diventata famosa, coerentemente dirà: “Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica.”

Moglie e marito, produttore e protagonista, sul set di “La tenda rossa” diretto da Michail Kalazotov

Ancora di quell’intenso periodo è un’altra pagina che resterà oscura nella vita dell’attrice: la gravidanza del suo primogenito Patrick che partorirà a Londra, lontano da occhi indiscreti, dopo la fine della lavorazione del film. Durante la lavorazione ha tenuto segreta la gravidanza, come segreta rimarrà la genesi: verrà raccontato in seguito che rimase vittima di uno stupro da parte di uno sconosciuto ma alla luce dei fatti è lecito pensare che il figlio fosse del produttore e che l’invenzione dello stupro servisse anche, ancora una volta, a far di necessità virtù – ma questa è mia personale speculazione essendo a tutt’oggi la vicenda narrata così come fu data sin dall’inizio. E se dal lato professionale questo ruolo di siciliana illibata ritagliato su di lei la portò all’immediato successo, sul piano privato fu per lei un periodo assai difficile: era consapevole che la relazione con Cristaldi non poteva essere ufficiliazzata e soffriva lo stereotipo dell’immagine della giovane avventura del produttore attempato. Con l’avvio della sua carriera la famiglia la raggiunge a Roma e durante i primi anni mostrerà in pubblico suo figlio presentandolo come un fratellino.

In seguito, anni dopo, dichiarerà di non essersi mai sentita davvero la compagna di Cristaldi, quanto piuttosto un trofeo da tenere sotto vetro, una “Cenerentola gratificata dalla sua generosità” per l’aiuto dato nel difficile momento della gravidanza segreta e per, va da sé, l’impegno profuso per costruirle una carriera e un’immagine professionale adeguata; ma per il resto si era sentita in trappola: per il doppio legame, personale e professionale, si sentiva schiacciata e costantemente sotto controllo attraverso lo staff – il responsabile stampa, la segretaria e l’autista personali – che facevano riferimento a Cristaldi che probabilmente aveva perso la testa per la ragazza e finì col rinchiuderla in una gabbia dorata, una torre d’avorio, sempre ricordandole e rinfacciandole che lui l’aveva creata e che dunque gli apparteneva. Conducevano sempre vite separate, tranne qualche breve viaggio, e anche dopo il matrimonio che nel 1966 lui organizzò negli Stati Uniti avendo ottenuto l’annullamento della precedente unione dalla Sacra Rota, lei non lo chiamò mai Franco ma sempre e solo Cristaldi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel 1975, allorché Claudia si era innamorata del regista Pasquale Squitieri conosciuto sul set di “I guappi”. Col matrimonio Cristaldi aveva adottato legalmente il primogenito dell’attrice. E sarebbe ancora lunga la narrazione su Claudia Cardinale se non fosse che devo rientrare nei ranghi del film che l’ha lanciata.

il gruppo dei ladruncoli al completo: Totò, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Di spalle l’agente di controllo per il Dante Cruciani di Totò, attore non accreditato.

Al suo nome seguono nei titoli di testa i primi tre insieme dopo i nomi da solisti: Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e Gina Rovere, lei nel ruolo secondario della moglie in galera di Marcello Mastroianni, è una caratterista romana che avrà i suoi ruoli più importanti nei prossimi “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il napoletano Pisacane viene invece dalla gloriosa filodrammatica partenopea e aveva cominciato a fare cinema già in gioventù all’epoca del muto per poi proseguire come caratterista generico e qui è al suo primo personaggio importante, quel Capannelle che gli porterà talmente fortuna e fama da venire accreditato nelle produzioni future anche come solo Capannelle; il suo riuscitissimo accento bolognese è dovuto al doppiaggio del friulano Nico Pepe.

I debuttanti Claudia Cardinale e Tiberio Murgia come sorella e fratello.

Il sardo Tiberio Murgia è al suo debutto cinematografico diventando siciliano col doppiaggio del napoletano Renato Cominetti e anche il suo personaggio ha talmente fortuna che proseguirà la carriera continuando a essere scritturato come siciliano. Prima di approdare al cinema ha un passato rocambolesco: di famiglia povera emigra in Belgio per andare a fare il minatore a Marcinelle dal cui disastro scampa perché si era dato malato per stare con la moglie di un collega di cui era divenuto amante, ma l’intera storia è oggi ritenuta falsa perché viene da un articolo della rivista “Gente” di genere scandalistico-propagandistico per favorire la carriera del neo-attore. Di fatto Murgia fu veramente minatore in Belgio e poi lavapiatti in un ristorante di Roma dove fu notato da un assistente di Monicelli e da lì si avviò la sua carriera di caratterista siciliano.

Va dato merito al regista e al suo staff di co-sceneggiatori l’avere inserito nel cast dei coprotagonisti due piccoli caratteristi, Carlo Pisacane di antica scuola teatrale e Tiberio Murgia preso dalla strada: due personaggi veramente costruiti a tavolino che nulla avevano e avranno a che fare col carisma dell’interprete; due facce che già da sé erano maschere, ma personaggi creati col supporto di altri due professionisti a dare loro la voce: in pratica per ogni personaggio due attori, uno davanti e l’altro dietro la macchina da presa, perché senza quelle voci e quegli accenti le due maschere non sarebbero mai esistite. Pratica oggi irrealizzabile per fortuna, per la dignità professionale degli interpreti, ma che allora era prassi comune se si pensa che anche molti dei protagonisti venivano doppiati e la cosa non creava scandalo. Qui c’è Renato Salvatori che praticamente sarà sempre doppiato in tutta la sua carriera e se ciò non fosse stato consentito probabilmente si sarebbe impegnato a studiare recitazione e dizione laddove la fotogenia non sarebbe bastata più; per molti anni Claudia Cardinale fu doppiata, però si è battuta per recitare con la sua voce, e anche Totò che verso la fine era ormai quasi cieco e aveva come doppiatore ufficiale Carlo Croccolo. I titoli di testa continuano col resto dei generici fra i quali bisogna ricordare Elisa Fabrizi che è un errore di trascrizione trattandosi in realtà di Elena Fabrizi, sorella di Aldo Fabrizi, che dopo la scomparsa del fratello diverrà nota come Lella Fabrizi o più semplicemente Sora Lella, attrice intrattenitrice e proprietaria di una trattoria sull’isola Tiberina a Roma. I titoli si concludono “con” Marcello Mastroianni le cui lettere riprendono la misura massima che Gassman aveva avuto in apertura, “e con la partecipazione straordinaria” di Totò. Non è accreditato il prevalentemente radio-televisivo Mario Feliciani nel ruolo del commissario di polizia che tornerà nel sequel dell’anno dopo messo in cantiere a tambur battente.

Sul momento nessuno si rese conto di cosa era accaduto: il fatto più evidente fu il clamoroso successo del film che fu distribuito praticamente in tutto il mondo: negli USA e nel Regno Unito col titolo “Big Deal on Madonna Street” e lì avrebbe avuto grande risonanza soprattutto fra gli addetti ai lavori tanto che nei decenni a seguire avrebbero realizzato ben due remake; mentre in Spagna fu ripreso il primo titolo provvisorio “Rufufù” e in Francia si optò per “Le Pigeon” il piccione, vai a capire perché, mentre in Argentina e Brasile fecero una fedele traduzione del titolo: “Los desconocidos de siempre” e Os eternos Desconhecidos“.

Dovette passare qualche anno perché ci si rendesse conto che “I soliti ignoti” era diventato il capostipite di un nuovo genere cinematografico: la commedia all’italiana. Che era un po’ quello che era successo secoli prima nel teatro quando dalla Commedia dell’Arte si passò alla commedia brillante borghese dove i caratteri avevano perso la fissità delle maschere per diventare esseri umani a tutto tondo con i loro chiaroscuri. Da quel film in poi tutti dovettero fare i conti con quel modo di scrivere e realizzare pellicole brillanti e in un paio di decenni si realizzarono grandi film, molti dei quali a episodi, fino a che la commedia all’italiana non morì verso la fine degli anni Settanta stretta fra le spire della commedia sexy. Mario Monicelli fu candidato agli Oscar nella categoria Miglior Film Straniero e vinse lo spagnolo Festival di San Sebastian; ai Nastri d’Argento vinse Vittorio Gassman come miglior protagonista e l’intera squadra degli scrittori fu premiata per la miglior sceneggiatura.

L’anno dopo uscì il sequel “Audace colpo dei soliti ignoti” con Nanni Loy che prese il controllo dell’impresa, e un secondo tardivo nostalgico seguito si ebbe nel 1985 diretto da Amanzio Todini: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Del 2020 è l’adattamento teatrale andato in scena al Teatro La Pergola di Firenze, diretto e interpretato da Vinicio Marchioni su copione di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli. Altro adattamento teatrale ma in musical fu quello che Bob Fosse realizzò nel 1986, “Big Deal”, che non vide praticamente nessuno: 6 anteprime e 69 repliche, a Broadway. Due i remake americani, dicevamo: il primo è “Crackers” del 1984 diretto da Louis Malle con Donald Sutherland e Sean Penn, mentre del 2002 è “Welcome to Collinwood” diretto dai fratelli Anthony & Joe Russo e prodotto da George Clooney che si è collocato nel ruolo che fu di Totò. Nel 2000 Woody Allen fece un’importante citazione-omaggio nel suo “Criminali da strapazzo”. Un altro importante omaggio è nel film “A/R Andata + Ritorno” del 2004, terza regia di Marco Ponti.

Fra le curiosità: il film sarebbe dovuto uscire col titolo “Le Madame” che era il soprannome con cui i criminali chiamavano i poliziotti e che venne rigettato dalla censura perché non si poteva ironizzare sulle forze dell’ordine. La Via delle Madonne in cui viene tentato il colpo, ripreso dal titolo americano, in realtà non esiste, trattandosi della scalinata di Via della Cordonata che scende su Via delle Tre Cannelle, dietro Piazza Venezia. La ragazza che litiga col fidanzato sotto il lucernario su cui restano appesi i ladruncoli è l’ungherese Edith Bruck, scampata ai campi di concentramento nazisti, che si era stabilita a Roma dopo aver tentato di rientrare in patria, dove non aveva più nessuno, per poi di trasferirsi in Israele nel 1948 a ridosso della formazione del nuovo stato, immaginato “di latte e miele”, come scriverà, ma percorso da altri insopportabili conflitti. Come ancora oggi è. A Roma frequenta ovviamente l’ambiente intellettuale dove conosce e poi sposerà il poeta-regista Nelo Risi, fratello di Dino, e debutterà come scrittrice nel 1959 con “Chi ti ama così” scrivendo in lingua italiana, una lingua non sua, come spiegherà, che le consente il necessario distacco per descrivere la sua esperienza nei campi di concentramento. Ultima curiosità: i nomignoli Capannelle e Ferribotte erano stati orecchiati nella vita reale: a Capannelle c’è l’ippodromo di Roma ed era il soprannome di un assiduo scommettitore sulle corse dei cavalli, caratteristica che nel personaggio del film non c’è, mentre Ferribotte è la storpiatura di ferry boat, il traghetto che i siciliani prendevano per raggiungere il continente e come molti ancora lo chiamavano: ferribotte o ferribotto. Entrambi i personaggi torneranno nel prossimo sequel mentre solo Ferribotte sopravvivrà vent’anni dopo.

Edith Bruck

Il film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

Blow-up – per ricordare Jane Birkin

Il 16 luglio di questo 2023 a 76 anni se n’è andata Jane Birkin, che viene universalmente ricordata non tanto per la sua carriera di attrice che pure ha avuto dei picchi importanti, quanto perché è stata un’icona sexy e, prima che attrice, è stata anche più attiva come cantante. Aveva cominciato a 17 anni a calcare le scene londinesi seguendo la madre Judy Campbell, attrice e cantante famosa per i musical di Noël Coward, mentre il padre David nulla aveva a che fare col mondo dello spettacolo essendo un comandante della Royal Navy. La 18enne Jane debuttò anche lei in un musical del compositore John Barry, autore delle colonne sonore di 007 e non solo, che finì con lo sposare l’anno dopo. Lo stesso anno debutta sullo schermo con un piccolo ruolo nel film di Richard Lester che fu Palma d’Oro al Festival di Cannes “Non tutti ce l’hanno” ed è col film successivo, questo “Blow-up” del 1966 che accende la fantasia di tutti mostrando il seno nudo e diventando un’icona della Swinging London, la Londra del boom economico, che caratterizzò la seconda metà degli anni Sessanta.

Il film di Michelangelo Antonioni si inscrive a pieno titolo nel cinema che espresse quella dondolante e altalenante Londra, la Swinging London, che fu un movimento sociale e culturale che si espresse anche nella moda – il cui personaggio chiave fu Mary Quant con la sua minigonna – e nella musica – includendo band come i Beatles, i Rolling Stones e i Who. Antonioni, che aveva debuttato nel 1950 con “Cronaca di un amore” imponendosi come un autore rivolto al rinnovamento degli stili, un decennio dopo fra il ’60 e il ’62 realizzò la sua famosa “trilogia dell’incomunicabilità” o “esistenziale” con riferimento anche all’alienazione e al disagio mentale, protagonista la sua compagna dell’epoca Monica Vitti. Ma è con il successivo “Il deserto rosso” del 1964, Leone d’Oro al Festival di Venezia, che si impose all’attenzione internazionale e gli si aprirono le porte per realizzare questo suo film inglese. L’idea gli era venuta con la lettura del racconto “Le bave del diavolo” dell’argentino Julio Cortázar da cui prese solo lo spunto sviluppando una sua personalissima storia – nel racconto il crimine è la pedofilia, nel suo film è un omicidio – storia intrisa ancora del suo disagio sull’incomunicabilità ma che nello sviluppo narrativo diventa anche documento, ancora attualissimo, di quella Swinging London: cos’era, com’era, cosa si faceva, che musica si ascoltava. Alla fine dell’articolo il link dove leggere il racconto completo che ha ispirato il soggetto di Michelangelo Antonioni.

Nella prima versione della sua sceneggiatura c’erano anche scene di sesso ma poi Antonioni si autocensurò ricordando i problemi che aveva avuto con “L’avventura” e non voleva che il suo primo film internazionale potesse incorrere in alcun incidente, ma nonostante ciò la magistratura italiana sequestrò il film per oscenità – e davvero non c’è oscenità nel film, se non il seno di Jane Birkin appunto, e qualche altro nudo e degli amplessi di quel sesso libero ma con inquadrature veloci e in campo lungo: ovviamente oggi abbiamo una differente percezione dell’oscenità. E da questo punto di vista, quello strettamente sociale e politico, il film dovette essere stato considerato osceno per il suo angosciante pessimismo, intriso di nichilismo antireligioso e antisociale: mette in discussione la percezione stessa della realtà, e in un’epoca di boom economico e di edonismo spinto era un punto di vista disturbante, perché la visione del film non era quella di una realtà momentaneamente distorta dalle droghe psichedeliche ma una realtà messa in discussione per principio, e come fine ultimo della narrazione. Il fotografo scopre nei dettagli sempre più ingranditi dei suoi scatti la prova di un probabile omicidio, fino a trovare fisicamente il cadavere. Salvo poi non trovarlo più quando torna armato di macchina fotografica per provare il crimine – che resta solo nelle immagini sgranate degli scatti rubati, tanto sgranati da sembrare irreali, e forse davvero irreali.

Alla fine del film il protagonista si distrae con una coppia di mimi che gioca a tennis senza racchette e senza palla, seguiti da un pubblico di altri mimi che seguono la traiettoria della palla inesistente, e anche la macchina da presa la comincia a seguire nei suoi rimbalzi, e cominciamo anche a sentire i colpi di racchette inesistenti sulla palla inesistente; finché la palla vola oltre il recinto da dove il protagonista osservava, e invitato va egli stesso a raccogliere la palla inesistente: la realtà la si può inventare, è tutto frutto di fantasia. Un messaggio potente, da uno che fa cinema, fotografia in movimento.

Il fotografo di moda protagonista del film è lui stesso alla moda: il regista chiese a David Hemmings di vestirsi “à la Sachs” ovvero come il playboy tedesco Gunther Sachs all’epoca sulle pagine di tutti i rotocalchi come marito di Brigitte Bardot: camicia azzurra, jeans bianchi e mocassini senza calze. Ma è un fotografo tormentato, appunto: disprezza le fotomodelle e la loro vacuità, e sta lavorando a un libro fotografico d’impegno sociale dove ritrae gli hippy ma soprattutto i diseredati, i senzatetto, e difatti il film si apre con lui che esce da un dormitorio pubblico dove ha passato la notte.

Jean Birkin, per l’occasione bionda, ha davvero un ruolo secondario, che però risalta perché la narrazione intorno al protagonista è tutta fatta di ruoli di contorno; Vanessa Redgrave ha il ruolo più importante: è la donna coinvolta nel complotto che il fotografo crede di svelare; l’altro nome di punta è Sarah Miles come amica del protagonista; l’indossatrice Veruschka compare come sé stessa. David Hemmings, qui doppiato da Giancarlo Giannini, giunge alla notorietà e alla maturità artistica con questo film ma è sulle scene sin dall’infanzia, prima come boy soprano, ovvero voce bianca, sul quale il compositore Benjamin Britten compose anche un’opera; col sopraggiungere dell’adolescenza e la perdita della voce bianca il ragazzo passò alla recitazione ed è qui nel suo primo ruolo adulto importante. Vanessa Redgrave, figlia e sorella d’arte e già attrice shakespeariana nonché moglie del regista Tony Richardson che tra l’altro la diresse insieme a Hemmings in “I seicento di Balaklava”, anche lei raggiunge la fama internazionale grazie a questo film. Nel terzetto di nomi femminili di punta Sarah Miles è quella che meno viene ricordata dal pubblico: raggiunge il picco come protagonista in “La figlia di Ryan” nel 1970 di David Lean che le frutta una candidatura all’Oscar, ma dal 2004 non è più attiva.

Veruschka è il nome d’arte della contessa tedesca Vera Gottliebe Anna von Lehndorff-Steinort, il cui padre conte, in controtendenza alla nobiltà prussiana del suo tempo era stato antinazista, e poi accusato di aver preso parte a un complotto contro Hitler fu giustiziato nel 1944 quando Vera aveva 5 anni; insieme alle sue sorelle, mentre la madre incinta veniva internata in un campo di lavoro, fu trasferita in una cittadina di provincia insieme ai figli di tutti gli altri congiurati in una sorta di kindergarten per sorvegliati speciali; finita la guerra e tornata libera la ragazza venne a studiare in Italia dove a 20 anni fu scoperta dal fotografo Ugo Mulas che la lanciò come modella; ma non riscosse il successo sperato e tornando in Germania sparse la voce che fosse una fuoruscita russa, Veruschka appunto, e lo stratagemma riuscì.

Il film si sarebbe dovuto ambientare a Parigi, come nel racconto originale. Ma ad Antonioni, che già da tempo pensava all’estero come naturale sbocco della sua cinematografia, l’idea di collocare il suo film in quella Swinging London, che così bene ha saputo raccontare, venne quando andò a trovare la sua compagna Monica Vitti sul set di “Modesty Blaise – la bellissima che uccide” di Joseph Losey. Scrisse la sua sceneggiatura col suo fedele Tonino Guerra e per l’ottimizzazione dei dialoghi in inglese si affidò al drammaturgo Edward Bond. Per rendere viva e attuale la sua Londra, Antonioni inserì nel film alcune celebrità dell’epoca: la giornalista Janet Street-Porter balla insieme ad alcune spogliarelliste mentre nel concerto rock del prefinale si esibiscono gli Yardbirds con Jimmy Page e Jeff Beck che come da prassi sfascia la chitarra. Costato un milione e ottocentomila dollari ne incassò venti milioni in tutto il mondo. Osannato dalla critica, film e regista ebbero la nomination all’Oscar, sceneggiatura e regista furono anche nominati ai Golden Globe, e dopo altre tre nomination ai britannici BAFTA finì col vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes e l’italiano Nastro d’Argento ad Antonioni come miglior regista per un film straniero.

Grazie a questo film Jane Birkin soffiò una parte da protagonista alla top-model americana Marisa Berenson che dovette aspettare ancora qualche anno prima di diventare attrice debuttando nel 1971 con Luchino Visconti in “Morte a Venezia”. Il film in questione era il dimenticabile “Slogan” diretto da Pierre Grimblat e scritto su misura del protagonista Serge Gainsbourg, e il resto è storia. Il divo francese, nonché tombeur de femmes, che da poco aveva rotto con Brigitte Bardot che per lui aveva rotto col precedente marito Gunther Sachs, non aveva gradito la sostituzione della Berenson, sulla quale aveva probabilmente fatto un pensierino, e sul set maltrattò non poco la Birkin; l’inglesina, anche lei fresca di separazione da John Barry e decisamente attratta dagli uomini più maturi, chiese al regista la cortesia di organizzare un’uscita a tre per poi allontanarsi a metà serata: lo stratagemma riuscì e si formò la coppia-scandalo di quegli anni. Lui poi, su suggerimento dell’amica Mireille Darc, tirò fuori dal cassetto l’esplicita canzone che parla di sesso “Je t’aime… moi non plus” che aveva già inciso con la Bardot ma che era stata messa via su richiesta della diva francese timorosa dello scandalo che l’ancora marito cornuto Gunther Sachs le aveva promesso. Il brano uscì con tutto lo scandalo che seguì, particolarmente nel Regno Unito patria della Birkin, e in Italia, patria del Vaticano, il cui organo di stampa L’Osservatore Romano pubblicò una sgangherata e peggiorativa traduzione del testo per allarmare i propri lettori, e il distributore del disco viene scomunicato; va da sé che la Rai ne vietò la trasmissione radiofonica finché la Procura della Repubblica di Milano non ordinò il sequestro e la distruzione di tutte le copie sul territorio nazionale, che però venne importato clandestinamente e venduto a 3000 lire anziché 750, mentre veniva trasmesso dalle emittenti estere Radio Monte Carlo e Radio Capodistria che erano ricevute nell’etere italiano. Ovviamente seguirono molte reinterpretazioni nelle varie lingue e anche parodie. In Italia il testo fu riscritto da Daiano, “Ti amo… ed io di più” e fu interpretato dagli improbabili divi teatrali Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer all’epoca compagni di vita. Ma ci fu anche una versione adattata da Gian Piero Simontacchi, “Ti amo… io di più” senza ed, per Ombretta Colli con la voce maschile dello sconosciuto Gianfranco Aiolfi amico e collaboratore di Ombretta e del marito Giorgio Gaber.

Nel 1976 Serge Gaisbourg pensò bene di farne anche un film e debuttò come autore cinematografico dirigendo la sua Jane Birkin che recitò quasi sempre nuda accanto a Joe D’Alessandro, star americano del porno gay lanciato da Andy Warhol, nel ruolo di un camionista omosessuale che inizia una relazione con la donna dall’aspetto androgino, che perciò si chiama Johnny, e con la quale ha soltanto rapporti anali. Viene da chiedersi chissà quanta droga circolasse sul set. In ruoli di contorno i non ancora famosi Gérard Depardieu e Michel Blanc.

La carriera di Jane, che nel frattempo aveva preso la nazionalità francese, proseguì da un lato continuando continuando a incidere le canzoni di lui divenendo una delle più apprezzate cantanti d’oltralpe, e dall’altro continuando la carriera di attrice anche in produzioni internazionali. Nel 1971 nacque la loro figlia Charlotte Gainsbourg e nel 1980 la coppia scoppiò perché lei, maturando, si era stancata delle sregolatezze di lui, e pur continuando a incidere i suoi brani scelse uno stile di vita più regolato legandosi al regista Jacques Doillon. Lavorò anche con Jean-Loc Godard, Patrice Leconte, Alain Resnais, Roger Vadim, Jacques Rivette, Bertrand Tavernier e il Paul Morissey che aveva contribuito al successo di Joe D’Alessandro, ma soprattutto ebbe un’intensa e proficua collaborazione con Agnès Varda che nel 1988 le dedicò il film “Jane B. par Agnès V.” Nel 2007 dirige anche il film di fiction autobiografica “Boxes – Les boîtes” mentre nel 2021 sua figlia Charlotte la dirige nel film-documentario-intervista “Jane by Charlotte” in questi giorni su Sky in cui finalmente sentiamo Jane Birkin che manda affanculo Serge Gainsbourg.

I mostri oggi

1962, Dino Risi dirige Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi nel film a episodi “I mostri”: è l’inizio del boom economico, è l’inizio della commedia all’italiana, è un film da salvare fra i 100 migliori. 1977, Risi torna a dirigere Gassman e Tognazzi in “I nuovi mostri” e alla regia si aggiungono Mario Monicelli e Ettore Scola, mentre nel cast entrano Alberto Sordi e Ornella Muti: siamo negli anni di piombo e i mostri si fanno anche più sanguinari, e il film concorre agli Oscar. 2009, nessuno dei registi e dei protagonisti originali è più fra noi – c’è solo la 68enne Ornella Muti che però non conta dato che era solo una bella presenza. I due film ogni tanto tornano in tv e si sono radicati nel nostro immaginario collettivo: nessuno più pensava a un altro seguito. Ma non si può stare mai tranquilli: il cinepanettonaro Enrico Oldoini aveva un’alta opinione di sé.

Enrico Oldoini con Terence Hill sul set di “Don Matteo”

Diplomatosi attore all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica fu poi soggettista e sceneggiatore collaborando con molti bei nomi: Marco Ferreri, Pasquale Festa Campanile, Alberto Lattuada, Nanni Loy, Lina Wertmüller… ma deve essersi sentito più in sintonia con Sergio e Bruno Corbucci di cui ha seguito le orme sfornando film di cassetta. Passato al piccolo schermo lì ha avuto il merito di ideare il personaggio e la serie di “Don Matteo”, uno dei pochi format non traslati da adattamenti esteri. Questo suo “I mostri oggi” è la sua ultima regia cinematografica. È morto 77enne nel 2022 per una sclerosi laterale amiotrofica che l’aveva colpito cinque anni prima.

Questo suo ultimo film è nelle intenzioni (anche) un sincero omaggio, e partendo da un suo soggetto coinvolge nella sceneggiatura i figli d’arte Silvia Scola e Giacomo Scarpelli; assicuratosi l’eredità dei nomi coinvolge nel pacchetto l’amico sceneggiatore di genere Franco Ferrini, e Marco Tiberi già sceneggiatore nella squadra di “Don Matteo”: non esattamente il meglio delle penne cinematografiche in circolazione. Alla produzione tornano Pio Angeletti e Adriano De Micheli con la loro Dean Film insieme a Maurizio Totti (nessuna parentela col pupone Francesco Totti) della Colorado Film fondata insieme a Gabriele Salvatores e Diego Abatantuono (che dunque ha avuto il privilegio della prima scelta sui ruoli) e alla Mari Film di Massimo Boldi che però si tiene fuori dal cast. Vedo adesso per la prima volta questo film di 14 anni fa perché sin dallo stile del manifesto puzzava già di cinepanettone: tutti insieme i bei volti della commedia all’italiana più o meno intelligente o più o meno scollacciata, niente a che vedere coi manifesti dei mostri originali di cui pretende di essere sia omaggio che seguito. D’altro canto ogni film coi propri mostri è specchio del suo tempo: negli anni ’60 gli italiani scoprivano di non essere brave persone e nei ’70 ebbero la conferma di essere pessimi; cosa resta da scoprire agli italiani del nuovo millennio?

Ferro 6

C’è di nuovo che il film si apre con una carrellata su alcuni dei personaggi che vedremo e gli episodi si raccordano l’un l’altro senza più la distinzione netta dei cartelli coi titoli: narrazione più fluida e moderna. Nel primo episodio facciamo la conoscenza di alcuni personaggi del jet-set capitolino in un golf-club fra cui spiccano il Diego di Diego Abantantuono che fa il piacione con la bella di turno, la spagnola Pilar Abella, praticamente rifacendo sé stesso; e c’è il sofisticato Gino di Giorgio Panariello che davvero si sforza, sostenuto anche dal trucco, di creare uno di quei mostri che sappiamo: meno originale perché in pratica li abbiamo già visti tutti e meno originale perché le stesse maschere del pur volenteroso Panariello le abbiamo già viste tutte in tv. Sul green una sciroccata Angela Finocchiaro, che rifà anche lei una delle sue solite maschere da “La TV delle ragazze” di Rai 3 1988-89; non accreditato il suo istruttore dal volto rotondo incorniciato da folta chioma che nasconde Marco D’Amore, futura star del televisivo “Gomorra”, Sky 2014-2021. I mostri sono ancora i ricchi che parlano con la erre moscia: tutto qui?

Unico grande amore

La forzatura è che i due che si incontrano per caso si chiamano Romeo e Giulietta, ma vabbè: genialità e originalità non abitano questo film. Lei è disabile, lui la corteggia, la mette su una giostra e le ruba la carrozzella per accedere gratis allo stadio nel settore riservato ai disabili, per poi saltare in piedi al gol d’a Roma. Il mostro suburbano c’è, nipote di quello che interpretò Gassman in “Che vitaccia!” nel 1962. Aderenti i due protagonisti, Mauro Meconi e Susy Laude, che sono interpreti generici senza maschera grottesca perché ormai la mostruosità è interiorizzata e metabolizzata. Sarebbe stato più divertente e meno ordinario se nei due ruoli ci fossero stati due nomi di prima grandezza a misurarsi con l’ordinarietà.

Il malconcio

La premessa è arguta: partendo dall’episodio “Pronto soccorso” del 1977 con Sordi unico monologante, indaga sul pirata della strada – figura peraltro accennata da Gassman in “La strada è di tutti” nel 1962 – mostrandoci il ritrattino grottesco di un mostro che al volante sniffa cocaina e fa scommesse al telefono, nell’esecuzione di Diego Abatantuono che non è Gassman né Tognazzi né Sordi. L’altra buona trovata è l’aver dato un carattere e una maschera alla vittima del pirata, che con Sordi era un attore generico perché Sordi non dava spazio a nessuno, e qui c’è invece Giorgio Panariello che fa tutte le facce possibili per prendersi il suo spazio. Terza buona trovata è che non avendo più un Alberto Sordi la figura del soccorritore si sdoppia in una coppia con problemi di coppia, Claudio Bisio e Sabrina Ferilli, e qui casca l’asino perché la sceneggiatura si fa più che banale, servita da una recitazione più che ordinaria. L’ultima buona trovata è il malconcio che si va a cercare da sé un pronto soccorso, sfuggendo alla litigiosa coppia che fa pace pomiciando sul cofano dell’auto, con l’improvvido Bisio che davvero fa guizzare la lingua sulle labbra della collega – scherzo da guitto che avrebbe dovuto essere cestinato al montaggio, ma non in un film e in una compagine che esalta – non il sopra – ma il fuori le righe. Soggetto con buone trovate però mal sviluppate in scrittura.

Il vecchio e il cane

Veloce e riuscito episodio sui mostri contemporanei che si apre con un tizio che abbandona il cane per strada. Si ferma un’altra auto con famigliola in partenza per le vacanze estive: genitori con due ragazzi più nonno e cane. Si discute sull’abbandono degli animali e sul costo della vita, poi il capofamiglia invita il vecchio padre a far scendere il cane per i bisogni – e sgomma via abbandonandoli entrambi. Giorgio Panariello al naturale con la sua parlata toscana, così come l’anziano Sergio Forconi che interpreta suo padre; la milanese Angela Finocchiaro si adegua e parla anche lei toscano. Finora l’unico episodio pienamente riuscito.

Padri e figli

Abatantuono e Panariello duettano nella riscrittura di “Come un padre” del 1962 con Ugo Tognazzi e Lando Buzzanca, e l’aggiornamento sta nel fatto che il questuante non è un ansioso uomo tradito ma un meditabondo padre che ha scoperto l’omosessualità del figlio, di cui il professore è l’insegnante; avendo rassicurato il padre, l’anziano docente torna a letto dove ad attenderlo c’è il ragazzo, e il rimando all’altro episodio c’è tutto. La trasposizione con le tematiche del nuovo millennio funziona, quello che non funziona è sempre la sciatteria della sceneggiatura che non sa rinunciare a battute banali, però con Panariello sempre un passo avanti rispetto al bolso Abatantuono. Ma non finisce qui e l’episodio continua con uno sviluppo tutto originale: con l’invito a pranzo che nel ’62 chiudeva l’episodio mentre qui apre un nuovo arguto scenario in cui il padre spinge al confronto con rottura fra il figlio e il professore. Panariello con la sua toscanità pervade l’intero episodio che come nel precedente prevede una moglie conterranea, qui l’imitatrice umbra Emanuela Aureli, mentre il figlio è il debuttante Rocco Giusti con quest’unico film nel curriculum visto che essendo già star di “CentoVetrine” resta a fare la star nelle soap tv. Secondo episodio promosso.

La testa a posto

Dalla toscanità alla napoletanità. Anna Foglietta ha lasciato il lavoro per amore del fidanzato musulmano Alì, interpretato dal tunisino Mohamed Zouaoui, qui al suo secondo film in un carriera che lo porterà a vincere il Globo d’Oro nel 2011 (Golden Globe italiano dalla stampa estera) al miglior attore rivelazione per “I fiori di Kirkuk” dell’iraniano Fariborz Kamkari. Senza più gli introiti del suo lavoro la ragazza non potrà più aiutare la famiglia in ristrettezze economiche, col capofamiglia Carlo Buccirosso che qui non fa rimpiangere i mostri d’antan, la cabarettista Rosalia Porcaro come madre e l’ottantunenne Enzo Cannavale come nonno, qui al suo ultimo film. Ma l’aver lasciato il lavoro non basta e il fidanzato musulmano rompe con la ragazza, che dunque può riprendere il suo lavoro di prostituta per aiutare la famiglia, col padre che esulta perché la figlia ha rimesso la testa a posto. Paola Lavini come amica e collega della protagonista. Un altro episodio completamente riuscito se non fosse per le solite sciatterie nella scrittura più da serie tv che da cinema di serie A.

La fine del mondo

La fine del mondo è il buco nell’ozono che porta un caldo innaturale (e in questi giorni tutti ne abbiamo esperienza) ma sulla spiaggia sono tutti inconsapevoli e contenti – non abbastanza mostri dentro, però: sono caratteri banali. Veloce episodio corale dove ci sono tutti quelli visti fin qui: Anna Foglietta, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Giorgio Panariello, Susy Laude e Mauro Meconi di nuovo in coppia, Diego Abantatuono che si auto-cita rifacendo il suo terrunciello, maschera con la quale fece ben 17 film in 3 anni, Angela Finocchiaro e Claudio Bisio. Nella foto di gruppo manca l’intervistatore tv, attore non accreditato che risponde al nome di Antonio Friello.

Povero Ghigo

Entra in scena la scuola milanese. Abatantuono duetta con Bisio, poi si aggiunge Ugo Conti. Ex attori cabaret i due vanno al funerale del compagno di scena Ghigo, ma il primo che nel frattempo è divenuto un divo di fiction tv dirotta il secondo verso un altro funerale dove fa l’ospite a pagamento. All’inizio dell’episodio altri due comici milanesi, Enzo Polidoro e Stefano Vogogna, come funzionari televisivi. Luciano Manzalini, in solitaria dal duo Gemelli Ruggeri, è il prete officiante. Altro degno episodio di mostri da nuovo millennio.

Razza superiore

Episodio che graffia più in profondità mettendo in scena gli argomenti sensibili del razzismo e del classismo. La vecchia nobildonna nostalgica del regime fascista e amica di gioventù di Edda Mussolini, la primogenita del Duce, costretta in carrozzella si fa accompagnare dal badante immigrato il quale, non appena la vecchia si addormenta, la traveste da mendicante e la lascia all’ingresso di una chiesa dove i parrocchiani in uscita le lasceranno molti oboli. Una trentina di euro che il badante si dividerà col maggiordomo perché la nobildonna sono anni che non paga gli stipendi. Protagonista la vera nobildonna Valeria De Franciscis che dopo una figurazione nel 2000 in “Estate romana” di Matteo Garrone debutta 93enne da protagonista in “Pranzo di Ferragosto” dell’altrettanto debuttante alla regia Gianni Di Gregorio; riprenderà il suo ruolo di vecchia madre nel 2011 in “Gianni e le donne” sempre di Di Gregorio per andarsene 99enne nel 2014. Il badante Tushar, attore non professionista ma efficace, si esibisce col suo vero nome.

Euro più, euro meno

La coppia di camerieri di un grande albergo romano, lui in sala lei alle camere, a fine giornata torna a casa sognando un futuro radioso nel presente ad ostacoli fra buffi e cravattari. A far coppia con la Ferilli la new entry nel cast del film Neri Marcorè. Dopo una velocissima carrellata dei soliti ricchi al buffet in albergo (già visti nel golf club del primo episodio) e un gratuito riferimento a Lilli Gruber“a roscia che sta de sguincio” – resta da chiedersi: dove sono i mostri? questi sono solo du’ poveri disgraziati, per dirla col loro gergo romanesco, che lecitamente sognano un futuro migliore, euro più euro meno. Episodio assolutamente inconcludente.

Fanciulle in fiore

Le tre fanciulle ironicamente in fiore sono tre borgatare romane calate in centro a far danno, sono dunque i mostri di questo brutto episodio scritto malissimo. Le tre fanciulle vogliono fare shopping ma non ci hanno gli euri, sempre al plurale in tutto il film quando sarebbe bastato una sola volta scegliendo di caratterizzare con questo idiotismo uno solo dei tanti personaggi. Le tre prendono di mira un Panariello ancora una volta formato famiglia, per circuirlo, scattargli delle foto e ricattarlo perché minorenni. I mostri ci sono e sono attuali ma sono scritti male perché svelando le intenzioni delle tre sin dall’inizio non lasciano nulla allo spettatore, né sorpresa né suspense, e il racconto si svolge tutto sulle smorfie dell’attore agganciato nella sala cinematografica dove ha portato la famiglia; a peggiorare l’intera struttura ci sono le risate del pubblico aggiunte in post-produzione, che dovrebbero essere rivolte al film sullo schermo ma sono sfacciatamente sincronizzate con le smorfie del disgraziato proprio come se l’episodio cinematografico non fosse altro che uno sketch tv, che sembra essere l’unico riferimento di regista e autori. Buggerato e derubato Panariello torna a sedere in sala e piangendo davanti al film comico dice alla moglie: “Piango dal ridere!”: battutona profonda che fa traboccare il vaso del brutto. Le tre adolescenti sono come da foto da sinistra a destra: Veronica Corsi, Cristel Checca e Chiara Gensini che è quella che si dà da fare in sala; la barese Elena Cantarone nel ruolo della moglie.

Terapia d’urto e L’insano gesto

A seguire due episodi che si intrecciano. Abatantuono come alto prelato in limousine con autista si dimostra banalmente poco caritatevole con un ragazzo africano che vorrebbe lavare il parabrezza. Poi passiamo nello studio dell’analista Finocchiaro in seduta con l’assistito Bisio, e si vede che i due amici milanesi si divertono a duettare – senza però divertire noi spettatori: la terapia d’urto consisterebbe in un grottesco e mal riuscito capovolgimento della deontologica professionale, che non è arriva ad essere un paradosso da mostro del terzo millennio ma ancora una volta solo trita comicità televisiva; sia come sia l’analista induce il paziente depresso al suicidio confermando il “buon” esito della seduta alla di lui moglie: c’è molto materiale per mettere in scena dei veri mostri ma gli sceneggiatori sono troppo presi dai loro moduli televisivi e dall’incapacità di graffiare. Si passa dunque all’insano gesto: il povero Bisio guarda il Tevere da un ponte mentre il prelato nega l’elemosina a un altro questuante, un attimo prima di accorgersi che un ragazzo sta per buttarsi nel fiume e lo “salva”, solo che il ragazzo voleva buttarsi in soccorso all’altro che si era già buttato: un pasticcio senza capo né coda, e senza morale. Nel ruolo del giovane impossibilitato salvatore Rodolfo Castagna non accreditato.

La seconda casa

Con Buccirosso si va a Napoli. Fornito di parrucchino col ciuffo che non sa trattenersi dallo scostare graziosamente dalla fronte, manca solo il mignolo alzato, fa costruire la seconda casa, ovvero un bunker segreto, sotto la villa che abita. Indi accompagna in una visita guidata lo zio latitante e i suoi due complici che abiteranno il bunker, rivelando di avere ucciso e interrato il progettista e gli operai che vi hanno lavorato, perché restasse davvero segreto. Il mostro c’è, ma l’episodio è facile e scontato: nessuno si aspetta che un camorrista non lo sia. I veri mostri sono quelli che sorprendono. Nel ruolo della moglie l’attrice teatrale Antonella Morea, nipote di Renato Carosone.

Cuore di mamma

Episodio da protagonista assoluta per la Ferilli in un episodio che è figlio di “Sequestro di persona” del 1977: lì a Vittorio Gassman avevano rapito la moglie, qui Sabrina si è persa la figlia in un supermercato; a entrambi viene data l’opportunità di una diretta televisiva per fare un appello, che si trasforma in manipolazione del mezzo pubblico. Come già detto altrove l’idea non è male ma è realizzata malissimo. La bella mamma è in cerca di attenzioni, e non c’è niente di male, mette gli occhi su un giovanotto che però è accompagnato dal suo fidanzato e lì, mentre la donna cambia espressione e parte la musica smaccatamente retorica e triste, in questo tripudio di banalità anche il fidanzato gay è eccessivamente effeminato come se non fosse bastato il bacio fra i due uomini a rendere il contesto. Di fatto la donna ha perso di vista la bambina. Anche nel cambio di prospettiva della protagonista non c’è progressione drammatica perché sceneggiatori e regista non sanno cosa sia la drammaturgia, e la donna passa da disperata a imbonitrice televisiva in un paio di fotogrammi. Di questa scrittura carentissima ne fa le spese Sabrina Ferilli che altrove e diretta da altri registi è anche brava. Massimo Giletti rifà sé stesso come intervistatore Rai.

Accogliamoli

E per finire in bellezza, si fa per dire, un episodio dedicato agli immigrati. Nel peggio del peggio di una Napoli-Milano, Buccirosso e Abatantuono duettano con battutacce da barzellette trite e ritrite che neanche da cabaret, ormai, forse solo da villaggi vacanza. I due sono due mostri reali, quelli che sfruttano gli immigrati affittando abitazioni super affollate a prezzi esorbitanti, ne sono piene le cronache. Solo che la materia è trattata con grandissima superficialità e quello che avrebbe potuto essere grottesco si fa grossolanamente surreale, alla continua ricerca di effetti per i due protagonisti. Diego Abantuono continua a rifare il suo terrunciello mentre Carlo Buccirosso non può far altro che indossare la parrucca di Pappagone, la maschera televisiva creata da Peppino De Filippo nell’ormai lontanissimo 1966, personaggio di grandissimo successo che dall’anno successivo divenne anche fumetto. In conclusione “I mostri oggi” sono solo quelli che hanno realizzato il film.

Tornando ai mostri di oggi, ovvero di 14 anni fa, il film è nel complesso un clamoroso pasticcio. Non manca qualche episodio riuscito ma, come si dice, una rondine non fa primavera. Alla sua uscita fu massacrato dalla critica quasi all’unanimità ma ebbe successo al botteghino presso il cosiddetto pubblico di bocca buona. La debolezza del film è proprio strutturale: dovrebbe toccare argomenti per i quali ci si indigna e si tiene lontano da temi sensibili come la politica, la religione, il giornalismo e la televisione che anzi omaggia: i mostri sono cinematograficamente altrove anche se non direttamente citati: “Ferie d’agosto” e il più recente e meno riuscito “Siccità” di Paolo Virzì, ma anche l’Oscar “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che ha saputo indagare su altri mostri moderni, così come pure Matteo Garrone la cui filmografia sembra interamente dedicata ai mostri troppo umani.

Col dovuto senso critico è un film in ogni caso da vedere per metterlo a confronto coi film del 1962 e 1977 coi quali ha cercato un confronto: se invece di intitolarsi ai mostri si fosse intitolato altrimenti oggi non sarei qui a parlarne. I titoli degli episodi li apprendiamo solo in coda, quando ormai stiamo lasciando la sala, se al cinema, o cambiando canale se in tv. I numeri: Diego Abantantuono, che onestamente è il peggio, la fa da padrone apparendo in 8 episodi che potrebbero essere 7 se si considera che come prelato compare in due; segue Giorgio Panariello che con le sue maschere alternatamente riuscite compare in 6; a quota 4 si piazzano a pari merito Carlo Buccirosso che è il più incisivo del terzetto, Claudio Bisio e Angela Finocchiaro che arrancano; 3 episodi per Sabrina Ferilli protagonista solo in uno è sempre troppo simpatica sopra le righe; due per Anna Foglietta e la coppia filmica Mauro Meconi e Susy Laude; un solo episodio per Neri Marcorè arrivato alla ribalta come imitatore concorrente di “La corrida” condotta da Corrado su Canale 5, vincendo nel 1988; in seguito partecipa anche a “Stasera mi butto”, Rai 2, arrivando in finale e da lì in poi la carriera televisiva è tutta in ascesa, studiando da professionista per prepararsi al doppiaggio, al cinema e al teatro; benché da più di un decennio anche protagonista al cinema, per quando in film secondari, qui con un solo episodio non merita neanche il nome in locandina. Su tutto il resto stendiamo veli pietosi.

I nuovi mostri – con gli episodi censurati dalla Rai qui recuperati

1977. Sono passati quindici anni dall’originale e molta acqua è passata sotto i ponti: sono finiti i tempi spensierati del boom economico sull’onda del quale cinematograficamente si è passati dal neorealismo del dopoguerra alla spensieratezza della commedia all’italiana che nei suoi esempi migliori era anche critica sociale con venature di un umorismo graffiante che non risparmiava niente e nessuno. Il 1977 è nel mezzo di un decennio nero di terrorismo, nazionale e internazionale, una narrativa che drammaticamente entra anche in questo film in cui i toni grotteschi e graffianti si fanno ancora più incisivi, e anche violenti come la società che li esprime.

Gli episodi che prima erano 20 qui sono 14 e a Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi si aggiunge un Alberto Sordi in gran spolvero, di suo già campione di maschere grottesche dell’italiano medio, con l’aggiunta della stella in ascesa Ornella Muti che aveva debuttato solo sette anni prima con “La moglie più bella” di Damiano Damiani. Un’altra novità è che in alcuni episodi i quattro nomi dei titoli di testa cedono il passo ad altri validi interpreti che a loro volta diventano protagonisti. Tognazzi e Gassman recitano insieme in un solo episodio. Degli sceneggiatori originali rimane Ruggero Maccari che scrive il film con Age & Scarpelli e Bernardino Zapponi; mentre Ettore Scola che lì era sceneggiatore qui è regista e insieme a Mario Monicelli si aggiunge a Dino Risi che fu regista unico del primo film. Suo figlio Claudio Risi è l’aiuto regista. Armando Trovajoli che qui è Trovaioli torna a firmare la colonna sonora. Dei tre registi, all’uscita del film non si sapeva chi avesse diretto cosa perché di comune accordo avevano deciso di non firmare i loro episodi, e pare che i tre si siano impegnati a sostenere con i loro guadagni l’amico sceneggiatore Ugo Guerra gravemente malato e da diversi anni paralizzato, che sarebbe morto cinque anni dopo. Oggi siamo in grado di abbinare i registi agli episodi. Alla produzione Pio Angeletti e Adriano De Micheli della Dean Film prendono il posto di Mario Cecchi Gori. Come film straniero fu candidato all’Oscar nel 1979 ma quell’anno vinse il francese “Preparate i fazzoletti” di Bertrand Blier. Fu anche candidato ai David di Donatello ma vinse solo l’Alloro d’Oro alla miglior sceneggiatura al Festival di Taormina.

La versione presente su YouTube è quella ridotta negli anni Ottanta per la Rai in cui vengono tagliati cinque dei quattordici episodi rimescolando l’ordine di quelli rimasti. In questa censura sono saltati quelli meno edificanti ritenuti non adatti alle famiglie, ovvero: “Il sospetto”“Sequestro di persona cara”, “Mammina e mammone”“Cittadino esemplare” e “Pornodiva”; questi ultimi tre però sono stati reintegrati in una versione trasmessa su Rai Movie a partire dal 2014, però con l’amputazione del finale di “Pornodiva” che, come vedremo, cambia completamente il senso del racconto.

Tantum Ergo di Dino Risi

Gassman è un cardinale che causa guasto alla sua auto si ferma in una chiesa di periferia dove è in corso un acceso dibattito di borgatari guidato dal prete Luigi Diberti. Il cardinale improvvisa un sermone che acquieta gli animi, dimostrando al prete-operaio che faticosamente guidava da pari a pari il dibattito, che la retorica e l’eloquenza con l’aggiunta degli effetti speciali di sempre – luci, campane e musica d’organo – sono la vera via del Signore. Paolo Baroni efficacissima spalla in una regia molto arguta è il pretino che come da tradizione, vedi “La giornata dell’onorevole” in “I mostri”, è sempre omosessuale.

Auto stop di Mario Monicelli

Oggi lo scriviamo in un’unica parola ma all’epoca erano ancora due parole staccate. Partendo dal dettaglio del magnete sul cruscotto “vai piano e pensa a noi” con foto dei familiari, scopriamo che alla guida dell’auto Eros Pagni (raffinato interprete teatrale che al cinema è un caratterista di lusso) va oltre un autostoppista commentando “Sì, col cazzo!” per poi fermarsi immediatamente quando sul ciglio della strada gli compare la “gnocca” Ornella Muti che carica in macchina facendo sparire il magnete, e ovviamente mettendo in campo tutti i luoghi comuni dell’automobilista con fantasie erotiche, e tutti noi spettatori conosciamo i luoghi comuni sulla pericolosità degli autostoppisti ma anche degli automobilisti…

Con i saluti degli amici di Dino Risi

Segue uno dei due soli episodi non ambientati nell’area romana: breve come uno sketch televisivo. In un paesino dell’entroterra siciliano, un notabile mafioso passeggia per le vie assolate accompagnato dal suono del sempre classico marranzano, finché viene steso a colpi di lupara da due ragazzotti in vespa “Con i saluti degli amici”, ed è comune fra i siciliani il detto “Amici, e guàrdati!”. Battuta folgorante finale del mafioso morente interpretato dal romano Gianfranco Barra unico protagonista.

Hostaria! di Ettore Scola

Col punto esclamativo che subito mette in evidenza la tipicità dell’osteria della tradizione romana. Gassman e Tognazzi, l’uno cameriere l’altro cuoco, nel loro unico incontro del film fanno dell’osteria il loro personale ring con divertimento reciproco: sono quella che oggi diremmo una coppia di fatto, litigiosa e di mezza età, che con i tempi e i modi e la musichetta delle comiche d’antan si tirano addosso di tutto distruggendo la cucina salvo poi fare pace con un bacetto. I borghesissimi commensali apprezzano le vivande che dopo la lite contengono di tutto. E non è chiaro se i mostri sono la litigiosa coppia o i commensali, che di passaggio citano e omaggiano Indro Montanelli come caro amico: messaggio ambiguamente trasversale al giornalista.

Pronto soccorso di Mario Monicelli

Un affettatissimo Alberto Sordi, come Principe Giovan Maria Catalan Belmonte è un esponente della nobiltà nera romana, quella papalina sempre nostalgica del Papa-Re, lascia un’amica al Jackie O’, esclusivo locale romano che a partire dagli anni ’70 ereditò quello che restava della dolce vita romana dei tardi anni ’50. Con la sua Rolls Royce bianca (la Land Rover la prende solo per le uscite sportive) deve raggiungere la residenza della Principessa Aldobrandi dove fra nobili si discuterà lo scisma del Cardinale Marcel Lefebvre. Sordi si esibisce in un monologo un po’ troppo lungo e un po’ troppo indugiando, a mio avviso, su alcune volgarità che pur caratteristiche del “nobile” personaggio non necessitavano di sottolineature. Raccoglie la vittima di un incidente stradale e tenta inutilmente di portarlo in tre ospedali che per un motivo o un altro rifiutano l’urgente ricovero: questa è un’altra delle mostruosità sociali. Alla fine lo abbandona lì dove l’aveva trovato, sotto il monumento a Mazzini che lui crede Mussolini. Luciano Bonanni interpreta l’uomo ferito mentre l’amica di passaggio all’inizio altri non è che la ballerina del ventre Aïché Nana che sul finire degli anni ’50 si era resa famosa per uno spogliarello al ristorante Rugantino, immortalata dal fotografo Tazio Secchiaroli. In coda il titolo “Pronto soccorso” diventa inglese: “First Aid” e vai a capire perché.

L’uccellino della Val Padana di Ettore Scola

Questo è il secondo episodio non ambientato a Roma. La moda dell’epoca nominava le cantanti in un bestiario tutto italiano: Mina era la Tigre di Cremona, Iva Zanicchi era l’Aquila di Ligonchio e Orietta Berti che aveva addirittura due nomignoli – l’Usignolo di Cavriago e la Capinera dell’Emilia – qui diventa Fiorella l’Uccellino della Val Padana gestita dal totalizzante marito-impresario Tognazzi che nel privato se la deve vedere con le tante bambole che invadono la loro camera da letto, autocitazione per la Berti che è realmente collezionista di bambole. La poverina incorre in un problema alle corde vocali e il solerte marito le procura un incidente domestico dopo la quale potrà esibirla come caso umano su una sedia a rotelle. Molto brava lei che da cantante professionista si mette in gioco e nel finale stona con grande maestria.

Come un regina di Ettore Scola

Sordi asciuga i toni e condivide lo schermo con una dolce vecchina che interpreta la madre. Che lui, all’insaputa di lei, sta portando in in ospizio. L’interpretazione più convincente dell’attore è tutta negli sguardi che spaziano dall’apprensione all’esasperazione, dall’amore alla malsopportazione e al senso di colpa. Per Sordi è un bagno di verità: è noto che fosse morbosamente legato alla madre e ancora si racconta di quando, alla morte di lei, per vent’quattr’ore si chiuse in camera col cadavere rifiutandosi anche di aprire agli impiegati delle pompe funebri. La vecchina è l’attrice di un solo film Emilia Fabi. “Trattatela come una regina!” è l’invocazione finale del figlio mentre va via. Come una regina in esilio, dolorosa condizione di molti nostri vecchi che non hanno più spazio nella frenetica quotidianità che ci stritola.

Senza parole di Dino Risi

Il breve incontro d’amore fra una hostess poliglotta e un affascinante mediorientale che non parla nessuna delle lingue che lei conosce – e qui tocca dire che la Muti non parlava bene nemmeno l’italiano dato che per tutto l’arco crescente della sua carriera è stata sempre doppiata. Nel romantico episodio senza parole la musica è padrona con due successi dell’epoca: “Ti amo” di Umberto Tozzi e “All by myself” nella versione originale di Eric Carmen. Episodio volutamente zuccheroso dove non tutto è come sembra. Con il greco Yorgo Voyagis inspiegabilmente col trattino nei titoli, Yorgo-Voyagis, volto nuovo sugli schermi italiani come Giuseppe nel televisivo “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli, in onda quello stesso 1977.

L’elogio funebre di Ettore Scola

Il funerale comincia con l’accompagnamento di una musichetta sgangherata di una piccola banda che dà subito il tono all’episodio. Fra i quattro che portano a spalla la bara ecco Alberto Sordi. Si seppellisce un comico d’avanspettacolo e i convenuti sono il variopinto bestiario di amici e colleghi. Sordi, come storica spalla del vecchio comico Formichella, comincia l’elogio funebre che presto si trasforma in rievocazione di gloriose scenette e sagaci battute: il funerale diventa un’allegra rivisitazione della rivista d’antan in cui Sordi stesso mosse i primi passi, e alle lacrime si sostituiscono risate canti e applausi con tanto di passerella finale attorno alla fossa e sipario calato dai muratori retrostanti che calano una rete di protezione. Nel sentire comune di quell’Italietta democristiana forse questi teatranti erano dei mostri ma è evidente che a un attore comico quel funerale sarebbe piaciuto assai. Per non dire che oggi è ormai prassi comune, questa sì tristemente comune, l’abitudine di applaudire ai funerali, gesto privo di senso traslato dalla gente di spettacolo che di quegli applausi era vissuta, tanto che alcuni preti cominciano ad avvertire che gli applausi non sono consentiti. Per l’intero film questo episodio è un delizioso e degno finale. E poi con una ricerca mirata ho trovato i singoli episodi tagliati dalla Rai.

Mammina e mammone di Dino Risi

La giornata di due eccentrici barboni in un episodio davvero inconsistente che probabilmente avrà avuto un senso per i suoi creatori se ispirato a personaggi reali: la morale è che fra i barboni che si aggirano nelle nostre città ci sono anche nobili decaduti e personalità esemplari. Con Tognazzi che come dolce bambinone si accompagna all’ottantenne Nerina Montagnani, una caratterista che dopo aver lavorato come cameriera per tutta la vita ha esordito a settant’anni costruendosi una carriera di tutto rispetto.

Cittadino esemplare di Ettore Scola

Il mostro siamo noi. Gassman rientrando a casa dal lavoro assiste all’aggressione e all’accoltellamento di un uomo. Come nulla fosse raggiunge la famiglia per cena e si rilassa davanti a un programma Rai: ovvio che la Rai lo abbia tagliato. Dal programma sentiamo la voce di Pippo Franco nel varietà “Bambole, non c’è una lira” diretto da Antonello Falqui.

Il sospetto di Ettore Scola

Episodio decisamente politico, dunque indigesto alla finta ecumenica mamma Rai. Gassman commissario di polizia dall’accento napoletano fa una paternale a un gruppo di giovani sovversivi arrestati, e dal mucchio gli arriva una pernacchia. Fatta da un brigadiere infiltrato per meglio mimetizzarsi. Con Francesco Crescimone da Caltagirone che sarà anche sceneggiatore e regista.

Sequestro di persona cara di Ettore Scola

Cinema che racconta la televisione-verità: diretta televisiva dal salotto di un uomo distrutto dal dolore al quale hanno rapito la moglie e che si rivolge ai sequestratori implorando almeno una telefonata per averne notizie. Andata via la troupe televisiva l’uomo mostra che aveva tagliato il filo del telefono. Altro episodio scomodo da mostrare in tv perché un mostro si fa gioco della tv. Oltre che dell’opinione pubblica.

Pornodiva di Dino Risi

In effetti l’episodio, senza voler svelare nulla a chi non l’avesse ancora visto, è davvero forte, non per il contenuto ma per il concetto che veicola. Eros Pagni è di nuovo protagonista con la procace moglie interpretata da Fiona Florence che all’anagrafe è Luisa Alcini, una coppia di burini che prima di firmare il contratto che prevede scene di nudo e di sesso con una scimmia vogliono capire i dettagli e alzare il compenso. Nel ruolo dell’anziano produttore il caratterista settantenne Vittorio Zarfati che con Risi aveva debuttato l’anno prima, e che aveva una tragica storia alle spalle: di religione ebraica sfuggì al rastrellamento nazi-fascista dell’ottobre 1943 perché si trovava poco fuori Roma e perse la moglie e tre figli deportati e soppressi a Auschwitz-Birkenau. come figlia della coppia di burini la decenne Simona Patitucci che da adulta farà poco cinema ma tanto teatro musicale e molto doppiaggio.

E per finire un po’ di numeri. Nella versione integrale di 14 episodi Ugo Tognazzi è presente in 3, Vittorio Gassman in 5, insieme solo in uno; 3 per Alberto Sordi, 2 per Ornella Muti e 2 anche per Eros Pagni che di fatto si colloca fra i protagonisti. Nella versione ridotta Tognazzi perde un episodio e Gassman addirittura 3 restando entrambi a pari merito con 2 episodi, cedendo il passo a Sordi che li porta avanti tutti e tre mentre Pagni ne perde uno dei due. Come anticipato Rai Movie ha trasmesso una versione allungata ma continuano a mancare “Sequestro di persona cara” e “Il sospetto” entrambi con Gassman. L’ultima volta in cui il film è stato trasmesso in televisione è stato nell’agosto 2022 su Rai 3. Anche nelle versioni home prima in VHS e poi in DVD c’è la versione ridotta a 9 episodi, la stessa disponibile attualmente su Netflix: non credo che si tratti più di censura per argomenti ritenuti scabrosi o antisociali ma sono incuria da pigrizia intellettuale e commerciale.

Il giardino dei Finzi Contini – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Sarò controcorrente: secondo me questo film non è fra i migliori di Vittorio De Sica. Tratta un argomento importante, è vero, è tratto da un importante romanzo, è altrettanto vero, ed ebbe grande successo anche oltreoceano dove notoriamente sono assai sensibili riguardo al tema dell’ebraismo: il film negli Stati Uniti si aggiudicò l’Oscar come miglior film straniero ed ebbero la candidatura per la miglior sceneggiatura non originale Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli; e poi candidatura al Grammy per la musica di Manuel De Sica, figlio maggiore del regista, qui alla sua terza colonna sonora; Vittorio De Sica vinse anche l’Orso d’Oro a Berlino e il britannico BAFTA dove ci fu la candidatura di Ennio Guarnieri per la miglior fotografia. Premi in Italia: David di Donatello come miglior film e David Speciale al protagonista Lino Capolicchio; Nastro d’Argento a Romolo Valli come miglior attore non protagonista e a Giancarlo Bartolini Salimbeni per la miglior scenografia; e per finire Globo d’Oro a Fabio Testi come miglior attore rivelazione. Elencati per dovere di cronaca premi e riconoscimenti specifico che nel mio essere controcorrente sono in buona compagnia perché all’epoca non tutta la critica fu d’accordo nell’elogiare il film e Morando Morandini sul quotidiano milanese “Il Giorno” scrisse che era eccessivamente melenso. Be’ lo è.

Secondo me questo stile, melenso per Morandini, eccessivamente patinato aggiungo io, non è in linea con la miglior produzione di De Sica che nasce nel neorealismo e anche quando si trasforma in commedia mantiene certe radici veristiche e veraci, popolari e popolane, mentre la vita agiata di questa oziosa famiglia altoborghese, tutti leccati in abiti fra il bianco e il color crema, non appartiene al regista e dunque la racconta per luoghi comuni dove la quotidianità si fa cicaleccio e birignao: una leggiadria certo necessaria a far risaltare la tragedia incombente delle persecuzioni nazi-fasciste, ma non fosse stato per il risvolto drammatico questo ritratto di famiglia in un esterno sarebbe potuto diventare parodia: i Finzi-Contini, con trattino come nel romanzo di Giorgio Bassani, che sono “altro” nella comunità ebraica della Ferrara dell’epoca, restano “altro” anche nella cinematografia di De Sica.

Già l’inizio è imbarazzante dal punto di vista sonoro: Livia Giampalmo, che effettivamente era agli inizi in sala di doppiaggio, doppia Dominique Sanda quasi facendo il verso alle querule doppiatrici d’antan delle sofisticated comedies hollywoodiane, come dandosi un tono perché sta dando voce a una signorina di buonissima famiglia: stonatissima e fasulla; più avanti ci si fa l’orecchio, giocoforza, ma arriva subito anche il doppiaggio altrettanto stonato di Roberto Del Giudice che dà voce a Helmut Berger: l’atmosfera generale è che stiano giocando a fare le persone fini.

Alessandro D’Alatri, recentissimamente morto 68enne dopo una lunga malattia, recita nel film il ruolo del protagonista da adolescente, ma aveva debuttato 14enne l’anno prima da protagonista nel piccolo film di avventura e formazione (di cui non rimane traccia) “Il ragazzo dagli occhi chiari” di Emilio Marsili (due soli film nel portfolio e anch’egli sparito senza lasciare traccia) e poi in Rai con un piccolo ruolo nella miniserie “I fratelli Karamazov” diretta da Sandro Bolchi, dopodiché smette di recitare e da giovane adulto negli anni ’80 è al top come regista di pubblicità, debuttando come regista cinematografico solo nel 1991, 36enne, con “Americano Rosso” che gli varrà il David di Donatello come miglior regista esordiente; era una commedia sentimentale guarda caso ambientata nel 1934 con lo stesso entroterra fascista di questo film di De Sica cui resta legato il suo nome come giovane attore. Nel ruolo di Micol da giovane c’è l’ex attrice bambina Cinzia Bruno che aveva debuttato a tre anni proseguendo la carriera di giovane attrice anche in radio e nel doppiaggio ma per un problema alle corde vocali ha dovuto abbandonare la carriera artistica ed ha aperto un’agenzia di viaggi.

Proprio per il ruolo di Micol, De Sica aveva seriamente considerato Patty Pravo ma non se ne fece niente perché Patty era troppo impegnata, era appena arrivata al successo con “La bambola” (canzone che odiava perché dava l’immagine di una donna totalmente dipendente dall’uomo), inoltre la sua casa discografica stava battendo il ferro ben caldo: in quel 1970 era al successo con “La spada nel cuore” e poiché stava costruendosi una brillante carriera come cantante non volle distrarsi col cinema, tanto che in seguito rifiutò anche “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni: oggi se ne dice pentita. Però l’anno prima aveva doppiato Jacqueline Kennedy nel documentario di Gianni Bisiach “I due Kennedy”.

Alla sceneggiatura del film, come detto firmata da Bonicelli e Pirro, inizialmente partecipa anche l’autore del romanzo, Giorgio Bassani, che però abbandona il progetto per insanabili divergenze col regista, tanto da chiedere, e ottenere, che il suo nome venisse tolto dai titoli. Pare che il punto di rottura fu l’esplicitazione nel film della relazione fra Micol e il comunista milanese Malnati, che nel romanzo è solo accennata da Giorgio che è l’io narrante. E non si può dire che per lo scrittore sia stato il capriccio autorale di uno che non comprende le esigenze cinematografiche, perché egli stesso era da tempo attivo sia come soggettista che sceneggiatore, per non dire che aveva anche doppiato Orson Welles diretto da Pier Paolo Pasolini nell’episodio “la ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”.

Lino Capolicchio è il protagonista Giorgio, nome autobiografico dell’autore che in qualche modo si rispecchia nel personaggio, ebreo come lui, che narra le vicende reali di una famiglia ferrarese cui nel romanzo sono stati cambiati i nomi (tranne quello del cane Jor) e alcuni dettagli: da qui forse il suo attaccamento a certi passaggi della sua narrativa che nel film non sono stati rispettati. Micol è interpretata dall’ex modella francese Dominique Sanda che dopo un’intenso debutto il patria con Robert Bresson che la diresse in “Così bella, così dolce”, subito viene adottata dai cineasti italiani a quell’epoca sempre affascinati dalle bellezze straniere, tanto c’era il doppiaggio: lo stesso anno gira con Bernardo Bertolucci “Il conformista” e si avvia a una carriera in film d’autore con personaggi tormentati e ambigui. Oggi è una bella signora 71enne che si dedica principalmente al teatro. Mentre ricordiamo che Capolicchio è morto 79enne lo scorso anno: la sua scomparsa ha creato un’impennata di visioni di questo film che fino a quel momento era in chiaro su Sky Cinema e che dopo la sua morte è passato a pagamento su Sky Primafila per sfruttare commercialmente la grande richiesta, e infine scompare del tutto; oggi è visibile a pagamento su Prime Video. Restaurato nel 2015 è reperibile in chiaro su YouTube una vecchia versione per il mercato anglofono con titolo e sottotitoli in inglese.

Ferrara, con Roma e Venezia, era una delle città con maggiore popolazione ebraica, e anche dopo la chiusura del ghetto in epoca fascista rimase un importante centro per la comunità, tanto che alle prime restrizioni vi confluirono ebrei da altre province pensando di trovare un ambiente più favorevole grazie alla presenza del deputato fascista ferrarese Italo Balbo e del suo amico Renzo Ravenna che fu uno dei due soli ebrei (l’altro fu il triestino Enrico Paolo Salem) a ricoprire il ruolo di podestà, fino all’emanazione delle leggi razziali che non risparmiò neanche loro. Ferrara dunque fu un centro nevralgico che anche il regista ferrarese Florestano Vancini racconterà nei suoi film.

Il giardino del titolo è quello della villa che realmente a Ferrara, e poi nel romanzo e infine del film, divenne ritrovo e porto franco per tutti gli ebrei e chiunque altro fosse inviso al regime fascista che aveva cominciato le persecuzioni e le restrizioni sociali; metafora di un sogno bello e impossibile che la realtà andrà a dissacrare. Romanzo e film raccontano come la comunità ebraica non si rese conto di quanto stava accadendo; ci fu chi reagì cercando di mimetizzarsi e si iscrisse al Fascismo, come il suddetto podestà della città e come il padre del protagonista interpretato da Romolo Valli, chi davvero senza poter comprendere, perché si era tutti italiani e da secoli, a memoria umana, non c’erano più state divisioni per ragioni religiose e men che meno razziali. Come detto a Romolo Valli, gran signore del teatro sempre in ruoli di supporto al cinema, è andato il riconoscimento del Nastro d’Argento. A Fabio Testi nel ruolo di Malnate è andato il Globo d’Oro come unico premio in una lunga carriera iniziata appena quattro prima come controfigura sul set di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che in seguito gli affida un ruolo in “C’era una volta il west” che però taglia in post-produzione perché non ottimale; ma è un aitante belloccio e dopo una serie di piccoli ruoli è protagonista in un paio di film di serie B; è qui alla sua prima occasione in un film importante e l’industria cinematografica che sta puntando su di lui lo premia per sdoganarlo fra quelli che contano. Conclude il cast dei ruoli principali l’altro bello e possibile già ex modello austriaco Helmut Berger che Luchino Visconti aveva diretto proprio come ragazzaccio austriaco in un episodio del film “Le streghe” e che lancerà come protagonista in “Ludwig” un paio d’anni dopo.

Curiosità letteraria, nel romanzo c’è un prossimamente: Giorgio racconta a Malnate di un’episodio accaduto in città poco tempo prima, che riguarda un otorinolaringoiatra coinvolto in uno scandalo omosessuale per il quale si tolse la vita; nomina il personaggio come Athos Fadigati, personaggio protagonista di un altro romanzo al quale stava lavorando: “Gli occhiali d’oro” che con la regia di Giuliano Montaldo diverrà film nel 1987. Una lettura integrale del romanzo “Il Giardino dei Finzi-Contini” a più voci, è stata realizzata dalla Rai di Torino, e poi una riduzione radiofonica e andata in onda su Radio 3. La New York City Opera e il National Yiddish Theatre Folksbiene ne hanno realizzato lo scorso anno un adattamento operistico presso il Museo del Patrimonio Ebraico di Manhattan.

L’amore in città – esperimento unico nel 1953 di film e rivista contemporanei

la locandina del film

Esempio più unico che raro: possiamo vedere e sfogliare online, contemporaneamente, il film e il cinegiornale che lo racconta. Nell’articolo precedente ho parlato delle riviste di cinema in Italia e qui esploriamo questa curiosa operazione, cinematografica e rivista cartacea insieme, l’una complementare all’altra, pensata di certo con l’intento di portare i lettori al cinema e fare degli spettatori dei potenziali lettori: l’idea non era male, se non che negli anni ’50 il il mercato era già saturo; così “Lo Spettatore”, pomposamente diretto da Cesare Zavattini, Riccardo Ghione e Marco Ferreri, visse per un solo numero. A fine articolo è possibile sfogliare la rivista e vedere il film completo.

nei titoli di testa del film

Ma andiamo a vedere chi furono i tre creatori del progetto. Si legge nella rivista: “Due giovani cineasti, RICCARDO GHIONE e MARCO FERRERI, hanno ideato, assieme a Zavattini – Zavattini è in piccolo perché è citato nell’occhiello precedente – ‘la rivista filmata’ o ‘giornale cinematografico’, con il titolo ‘Lo Spettatore’ che dedicherà i suoi numeri, cioè i suoi films, ad alcuni dei più caratteristici aspetti della vita contemporanea. ‘Amore in città’ è il primo film della serie e svolge il tema dei vari e mutevoli aspetti dell’amore in una grande città.” I “due giovani cineasti” furono molto generosi nell’autodefinirsi, dato che cinematograficamente non avevano ancora prodotto nulla.

Riccardo Ghione è oggi il nome meno noto che viene ricordato come sceneggiatore, regista e produttore; in realtà non ha lasciato nulla di memorabile e possiamo considerarlo un intellettuale che amava il cinema, e si sa che non sempre siamo in grado di fare ciò che amiamo. Già due anni prima Ghione, e già in coppia con Ferreri, aveva fondato il cinegiornale Documento Mensile che nonostante avesse coinvolto bei nomi del cinema vivrà per soli tre numeri. Ci riprova con questo Lo Spettatore che andrà anche peggio. Dal 1956 si dà alla sceneggiatura, e nel 1968 dopo aver firmato un documentario mai distribuito debutta con il lungometraggio erotico “La rivoluzione sessuale”; dirigerà altri due soli film mentre come sceneggiatore resta nella scia dell’erotico firmando film come “Fotografando Patrizia” di Salvatore Samperi cui seguirà “Scandalosa Gilda” sempre con Monica Guerritore ma diretta dal marito Gabriele Lavia; seguono titoli come “Delizia” “Senza scrupoli” “Casa di piacere” “Una donna da guardare” “Diario di un vizio”…

Marco Ferreri, che studiava veterinaria nella natia Milano, cominciò a bazzicare nel mondo del cinema senza sapere ancora dove andare a parare: di certo era uno spirito inquieto e lo dimostra nell’intera sua cinematografia; l’anno prima di questa avventura produttiva aveva fatto la comparsa sul set di “Il cappotto” in cui Renato Rascel recitava in un ruolo insolitamente drammatico con Alberto Lattuada alla regia, film di cui Riccardo Ghione era supervisore alla travagliata sceneggiatura a più firme. Fallita la doppia avventura editoriale, Ferreri si fece agente di commercio per una ditta di obiettivi ottici viaggiando tutta la penisola con puntate anche in Francia e Spagna, dove conobbe lo scrittore Rafael Azcona col quale adattò per lo schermo il di lui romanzo “El Pisito” che dirigerà in lingua spagnola debuttando come regista cinematografico nel 1958. Dunque all’epoca di questo cineromanzo è ancora soltanto un giovanotto di belle speranze.

I meno che 30enni Ghione e Ferreri, non paghi del fallimento della prima esperienza editoriale, si rimettono dunque in gioco ma stavolta coinvolgono il 50enne di rango Cesare Zavattini, oggi ricordato come uno degli sceneggiatori più rilevanti del cinema neorealista. Già giornalista e scrittore si avvicina al cinema nel 1934 e dal suo incontro con Vittorio De Sica nasceranno capolavori come “Sciuscià” “Ladri di biciclette” “Miracolo a Milano” “Umberto D.” Sposando il nuovo progetto editorial-cinematografico dei due giovani rampanti, Zavattini pensa di bene di passare anche dietro la macchina da presa e con la sua sceneggiatura debutta come co-regista insieme a un altro debuttante: Francesco Maselli. E in quanto “grande vecchio” o perlomeno persona con più esperienza, oltre al nome ci mette anche la faccia, come si dice, oltre al suo lavoro espone l’idea del progetto, la cosiddetta poetica, che era quella di rilanciare il già morente neorealismo, sorto nell’immediato dopoguerra come necessario bagno di verità dopo il patinato cinema di regime, e che stava già morendo sulla spinta del nuovo genere che attirava gli italiani al cinema: la commedia all’italiana, e di questo periodo sono molti i film che mischiano i due generi, come ponte sul futuro.

Maresa Gallo, una delle attrici professioniste

Zavattini rilancia dicendo di volere avviare una sorta di cinema-verità, una specie di indagine socio-cinematografica dove gli attori non sono più quelli presi dalla strada ma sono addirittura gli stessi protagonisti delle loro vicende: “Il regista deve saper trarre da loro, come dagli ambienti veri, tutti i valori estetici e morali possibili, prescindendo dalle loro capacità tecniche ed interpretative.” Dunque non sarà la creatività dei cineasti a prendere spunto dalla realtà, ma si farà combaciare questa realtà con la creatività. Ambizioso dal punto di vista creativo di sceneggiatori e registi ma assai deleterio dal punto di vista degli attori professionisti, gente che all’epoca si faceva le ossa in palcoscenico, teatro di prosa o rivista che fosse, ma che nel caso di questo cinema-verità sarebbero stati solo di supporto, come accade in questo film.

L’esperienza fu però fallimentare e invece di rilanciare il neorealismo gli diede il colpo di grazia, in quanto gli esperimenti, più che indagine sociale sembrano più situazioni da “Specchio segreto”, il programma Rai che un decennio dopo Nanni Loy scrisse e diresse, che consisteva nel riprendere persone comuni messe in una situazione non comune dallo stesso Loy e altri attori professionisti capaci di seguire a braccio un copione; il programma era stato direttamente copiato dallo statunitense “Candid Camera” (che certo gli avventurieri di questo esempio di cinema-verità conoscevano) che andò in onda dal 1948 fino a tutto il 2014 e che era partito come programma radiofonico, “The Candid Microphone”, dove per candid si intende spontaneo, naturale, sincero – dunque non costruito; e nella sua versione italiana, Nanni Loy, che fu anche attore sceneggiatore e regista di vaglia, aggiunse una sana dose di cinismo nell’indagare la psicologia della vittima impreparata, spingendosi oltre la comicità fine a sé stessa incentrata solo sul prendersi gioco del malcapitato: una visione che possiamo approfondire su Rai Play di cui qui sotto un assaggio. Ricordiamo pure che da questi programmi è poi nato su Mediaset “Scherzi a parte” dove a subire gli scherzi saranno dei personaggi noti.

Il film, strutturato come un cinegiornale con narratore in voce fuori campo, è composto da sei episodi le cui sinossi è possibile leggere sulla rivista, che ha per attori dei non professionisti che interpretano sé stessi e le loro personali vicende: un cinema-verità che per essere realizzato di fatto interpreta la verità rendendola già finzione; il narratore all’inizio chiede a noi spettatori: “Li avete mai ascoltati cosa si dicono sul serio quando credono che nessuno li veda e li senta?” ma per il fatto che quei dialoghi sono stati trascritti, adattati, provati e riprovati e infine filmati non possono più definirsi verità – ma l’esperimento con la gente comune che reinterpreta sé stessa rimane interessante, e dalla visione si possono distinguere quelli che recitano con la loro voce dagli altri che sono stati doppiati: ulteriore manipolazione della verità.

AMORE CHE SI PAGA di Carlo Lizzani

Parlando di prostituzione e intervistando le “signore della notte” salta subito all’attenzione il paternalismo moralista infarcito di pietà pelosa con cui all’epoca veniva raccontato l’argomento. Carlo Lizzani, che non ha messo mano alla sceneggiatura del suo episodio, proprio in quel 1953 aveva cominciato a scrivere la sua “Storia del cinema italiano”. Era stato partigiano nella Resistenza Romana, poi iscritto al Partito Comunista Italiano. Aveva esordito due anni prima con la regia di “Achtung! Banditi!” che non lascia dubbi sull’impegno dell’autore nel cinema neorealista e politico. Nel 2013 si suicidò 91enne gettandosi dal balcone di casa. Nel ruolo della prostituta Anna la professionista Mara Berni alla quale il trucco ha aggiunto un velo scuro di baffetti sopra le labbra per renderla meno diva e più popolana. In un’inquadratura viene omaggiato Michelangelo Antonioni, altro regista di questo progetto, all’epoca nelle sale con il suo secondo film “La signora senza camelie”, e regista dell’episodio seguente.

TENTATO SUICIDIO di Michelangelo Antonioni

Raccogliendo tutti i personaggi in un teatro di posa, avvia poi i racconti delle singole vicende; prima la vicenda di una ragazza che ha cercato di buttarsi sotto un’auto perché il fidanzato l’aveva lasciata sapendola incinta; è evidente, nell’intervista alla protagonista, che lei sta leggendo da un gobbo il racconto della sua stessa vicenda, alla faccia del cinema-verità. Poi è la volta di un’altra, già ballerina di varietà nonché “entrenuse” come lei stessa pronuncia, che finge il suicidio con pochi barbiturici, dopo altri tentativi falliti, per riconquistare il marito che l’aveva lasciata e che alla fine la riprende in casa, ma lei continua a pensare al suicidio perché fondamentalmente insoddisfatta della vita di casalinga: quella che avrebbe potuto essere un’interessante indagine sull’insoddisfazione di una donna irrealizzata in un’epoca in cui alle donne comuni era preclusa ogni possibilità di riscatto sociale, quest’episodio nell’episodio si limita a raccontare il tentato suicidio.

Sempre per pene d’amore una terza si butta nel Tevere e una quarta, che va da sola in Vespa e definita “esponente di quella gioventù sfasata che riempie le cronache” per dire quanto i giovani fossero male considerati, si taglia le vene pensando che fosse più facile morire, per poi dichiarare che le piacerebbe fare l’attrice; al chi l’intervistatore-narratore, che segue la sceneggiatura dello stesso Antonioni, le chiede se il tentato suicidio non sia stato soltanto una posa. Una quinta racconta con grande naturalezza – “e se ne andette via co’ la moglie” – il triangolo amoroso in cui era la vittima.

Michelangelo Antonioni sta girando in contemporanea il suo terzo film, “I vinti”, un interessante e contrastato film a episodi che ispirandosi a fatti di cronaca avvenuti in nazioni diverse, racconta tre storie nelle tre diverse lingue: francese italiano e inglese. Conoscerà Monica Vitti durante il doppiaggio del successivo “Il grido” dove lei dà la voce a Dorian Gray, e fu subito amore insieme al trittico dei film sull’incomunicabilità.

PARADISO PER 3 ORE di Dino Risi

Che nella rivista viene erroneamente annunciato per 4 ore; ed è già esagerato definire “tre ore di felicità, tre ore di paradiso” poche ore di semplice svago per cameriere e militari, secondo la narrazione del dicitore; il Dancing Astoria sito in via di San Giovanni in Laterano 87 è luogo di svago anche per coppie già formate e già avvelenate dalla gelosia, ma soprattutto è luogo di incontri per giovanotti e signorine, alcune delle quali accompagnate da mammà che filtra i pretendenti al ballo perché non si sa mai se da cosa nasce cosa. Senza raccontare storie specifiche questo episodio si limita a mostrare tipi e comportamenti facendosi onesto documento sociale senza i fronzoli delle pretese narrative e drammaturgiche. Dino Risi aveva debuttato l’anno prima con “Vacanze con il gangster” e all’epoca stava lavorando già al suo secondo lungometraggio “Il viale della speranza”, entrambi film che si collocano come ponti fra il neorealismo e quella commedia all’italiana di cui Risi diverrà indiscusso maestro.

UN GIORNALISTA RACCONTA:
AGENZIA MATRIMONIALE di Federico Fellini

Fellini è Fellini sin dagli inizi. L’anno prima aveva debuttato con “Lo sceicco bianco” che non era piaciuto a tutti perché inaugurava un nuovo stile che sarebbe rimasto tutto suo personale: un realismo onirico e magico venato di amaro e anche sarcastico umorismo che successivamente verrà definito fantarealismo. Quello stesso 1953 esce col suo secondo lungometraggio “I vitelloni” che si aggiudica il Leone d’Argento a Venezia e riempie i cinema anche all’estero. Nel segno di questo fantarealismo firma il suo episodio che molto poco ha a che vedere col cinema-verità dell’intero progetto e che proprio per questo è l’episodio più riuscito: lascia la sua traccia autorale facendosi beffe dell’intero parterre degli ideatori. Di vero, ma anche no, dichiara che c’è l’ispirazione della storia, di quando giornalista fu incaricato di fare un servizio sulle agenzie matrimoniali. Scopriamo che la voce narrante di tutti gli episodi appartiene a questo personaggio, il giornalista, interpretato da Antonio Cifariello col suo vero nome e doppiato da Enrico Maria Salerno che dunque è il narratore dell’intero film; inoltre questo cortometraggio felliniano è quello che dichiaratamente schiera più attori professionisti: Silvio Lillo è il proprietario dell’agenzia che Livia Venturini gestisce e Cristina Grado è la giovane povera in cerca di sistemazione matrimoniale.

UN FATTO VERO: STORIA DI CATERINA
di Francesco Maselli con la collaborazione di Cesare Zavattini

Già dichiarare l’episodio “un fatto vero” sin dal titolo getta un’ombra sulla veridicità degli episodi precedenti… diciamo allora che è un po’ più vero degli altri; del resto non c’era l’attrice Mara Berni a interpretare una delle prostitute nelle finte interviste in “Amore che si paga”? Come spiega la rivista il debutto in regia di Cesare Zavattini è dovuto all’attaccamento per il suo soggetto del cortometraggio, alla cui regia c’è l’altro debuttante, il 22enne Francesco Maselli; la storia è quella vera che tenne banco sulle cronache dell’anno prima: Caterina Rigoglioso interpreta sé stessa in una vera e propria performance recitativa che niente ha a che vedere con le assai più semplici interviste dei primi episodi; esempio di cinema-verità alla massima espressione che rimane come vero documento di un’epoca: vediamo nel film che alla Provincia di Roma c’era l’Ufficio Assistenza Illegittimi, roba che oggi sembra fantapolitica. La palermitana Caterina nel 1949 era andata a Roma a fare la cameriera e lì come molte ragazze sprovvedute venne sedotta e abbandonata, diede alla luce il “figlio del peccato” (come all’epoca venivano definiti i “bastardi”, altro termine fortunatamente non più in uso neanche per i cani) che abbandonò in un giardinetto perché non era in grado di sostentarlo, salvo poi pentirsi e riprendersi il figlio, fra altre disavventure compreso il carcere.

Goliarda Sapienza

La doppia – con l’accento vagamente romanesco tipico di tanti immigrati che si spostano nella capitale, che tentano di mimetizzarsi linguisticamente – la catanese Goliarda Sapienza, oggi acclamata poetessa e scrittrice che 16enne si era iscritta all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, dove la famiglia si era trasferita, poi protagonista pirandelliana in teatro; di sei anni più grande di Francesco Maselli, si erano conosciuti quando lui era 19enne ed ebbero una tormentata relazione che durò diciotto anni. Avvicinatasi al cinema non vi si dedicò mai pienamente dato che stava scoprendo la scrittura nella quale ha lasciato il meglio di sé.

LO SPETTATORE SI DIVERTE: GLI ITALIANI SI VOLTANO di Alberto Lattuada

Conclude un episodio scapricciatello dove non c’è neanche traccia di parlato ché le sequenze parlano da sé (tranne un paio di inutili battute che annacquano la precisa e vincente scelta stilistica); tante belle ragazze spuntano da ogni dove in una soleggiata mattinata romana quasi come in una sfilata di moda accompagnata dalla musichetta accattivante di Mario Nascimbene, che musica tutti gli episodi. Le belle ragazze invadono le strade e gli uomini si voltano qualcuno anche tentando un approccio, e tranne qualche inquadratura occasionalmente rubata tutto è argutamente costruito in un episodio di cinema-verità studiato a tavolino.

Del regista Alberto Lattuada bisogna ricordare che è praticamente l’unico fra tutti i cineasti coinvolti ad avere un passato di fascista, anche se pare che aderì al GUF, Gruppo Universitari Fascisti, solo per avere mano libera nell’organizzare retrospettive cinematografiche di pregio. Dopo un necessario passaggio al neorealismo, tappa quasi d’obbligo per l’autorato del dopoguerra, oggi è ricordato soprattutto come scopritore di talenti femminili – Marina Berti, Carla Del Poggio (poi sua moglie) Valeria Moriconi, Catherine Spaak, Dalila Di Lazzaro, Teresa Ann Savoy, Nastassja Kinski, Clio Goldsmith, Barbara De Rossi fra le altre – in una cinematografia pervasa di garbata sensualità; dunque possiamo considerare questa carrellata di bellezze come un prodromo della sua matura cinematografia.

Dell’intero film, oltre al musicista Nascimbeni, vanno ricordati Gianni Di Venanzo per la fotografia, Eraldo Da Roma per il montaggio e Gianni Polidori per la scenografia; mentre alle sceneggiature ci sono le penne di: Aldo Buzzi (anche aiuto regista), Luigi Chiarini, Luigi Malerba, Tullio Pinelli, Luigi Vanzi e Vittorio Veltroni, e fra gli aiuto-registi c’era anche Gillo Pontecorvo. Nell’insieme un film ancora oggi gradevole pur con tutti i limiti di un progetto velleitario che non fece scuola, e da vedere per l’intero pacchetto di nomi che schiera.

Fastidiosissima la numerosa pubblicità che partendo a minutaggi prestabiliti interrompe la visione senza rispettarne i tempi narrativi.

Oh, mia bella Matrigna – Sabina Ciuffini protagonista

Correva l’anno 1976 e nel cinema italiano era in gran voga la commedia sexy inopinatamente inaugurata nel ’68 dal debuttante Salvatore Samperi col suo “Grazie zia” che era partito come film politico e rivoluzionario, seguito ideale di un altro debutto eccellente, il Marco Bellocchio di “I pugni in tasca”, ma che si è sedimentato nelle fantasie del pubblico e nella nostra storia del cinema come precursore di quel genere pruriginoso nel prolifico sottogenere della commedia sexy inter familiare che, tranne poche eccezioni di qualità fra le quali annotare i successivi impegni di Samperi, resta un genere assolutamente di serie B di cui questa bella matrigna è un esempio lampante.

Ne è protagonista indiscussa a cominciare dal manifesto e dai titoli quella Sabina Ciuffini che tutti gli italiani già conoscevano come garbata e spiritosa valletta di Mike Bongiorno a “Rischiatutto”: una valletta di nuovo genere, parlante e non più solo decorativa, una scelta produttiva che in pratica mandò in soffitta la figura della valletta e inaugurò quella della co-conduttrice, però sempre da affiancare alle più autorevoli (!) figure maschili, fino ai giorni nostri in cui a condurre un programma, ancorché sportivo, che siano o uomini o donne o di genere non più binario poco importa, vivaddio. Ma c’è di più sul piano sociale ed estetico: con Sabina Ciuffini, la Rai sdoganò nelle case degli italiani la scandalosa minigonna che però era già una realtà nelle strade e nella vita reale; mentre lei, la valletta parlante, come ragazza votata allo spettacolo, devota alle ciglia finte, era in assoluta controtendenza rispetto alle sue coetanee dell’epoca che litigavano in famiglia, anche per la minigonna, e facevano la rivoluzione: il divorzio era cosa recente, legalizzato nel 1970, e per l’aborto bisognava aspettare ancora un paio d’anni fino al 1978, anche anno funesto del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro e delle lotte armate di destra e sinistra, con le camionette dell’esercito schierate nelle strade di tutte le città a presidiare i luoghi del potere. Sul caso Moro sollecito l’attenzione al film di Marco Bellocchio “Esterno notte”, cinque ore divise in due film per le sale e in sei puntate per la Rai ancora disponibili su RaiPlay.

Ma in tivù, fra un carosello e l’altro, la vita è tutta un sogno; la Rai manda in onda l’esotico “Sandokan” e lo sceneggiato “I tre moschettieri” nell’ironica versione di Paolo Poli con sua sorella Lucia Poli, Marco Messeri e Milena Vukotic; per l’intrattenimento musicale il giovane cantautore Renato Zero si racconta in un documentario, e non fa scandalo perché la sua alterità è raccontata come espressione artistica; ma c’è anche Oriana Fallaci nel programma di approfondimento “Un fatto, come e perché” che interviene nel dibattito sull’aborto.

Tornando a Sabina Ciuffini, le cronache mondane raccontano che la graziosa figliola, che all’epoca della prima delle cinque edizioni di “Rischiatutto” aveva vent’anni, fosse stata notata da Mike Bongiorno in persona all’uscita del liceo Giulio Cesare di Roma, e verrebbe da chiedersi: ma davvero cotanto presentatore se ne stava fuori dai licei a spiare le ragazzine? In realtà già da una decina d’anni la ragazza frequentava i teatri di posa girando pubblicità per “Carosello” e certo s’era fatta strada e scavata la sua propria trincea fra gli studi e gli uffici della tentacolare tentatrice Rai, dove le belle ragazze così come i bei ragazzi sono sempre apprezzati e tenuti da conto. E bisogna anche mettere in conto che Sabina era figlia dell’attrice di una sola stagione Yvonne Giannini che annovera nel suo carnet tre soli film girati nel 1943, dei quattro diretti dal di lei padre il poliedrico Guglielmo Giannini, più giornalista e politico conservatore che cineasta; mentre il padre di Sabina, Augusto Ciuffini, era il pubblicitario che l’aveva introdotta nei caroselli: insomma, la fanciulla non era una debuttante assoluta, anche se per avere il ruolo dovette sottoporsi a un provino nel quale pare surclassò l’altra concorrente di rango Claudia Rivelli, sorella della più famosa Ornella Muti, che poi diverrà star dei fotoromanzi Lancio.

Per non farsi mancare niente, e dato che all’epoca pagavano un fottio di soldi mentre oggi tutte e tutti si spogliano gratis, Sabina nel 1974 si spogliò parzialmente per “Playboy”, dando sfogo alle segrete fantasie dei padri di famiglia e dei loro brufolosi figli maschi (le lesbiche non esistevano…) e dando vita a uno scandalo ad arte secondo il quale, disperata per quelle foto inopportune, querelò la rivista; ma fu solo un’ulteriore mossa pubblicitaria, della serie prima pecco e poi mi pento, dato che una querela non poteva stare in piedi essendoci un regolare contratto. E proprio perché voleva continuare a pentirsi di aver peccato, due anni dopo è protagonista di questo film dove da contratto mostra più che sulla rivista benché mai mostrando il pube, quello no. Rimarrà il suo unico ruolo da protagonista e in pratica anche il suo debutto cinematografico se non contiamo la partecipazione con piccolissimi ruoli non accreditati ad altri due precedenti film: il pruriginoso “I giovani tigri” ultimo film di Antonio Leonviola, e l’ecumenico “Tralci di una terra forte” di Giuseppe Rolando, sulla vita della suora Maria Domenica Mazzarello proclamata santa nel 1951. Dopo quest’esperienza, che curiosamente si dimenticherà di citare quando in tempi recenti le si è chiesto di ricordare la sua carriera, e anzi dichiarando di non aver mai fatto cinema per quello strano fenomeno psicologico della memoria selettiva. Da allora ha continuato a fare televisione diradando negli anni la sua presenza; oggi, bella signora 72enne scrive e, finalmente abbandonata la minigonna di lustrini, dà voce alle cause delle donne, meglio tardi che mai, sul suo blog qui sulla piattaforma WordPress unaqualunque.it che è scivolato sul generalista.

Il film, se visto senza considerare il contesto dell’epoca e i riferimenti ad altre realtà, è solo una cosetta senza senso da vedere mentre si stira o si pulisce la verdura, in cui saltano all’occhio, oltre ai corpi svelati di Sabina Ciuffini e di Gloria Piedimonte che ci regala anche il pube nel ruolo di un’amica che il figliastro usa per ingelosire la matrigna, salta all’occhio dicevo il modo in cui viene raccontato in quell’immaginario cinematografico patriarcale il ruolo della moglie giovane e bella: sfacciato motivo di vanto per l’attempato piacione, da non lasciare mai in casa da sola, non sia mai che senza uomo a prendersi cura di lei, la disgraziata non sappia neanche respirare. Nell’insieme questi filmetti o filmacci di serie B si pongono in controtendenza a tutto ciò che tenta di esprimere la società reale. E da contratto ogni tot di minuti c’è una scena di nudo o di seduzione e vediamo la povera Sabina in uno di questi siparietti indossare leziosamente della preziosa biancheria intima, che uno pensa che ci sarà una scena di sesso, e invece si veste solo per andare a lavorare, e con la faccia di quella che pensa “cosa mi tocca fare per la pagnotta”: zero erotismo. Per il resto fa quello che può: non sappiamo se recita perché, nonostante sia abituata a parlare in pubblico, è doppiata da Vittoria Febbi, ma le sue espressioni sono a tratti più che convincenti, segno che la ragazza si è impegnata, anche se questo non significa nulla: esprimere col volto e poi con la parola sono due cose completamente diverse anche se complementari, e ancora oggi abbiamo nella generalista televisione italiana ormai a più reti, ma sempre attenta ai giovani talenti, vari esempi di interpreti piacenti che appena aprono bocca dio li perdoni.

Gianfranco De Angelis con Paola Pitti in un fotoromanzo Lancio

Il personaggio del figliastro comincia con degli spunti assai interessanti: soffre di un forte dilaniante complesso edipico ai limiti della psicopatia, ma poi nella sceneggiatura che il regista Guido Leoni ha scritto con suo fratello non c’è altro: manca il talento per fare di uno spunto una vera storia e sviluppano una pizza mal lievitata dove il tema portante è il pruriginoso che non prude affatto. Presta il volto a questo figlio-figliastro il belloccio Gianfranco De Angelis di due anni più giovane della Ciuffini, anche se nel film non vengono dichiarate le età dei personaggi; e specifico, presta il volto, perché anche lui è doppiato, dall’omonomo Manlio De Angelis con nessuna parentela, e presta il suo volto, simpatico e accattivante quanto basta, in una girandola di espressioni che nel gergo artistico si dice attori che fanno le facce, facce che il giovanotto ha imparato sui set dei fotoromanzi Lancio, attività che rimane quella più di successo in una carriera decisamente inconcludente: aveva cominciato con piccoli ruoli nel cinema e nella televisione, poi passando per i fotoromanzi si inventa anche cantante fino a incidere un brano che sarà una sigla di Radio Monte Carlo e partecipando nel 1980 anche al Festival di Sanremo dove fu subito eliminato, e per la cronaca vinse Totò Cutugno. Questo film rimane per l’interprete, interprete ma non attore, il suo gradino più alto perché, spiace dirlo, oltre alla faccia non c’è niente: il fisico che mostra è da mingherlino che non fa sognare le donne né può essere un modello per gli uomini; non ha la follia interpretativa di Lou Castel, non è neanche un ragazzino imberbe e malizioso come era di moda nei filmetti sexy familiari dell’epoca, tipo Giusva Fioravanti o Alessandro Momo, e per finire non sprizza testosterone da maschio alfa come il suo collega dei fotoromanzi Franco Gasparri che ebbe altre fortune al cinema col trittico di “Mark il poliziotto” ma anche altre sfortune con un grave incidente che gli troncò la carriera. De Angelis nei decenni si è arrabattato recitando anche a teatro e lavorando dietro le quinte nelle produzioni cinematografiche, dove è tornato sullo schermo nel già lontano 1994 con un ruolo secondario in un film secondario.

Nel terzetto del cast principale il francese Maurice Ronet (doppiato da Giuseppe Rinaldi) all’epoca glorioso attore ed ex giovane intellettuale tormentato nella cinematografia in patria, che qui cede il passo e indossa il parrucchino nel ruolo dell’improvvido marito-padre che lascia la mogliettina alle cure del simpaticamente perverso figliolo. Concludono l’esiguo cast: la già nominata Gloria Piedimonte, cantante showgirl e attrice di fotoromanzi, che deve la sua fama anche a Gianni Boncompagni che la mise nella sigla di Discoring, 1978; e nel ruolo della servetta giovane e piacente che però non sviluppa altri intrecci erotici, ed è un peccato perché nell’inconcludenza del film è un’occasione mancata, c’è la meteora Crippy Jocard, improbabile nome d’arte di Cristina Amodei, modella e attrice di una sola stagione. Una sola stagione anche per questo genere di film di sesso in famiglia, benché numerosi quanto ripetitivi.