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Oppenheimer – Miglior Tutto (o quasi) Oscar 2024

7 premi su 13 nomination sia agli Oscar che ai BAFTA per le medesime categorie, 5 Golden Globe, 4 Critics Choise Awards, 3 SAG-AFTRA, un Grammy Award alla colonna sonora di Ludwig Göransson, e l’inserimento nel National Board Rewiew fra i 10 migliori film dell’anno. Per non dire degli incassi record, anzi lo stiamo dicendo. Tutto questo nonostante il film sia sostanzialmente ostico trattando di materie astratte come la fisica e la quantistica e raccontando un protagonista non particolarmente simpatico in un contesto storico e accademico fatto di nomi e circostanze che dicono poco o nulla al grande pubblico: tolti i rassicuranti (perché conosciuti) Albert Einstein e il presidente Harry Truman, sono tutti personaggi alcuni dei quali Premi Nobel che fanno solo girare la testa. Ma la forza del film, scritto dallo stesso regista dalla biografia “Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica” di Kai Bird e Martin J. Sherwin che già vinse il Premio Pulitzer, sta nella sua struttura che mescola i generi spy thriller e legal drama interpuntati da accattivanti veloci effetti che visualizzano l’astrusità (per noi comuni spettatori) della materia quanto mai oscura, e la confezione è talmente perfetta che ci tiene incollati allo schermo nonostante le tre ore di visione. Gli Oscar vinti sono Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Protagonista, Miglior non Protagonista, Miglior Fotografia a Hoyte Van Hoytema e Miglior Montaggio a Jennifer Lame.

Ma c’è da aggiungere che molto del merito va anche alle superlative interpretazioni dell’insieme, sin nei ruoli più piccoli dove spesso ritroviamo nomi di prim’ordine, e questo fa la differenza: la grandezza di un film, e conseguentemente del suo autore, si vede anche dall’adesione che al progetto viene da conclamati protagonisti che pur di esserci si accontentano di ruoli secondari: ci sono i già premi Oscar Matt Damon (miglior sceneggiatura originale nel 1998 insieme all’amico Ben Affleck per “Will Hunting – Genio Ribelle”) il quale non ha mai disdegnato i ruoli da comprimario se ne vale la pena e che qui ha uno dei ruoli più corposi, il fratello del suo amico Casey Affleck (miglior non protagonista nel 2017 per “Manchester by the Sea”) ed entrambi già con ruoli secondari nel cast di “Interstellar” sempre di Christopher Nolan.

Gary Oldman

In ruoli davvero minori Rami Malek (miglior protagonista nel 2019 per “Bohemian Rhapsody” dove ha impersonato Freddy Mercury), Sir Kenneth Branagh (7 candidature e un solo Oscar nel 2022 per la miglior sceneggiatura originale del biografico “Belfast”) e Gary Oldman (miglior attore nel 2018 per “L’ora più buia” dove è stato Winston Churchill) che qui con una sola scena lascia la sua impronta come presidente Truman il quale pensa basti pulirsi le mani con un fazzoletto di seta dal sangue versato dalla bomba atomica che rivendica come sua.

Ci sono poi i già candidati all’Oscar Florence Pugh (nel 2020 per “Piccole Donne”) che qui pervade la prima parte del film come tormentata amante segreta di Oppenheimer, e soprattutto Robert Downey Jr. che come vero antagonista complottista si aggiudica l’Oscar best supporting actor dopo aver ricevuto le candidature per “Charlot” nel 1993 e “Tropic Thunder” nel 2009.

Robert Downey Jr.

E ci sono a vario titolo i già protagonisti o noti comprimari sia di film che di serie tv: Emily Blunt nel ruolo della moglie del fisico che qui si aggiudica la sua prima nomination all’Oscar come best supporting actress; Josh Hartnett, Jason Clarke, James D’Arcy, Dane DeHaan, Alden Herenreich, Tony Goldwin, David Krumholz, Scott Grimes, Gregory Jbara, Tim DeKay, Jeff Hephner, James Remar, Gustaf Skarsgård, James Urbaniak, Josh Zuckerman e per ultimo, anche nei titoli, il quasi irriconoscibile Matthew Modine che fu giovane promessa hollywoodiana: Coppa Volpi al Festival di Venezia per “Streamers” (1983) di Robert Altman e poi protagonista assieme a Nicholas Cage (che al contrario ha saputo mantenersi sulla breccia) dello struggente “Birdy” (1984) di Alan Parker e in “Full Metal Jacket” (1987) di Stanley Kubrick; ma dopo qualche altro film la sua carriera è tutta in discesa fino a venire quasi del tutto dimenticato.

Come generosamente ha titolato MoviePlayer

Chiudo l’elenco del fitto cast con gli ex attori bambini ormai divenuti interpreti di rango Alex Wolff, Michael Angarano e Josh Peck; ci sono poi il figlio d’arte Jack Quaid (di Dennis Quaid e Meg Ryan) e i meno noti al grande pubblico Dylan Arnold come fratello del protagonista, Tom Conti che veste i panni di Einstein, Danny Deferrari come Enrico Fermi e Benny Safdie che è principalmente regista indipendente in coppia col fratello Josh.

Cillian Murphy a confronto con il vero Robert Oppenheimer

Protagonista assoluto l’intenso Cillian Murphy premiato con la statuetta più ambita alla sua prima candidatura. Ricordando che ha già lavorato con Nolan in “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno” e in “Dunkirk”, bisogna notare che il regista londinese preferisce lavorare con interpreti britannici suoi conterranei: qui oltre a Murphy, Emily Blunt, Florence Pugh, Kenneth Branagh, James D’Arcy e Tom Conti oltre ad altri, non dimenticando anche il Christian Bale della trilogia sul Cavaliere Oscuro. Ma se l’autore è riconoscibile nella composizione del casting lo è soprattutto per il suo stile: ama raccontare i tormenti interiori passando per le ossessioni e gli inganni – in quest’ottica è davvero magistrale l’interpretazione di Robert Downey Jr. – e i confini della realtà anche solo come percezione interiore dei suoi personaggi – qui ben esplicitati nella figura di Oppenheimer con le sue visioni e i suoi tormenti.

Christopher Nolan sul set

Da ricordare anche la polemica dell’autore con la Warner Bros. che aveva prodotto i suoi precedenti film: “Alcuni dei più grandi registi e delle star più importanti della nostra industria sono andati a dormire pensando di lavorare per lo studio più prestigioso e si sono svegliati scoprendo di lavorare per il peggior servizio streaming.” aveva dichiarato polemicamente Nolan allorché la major aveva deciso di distribuire tutto il suo catalogo 2021 (la pandemia ha rilanciato l’home video) in contemporanea sia nelle sale che in streaming su tv e pc; e difatti, passato con questo film alla Universal, si legge nei titoli che il film è scritto e diretto “per il cinema”. E la Warner Bros. per fargli dispetto fece uscire il suo blockbuster su “Barbie” proprio in contemporanea all’uscita di “Oppenheimer”, ma gli attori di entrambi i cast, più lungimiranti e accoglienti delle case produttrici, invitarono il pubblico ad andare a vedere i due film in un solo pomeriggio come un doppio spettacolo, l’evasione e l’impegno, e tra le celebrity a fare da apripista seguendo il consiglio e fare da traino al grosso del pubblico ci sono stati Tom Cruise, che era già nelle sale con “Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte uno” e che non ha perso l’occasione per parlare anche del suo film, e lo sfaccendato cineamatore Quentin Tarantino; e a quel punto si è creato un altro dibattito: in che ordine vederli? la stampa chiamò il fenomeno Barbernheimer e il merchandising si buttò a capofitto nell’impresa creando magliette e ogni altra sorta di gadget… che poi uno dice: le americanate!

Leonora addio – l’addio a Vittorio del fratello Paolo

Quest’anno c’è stato un altro film su Luigi Pirandello che è passato praticamente inosservato in sala, e oggi già disponibile su Sky, di cui vale la pena parlare dopo il clamoroso successo di “La stranezza” di Roberto Andò che racconta fra invenzione narrativa e ricerca storica i tormenti dell’autore sulla composizione del suo dramma “Sei personaggi in cerca d’autore”. Dirige Paolo Taviani, per la prima volta in solitaria dopo la morte del fratello Vittorio, di due anni più anziano, avvenuta nel 2018 quand’era 89enne. E Paolo, oggi 91enne, torna di nuovo a Pirandello: con Vittorio avevano firmato dalle novelle pirandelliane il riuscitissimo “Kaos” nel 1984 e il meno riuscito “Tu ridi” nel 1998, in una cinematografia fatta principalmente di ispirazioni letterarie e di alternanze di film belli e meno belli, ma mai brutti, e “Leonora addio” è purtroppo da iscrivere nella categoria dei film meno riusciti, ancorché premiato all’interno del Festival di Berlino 2022 col premio indipendente Fipresci (Fédération internationale de la presse cinématographique), ricordando che in quel festival erano stati incoronati con l’Orso d’Oro nel 2012 per il sorprendente “Cesare deve morire”.

“Leonora addio” è un film enigmatico, per certi versi incomprensibile e che a tratti si rivela ostico, nonostante sia molto elegante sul piano stilistico, addirittura semplice sul piano narrativo con i suoi scarni dialoghi e le sequenze girate da maestro ma piane e senza scossoni, addirittura prevedibili nei pochi momenti grotteschi che però non fanno sorridere perché virano al nero.

“Per lo schietto e geniale rinnovamento nell’arte scenica e drammatica”.

Dopo l’incipit in cui vediamo Pirandello ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 1934 in filmati di repertorio, ci sono i titoli di testa e la dedica a Vittorio: che è la chiave di lettura di questo film scomposto, un lungo addio a un fratello, un amico, un complice, un compagno d’arte. E il tema del film è la morte. Pirandello muore due anni dopo aver ricevuto il premio e le sue disposizioni, scritte già nel 1911, sono precise: “Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere, perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui.

Taviani passa dai cinegiornali al suo cinema mantenendo lo stesso bianco e nero con la fotografia di Simone Zampagni, in cui l’unico colore ad accendersi è il rosso del fuoco del forno crematorio. Da qui cominciano le disavventure delle ceneri in un racconto surreale ma purtroppo vero. In quel 1936 l’Italia era governata dal regime fascista, idee cui peraltro lo stesso Pirandello aveva entusiasticamente aderito già nel 1924 e l’anno dopo sarà tra i firmatari del Manifesto degli Intellettuali Fascisti redatto da Giovanni Gentile. Dunque l’apparato politico con Benito Mussolini in testa si sentì in dovere di appropriarsi delle ceneri e di disporne a proprio modo, e senza considerare le volontà del Trapassato organizza quello che sarà il primo dei tre funerali cui Pirandello andrà incontro suo malgrado, e le ceneri vengono murate in una colombaia al cimitero del Verano. Dopo la Liberazione dal regime nazi-fascista, nel 1947, alcuni studenti agrigentini fra cui Andrea Camilleri, dettaglio non citato nel film, sollecitarono il trasferimento delle ceneri nella terra natia secondo le precise disposizioni dell’illustre Agrigentino, e su interessamento del presidente del consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, le ceneri conservate in una preziosa anfora greca che già fu di proprietà dello stesso Pirandello, cominciano l’avventuroso surreale viaggio, custodita e accompagnata da un attento delegato del Comune di Agrigento che nel film è interpretato dal comprimario emergente pluripremiato Fabrizio Ferracane.

Marta Abba davanti all’urna con le ceneri di Pirandello depositata al museo civico

Ma in città c’è un altro ostacolo: il vescovo Giovanni Battista Peruzzo, interpretato da uno dei fedelissimi dei Taviani, Claudio Bigagli, si oppone al corteo funebre perché i resti erano stati anti-cristianamente cremati e non si poteva esporre un’urna greca, pagana: a qualcuno venne l’idea di nascondere l’imbarazzante urna dentro una più cristiana bara: Camilleri si attesta la paternità del brillante quanto ridicolo ma necessario sotterfugio, ma Taviani nel suo film attribuisce l’idea a un prete, un non definito Don Biagio interpretato da Biagio Barone; ma non finisce qui e le ceneri devono passare attraverso altri sberleffi. Avvenuto il secondo funerale l’anfora rimase però depositata nel museo civico perché si attendeva la conclusione del monumento funerario disposto dal comune e dai figli e da costruire nella villa pirandelliana, ma passarono altri quindici anni prima della terza e conclusiva cerimonia funebre nel 1962. Parte delle ceneri che non entrarono nel contenitore metallico disposto per l’ultima sepoltura alla fine vennero disperse nel mare, così come erano state le originarie volontà di Pirandello.

Sul set Paolo Taviani in basso a sinistra Claudio Bigagli in piedi a destra.

A questo punto il mare vira dal bianco e nero al colore con la fotografia di Paolo Carnera e comincia la seconda parte del film, totalmente slegata dalla prima: la messa in film dell’ultimo racconto scritto da Pirandello pochi giorni prima di morire, “Il chiodo”, ispirato da un fatto di cronaca nera avvenuta ad Harlem, New York. Bastianeddu, interpretato dal ragazzino già in carriera Antonio Pittiruti, è stato portato dal padre Turiddu, Federico Tocci, via dalla madre e dalla Sicilia per fare fortuna in America; il ragazzino si rende colpevole di un inspiegabile crimine: con un chiodo uccide un’orribile bambina dai capelli rossi, sue le parole, e agli inquirenti spiega solo che il chiodo era caduto apposta, on purpose, da un carretto e lui si era ritrovato apposta davanti alla sua vittima, senza alcun’altra logica spiegazione. Nella vicenda reale il processo si conclude con l’assoluzione del ragazzo evidentemente ritenuto momentaneamente incapace di intendere e di volere. Nel film, Bastianeddu da adulto, in campo lunghissimo, va sulla tomba della sconosciuta ragazzina che aveva ucciso, e su quella tomba torna e ritorna negli anni, sempre più vecchio, a scontare la sua vera pena.

Due differenti film sotto uno stesso titolo che però non parla di nessuno dei due: altro dettaglio non da poco che spiazza critica e pubblico. “Leonora addio” è il titolo di un altro racconto di Pirandello, titolo che a sua volta l’autore aveva preso da un’aria da “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi i cui versi sono: “Sconto col sangue mio / L’amor che posi in te!… / Non ti scordar di me! / Leonora, addio!” Se ne deduce che l’addio del titolo è per Paolo Taviani un ermetico addio al fratello, così come l’intero film che gli ha dedicato è sul tema della morte: narrativamente quella di Pirandello; e poi del dolore di chi resta, quello di Bastianeddu sulla tomba della vittima senza motivo e sconosciuta. Due film non per platee dai gusti facili, e belli se presi separatamente, ma il cui accostamento lascia spiazzati, ancor più dopo il titolo, perché per l’autore rimasto fratello unico è il criptico personalissimo omaggio alla sua metà di sempre: Pirandello è Vittorio, Bastianeddu è Paolo – e questa è una semplificazione assai grossolana.

La stranezza

Quest’anno ben due film su Luigi Pirandello. Il primo, “Leonora addio” di Paolo Taviani è uscito a inizio anno e “La stranezza” di Roberto Andò ha visto la luce a ottobre al Festival del Cinema di Roma e nelle sale si è subito piazzato al primo posto degli incassi, mentre il film di Taviani, spiace dirlo, non ha avuto altrettanta fortuna. Dunque non è Pirandello che porta la gente al cinema e, tocca dirlo, neanche Andò, un autore rinomato e premiato dalla critica ma mai abbastanza dal pubblico: questo è il suo primo vero successo commerciale, cui certamente seguiranno i dovuti premi.

Roberto Andò è un intellettuale palermitano che deve praticamente tutto alla sua amicizia con Leonardo Sciascia al quale dedica questo film; fu l’altro siciliano eccellente, scrittore assai rappresentato al cinema e in teatro, a spingerlo alla scrittura e a introdurlo nel mondo del cinema, dove Andò sarà assistente di Francesco Rosi, Giacomo Battiato e Federico Fellini fra i grandi italiani, e Michael Cimino e Francis Ford Coppola fra gli americani venuti a girare in Sicilia. Così va imparando il mestiere col meglio del panorama cinematografico mentre apprende l’arte della messinscena a teatro, sempre con progetti di alto livello culturale e debutta con un testo che gli è stato affidato nientemeno che da Italo Calvino e Andrea Zanzotto e messo in scena con i bozzetti di Renato Guttuso: meglio di così!… Impiegherà una decina d’anni per realizzare il suo primo lungometraggio, “Diario senza date” una docu-fiction ambientata in quella sua Palermo, i cui misteri indaga attraverso testimonianze e interviste vere e inventate; mentre il suo primo lungometraggio totalmente di finzione narrativa è una finzione che racconta la realtà ispirandosi alla biografia di un altro siciliano eccellente, Giuseppe Tomasi di Lampedusa con “Il manoscritto del principe”; dopo una serie di film i cui protagonisti sono sempre degli intellettuali, perché quello è il suo mondo e il suo immaginario, torna con questo scherzo biografico su Luigi Pirandello e fa tombola.

Abbandona i suoi più congeniali toni pensosi e ai tormenti personali e sempre inevitabilmente intellettuali del Pirandello, colto nel periodo in cui sta scrivendo i “Sei personaggi in cerca d’autore”, contrappone una favola ironica e grottesca degna del miglior cinema sul teatro e del miglior cinema di ambientazione siciliana: una coppia di teatranti amatoriali mette in scena un dramma che ovviamente si rivolge in farsa e la cui interazione fra teatranti e pubblico si rivela di grande ispirazione per il tormentato autore che non sa dare forma ai suoi personaggi-fantasma. “La stranezza”, titolo quanto mai efficace perché misteriosamente accattivante, è detta nel film dalla balia del Pirandello bambino che era vittima di parossismi estatici e creativi che la balia illetterata poteva descrivere solo come stranezza, una stranezza che nel presente narrativo diventerà la stranissima, per l’epoca, “Sei personaggi in cerca d’autore, commedia da fare” che debutterà al Teatro Valle di Roma, oggi minuziosamente ricostruito in studio con l’impiantito e le poltroncine di legno, il 9 maggio del 1921, e sarà un clamoroso insuccesso, con pochi sostenitori che verranno alle mani con molti dei buggeratori che accoglieranno l’autore gridandogli “Manicomio! manicomio!”, invettiva specifica speciosa e ad arte, sicuramente lanciata per prima da qualcuno che conoscendo la personale tragedia di Pirandello voleva colpirlo nell’intimo: due anni prima l’autore era stato costretto a far rinchiudere in un manicomio la moglie pazza.

A essere onesti quel pubblico non aveva tutti i torti: abituato al teatro classico e ai drammi borghesi, improvvisamente si trova ad assistere a un’ardita sperimentazione che mette in discussione l’intero impianto teatrale, la concezione dei personaggi e il ruolo degli attori. Avevano imparato a conoscere e apprezzare Pirandello sin dal suo grande successo letterario “Il fu Mattia Pascal” pubblicato nel 1904 prima a puntate sulla rivista Nuova Antologia e poi in volume, un successo determinato proprio dai lettori prima che dalla critica che si era mostrata tiepida; una disattenzione che ferì nell’intimo l’autore, che di rimando se la prese pubblicamente con coloro che, osannati dalla medesima critica, egli non riteneva degni: Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli, alla cui uscita delle opere dichiarò di detestarli nel modo più assoluto, e ancor di più gli brucerà l’essere ignorato da D’Annunzio mentre Pascoli beffardamente lo apostrofò “Pindirindello”. Passeranno pochi anni e Pindirindello avrà la sua rivincita vincendo il Premio Nobel per la letteratura.

Oggi sorprende e fa sorridere che grandi nomi che abbiamo studiato sui libri di scuola siano stati esseri umani con tutte le umane debolezze annesse. In ogni caso lettori e pubblico teatrale avevano fin lì amato Pirandello, a cominciare dalle sue prime prove sceniche che si rifacevano alla classica narrativa siciliana: “Cecè” “Liolà” “Pensaci, Giacomino!” fra gli altri; nella sua seconda fase, l’Agrigentino si discosta da quello che in qualche modo rinnovava il teatro di tradizione dell’Isola, e si avvia verso i drammi borghesi con incursioni nel grottesco anche di tono drammatico, e nell’umoristico, ad esempio: “Così è (se vi pare)” “Il berretto a sonagli” “L’uomo, la bestia e la virtù”. A quel punto, ed è questo il periodo sul quale si concentra il film di Andò, Pirandello dà un’ultima svolta, quella decisiva, al suo teatro col dirompente “Sei personaggi in cerca d’autore”, una fase poi definita di teatro nel teatro: ricordando che egli fu regista delle sue messe in scena, rendendosi conto che la rappresentazione non poteva essere soltanto parola ma anche spettacolo visivo, tornò di fatto al teatro shakespeariano con la tecnica del palcoscenico multiplo, ovvero spazi scenici diversi in cui gli attori agiscono contemporaneamente; inoltre viene mostrato il teatro come work in progress, lo diciamo oggi, il teatro che racconta se stesso.

La scena nella scena, il palcoscenico multiplo dei “Sei personaggi”
La quarta parete fa parte della sospensione dell’incredulità esistente tra l’opera di finzione e lo spettatore. Il pubblico di solito accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali.

E ancora, Pirandello rimuove l’immaginaria quarta parete, concettualmente codificata da Denis Diderot (metà ‘700) per far comprendere la necessità di una recitazione più realistica, dove l’azione scenica si completa nel suo spazio e nel suo tempo che prescinde da quello reale in cui è il pubblico; di fatto la quarta parete era un concetto già noto sin dai tempi dell’antica Roma, tanto che il commediografo Plauto (250 a.C.) fu fra i primi a romperla facendo comunicare gli attori direttamente col pubblico in un’azione dichiaratamente di finzione per entrambe le parti, con dialogo e interazione molto apprezzati dal pubblico popolare e che sarà connaturata nella Commedia dell’Arte dove con gli a parte i personaggi si rivolgono direttamente al pubblico per metterli in guardia su quanto sta per accadere o per sollecitarne personali simpatie. Dunque, dopo quasi tre secoli, Pirandello rompe di nuovo la quarta parete in un teatro ormai sterilmente imborghesito e lo fa a tutto tondo, facendo agire i suoi personaggi fra il pubblico in sala che, dato il contesto e la consuetudine, non poteva comprendere: Manicomio! manicomio!

Raccontano i biografi di Pirandello su Pirandelloeweb.net di come una volta dei muratori che lavoravano davanti alle finestre della casa dello scrittore, sospendessero il lavoro per contemplare, stupiti e affascinati, quanto avveniva nel suo studio: Pirandello si era messo “a parlare da solo, gesticolare, strabuzzando gli occhi, e facendo le più strane facce del mondo”. Quegli operai avranno pensato di aver sorpreso il drammaturgo, evidentemente pazzo, in un momento di delirio; In realtà egli era impegnato in uno dei suoi frequenti colloqui coi personaggi, di cui parla nella novella omonima che si può leggere o ascoltarne la lettura nel link dato. Scrisse la commedia fra l’ottobre del 1920 e il gennaio del 1921 avendo come fonte narrativa anche le altre sue novelle “Personaggi”, “La tragedia di un personaggio”.

Foto di gruppo della compagnia del 1921, al centro Dario Niccodemi seduto, alla sua sinistra sono riconoscibili Vera Vergani e Jone Frigerio.
Pirandello con Dario Niccodemi

Dario Niccodemi fu accortamente anche un impresario che produsse Pirandello, ma era principalmente un drammaturgo che scriveva commedie sentimentali e ironiche ambientate nell’alta società borghese, il cui successo di punta fu “La nemica”, opera che Lev Tolstoj disse di preferire ai lavori dello stesso Pirandello o ai romanzi di Giovanni Verga. Egli aveva appena costituito la sua compagnia nella quale era prima attrice Vera Vergani, sentimentalmente e direi opportunamente a lui legata, e prim’attore era Lugi Cimara che con la Vergani formò un’affiatata coppia scenica, e mai sapremo quanto affiatata fu anche in privato: chiacchiere di antichi corridoi; altro attore di punta era Luigi Almirante, forte carattere espressivo che ebbe un suo personale successo proprio con le opere pirandelliane a partire da questi “Sei personaggi” in cui interpretò il Padre, con Jone Frigerio nel ruolo della Madre, l’acclamatissima Vergani come Figliastra e Cimara come Figlio. Nonostante il contrastato esordio romano, l’impresario Niccodemi non si fece intimorire e portò lo spettacolo a Milano dove fu degnamente acclamato: in questo link la critica dalla rivista Comoedia dell’ottobre 1921. Più tardi, nel 1925, Pirandello aggiunse una prefazione nella quale spiegava la genesi e le intenzioni del dramma, per meglio disporre il pubblico alla comprensione.

Roberto Andò ci accompagna in un viaggio immersivo nel disorientamento di un Pirandello in lutto per la morte della vecchia balia, distrutto dalla follia della moglie e tormentato dai suoi fantasmi-personaggi che ancora non sa come portare in scena – e lo fa regalandosi e regalandoci una leggerezza narrativa che scivola su tutto il racconto drammatico come un balsamo lenitivo: si sorride, si ride anche, mentre si palpita e ci si emoziona per questo Pirandello così misteriosamente umano ed empatico.

Lo interpreta un Toni Servillo sempre in gran spolvero quando c’è da rendere dei personaggi realmente esistiti: è stato Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi e Ennio Doris per Paolo Sorrentino (“Il divo” e “Loro”), Giuseppe Mazzini e Eduardo Scarpetta per Mario Martone (“Noi credevamo” e “Qui rido io”), e Paolo VI in “Esterno notte” di Marco Bellocchio. Gli fanno da contraltare la coppia Ficarra e Picone, Salvatore Ficarra e Valentino Picone, che si esibiscono come cabarettisti a partire dal 1993; nel 2000 partecipano separatamente con piccoli ruoli in “Chiedimi se sono felice” film del trio Aldo Giovanni e Giacomo, e già dal 2002 avviano la loro personale sequenza di film di derivazione cabarettistica; in questo “La stranezza” sono per la prima volta protagonisti di una commedia, grottesca sì ma dai risvolti drammatici, in cui benché sempre facendo coppia sono altro e meglio del loro standard, già alto: il loro ultimo film pre-pandemia “Il primo natale” era in testa nella classifica del botteghino.

Il resto del nutrito cast è una felicissima carrellata di facce perfette, cinematograficamente parlando, facce che altrettanto felicemente corrispondono ad interpreti di razza, e si intuisce un minuzioso lavoro di casting. Renato Carpentieri interpreta il Giovanni Verga che Pirandello va ad omaggiare per i suoi ottant’anni, e al quale rivolge i suoi dubbi esistenziali e creativi. Aurora Quattrocchi è la vecchia balia, e la catanese Donatella Finocchiaro, già protagonista per Andò in “Viaggio segreto” del 2006, qui interpreta in una sola intensa scena muta la moglie pazza di Pirandello. A conclusione dei personaggi che ruotano attorno a Pirandello va senz’altro nominato il suo storico suggeritore Battaglia interpretato da Antonio Ribisi La Spina. Altro centratissimo interprete di una scena muta, perché muto è il personaggio, è l’ultima grande maschera del teatro catanese, Tuccio Musumeci, nel ruolo del suocero di Nofrio (Picone) sempre in mezzo sulla sua sedia a rotelle e con uno sguardo sempre preventivamente punitivo. Rosario Lisma è il corrotto impiegato comunale la cui vicenda è una storia nella storia.

In primo piano Antonio Ribisi La Spina
Cartolina ricordo della compagnia filodrammatica

Fra gli attori amatoriali della “Compagnia Filodrammatica Siciliana Principato e Vella” spiccano la puntuta Marta Lìmoli, del cui personaggio non sappiamo le vicende ma che potrebbe essere una sartina come una bidella come la moglie del farmacista, e il bonaccione Franz Cantalupo anche becchino per la coppia dei capocomici impresari funebri: entrambi attori provenienti dalla scuola catanese che benissimo hanno saputo mimetizzarsi, anche linguisticamente, in un cast girgentino-palermitano: è cosa nota che siciliani dell’est e dell’ovest hanno cadenze e musicalità diverse e che non sempre sono in grado di fingersi gli uni per gli altri. Nella compagnia amatoriale spicca anche Brando Improta che è Fofò, il torvo trovarobe innamorato di Santina, la sorella del gelosissimo Bastiano (Ficarra) che però finirà col fare coppia col di lui amico Nofrio che per lei lascerà la famiglia e romperà la storica amicizia col collega d’impresa funebre e d’arte. Santina è interpretata da Giulia Andò, figlia del regista e col quale ha praticamente solo lavorato, e forse meriterebbe di spiccare il volo dal nido. Visibilmente appesantita ma per questo efficacissima nel ruolo della prostituta che allieta i momenti intimi di Bastiano, è Tiziana Lodato, un’altra catanese che fu protagonista ventenne al suo debutto in “L’uomo delle stelle” di Giuseppe Tornatore. Completano il cast dei filodrammatici Laura Giordani, già vista in “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, Aldo Failla protagonista di una divertente gag, Adele Tirante e Alberto Molonia.


Adele Tirante, Laura Giordani, Franz Cantalupo e Aldo Failla nella compagnia amatoriale

Nella catartica messa in scena dei “Sei personaggi” Filippo Luna è il direttore di scena, Luigi Lo Cascio il capocomico, Fausto Russo Alesi il Padre, Galatea Ranzi la Madre, Giordana Faggiano la Figliastra e Paolo Briguglia il Figlio, in una inappuntabile e coinvolgente ricostruzione storica di quell’evento, col pubblico che venne alle mani e Pirandello che dovette fuggire insieme alla figlia. I due teatranti amatoriali venuti dalla Sicilia ad assistere allo spettacolo rimangono chiusi nel teatro vuoto e non sapremo che ne sarà di loro perché non importa: sono ulteriori fantasmi che hanno animato la stranezza creativa di Luigi Pirandello in un’invenzione narrativa che veicola un momento biografico e storico. Nel complesso un film di cui sentiremo ancora parlare, con diversi piani di lettura e di un autore in stato di grazia che, va detto, l’ha scritto con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso. Premi in arrivo per tutti.

Il cast del ricostruito Teatro Valle

Il Dottor Zivago

La Russia è di nuovo nelle prime pagine di tutto il mondo con il colpo di coda delle mai sopite e anacronistiche velleità imperiali del suo ennesimo oligarca. Parlando qui di cinema mi viene spontaneo tornare a vedere il cinema internazionale derivato dalla letteratura russa, che esprime una creatività sempre fuori dagli schemi che le si vogliono imporre in patria, perché si sa che nei Paesi in cui impera la censura – la creatività è sempre all’avanguardia perché deve trovare vie alternative alla propria espressione.

IL LIBRO

È del 1965 questo glorioso film di 3 ore e mezza, uno di quelli che una volta si dicevano film di grande respiro per dire in positivo una durata che toglie il respiro. Il romanzo omonimo, altrettanto corposo, è l’unico romanzo di Boris Pasternak, un intellettuale moscovita nato alla fine dell’Ottocento da madre pianista e padre pittore che fu anche illustratore dei libri di Lev Tolstoj, il quale frequentava la casa dei Pasternak, ebrei laici; Boris apparteneva dunque a quella classe sociale, l’alta borghesia che viaggiava in Europa e in casa parlava il francese tanto di moda, con la sotterranea aspirazione a sentirsi europei; alta borghesia che è al centro di questo suo romanzo, autobiografico nell’ispirazione; una classe sociale che, come lui nella vita, nel suo romanzo fa i conti con le rivoluzioni sociali che scuotono la Russia dell’epoca.

Il giovane Boris è dapprima convinto di diventare musicista, come la madre, ma poi scopre la poesia e vi si dedica pubblicando nel 1914, a 24 anni, il primo volume di versi, anche quello in linea con il gusto dell’epoca: astrattismo e futurismo. Mette mano al romanzo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e va ricordato che la Russia dell’epoca è considerata la principale nazione artefice della sconfitta del nazismo tedesco e come tale gode di un prestigio mai goduto prima, e che sperpererà dopo; il suo esercito, l’Armata Rossa, era al momento il più potente in campo e il comandante in capo, ovvero Segretario Generale del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) era Iosif Vissarionovič Džugašvili, noto a tutti come Josif Stalin, con un nomignolo che significa uomo d’acciaio, soprannome che si era guadagnato sul campo.

Boris Pasternak

Il romanzo, 800 pagine dattiloscritte completate nel 1955, raccontando senza censure i lati oscuri della storia russa e delle sue rivoluzioni, viene rifiutato dall’Unione degli Scrittori Sovietici creata dal Partito Comunista per meglio controllare la creatività degli autori, dato che la dirigenza considerava la letteratura, e tutte le arti in genere, armi potenti che potevano funzionare sia a favore che contro il sistema; un’Unione che si è retta per quasi sessant’anni, impiegando da un lato proposte allettanti per cooptare gli scrittori e dall’altra mettendo in atto punizioni e censure per disciplinare i trasgressori, o presunti tali.

Feltrinelli alla presentazione del libro

Dunque “Il dottor Živago” non venne pubblicato in patria e anzi Boris Pasternak fu oggetto di indagini e persecuzioni che lo costrinsero nell’isolamento sociale, nonché alla povertà, fino alla sua morte. L’autore, però, aveva clandestinamente inviato alcune copie del suo manoscritto ad amici all’estero. Sono tante, avventurose e fantasiose, le storie che si raccontano intorno a questa fuga all’estero del manoscritto, e un importante ruolo lo ebbe il giornalista Sergio D’Angelo, consulente editoriale del PCI inviato a Mosca per la gestione della redazione dei servizi italiani della radio sovietica; in breve, poiché privatamente incaricato dall’editore Giangiacomo Feltrinelli nella ricerca di nuovi autori russi, D’Angelo incontrò Pasternak che gli consegnò il suo manoscritto dicendogli: “Con il presente sei invitato a guardarmi mentre affronto il plotone di esecuzione”, consapevole che era il primo autore russo in oltre trent’anni a tentare un approccio con l’Occidente. Il passamano fra il giornalista e l’editore avvenne a Berlino e da lì Feltrinelli portò il testo in Italia consegnandolo a Pietro Zveteremich, un critico e traduttore italiano di origini russe impegnato di suo nella divulgazione degli scritti russi che il regime sovietico censurava; che dopo averlo tradotto lo riportò a Feltrinelli con queste parole: “È un capolavoro e sarebbe un delitto non pubblicarlo”.

Feltrinelli, che da comunista puro e duro nonché neo editore era in cerca di testi sovietici che esaltassero, anche criticamente, il comunismo, ebbe la lucidità imprenditoriale di capire che quel testo che demoliva totalmente il sistema sovietico poteva essere un clamoroso successo, e non se lo fece scappare. La pubblicazione nel 1957 provocò un caso diplomatico con l’Unione Sovietica che mise in campo, oltre al Partito Sovietico ai massimi livelli, nientemeno che il KGB, riuscendo a rallentare per mesi l’uscita italiana in prima mondiale con la scusa di volere uscire in contemporanea con una fantomatica edizione russa. Anche il Partito Comunista Italiano fece pressioni all’editore perché non pubblicasse il libro, Ma Giangi Feltrinelli era un combattente e non si fece intimorire, anzi. La prima edizione, italiana e mondiale, fece storia e da lì in poi Živago o Zhivago o Schiwago o Jivago diverrà un successo planetario.

Pasternak posa fra amici, secondo da sinistra; il terzo è Sergei Eisenstein, l’autore di “La corazzata Potemkin”; al centro giganteggia Vladimir Majakovskij, poeta drammaturgo e attore

Nel 1958 il romanzo valse all’autore il Premio Nobel per la letteratura, assegnazione che scatenò un ulteriore putiferio perché da regolamento il Nobel può essere assegnato solo ad autori che hanno pubblicato la loro opera in lingua originale nel loro Paese, cosa che per Pasternak e il suo Živago non era avvenuta; si misero in moto i servizi segreti occidentali, CIA e intelligence britannica, che a pochi giorni dall’assegnazione del premio riuscirono a intercettare un manoscritto in lingua russa a bordo di un aereo in volo dalla Russia a Malta, probabilmente spedito da Pasternak, ma siamo nell’ambito della speculazione pura; l’aereo fu dirottato e il manoscritto fu microfilmato, ovvero fotografato pagina per pagina e precipitosamente pubblicato su una carta con intestazione russa e con le tecniche tipografiche tipiche delle edizioni russe, al fine di conformarsi alle regole per il conferimento del premio Nobel. Una storia che di per sé varrebbe un altro film. Al conferimento del premio, Pasternak inviò un telegramma a Stoccolma per esprimere una gratitudine piena di incredulità, ma il KGB minacciò l’autore di espulsione e confisca di tutti i suoi rimanenti beni qualora fosse andato a ritirarlo, e Pasternak riscrive all’Accademia Svedese che è costretto a rinunciare a causa dell’ostilità del suo Paese, rinunciando anche al sostanzioso e quanto mai utile premio di denaro. Morirà in miseria due anni dopo. Solo nel 1988, durante il governo di Gorbaciov, il romanzo venne pubblicato in Russia e suo figlio Evghenij poté accettare il Premio Nobel in suo nome. Dal 2003, era Putin, “Il Dottor Zivago” è inserito fra le principali letture scolastiche russe.

Pasternak con la prima moglie Evgeniya Lurye e il loro figlio Evgenij

Benché il valore dei romanzo sia notevole, tuttavia lo stesso Pasternak espresse qualche dubbio: “Non ho scritto al mio meglio” ammise in una lettera, suggerendo che l’urgenza del messaggio aveva qua e là avuto il sopravvento sullo stile e sulla coerenza delle forma. Il russo naturalizzato statunitense Vladimir Nabokov, che pochi anni prima aveva pubblicato un altro controverso successo planetario, “Lolita”, lo stroncò dichiarandolo “una cosa modesta, pasticciato trito e melodrammatico”, ma il suo era un giudizio di parte perché notoriamente Nabokov apprezzava essenzialmente solo sé stesso, per non dire che Živago, oltretutto, stava anche scacciando la sua “Lolita” dalla prima posizione dei bestseller. Il critico Edmund Wilson, che per questo ruppe con l’amico Nabokov, ebbe un giudizio più lucido: “Živago rimarrà, credo, uno dei grandi eventi nella storia letteraria e morale dell’umanità. Per scriverlo in uno Stato totalitario e offrirlo al mondo occorreva davvero la statura del genio”.

Sul fronte italiano resta solo da ricordare che Giangiacomo Feltrinelli, giovane editore di successo che nel 1958 pubblicherà anche l’opera postuma di Giuseppe Tomasi di Lampedusa “Il Gattopardo”, oltre ad aver fondato nel 1954 la sua casa editrice ancora oggi in vita, essendo un attivista di sinistra già in campo nella resistenza antifascista, si dette all’attività clandestina e nel 1970 fondò anche i GAP, Gruppi d’Azione Partigiana, che si imposero fra i primi gruppi armati di sinistra durante gli anni di piombo, ed ebbe contatti personali coi fondatori delle Brigate Rosse. Il suo cadavere fu trovato una mattina del 1972 ai piedi di un traliccio dell’alta tensione presso Segrate, morto fulminato, pare, mentre tentava di far saltare il traliccio, ma le cose sono sicuramente più complicate e sull’accaduto non fu mai fatta luce completa.

IL FILM

Dato il successo del romanzo la produzione di un film apparve subito ovvia, e in seguito allo scoop letterario tutto italiano, il produttore Carlo Ponti scese in campo pensando ovviamente alla sua Sophia Loren come Lara. Sul fronte anglofono si era attivato David Lean, che dopo l’enorme successo di “Lawrence d’Arabia” era giustamente considerato uno dei migliori registi del momento, e fu messa in piedi una coproduzione Metro-Goldwin-Mayer e Carlo Ponti Production, per la quale il regista dovette convincere Ponti che la Loren non era adatta perché troppo alta, e soprattutto perché coi suoi 33 anni era anche troppo matura per impersonare la vergine 17enne a inizio del film; il regista confidò poi in privato al suo sceneggiatore Robert Bolt che la diva italiana non era credibile perché troppo mediterranea formosa e sensuale. Un paio d’anni dopo Carlo Ponti riuscì a formare l’agognata coppia Loren-Sharif producendo il favolistico “C’era una volta”, e mal gliene incolse perché si chiacchierò di una liaison fra i due protagonisti. Robert Bolt a sua volta, quando Lean gli chiese cosa ne pensasse della loro conterranea inglese, l’astro nascente Sarah Miles come Lara, ebbe parole di fuoco dicendo che non era altro che una puttanella del nord, salvo poi sposarsela un paio d’anni dopo: evidentemente c’era un rugginoso trascorso tra i due. David Lean dirigerà la Miles come protagonista in “La figlia di Ryan”, 1970. Al ruolo di Lara era interessata l’americana dal nome francese Yvette Mimieux ma non fu neanche presa in considerazione; considerazione che però andò alla francese Jeanne Moreau, ma non se ne fece niente; il ruolo fu anche proposto a Jane Fonda che rifiutò perché non voleva andare in Spagna per nove mesi, salvo poi pentirsi del rifiuto quando alla fine fu scritturata la bionda diafana 25enne Julie Christie.

Per il ruolo dell’altra coprotagonista, Tonja, ci voleva dunque un’attrice bruna ma la prima scelta Audrey Hepburn rifiutò il ruolo che alla fine andò alla figlia e nipote d’arte Geraldine Chaplin (il padre di sua madre Oona era il drammaturgo Eugene O’Neill) che col suo provino impressionò davvero il regista; Geraldine, che per la sua interpretazione prese a modello sua madre, con il successo che le derivò da questo film decise definitivamente di abbandonare il suo primo amore, la danza, per il cinema; aveva debuttato 12enne con il padre in un piccolo ruolo in “Luci della ribalta” e da quel film sul mondo del circo successivamente fece anche la clown nel circo Medrano a Parigi. Questo fu per lei il primo film in lingua inglese dopo averne girati due in francese.

Per la parte del protagonista la prima scelta del regista fu ovviamente Peter O’Toole, che declinò l’offerta a causa dell’estenuante lavoro cui l’aveva sottoposto il regista durante la lavorazione di “Lawrence d’Arabia”, e questo causò una rottura fra i due che non si ricompose più. Mentre Omar Sharif che in quel film era stato il braccio destro di Lawrence, avendo letto il romanzo si era proposto per il ruolo di Pasha, il rivoluzionario marito di Lara. Per quel ruolo lo sceneggiatore Robert Bolt caldeggiava però la presenza di Albert Finney, al quale scrisse anche una lettera molto affettuosa per chiedergli di accettare il ruolo; ma ci fu la censura del regista che non aveva mandato giù il rifiuto dell’attore per Lawrence d’Arabia. Così l’appetibile ruolo del rivoluzionario, prima integralmente puro poi crudelmente feroce, andò all’esponente del free cinema inglese Tom Courtney. Come Jurij Živago furono considerati anche il divo Paul Newman e lo svedese Max Von Sydow star in ascesa dopo essere stato Gesù in “La più grande storia mai raccontata”, oltre a Burt Lancaster e Dirk Bogarde; Michael Caine, che non ha mai girato un film con David Lean, racconta nella sua autobiografia che di avere girato delle scene di prova come Živago ma che dopo aver visto il materiale girato si defilò suggerendo al regista di scritturare Omar Sharif, il quale rimase non poco sorpreso quando alla fine gli fu offerto il ruolo di protagonista assoluto al quale non credeva di potere ambire, e per il quale vinse il Golden Globe.

Rod Steiger

Il ruolo dell’ambiguo Viktor Komarovskij fu offerto prima a Marlon Brando, a cui Lean aveva già offerto il ruolo di Lawrence d’Arabia che il divo aveva rifiutato scherzando che non voleva andare ad arrostirsi nel deserto; Marlon Brando era talmente divo che neanche rispose alle lettere d’invito per quest’altro ruolo, di supporto peraltro: stiamo scherzando? Ruolo che a seguire fu offerto a James Mason, il quale prima accettò ma poi ci ripensò quando capì che l’impegno lo avrebbe bloccato per mesi, e alla fine la parte andò a Rod Steiger, il quale in seguito dichiarò che essendo praticamente l’unico americano fra tanti grandi interpreti inglesi, si era soltanto augurato di essere all’altezza. Alec Guinness è qui al suo quinto film con David Lean, e si può dire che fossero amici, ma in quell’occasione litigarono spesso sul set, il regista dicendo all’attore che era pessimo e l’attore dicendo al regista che si era montato la testa dopo “Lawrence d’Arabia”; Guinness interpreta il fratellastro del protagonista che è anche voce narrante della storia che viene raccontata alla figlia perduta di Lara e Jurij, Tonja, ruolo che andò a un’altra esponente del free cinema inglese, Rita Tushingham. Completano il cast Ralph Richardson e Siobhán McKenna come zii nonché genitori adottivi di Jurij e veri genitori della di lui cugina-moglie Tonja. In un piccolo ma significativo ruolo di rivoluzionario deportato il già irruento polacco Klaus Kinski. All’inizio del film il piccolo Jurij Živago è interpretato da un somigliantissimo bambino che altri non è che il figlio di Omar, Tarek Sharif, a cui il padre volle dedicarsi come coach di recitazione anche per avvicinarsi egli stesso, attraverso il suo personaggio da bambino, all’esplorazione della natura di Živago.

Padre e figlio addormentati sul set dopo avere studiato il copione

David Lean, dopo l’avventuroso “Lawrence d’Arabia” pieno di scene di azione, per non lasciarsi imprigionare in quello stile volle che il film avesse scene molto intime e romantiche, col risultato che il film risulta oggi datato, proprio perché troppo melodrammatico; anche appesantito, per il gusto odierno, da quella voce fuori campo che racconta e sintetizza una storia davvero troppo ampia e complessa. Difatti la critica notò l’eccessivo tono romantico spalmato sui tragici eventi delle rivoluzioni, al plurale, perché si passa dalla prima rivoluzione del 1917 che sovvertì l’impero e impose la repubblica socialista, alla guerra civile che portò alla formazione dell’Unione Sovietica. Questi fatti, benché fondamentali nel racconto, nel film costruito da Lean restano sullo sfondo, riducendosi a brevi quadretti, a volte così semplificati da apparire quasi ridicoli; di fatto a una rivoluzione si contrappose una contro-rivoluzione, rossi che combattono i bianchi senza poter davvero capire, noi spettatori, le dinamiche e le istanze, anche per la mancanza di riferimenti precisi come date e periodi: se ne deduce soltanto, e il ragionamento vale anche per l’attualità, che un popolo che passa da una rivoluzione a un’altra non è un popolo sereno perché sempre mal governato dai suoi oligarchi tutti sempre troppo auto referenziali. Il film è stato proiettato in Russia solo nel 1994.

Le curiosità sul film. Il regista disse a Sharif: “Ti chiedo di fare qualcosa di estremamente difficile per un attore: voglio che tu non faccia nulla. Nessuna emozione, nessuna reazione“. Di fatto l’interpretazione, senza sbavature, è molto intensa quanto contenuta. L’attore confessò in seguito di essere stato molte volte lì lì per crollare a causa dello stress che gli procuravano l’altro profilo del personaggio e le incessanti sollecitazioni del regista. Inoltre dovette sottoporsi a delle torture estetiche per mascherare il suo aspetto troppo egiziano o comunque mediterraneo dato che la famiglia era di origini libanesi; i capelli ricci gli venivano stirati e ogni tre giorni circa veniva rasato di diversi centimetri all’attaccatura per rendergli la fronte più ampia, prima di fargli indossare una parrucca rossiccia.

Dato che non si poteva girare in Russia, il regista scelse di girare negli ampi spazi spagnoli, augurandosi di avere uno di quegli inverni freddi e nevosi come capitano su quegli altipiani, ma quell’anno si ebbe un inverno estremamente caldo e si dovette rimediare con la finta neve fatta di polvere di marmo.

Inoltre, la Spagna era sotto il regime fascista del generale Francisco Franco, così mentre si girava la scena in cui la folla marcia cantando l’inno marxista, intervenne la polizia credendo che si trattasse di una vera rivoluzione. Parzialmente rassicurati che si stava girando un film, i poliziotti restarono a controllare la folla durante le riprese e molti figuranti, intimoriti da eventuali rappresaglie, finsero di non conoscere le parole mentre in realtà erano state fatte molte prove. D’altro canto, i residenti delle vicinanze che nulla sapevano del set, sentendo in lontananza il canto comunista pensarono che Franco fosse stato deposto o fosse morto, e molti stapparono bottiglie di champagne.

Immediatamente le critiche al film furono molto negative; fra l’altro definirono il Tema di Lara sciropposo, e definirono pallida la fotografia di Freddie Young che però, come la musica, vinse l’Oscar; ma soprattutto dissero che il film era troppo inglese, oltre a essere un ammasso di asinità; David Lean restò così scioccato da decidere che non avrebbe mai più diretto un film. Nei fatti il pervasivo marketing e il convincente passaparola del pubblico decretarono l’enorme successo al botteghino, che però non raggiunse le vette di “Lawrence d’Arabia” nonostante il regista, in seguito, favoleggiasse il contrario.

Durante le prime tre settimane di proiezioni le sale erano talmente vuote che il regista commentò con amarezza che vi si potevano anche scagliare pietre senza colpire nessuno. Solo il passaparola, appunto, e il successo commerciale della musica, portarono il pubblico nelle sale.

Per la musica, David Lean aveva sentito un brano russo che riteneva perfetto ma dati i problemi politici era certo che non se ne sarebbe potuto procurare i diritti, così si rivolse di nuovo al compositore Maurice Jarre che per il precedente successo gli aveva già confezionato una musica da Oscar; ma stavolta le composizioni che Jarre gli sottoponeva non lo convincevano, perché aveva sempre in mente il brano russo, così suggerì al musicista di andarsi a rintanare in un casolare in montagna con la sua ragazza a fare l’amore per un intero fine settimana, e il musicista obbedì, tornando con il famoso Tema di Lara. Potenza dell’amore.

Per dire quanto ottusi possano alle volte essere i produttori: quando il regista chiese di avere di nuovo Maurice Jarre come compositore, gli risposero che Jarre era andato bene per le musiche da deserto mentre ora ci voleva uno per musiche da neve.

Sempre sull’ottusità dei produttori: la Metro-Goldwyn-Mayer aveva proposto Paul Newman come protagonista non perché fosse adatto al ruolo ma perché aveva interpretato il vincitore di un Nobel nella commedia “Intrigo a Stoccolma”; alla domanda del regista “E allora?” la risposta fu che dato che anche Pasternak aveva vinto il Nobel…

Nella scena in cui Lara schiaffeggia Viktor Komarovskij non era previsto che lui le restituisse lo schiaffo e l’improvvisazione di Rod Steiger lasciò di stucco Julie Christie ed entusiasmò il regista.

La carica dei partigiani sul lago ghiacciato, una delle pochissime scene d’azione ben riuscite che però scarseggiano per la scelta romantica del regista, è stata girata a 30 grandi sotto zero, ma mettendo una lastra di spessa ghisa sotto il finto ghiaccio per creare il letto del fiume ghiacciato.

I costumi di Phyllis Dalton premiata con l’Oscar fecero tendenza e stilisti come Christian Dior e Yves St. Laurent crearono le loro collezioni in quello stile riportando in auge finiture in pelliccia, ricami di seta e stivali. Per gli uomini tornarono di moda barba e baffi, giusto in tempo per la rivoluzione sessantottina.

Già nel 1958, subito dopo il Nobel e la fortunosa pubblicazione del romanzo in occidente, Kirk Douglas e Stanley Kubrick si erano messi in contatto con Boris Pasternak per acquisire il diritti cinematografici del romanzo, che però come sappiamo si aggiudicò Carlo Ponti.

La storia raccontata nel romanzo è talmente ampia che può trovare una vera narrazione filmica in una miniserie tv come quella realizzata nel 2002, la cui regia è andata all’italiano Giacomo Campiotti, in quegli anni sulla cresta dell’onda nella cinematografia internazionale. Nel cast Keira Knightley e Sam Neill come Lara e Komarovskij mentre il ruolo del protagonista è stato affidato all’attore-cantante Hans Matheson. La serie è andata in onda su Canale5 e oggi è di nuovo visibile su Iris, altro canale Mediaset. Ottimo prodotto da non confrontare col film originale.

Il film in Italia incassò più di “La Bibbia” di John Huston e di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone. Negli USA si piazzò secondo dopo il musical “Tutti insieme appassionatamente” di Robert Wise. A tutt’oggi, fatti i dovuti aggiustamenti con l’inflazione, si piazza all’ottavo posto fra i maggiori incassi di tutti i tempi. Vinse in totale 5 Golden Globe e 5 Oscar tecnici fra cui quello alla miglior colonna sonora di Maurice Jarre, che già aveva vinto con “Lawrence d’Arabia”; il Tema di Lara col suo cantabile entrava nella testa, e davvero per anni si è sentito nelle radio, ma era anche un’epoca in cui le canzoni restavano mesi e mesi in quelle che allora si chiamavano hit-parade; una musica di tale successo che fu anche usata come base per testi, sia in inglese che in italiano e francese, oltre alle varie versioni di musicisti e performers più o meno famosi.