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Hair – omaggio a Treat Williams, con la storia del musical e uno sguardo al Greenwich Village degli anni ’60

Il 12 giugno 2023 Treat Williams è stato investito da un’auto mentre cavalcava la sua moto e in condizioni disperate è stato trasportato in ospedale dove è morto poco dopo, all’età di 71 anni. Un testimone dell’incidente ha dichiarato, precisando che l’attore indossava il casco: “Era totalmente vigile, rispondeva alle domande dei paramedici. l’ho visto volare in aria.”

Richard Treat Williams ha usato per la sua carriera artistica il secondo inusuale nome che letteralmente significa trattare, con tutti i suoi sinonimi, maneggiare, aver cura, nome che gli viene dal lontano avo Robert Treat Paine che fu uno dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Cominciò da adolescente a calcare il palcoscenico nelle recite scolastiche ma anche la squadra di football se lo contendeva: “Amavo molto il football – ebbe modo di raccontare – ma non pensavo che si potesse essere un jock (termine intraducibile che definisce l’archetipo di studente più interessato allo sport che allo studio, sintesi di jockstrap, il sospensorio che usano gli sportivi) e al contempo far parte della compagnia teatrale… Ho iniziato a prendere sul serio l’idea di imparare il più possibile sul mestiere di recitare nel mio primo anno.” E si impegnò talmente che a un certo punto si ritrovò contemporaneamente in tre spettacoli universitari: una commedia, uno Shakespeare e un musical. E sarà il musical a dargli la fama.

Cominciò come sostituto in panchina dei tanti protagonisti di “Grease” in scena a Broadway, e fra i vari sostituti che attesero il loro momento ci fu anche Patrick Swayze; finché Treat ebbe il ruolo da protagonista nelle tournée in provincia. Nel 1974, 23enne, era stato protagonista insieme al 20enne John Travolta del musical “Over Here!” e ciò gli era valsa l’attenzione per tornare da protagonista ufficiale nel cast di “Grease” dove Travolta era uno degli amici prima di essere protagonista del film nel 1978. E tanto per restare nel gioco del chi c’era anche Richard Gere fu nelle varie versioni del cast. Treat ha debuttato al cinema nel 1975 prima di assurgere a fama mondiale con quest’altro musical nel 1979.

Jerome Ragni e James Rado

Il film fu sviluppato dal musical teatrale che aveva debuttato nel 1967 e il cui titolo completo era “Hair: The American Tribal Love-Rock Musical” storia e canzoni di Gerome Ragni e James Rado musicate da Galt MacDermot. Ragni e Rado avevano cominciato a scrivere il loro musical tre anni prima, dopo essersi conosciuti in palcoscenico in un altro musical off-Broadway, veicolando nei testi la loro visione politica del momento fatta di controcultura hippy, antimilitarismo e rivoluzione sessuale, e va da sé che i due personaggi principali, che avevano scritto per sé, erano autobiografici: il Claude di Rado era un pensoso romantico mentre il Berger di Ragni era un estroverso. I due scrivono un genere di musical che non si era mai visto sui palcoscenici dove fino a quel momento lo spettacolo più rivoluzionario era stato “West Side Story” con le sue romantiche gang e amori inter-etnici.

“Hair” che da noi sarebbe tradotto in capelloni, porta sul palcoscenico i personaggi e gli umori che vengono dalla strada, di quell’East Village dove vivevano quelli che oggi definiremmo alternativi, che era confinante col Greenwich Village dove avevano casa intellettuali e artisti di sinistra. Una curiosità per inquadrare gli umori di quell’epoca e in quegli ambienti: nel 1968 un certo Louis Abolafia, performer artist, presentò la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, contro Richard Nixon, con il suo Partito Nudista e lo slogan “Che cosa ho da nascondere?”, slogan profetico col senno di poi sapendo che fine ha fatto Nixon.

Un gruppo di hippies che suona e canta a Washington Square Park, il luogo e il tempo in cui Bob Dylan, Allen Ginsberg, Andy Warhol, The Velvet Underground e altri protestavano contro la guerra in Vietnam.
Ma al Greenwich Village c’erano anche Paul Newman e sua moglie Joanne Woodward che tranquillamente facevano colazione leggendo i quotidiani.
Bob Dylan al Bitter End, cantautore che sarà una delle punte di diamante delle prossime proteste sessantottine

Insomma da quelle parti, fra hippies e intellettuali e artisti e star-system, viveva varia umanità. C’erano quelli che bruciavano le cartoline precetto e c’erano quelle che non sapevano di chi fossero incinte, e proprio da quelle strade vennero anche alcuni elementi del primo cast originale del musical: le tematiche e il linguaggio esplorati sono, fino a quel momento, inauditi: parolacce e volgarità varie, canzoni che inneggiano all’uso di droghe e alla libertà sessuale, e poi l’irriverenza per sua maestà la bandiera americana, e infine la scena di nudo collettivo che chiude lo spettacolo. Anche musicalmente è una novità: i due autori erano stati messi in contatto col canadese Galt MacDermot che qualche anno prima aveva vinto un Grammy Award e che fino a quel momento non aveva mai sentito parlare di hippies ma sposò il progetto con molto entusiasmo e partendo dall’idea rock dei due autori sviluppò un suo proprio sound con influenze afro e funk. A lavoro completato presentarono il progetto a molti produttori di Broadway ricevendo solo rifiuti, finché alla fine non trovarono l’attenzione di Joe Papp, un produttore che sembrava il meno adatto essendo il gestore del New York Shakespeare Festival e che fino a quel momento non aveva mai prodotto spettacoli di autori viventi; ma Papp stava costruendo il nuovo Public Theatre nell’East Village, proprio il quartiere hippie in cui Ragni e Rado avevano trovato le loro ispirazioni, e dove Papp aveva l’intenzione di produrre e sostenere proprio artisti emergenti, decidendo che quel musical di capelloni fumati avrebbe inaugurato la nuova struttura. Il debutto fu caotico per l’assoluta novità di quel musical di rottura, per il cast inusuale e confuso e lo staff tecnico del teatro che non comprendeva l’operazione: la critica fu tiepida ma non negativa e al pubblico era piaciuto; così venne sviluppata la versione che nel 1968 vide l’aggiunta di 13 canzoni e i testi più ammorbiditi con un finale più edificante da portare a Broadway, finalmente. E successo fu.

Già nel 1973 era stato offerto al 30enne George Lucas non ancora famoso l’adattamento del musical, che lui rifiutò perché impegnato a girare il suo primo grande successo “American Graffiti” che altrettanto raccontava la gioventù dei recenti anni ’60 ma da un punto di vista borghese e nostalgico da commedia per tutte le famiglie. A quel punto si interessò il cecoslovacco naturalizzato statunitense Miloš Forman, forte del grande successo del 1975 “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, film che vinse cinque Oscar, sei Golden Globe, sette BAFTA e altro ancora; per Forman era un proseguo del suo lavoro nel cinema di denuncia iniziato col suo primo film americano “Taking Off”. Ma il progetto che prese in mano in quella seconda metà degli anni ’70 era già datato perché l’esplosione del fenomeno dei figli dei fiori si era già esaurito e si andava verso un altro tipo di proteste, meno floreali e psichedeliche ma più concrete, come le lotte contro il razzismo, che pur coetanee di quei primi anni ’60 esplosero con l’assassinio del reverendo Martin Luther King nel 1968.

Forman si affidò per la sceneggiatura al drammaturgo Michael Weller e insieme spostarono l’azione nel loro tempo presente e il film fu girato nell’autunno del 1977 stravolgendo completamente la trama del musical: alcuni personaggi furono eliminati e altri nuovi furono introdotti, di conseguenza furono eliminate anche alcune canzoni mentre altre furono assegnate ad altri personaggi; il protagonista Claude fu totalmente reinventato così come il finale in cui nell’originale era lui a morire. Va da sé che Ragni e Rado non ne furono affatto contenti e dichiararono drasticamente, forse non a torto, che la versione cinematografica del loro musical non era ancora stata realizzata; ma il film ebbe un enorme successo di pubblico e la critica elogiò le invenzioni di Weller che resero la trama molto più avvincente. Fu candidato ai Golden Globe come Miglior Film con Treat Williams candidato come Nuova Star dell’Anno che però quell’anno andò al più rassicurante bambino piagnucoloso Ricky Schroeder per “Il Campione” di Franco Zeffirelli.

Il cast comprendeva John Savage nel ruolo dell’altro protagonista: biondo come l’originale James Rado tanto quanto Treat Williams sembrò la copia perfetta, in bello, di Gerome Ragni, e ricordiamoci che Savage era reduce dall’aver partecipato a un altro grande successo: “Il Cacciatore” di Michael Cimino. Anche Beverly D’Angelo nel ruolo della giovane borghese è al suo primo ruolo importante. Negli altri ruoli di rilievo Annie Golden, Don Dacus, Dorsey Wright e Cheryl Barnes. Ai provini si presentò anche una certa Madonna Louise Veronica Ciccone, da poco sbarcata a New York per fare fortuna come ballerina ma venne scartata probabilmente perché ancora acerba. Si presentò anche Bruce Springsteen che venne scartato probabilmente perché troppo preparato: era già una star del rock con diversi dischi e concerti all’attivo. Come altra curiosità c’è da riportare che il film, praticamente tutto in esterni, fu girato nel freddo ottobre del 1977 e per evitare che agli interpreti uscisse il vapore di bocca quando mimavano il canto, fu messo loro del ghiaccio in bocca, altrettanto quando dovevano solo recitare si rinfrescavano prima la bocca.

Da quello che leggo oggi sui social con la sua folgorante interpretazione in “Hair” Treat Williams fece innamorare molte donne, e perché no anche molti uomini, con quella sua aria da ribelle dal gran cuore, e oggi moltissimi lo compiangono. Ma la sua folgorante carriera fu con quel film all’apice per poi assestarsi in una lunga fruttuosa sequenza di titoli dove fu comprimario senza più avere l’opportunità di brillare in un ruolo di prima grandezza, ma sempre apprezzato dalla critica. Fu tra i protagonisti di “C’era una volta in America” del nostro Sergio Leone ed ebbe pure l’opportunità di fare una marchetta in Italia partecipando a “La stangata napoletana” di Vittorio Caprioli. Nel 2007 lavorò anche con Pupi Avati in “Il nascondiglio”, uno di quegli horror americani che ogni tanto il nostro autore si concede. Ebbe una seconda ma altrettanto infruttuosa nomination al Golden Globe per la sua intensissima interpretazione da protagonista in “Il principe della città” di Sidney Lumet del 1981, e una terza nomination la ebbe per l’adattamento televisivo, mai visto in Italia, di “Un tram che si chiama desiderio” dal dramma di Tennessee Williams già film nel 1951 per la regia di Elia Kazan che aveva lanciato Marlon Brando.

Negli anni Novanta era nei suoi 40 e rinverdì la carriera che stava stagnando tornando al teatro con interpretazioni applauditissime, e critiche sempre eccellenti per le sue partecipazioni in film mai di prima grandezza benché diretti da grandi registi e al fianco di altre grandi star. Nei primi anni 2000 un grande successo di pubblico gli venne dalla serie tv “Everwood” e poi ebbe ruoli ricorrenti in altre importanti serie oltre a vari film televisivi. In un’intervista del 1995 confessò la sua dipendenza da cocaina negli anni ’80 quando era etichettato come “il prossimo” Al Pacino o Robert De Niro e non reggeva la pressione del confronto; la sua carriera cinematografica “è stata interrotta – disse – dalla mia mancanza di concentrazione e dall’uso di cocaina. Voglio dire, volevo festeggiare più di quanto volessi concentrarmi sul mio lavoro… Non ti rendi conto, purtroppo, finché non è troppo tardi, di quanto siano fugaci la fama e il potere a Hollywood…” Il suo ultimo lavoro ancora inedito è la partecipazione alla seconda stagione del televisivo “Feud” che racconta la rivalità di Bette Davis e Joan Crawford durante la lavorazione di “Che fine ha fatto Baby Jane?” interpretate da Susan Sarandon e Jessica Lange. Treat Williams interpreta uno dei capi del network televisivo CBS. La sua ultima partecipazione al cinema è nel crime “American Outlaws” del 2023 inedito da noi. Lascia la moglie Pam Van Sant ex attrice e i loro due figli Gill Treat Williams, avviato a seguire le orme paterne, e Ellinor (Ellie) Williams, influencer. E lascia anche tanti che l’hanno sempre ammirato e amato.

L’arbitro – in omaggio alla memoria di Lando Buzzanca

il film completo

Anche Lando Buzzanca ha preso la via dei più. Aveva compiuto 87 anni ed è stato professionalmente attivo praticamente fino alla fine: la sua ultima partecipazione cinematografica è del 2017 nell’opera prima di Cesare Furesi “Chi salverà le rose?” che è uno spin-off di “Regalo di Natale” di Pupi Avati, film che riprende il personaggio interpretato da Carlo Delle Piane al suo ultimo film; mentre l’ultima partecipazione in assoluto di Buzzanca è nel film tv del 2019 “W gli sposi” di Valerio Zanoli, ultimo film anche per Gianfranco D’Angelo e Paolo Villaggio: tristi conteggi quando i cast sono composti da vecchie glorie.

Lando (Gerlando) nasce a Palermo in una famiglia già nell’ambiente dello spettacolo a vario titolo: lo zio Gino Buzzanca aveva cominciato nel teatro di tradizione e poi ha avuto una lunga carriera cinematografica come caratterista; mentre il padre Empedocle Buzzanca, di mestiere proiezionista, si reinventò anch’egli come caratterista siciliano in alcuni film sulla scia delle carriere di fratello e figlio. Ma Gerlando ha altri obiettivi e 17enne si trasferisce nella capitale per studiare recitazione con Pietro Sharoff mentre per mantenersi campa di lavoretti, cominciando pure a fare piccole cose sia in teatro che al cinema: la classica gavetta, insomma. Il suo debutto ufficiale è in un film di grande successo, “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi che poi lo scritturerà di nuovo per “Sedotta e abbandonata”, e nel frattempo compare in diversi altri film con ruoli grandi e piccoli, e purtroppo pur di lavorare sceglie qualsiasi cosa ritagliandosi il ruolo del siciliano belloccio ma ingenuo se non addirittura tonto in commedie di serie B con qualche incursione nello spaghetti-western e un paio di film con Totò.

Unica perla in quel periodo è il ruolo da protagonista in “Don Giovanni in Sicilia” regia di Alberto Lattuada dal romanzo di Vitaliano Brancati, e in generale anche se la critica resta con lui severa, e a ragione, il pubblico comincia ad amarlo per quel che è: un simpaticone che accende le fantasie femminili senza però diventare davvero minaccioso per i loro mariti che lo trovano sì divertente ma non un modello da imitare né da invidiare o temere. Il vero successo arriva con la televisione dove nel 1970 al fianco di Delia Scala interpreta “Signore e Signora”, un varietà che indagando in chiave grottesca i costumi delle coppie sposate moderne, dell’epoca, è una sorta di sit-com ante litteram; e in risposta al successo televisivo comincia ad avere un suo seguito anche al cinema, fino al successo internazionale con “Il merlo maschio” del 1971 di Pasquale Festa Campanile, un film su voyerismo-esibizionismo che esponendo le grazie di Laura Antonelli è a tutt’oggi è un cult anche in diverse parti del mondo. È in quel periodo, forte del successo personale, che comincia davvero a scegliere i suoi film fra le proposte che gli arrivano sempre più numerose, mostrando però di prediligere il genere per cui i critici lo criticano severamente: la commedia di costume con apprezzabili intenti satirici e di blanda denuncia, ma sempre e inevitabilmente in bilico fra il cinema di serie A e quello di serie B. Pare siano sue le idee dei film “All’onorevole piacciono le donne” il cui titolo completo è “Nonostante le apparenze… e purché la nazione non lo sappia… All’onorevole piacciono le donne” diretto da Lucio Fulci, un maestro del cinema di genere e di tutti i generi, il cui protagonista si ispira all’allora presidente del consiglio Emilio Colombo e che grande scandalo creò; e nello stesso anno, il 1972, del più serio “Il sindacalista” diretto da Luciano Salce, film che omaggia la figura del sindacalista Giuseppe Di Vittorio.

Anche “L’arbitro”, anno 1974, trae ispirazione da un personaggio reale pur facendone chiaramente una bonaria divertita parodia che non suscita reazioni scomposte: l’arbitro siracusano Concetto Lo Bello che nel film diventa l’acese Carmelo Lo Cascio, un altro maschio siculo alle prese con la sua prestanza fisica messa seriamente in discussione e che, insieme allo stress di dover mantenere alti i suoi livelli di professionalità sportiva e l’integerrimo rigore morale, lo porta all’abuso di anfetamine e alla catartica – e comoda per un finale che non si sapeva dove condurre – pazzia. Il film è gradevolmente furbo: pur solleticando il gusto per la commedia sexy e introducendo lo scivoloso ma anche divertente tema della cacarella da febbre intestinale, non diventa mai volgare e si mantiene in bilico sul grottesco e sul satirico senza però mai graffiare. Furbo anche il tema calcistico che mostra riprese dal vero negli stadi e negli spalti, abilmente montate alla narrativa fittizia, con frammenti di vere partite – la Roma-Hellas Verona disputata l’anno prima e conclusa 1-0; in altri frammenti intravediamo in campo gli interisti Sandro Mazzola e Roberto Boninsegna, oltre alle partecipazioni straordinarie dei giornalisti e commentatori sportivi Maurizio Barendson, Nicolò Carosio, Alfredo Pigna e Bruno Pizzul; mentre il laziale Giorgio Chinaglia canta la canzone dei titoli di testa “Football Crazy” senza molta convinzione e con scarsa tecnica canora.

Nel cast brilla per avvenenza la londinese Joan Collins che diventerà una star hollywoodiana di media caratura nonostante i bei ruoli in bei film al fianco di importanti star maschili: viene sempre relegata nel ruolo dell’amante spesso frivola, e l’attrice si adegua anche ai film storici e in costume. Era arrivata in Italia nel 1960 girando a Cinecittà da protagonista “Ester e il Re” di Raoul Walsh, e poi girerà con Ettore Scola “La congiuntura”, e “L’amore breve” con Romano Scavolini in un periodo professionale principalmente europeo in cerca di un riscatto artistico che non raggiungerà. “L’arbitro” è il suo terzo film italiano e vi interpreta una giornalista sportiva, figura assai avanti coi tempi in quel mondo allora esclusivamente maschile, che fa perdere la testa all’arbitro: un ruolo di supporto al protagonista assoluto Lando Buzzanca, oggetto erotico suo malgrado – ma decisamente intenzionale per l’attore – che fa fatica a soddisfare anche la legittima moglie interpretata da una centratissima Gabriella Pallotta, attrice che aveva intrapreso alla grande la sua carriera lavorando con registi importanti ma che poi, essendosi un po’ persa per strada – succede, la fortuna ha un ruolo fondamentale nelle carriere artistiche – decise di smettere di lavorare due film dopo questo; qui è doppiata da Rita Savagnone.

Gabriella Pallotta, con gli occhiali per non fare concorrenza alla Collins, come moglie dell’arbitro che sta asciugando dopo una doccia e dal quale implora la sua razione di sesso settimanale.

Fa da importante spalla all’arbitro il suo guardalinee nonché amico complice e confidente interpretato dall’altro palermitano Ignazio Leone, anch’egli di scuola teatrale dialettale che aveva cominciato in palcoscenico al fianco della coppia destinata al successo Franco e Ciccio. A comporre il quartetto delle due coppie amiche c’è Marisa Solinas come moglie del guardalinee e amica della moglie dell’arbitro con la quale discetta di argomenti come la sessualità femminile e l’orgasmo, temi all’epoca centrali negli slogan delle femministe ma qui nel film relegati a sberleffo come ridicole opinioni da rotocalco femminile, nel film detto Metropolitan orecchiando il reale Cosmopolitan. Altro ruolo importante va al messinese Massimo Mòllica, attore regista e impresario, figura centrale del teatro della sua città. In un ruolo di contorno intravediamo il giovane Alvaro Vitali che presto sarà protagonista di quelle commedie davvero scollacciate e volgari cui Lando Buzzanca ha rinunciato quando a metà dei suoi anni Settanta la commedia satirica di costume, che lui aveva scelto come suo scenario ideale, cede il passo alla commedia sexy di bassa lega. Si darà alla radio dove in “Gran Varietà” creerà la maschera di Buzzanco come erede del suo personaggio tv di “Signore e Signora”.

Tornando al film, è diretto con sagace leggerezza da Luigi Filippo D’Amico, che fu nipote dello storico critico teatrale Silvio D’Amico, da un suo soggetto che ha sceneggiato insieme a Giulio Scarnicci, storico collaboratore della coppia Tognazzi-Vianello, Sandro Continenza, anch’egli braccio destro del Vianello televisivo, e dallo stesso Raimondo Vianello, sceneggiatore di lusso di tante commedie e fine intenditore del tema calcistico. Ne consegue che i dialoghi, che pretendono di essere siculofoni, restano romanocentrici nella costruzioni delle frasi e nel vocabolario; a inizio film Buzzanca pronuncia un improbabile “E che minchia mi dici che va tutto bene, ah?” dove anche l’ah, benché esclamato da un palermitano, risulta finto; inoltre l’arbitro indirizza un primo “figlio di mignotta” specificando che lo dicono a Roma, ma poi una volta sdoganata la mignotta in questo sicilianese da Cinecittà, essa torna nel linguaggio dell’arbitro di Aci Reale come un abituale intercalare. L’unica esclamazione linguisticamente davvero credibile è quando l’uomo, impegnato in un amplesso con la giornalista, al sentire il campanello della porta le dice “Futtitinni!”.

il trenino del liquid party

Fra le modernità che gli sceneggiatori si compiacciono di inserire nel film, e che restano passaggi alquanto appiccicati, c’è il liquid party, dichiaratamente importato dall’Inghilterra, sorta di fluido preludio a un’orgia che non ci sarà, un ridicolo trenino dove ci struscia l’un l’altro e definito dai partecipanti “un millepiedi” che l’arbitro prontamente commenta “e cinquecento culi!”; ovviamente c’è anche l’immancabile macchietta dell’omosessuale che fa l’occhiolino all’imbarazzato maschio alfa. Ci sono poi gli speciosi studi della giornalista sull’acido lisergico che compone l’allucinogeno LDS: momenti di trasgressione cinematograficamente all’acqua di rose, in cui il protagonista si ritrova suo malgrado perché nonostante le sue malefatte extraconiugali egli resta un provinciale dagli integerrimi principi. Sul piano strettamente pruriginoso Lando Buzzanca, mostrandosi come maschio sexy orgogliosamente oggetto – che in una lettura psicologica potremmo definire passivo-aggressivo perché nella sostanza resta sempre un maschio dominante e maschilista – bontà sua con la sua ripetuta nudità da ripetute docce sportive trova il modo di farci intravedere anche il culo in un’amplesso interrotto dove la compiacente Joan Collins ci concede altrettanto, ma assai più fugacemente, perché i centimetri di pelle dell’anglo-americana si misurano in dollari sonanti.

C’è anche il tema politico tratteggiato nella figura del figlio neofascista che, con metodi a dire il vero più sinistroidi e alternativi che fascistoidi e conservativi, contesta l’autorità paterna a suon di pernacchie e poi con morale finale: sembra che il personaggio sia stato scritto proprio per essere di sinistra ma stranamente è diventato di destra – forse proprio per volontà dello stesso protagonista che non ha mai nascosto la sua fede destrorsa e che, nel successivo periodo di declino della sua carriera, ha accusato i produttori e l’intero sistema cinematografico di boicottarlo per questo. Salvo poi diventare a sua volta oggetto di critiche da parte della destra che si è sentita tradita nell’occasione della messa in onda del film tv di Luciano Odorisio “Mio figlio” in cui l’ormai anziano attore interpreta un commissario di polizia che dovrà fare i conti con l’omosessualità del figlio, prima rifiutandola e poi finendo col comprenderla e accettarla; critiche anche queste inutili a dimostrazione del fatto che a voler leggere in chiave politica eventi che di per sé non ne hanno è sempre una grande e anche dannosa sciocchezza. Umana debolezza.

Nel 1965 ha vinto il Laceno d’Oro all’Attor Giovane al Festival del Cinema Neorealistico per “La Parmigiana” di Antonio Pietrangeli e nel 2008 il David di Donatello e il Globo d’Oro come protagonista di “I Viceré” di Roberto Faenza; e nel 2014 riceve anche la Colonna d’Oro alla carriera al Magna Graecia Film Festival di Catanzaro. L’importante è chiudere in bellezza.

Bordella

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1976. Un unicum nella cinematografia di Pupi Avati: satirico, grottesco, surreale, demenziale e via dicendo, senza dimenticare che è anche stato vietato ai minori. Beh certo già il titolo deve avere allarmato i benpensanti tutori morali dell’epoca, inconsapevoli che era un’epoca che stava lì lì per esplodere una seconda volta dopo il recente ’68.

In quell’anno muoiono Agatha Christie e Mao Tse-tung mentre in Italia nasce il quotidiano La Repubblica e oltre oceano nasce la Apple di Steve Jobs mentre IBM sta lanciando sul mercato la prima stampante laser: prove tecniche di un futuro dagli sviluppi inimmaginabili. Sul nostro territorio nazionale gli attacchi terroristi dei brigatisti ci facevano rinchiudere in quelle case da dove le femministe, però, uscivano sempre più spesso a manifestare per le strade a favore della legge sull’aborto per la quale furono raccolte 700mila firme, definite all’epoca “firme delle puttanelle”, ma l’aborto rimane reato tranne quei casi eccezionali in cui è a rischio la salute della donna. In parlamento entrano per la prima volta i Radicali e il Partito Comunista Italiano è al 34% subito dopo la Democrazia Cristiana che è al 38%.

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Il 6 maggio un violento terremoto scosse e distrusse gran parte del Friuli, e il 10 luglio scoppia il reattore di una fabbrica di prodotti chimici a Seveso, alle porte di Milano: una nube di diossina invade il territorio e le conseguenze saranno da film dell’orrore: prima cadono stecchiti gli insetti, poi gli uccelli, a seguire i polli non stanno più in piedi e i cani cominciano a impazzire mentre i gatti diventano feroci come tigri, prima di morire le mucche muggiscono a lungo di dolore e per ultime muoiono le capre.

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Al cinema esce “Taxi Driver” di Martin Scorsese mentre la Corte di Cassazione condanna al macero tutte le copie di “Ultimo tango a Parigi” del 1972 di Bernardo Bertolucci, che intanto esce di nuovo nelle sale col suo monumentale “Novecento” diviso in due film – grande novità nella nostra cinematografia più abituata ai cortometraggi e agli sketch dei film a episodi – e che ancora fu sequestrato a Salerno per oscenità e blasfemia ma poi rimesso in circolazione con un nulla di fatto. E’ anche l’anno del “Rocky” di Sylvester Stallone, del disturbante “L’inquilino del terzo piano” di Roman Polanski, dell’horror “Carrie, lo sguardo di Satana” di Brian De Palma e dei politici “Quarto potere” di Sidney Lumet e “Tutti gli uomini del presidente” di Alan J. Pakula. E chiudo la carrellata con un altro Pupi Avati che esce lo stesso anno: il giallo horror “La casa dalle finestre che ridono”.

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Il critico Giovanni Grazzini scrive: “Siamo spesso nel cabaret televisivo, nel paradosso goliardico. L’ambizione di Avati, di darci un’immagine emblematica della civiltà confusa degli anni Settanta, è poco adeguata alle sue virtù di narratore originale. Se è vero che la commedia all’italiana ci ha stancati, è dubitabile che film come “Bordella” possano proporsi quali modelli d’una nuova comicità internazionale.” Di fatto il film, un soggetto di Avati, di suo fratello Antonio e di Gianni Cavina cui si è aggiunto Maurizio Costanzo nella sceneggiatura, lo si potrebbe definire come un prodotto di cervelli in libertà. Si apre e si chiude con immagini di repertorio del potentissimo Henry Kissinger che con sapiente doppiaggio si fa promotore della multinazionale American Love Company gestita dal Mr Chips che manda il siculo-americano Eddie Mordace (doppiato però in pugliese da Carlo Croccolo) ad aprire una succursale a Milano. Di nuovo c’è che il bordello è per signore e vi si prostituiscono ruspanti giovanotti in una sequela di quadretti e siparietti ancora oggi divertenti quanto improbabili: si passa dal grottesco al burlesque maschile con numeri da musical e colpi di scena surreali in un film goliardico dove ogni interprete dà davvero il meglio di sé in assoluta libertà espressiva.

Gianni Cavina si disegna il ruolo del pugile suonato Adone Tonti con certi problemini di erezione che però non scoraggiano le donne con animo da infermiera e l’impeto da “io ti salverò!” ma che poi finisce per dare il meglio di sé con un pompiere travestito. Il venticinquenne Christian De Sica si lascia andare, è proprio il caso di dirlo, come aristocratico decaduto, tale Conte Ugolino Facchini, facendo forse il verso al Conte Max di suo padre Vittorio, ed è lui che apre le vie del musical con vezzi e mossette che nei decenni successivi faticherà a tenere a freno in una carriera lunghissima fatta di pochi alti e molti bassi. Il maniaco sessuale Ivanohe Zuccoli che nell’impresa mette a frutto il suo talento è un divertito e divertente Gigi Proietti, anche lui libero di fare e disfare quello che gli pare – in un film però sempre tenuto sotto controllo dal regista, pur nell’apparente anarchia generale. Lo statuario Luigi Montefiori, l’unico col physique du rôle, star dei B-movie italiani con lo pseudonimo di George Eastman, è il marinaio Silvano “Sinbad” Silingardi e chiude la squadra il caratterista polacco Vladek Sheybal qui nel ruolo di Francesco Brandani detto Checco ma anche checca dato che subito si traveste e fa il maestro di cerimonia in una casa bordello-bordella dove l’omoerotismo, divertito o reale, è più che palese.

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Non manca il personaggino di un massaggiatore assai gaio interpretato da Tito Le Duc, anche coreografo del film, noto come componente delle Sorelle Bandiera che in quegli anni avevano sdoganato, grazie a Renzo Arbore, il travestitismo in tivù. Le sciure milanesi apprezzano la bordella mentre Taryn Power, sorella minore della più famosa Romina, fa un’improbabile fanatica religiosa americana che viene a perseguitare i peccatori anche a Milano. Il potente Mr Chips che fa il verso al Hugh Hefner di Playboy è interpretato da Vincent Gardenia e il protagonista era Al Lettieri, morto d’infarto alla fine delle riprese e a cui il film è dedicato; ricordiamo che era un caratterista che raggiunse la notorietà con “Il Padrino” di Francis Ford Coppola.

Il film non poteva che fare scandalo già dal titolo, in un’Italia ultra cattolica, anche perché racconta una cosa per quei tempi sconvolgente: le donne hanno una loro sessualità anche al di fuori del talamo coniugale, e avrebbero dovuto lottare decenni per dichiararla liberamente. Anche se oggi persecuzioni e femminicidi raccontano di uomini fermi alla preistoria.

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Al Lettieri davanti a un manifesto di Adone il pugile sexy

Lei mi parla ancora

Dico subito che non ho mai visto un film di Renato Pozzetto né al cinema né in televisione, benché già lo avessi apprezzato in tivù negli ormai lontani anni fra la fine dei Sessanta e la metà dei Settanta in coppia con Cochi Ponzoni nel duo Cochi e Renato. E’ che non riesco a farmi piacere i comici al cinema dato che apprezzo la loro comicità solo concentrata nel piccolo schermo e mai dilatata nel tempo di un film e sul grande schermo, tanto più che in genere si ripetono nel genere film commerciale per famiglie e dintorni. I film di Pupi Avati però li ho sempre visti.

“Lei mi parla ancora”, produzione 2121, esce direttamente in tivù causa protrarsi pandemia e, in questa fame di cinema, crea un piccolo caso proprio per la partecipazione dell’ottantenne Renato Pozzetto, qui al suo primo ruolo drammatico e, per di più, in cattive condizioni di salute, dato che visibilmente ha gravi problemi di deambulazione.

Risultato immagini per Lungo l'argine del tempo: memorie di un farmacista

La storia è quella del tardivo unico romanzo del farmacista Giuseppe Sgarbi, padre del mercuriale critico d’arte Vittorio e dell’editrice Elisabetta, in cui l’uomo racconta, a 93 anni, della moglie Caterina, il suo perduto amore di una vita, 65 anni di vita insieme, andato in stampa con l’editrice Skira col titolo “Lungo l’argine del tempo: memorie di un farmacista” e ripubblicato, dopo il film, come “Lei mi parla ancora” appunto. Libro immaginato e voluto dalla figlia che vive nel mondo dell’editoria, e che come il film racconta, ingaggia un ghostwriter per scrivere le memorie del padre che continua a parlare con la moglie anche dopo la di lei dipartita: non vede un fantasma ma piuttosto, semplicemente, continua a parlarle per dissipare la sua improvvisa e dolorosa solitudine dopo un’intera vita trascorsa insieme. E il film, andando oltre il romanzo di cui pare tralasci molte memorie (non l’ho letto) narra – alternando le memorie del passato – il difficile rapporto tra il vecchio e lo scrittore che si vende solo con la prospettiva di vedere pubblicato un proprio romanzo, un do ut des con la figlia editrice.

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Chiara Caselli ed Elisabetta Sgarbi

Elisabetta Sgarbi, da gran signora qual è, fa le cose per bene: non sappiamo se ha rispettato il patto con lo scrittore fantasma pubblicandogli il libro, ma nel dare alla stampa il libro del padre evita di farlo con la sua casa editrice “La Nave di Teseo”, evitando il conflitto di interessi, e si rivolge agli amici di “Skira” che, in quanto casa editrice di libri d’arte, fa uno strappo alle regole e pubblica il romanzo-memoria.

Chiara Caselli, Passione
“Passione” di Chiara Caselli

La interpreta, con altrettanto garbo e fine intensità, Chiara Caselli, un’attrice decisamente sofisticata e talentuosa che con successo si è data alla fotografia dato che in Italia, dopo i 40-50 anni, per le attrici sono rari i ruoli interessanti. E non c’è neanche da pensare subito all’America e a Meryl Streep perché basta varcare le Alpi e trovare nella cinematografia francese film costruiti attorno a magnifiche attrici âgée, a cominciare dalla 78enne ancora splendida Catherine Deneuve.

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Stefania Sandrelli e Renato Pozzetto

Stefania Sandrelli, che interpreta il piccolo ruolo della moglie del farmacista, ha 75 anni, e anche lei ormai da qualche decennio non fa un film da protagonista assoluta. Il suo ruolo da giovane lo interpreta la palermitana Isabella Ragonese che ha la stessa solarità della giovane Sandrelli. Il napoletano Lino Musella, molto teatro e ruoli secondari al cinema, presta il suo volto e un’interpretazione partecipe e delicata al personaggio di Pozzetto da giovane.

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Lino Musella e isabella Ragonese


Fabrizio Gifuni interpreta lo scrittore che nella sceneggiatura degli Avati padre e figlio, Pupi e Tommaso, acquista una preponderante dignità narrativa che arriva a indagare le sue inquietudini personali e familiari su un altro piano narrativo e che a mio avviso distrae dal plot principale, la storia d’amore infinita fra Nino E Rina, di cui rimane ben poco, tanto che alla fine mi avanza la domanda: ma che cosa mi ha raccontato questo film? Resta la frase di Cesare Pavese che nei suoi “Dialoghi con Leucò” dice: “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia.” che è l’adagio su cui il protagonista costruisce le sue memorie.

Pupi Avati ancora una volta esplora i luoghi della sua memoria e della sua provincia emiliana con la delicatezza che gli è congeniale anche nella direzione degli attori, differentemente da tanti altri registi che si preoccupano solo della parte tecnica lasciando che gli attori facciano da sé il proprio lavoro. E’ un maestro nel muoversi all’interno del suo mondo, rurale e magico anche con incursioni nel gotico, raccontando il diavolo delle paurose tradizioni contadine, quel diavolo che, come lui fa notare, non è più nominato neanche dalla Chiesa e sta via via scomparendo dall’immaginario collettivo. Un mondo magico e terragno da cui a volte dirazza nel sociale e nel sentimentale senza mai dimenticare, però, il sapore delle sue origini. E’ un maestro nel dirigere gli attori – fra i quali nel tempo sceglie i suoi interpreti feticcio: Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Carlo Delle Piane – e con i quali instaura un rapporto di proficua continuità, lanciando volti nuovi e recuperando glorie appannate.

Qui continua a dirigere Alessandro Haber nell’importante ruolo del cognato morto, ruolo che sembra soffrire lo spazio limitato che la sceneggiatura gli concede. Torna a lavorare anche con l’ormai ultrasessantenne Serena Grandi sul cui volto gonfio d’età resta la triste traccia del silicone, qui impensabile in una contadina degli anni ’60. Il pugliese Nicola Nocella è il tuttofare di casa, già protagonista per Avati in “Il figlio più piccolo” nel 2010 che gli valse il Nastro d’Argento, che doppiò l’anno dopo come protagonista del corto “Omero bello-di-nonna”. Gioele Dix compare come agente letterario mentre Vittorio Sgarbi ha il volto di Matteo Carlomagno.

Di Renato Pozzetto la critica dice un gran bene, della direzione di Pupi Avati si scrive che ha lavorato di sottrazione: un modo elegante per dire che si poteva fare meglio. Con l’assoluto rispetto che si deve a un ottantenne che male si regge sulle gambe e che si mette in gioco con abnegazione, confermo che non è, come non è mai stato, un grande attore, e presta la sua maschera stralunata di sempre a questo vecchio addolorato e sognatore che suscita grande simpatia e a tratti anche commozione, ma con la consapevolezza che le prestazioni attorali sono un’altra cosa. E sul lato emozionale Avati è sempre mirabilmente attento a non spingere quel pedale e a non cercare mai facili reazioni emotive con stratagemmi retorici.

Dunque applausi sempre convinti al regista, un po’ meno allo sceneggiatore, stavolta. Ricordiamo però che Pupi Avati è anche un prolifico e sapiente scrittore la cui ultima uscita è “L’archivio del diavolo”, un’altra delle sue storie gotiche di provincia. “Il meraviglioso e l’orrendo sono contigui – dice in un’intervista – sono forme della dismisura del pensiero che mi attraggono fortemente. – E continua: – La narrazione della cultura contadina era estremamente sorprendente e improbabile” e “ognuno di noi ha una specie di mondo archetipale che coincide con l’incontro con le cose e con le persone nei primi anni di vita. Anche se faccio un film ambientato nell’oggi ha sempre un riverbero della stagione in cui ho incontrato le cose per la prima volta.”

Un ragazzo d’oro

Quando vado a vedere un film di Pupi Avati ho le stesse aspettative che se entrassi in una concessionaria di usato sicuro: niente sorprese per un prodotto di media qualità. Per quanto egli sia un autore cinematografico di tutto rispetto che si è ritagliato un posto nella cinematografia italiana e nel nostro immaginario di spettatori. Ma diciamocelo: tranne qualche divagazione tutto il suo cinema, sempre sentimentale sia in chiave drammatica che brillante, è un cinema che attinge sempre alla sua memoria e alla sua provincia senza però avere mai il guizzo geniale di un “Amarcord”.

Stavolta però in qualche modo è riuscito a sorprendermi: qui racconta una storia moderna, benché sempre puntellata su ricordi di infanzie passate, e vi si affacciano psicologa e psicofarmaci piuttosto che il salutare bicchiere di vino dei bei tempi andati. Ma per quanto non ambientato nella sua amata provincia bolognese bensì fra una nevrotica Milano e una pacioccona Roma, e non abitato dalle sue maschere stralunate che hanno fatto la fortuna di un caratterista troppo sopravvalutato come Neri Marcoré, questo Ragazzo d’Oro rimane sempre provinciale per l’ispirazione: il mondo del cinema scollacciato e sporcaccione degli anni ottanta, quello di Renzo Montagnani e Alvaro Vitali, regno di parolacce pernacchie e scoregge e belle figliole prosperose e discinte.

Il ragazzo d’oro del titolo è un pubblicitario con disturbi della personalità interpretato al suo meglio da Riccardo Scamarcio… ma attenzione: non dico che il suo meglio è il meglio che c’è: è il meglio che lui può fare col suo talento, che ha, ma ancora abbastanza rozzo colpa anche della cinematografia italiana che non offre granché. Qui il personaggio è davvero molto interessante anche se a mio avviso qua e là lacunoso nella scrittura. Questo ragazzo d’oro, diciamo una perla di ragazzo, ridà vita letteraria al padre appena scomparso che non ha avuto il tempo di mondarsi da un passato di sceneggiatore pecoreccio con un romanzo importante di cui lascia solo l’idea: il bravo figliolo si cala nelle vesti del padre, anche fisicamente, e scrive il favoleggiato manoscritto mai scritto a suo nome, regalandogli fama e premi postumi, primo fra tutti quel Premio Strega che, ancora una volta, è un concentrato di provincialismo.

Gli stanno intorno, ognuno davvero per conto proprio dato che tutti insieme non formano un cast credibile, Cristiana Capotondi all’ennesima occasione mancata, colpa di nuovo di una sceneggiatura poco elaborata; la rediviva Giovanna Ralli che fa del suo meglio per credere al suo personaggio di vedova e madre affranta; e la – oddio che ci fa qui? – star hollywoodiana Sharon Stone in un ruolo che scommetterei era stato scritto per Edwige Fenech: un’attricetta straniera di quei filmacci di cui sopra che nella bella mezza età si è riciclata come editrice ed intellettuale. La Fenech oggi fa la produttrice e voglio assolutamente sapere perché quel ruolo non l’ha recitato lei! Ma tornando a Sharon Stone: porta nelle inquadrature il suo peso di star e nient’altro e anche se ammicca e sorride con maturo distacco si vede che anche lei non crede a quello che fa, tanto quanto la doppiatrice di madre lingua inglese che le dà il giusto accento straniero ma che è assolutamente piatta e fuori sincrono: sono rimasto a vedere tutti i titoli di coda per vedere chi fosse ma non ce n’era traccia.

Tutto sommato un film un po’ diverso con spunti e momenti interessanti nella filmografia dell’autore Avati, e spero sempre che ce ne saranno altri anche se tutti si porteranno dietro questo sapore di provincialismo: del resto è l’usato sicuro e da lui non mi aspetto altro.

Due perline in chiusura: 1) a proposito di sceneggiatura poco attenta: il protagonista dice che suo padre aveva 65 anni e subito penso: che ci fa l’ottantenne Giovanna Ralli nel ruolo della moglie? bastava correggere lo script e dire che il morto ne aveva 75. 2) La partecipazione straordinaria di Valeria Marini come affranta e definitiva attrice di quel cinema che si è trasformato in cinepanettoni: piange quattro parole quattro ed è davvero straordinaria per l’inespressività di quel gommone che ha al posto delle labbra.