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Gli occhiali d’oro – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Dopo “La lunga notte del ’43” e “Il giardino dei Finzi Contini” terzo e a tutt’oggi ultimo film dalla narrativa che Giorgio Bassani dedicò alla sua Ferrara e contestualmente al periodo fascista della città, essendo egli stesso uno di quegli ebrei che vissero sulla propria pelle le leggi razziali emanate nel 1938. Il giovane Bassani era all’epoca studente universitario a Bologna e gli fu concesso di proseguire gli studi, si sarebbe laureato l’anno dopo, mentre non erano più consentite le nuove iscrizioni agli ebrei, di pari passo all’epurazione del corpo docenti. L’io narrante, un universitario ebreo che è chiaramente l’alter ego dello scrittore, nel romanzo non ha un nome e nel film, scritto dallo stesso regista Giuliano Montaldo con Nicola Badalucco e Antonella Grassi, viene chiamato Davide Lattes, figlio di Bruno Lattes che a sua volta è il nome di uno dei personaggi che frequentano il giardino dei Finzi-Contini, romanzo dove a sua volta si cita la vicenda che viene raccontata in questo romanzo: se nel Bassani scrittore i rimandi e le autocitazioni sono frequenti, gli sceneggiatori ne prendono atto e proseguono sulla strada tracciata per restare fedeli allo spirito che anima quelle narrazioni: Ferrara come luogo eletto di una comunità che si autodefinisce “popolo eletto”. Nel romanzo e nel film procedono di pari passo le vicende dell’io narrante e del medico narrato: un omosessuale di mezza età che innamorandosi di un giovane arrivista crea scandalo e viene emarginato dalla benpensante società dell’epoca, emarginazione che procede specularmente a quella che lo studente subisce a causa della sua religione.

Nicola Farron e Philippe Noiret

Vidi il film al cinema alla sua uscita nel 1987 e già allora non mi convinse del tutto benché all’epoca non sapessi motivare chiaramente le mie impressioni: riferivo al mio gusto personale; rivisto oggi confermo e specifico: manca di pathos, è ben confezionato ma calligrafico. Manca l’atmosfera cupa dei tempi bui cui ci si avviava in quegli anni, che il debuttante Florestano Vancini aveva saputo infondere alla sua lunga notte del ’43, e soffre di quel patinato manierismo che si respirava nel giardino dei Finzi-Contini filmato da Vittorio De Sica. Detto ciò il film ebbe successo e si aggiudicò alcuni premi tecnici: a Venezia l’Osella d’Oro per i costumi di Nanà Cecchi e le scenografie di Luciano Ricceri, e poi David di Donatello alla musica di Ennio Morricone che comunque non è fra quelle che continuiamo ad ascoltare. Il cast, come nella migliore tradizione italiana dei decenni passati, è un’insalata di interpreti stranieri e italiani, qui giustificata dal fatto che si tratta di una coproduzione Italia Francia Jugoslavia; insalate per fortuna non più consentite alle produzioni italiane odierne in cui c’è l’obbligo della presa diretta dove gli eventuali interpreti stranieri devono recitare in italiano o fare ciò che sono, gli stranieri, e in cui all’eventuale necessario doppiaggio saranno gli stessi attori a usare la propria voce, a meno che non rinuncino personalmente; una battaglia, quella della voce-volto lanciata dall’impegnatissimo Gian Maria Volonté già alla fine degli anni ’70: un complesso argomento che meriterebbe un approfondimento a parte.

Rupert Everett e Valeria Golino

Davide Lattes, con la voce di Tonino Accolla, ha il volto di Rupert Everett fresco del successo del britannico “Another Country: la scelta” diretto dal polacco Marek Kanievska nel 1984; va da sé che viene scritturato dai nostri produttori e in quel 1987 è protagonista per Francesco Rosi in “Cronaca di una morte annunciata” e di questo film di Montaldo. L’anziano medico, doppiato da Sergio Rossi, è impersonato dal francese di casa in Italia Philippe Noiret, che in quella pratica di coproduzioni e finte produzioni italiane con attori stranieri, si accaparrò molti ruoli assai interessanti che sarebbero potuti andare ai nostri colonnelli: Gassman, Mastroianni, Manfredi, Sordi, Tognazzi. Protagonista femminile è l’emergente Valeria Golino che recita con la sua voce ingolata non del tutto gradevole all’epoca, viziati com’eravamo dalle voci perfette del doppiaggio, migliore attrice rivelazione l’anno prima premiata col Globo d’Oro per “Piccoli fuochi” di Peter Del Monte, e qui candidata inopinatamente (a mio avviso brava ma non da premio) come protagonista ai David di Donatello, insieme a Noiret: entrambi restarono a bocca asciutta perché i premi agli attori protagonisti andarono a Marcello Mastroianni e Elena Safonova per “Oci ciornie” di Nikita Sergeevič Michalkov. Il bel mascalzone di cui s’innamora il medico è impersonato da un altro emergente che poi non rispettò la promessa di una brillante carriera, Nicola Farron, che si esibisce in un nudo integrale sotto la doccia che ancora vale il limite di età alla visione del film su YouTube, anch’egli doppiato da Fabio Boccanera.

Il professor Amos Perugia di Roberto Herlitzka accompagnato all’uscita dall’ateneo dai suoi studenti mentre sullo sfondo si grida “Ebreo! ebreo!” e “Eia eia alalà”.

Altri nomi di spicco sono la centratissima Stefania Sandrelli come malefica pettegola e soprattutto Roberto Herlitzka perfettamente in ruolo essendo egli stesso un ebreo che bambino sfuggì al nazi-fascismo col padre che riparò in Argentina: qui nei primi dieci minuti del film interpreta il professore universitario epurato. I genitori del protagonista sono interpretati dal serbo Rade Markovic e dalla romana di nobili origini Esmeralda Ruspoli. Nel ruolo di uno studente universitario un giovane Luca Zingaretti. Il film, che di diritto si inserisce sotto l’etichetta Fascismo e Resistenza, è oggi considerato un caposaldo anche del filone film LGBT.

Di Giuliano Montaldo bisogna ricordare che come tanti dei suoi coetanei debuttò con un film legato al racconto del fascismo, “Tiro al piccione”, tema che continuerà ad esplorare in altri suoi riusciti lavori come “Gott Mit Uns” e “L’Agnese va a morire”. Nel 2007 è stato insignito del David di Donatello alla Carriera e nel 2018 vinse il David come attore non protagonista per “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni. Mentre il suo ultimo film da regista è “L’industriale” del 2011 con Pierfrancesco Favino. Oggi ha 93 anni.

La figlia oscura – opera prima di Maggie Gyllenhaal

Sono di quelli che pensano che se il mondo fosse governato dalle donne sarebbe un posto migliore… beh sto entrando nell’argomento per la via più lunga: Maggie Gyllenhaal, sorella di poco maggiore di Jake Gyllenhaal, debutta alla regia con un lungometraggio di gran classe, in linea con tutta la sua carriera, al contrario del fratello che si è ritagliato un profilo di star per tutte le stagioni, bravo e prestante giovanotto socialmente e politicamente impegnato, come la sorella, ma che artisticamente non ha ancora dato il suo colpo di coda.

Maggie e Jake sono gli ultimi rampolli di un’antica importante famiglia di origini svedesi. Il padre Stephen Gyllenhaal è un regista cinematografico non di prima grandezza che ha diretto entrambi i figli all’inizio delle loro carriere. Poi mentre Jake assurge alla fama nel 2001 come protagonista del cult fantasy “Donnie Darko” in cui Maggie recita in un ruolo minore, lei sarà protagonista l’anno dopo di un altro cult “Secretary”, per il quale riceverà candidature ai premi maggiori vincendo nelle sezioni dei premi minori, e da lì in poi, pur diversificando come il fratello, si ritaglia il ruolo di attrice più in linea col cinema di qualità che coi blockbusters, nulla togliendo alla qualità di questi. Poi nel 2015 vince il Golden Globe per la miniserie britannica “The Honourable Woman” e ancora, pur essendo ormai una punta di diamante nella cinematografia internazionale, continua a mancarle l’attenzione di quella grande fetta di pubblico che incorona le star. Fra il 2017 e il 2019 cop-roduce e co-interpreta con James Franco l’acclamata serie tv “The Deuce” sul mondo del porno negli anni ’70, riconfermandosi una cineasta di classe volta alla ricerca di produzioni non banali, e anche rischiose. Nel 2018 Maggie produce e interpreta “Lontano da qui”, remake di un film franco-israeliano incentrato sulla figura di una donna banale che cerca una via di fuga e di compensazione nella poesia. Il 2021 è l’anno di questo suo debutto di cui, oltre a essere regista, è anche produttrice e sceneggiatrice, e proprio con la sceneggiatura ha vinta il Premio Osella alla Mostra del Cinema di Venezia.

Il film è un adattamento del romanzo omonimo del 2006 dell’italiana Elena Ferrante, nom de plume di una scrittrice, certamente partenopea, che nonostante le indagini e le speculazioni, rimane anonima. Detto ciò il nome è stato inserito dal settimanale statunitense Time fra le cento persone più influenti al mondo, a dimostrazione del fatto che i suoi libri hanno larga diffusione oltreoceano. Il suo primo romanzo “L’amore molesto” già presenta le tematiche dell’autrice: l’indagine psicologica della mente femminile, senza compiacimenti e scudi morali o sociali, e il collasso psicologico delle protagoniste. Quel romanzo è diventato subito uno spiazzante film di Mario Martone, e anche il secondo romanzo “I giorni dell’abbandono” diventa un meno riuscito film diretto da Roberto Faenza. Segue “La figlia oscura” che diventa questo film, e poi inizia la serie di quattro romanzi di “L’amica geniale” opportunamente messa in cantiere come serie tv dall’americana HBO e poi coprodotta con l’italiana Fandango e con Rai Cinema, con la regia di Saverio Costanzo.

Maggie Gyllenhaal, pur avendo l’età giusta per interpretare la protagonista, preferisce restare dietro la macchina da presa e farsi regista pura, senza il fraintendimento dell’attrice che vuole mettersi al centro della scena, e offre il ruolo alla premio Oscar britannica Olivia Colman, che a sua volta in questo progetto che sia avvia a basso costo, si coinvolge anche come produttore esecutivo, che è colui o colei che ha la parola finale su tutto il progetto – probabilmente riducendo il suo compenso, il cui mancato introito va considerato come contributo economico alla produzione.

Nell’adattare il romanzo, Maggie, mantenendo il nome italiano della protagonista, Leda Caruso, che nella multietnicità americana ben si colloca, sposta dapprima l’azione dall’Italia – nel romanzo la protagonista è una professoressa in vacanza su una spiaggia dello Jonio – alla costa atlantica del New Jersey. Ma è già il 2020 e la pandemia Covid chiude tutti a casa, con l’aggravante che gli Stati Uniti saranno il territorio più colpito al mondo per la leggerezza e il ritardo con i quali vengono adottati i provvedimenti, dunque la produzione si blocca e l’autrice rischia di perdere i finanziamenti. Col virus in piena diffusione decide di spostare il set sull’isola greca di Spetses, che essendo a 35 miglia nautiche dalla terraferma era ancora abbastanza al riparo dai contagi e, come ha dichiarato lei stessa, non poteva permettersi di interrompere le riprese in caso qualcuno fosse risultato positivo, e che quindi ha girato il più velocemente possibile e in assoluta economia di mezzi, usando gli isolani al posto di figuranti e comparse professionisti. Di conseguenza anche i flashback, ambientati nel New Jersey, sono stati girati sull’isola.

Dakota Johnson, Maggie Gyllenhaal e Olivia Colman a Venezia

Il film, che ha un andamento lento e avvolgente è diretto con sicurezza dall’autrice esordiente, e vanno annotate le scene di intimità di coppia e di sesso che non sono mai banali quando sono dirette da una donna. E se da un lato il film si regge tutto sull’intensità di Olivia Colman, che riceve la candidatura all’Oscar nel 2022 (ha vinto Jessica Chastain per “Gli occhi di Tammy Faye“) per il resto ha lo spessore che gli conferiscono tutti gli altri interpreti di rango, a cominciare dalla protagonista Leda Caruso di vent’anni prima interpretata dall’irlandese Jessie Buckley, attrice talentuosa e pluripremiata non ancora nota al grande pubblico, anche lei candidata come non protagonista (ha vinto Ariana DeBose per il “West Side Story” di Steven Spielberg). Nel cast anche il veterano di lusso Ed Harris e il marito di Maggie, Peter Sarsgaard, anche grande amico del cognato Jake. L’ex modella Dakota Johnson, assurta a discusso sex symbol cinematografica con la trilogia delle “Cinquanta Sfumature di…” grigio rosso e nero, impersona la giovane madre nonché donna inquieta in cui la protagonista si identifica e che ne scatena il crollo psicologico. Completano il cast i britannici Oliver Jackson-Cohen, Paul Mescal e Jack Farthing (chi se lo ricorda come cattivissimo George Warleggan nella serie tv “Poldark”?). Chiudono il cast principale la polacca naturalizzata statunitense Dagmara Domińczyk e l’italiana Alba Rohrwacher già legata al mondo di Elena Ferrante per essere stata la voce narrante delle prime stagioni di “L’amica geniale” come voce matura della protagonista Elena, detta Lenù, e che vedremo in video nella quarta e ultima stagione.

Atri riconoscimenti andati al film: candidatura a Maggie Gyllenhaal per la migliore sceneggiatura non originale agli Oscar; candidatura ai Golden Globe per regista e protagonista, e a seguire altre candidature ai Critics’ Choice Awards, ai BAFTA e Screen Actors Guild Award. Al botteghino non ha avuto il riscontro meritato confermandosi per quello che è: un film di nicchia e d’autore; e Maggie, debuttando come autrice senza volersi mettere dentro anche attrice, merita tutta l’attenzione.