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L’immensità

Erano anni che aspettavo un film di Emanuele Crialese che già mi aveva rapito e incantato col suo debutto cinematografico “Respiro” dell’ormai lontano 2002 e di cui avevo visto i suoi altri due film: “Nuovomondo” del 2006 e poi “Terraferma” del 2011, e poi più nulla, nonostante con soli tre film si fosse imposto sulle platee internazionali, ricevuto premi e riconoscimenti, e fatto amare dal non facile e ondivago pubblico italiano. Con “Respiro” aveva in particolar modo conquistato la Francia dove a Cannes aveva vinto il Grand Prix e lo speciale Prix de la Jeune Critique, e poi il Nastro d’Argento alla protagonista Valeria Golino, il David di Donatello al produttore Domenico Procacci e altro ancora. Con “Nuovomondo” ha vinto a Venezia il Leone d’Argento – Rivelazione inventato per lui da quella giuria presieduta da Catherine Deneuve e mai più riproposto in seguito; a seguire non si contano altri premi fino alla candidatura a rappresentare l’Italia agli Oscar. Con “Terraferma” si riconferma a Venezia con il Leone d’Argento ufficiale con standing ovation. Nel 2014 l’autore è stato insignito del Premio Nazionale Cultura della Pace “per aver mostrato attraverso le sue opere, i suoi film e i suoi racconti un’umanità in viaggio alla ricerca di un luogo di vita dignitoso dove poter esprimere il proprio desiderio di appartenenza al consesso umano ed il proprio progetto vitale. Mostra un’umanità attenta ad affermare con forza il proprio essere nel mondo, a manifestare con semplicità e chiarezza la cittadinanza mondiale di ogni uomo, al di là di confini e frontiere artificiosamente costruiti. La dignità non ha carta d’identità o passaporto che possa negare il diritto di ognuno all’esistenza.” E da allora il silenzio.

La sua cinematografia in vent’anni conta solo quattro film più uno, e con quest’ultimo “L’immensità” ne possiamo parlare come di un corpo unico che, benché proiettato su diverse realtà, ha nella sua intima natura la sicilianità. Il più uno cui mi riferisco è in realtà l’opera prima di Crialese, il vero debutto con un lungometraggio del 1997, un film girato in America dove il ragazzo, dopo aver frequentato la Libera Università del Cinema di Roma, città dove era nato da genitori siciliani, va a laurearsi anche presso la New York University, prestigiosissimo istituto privato per ricchi rampolli. Grazie ai soldi di un’eredità e col supporto economico di alcuni amici entrati nella produzione, realizza quel suo primo film, distribuito anche in Italia ma che pochi possono dire di aver visto, e io non sono fra quelli, film oggi disponibile on demand; un film che per il già 32enne Crialese è ovviamente di formazione, sia artistica che umana, che racconta il suo personale punto di vista, punto di vista già frequentatissimo e affollatissimo, sugli immigrati che nella Grande Mela cercano affermazione e identità, o l’affermazione della propria identità. E’ anche l’inizio della sua amicizia e collaborazione artistica con l’altro siculo-newyorkese Vincenzo Amato che diverrà il suo attore feticcio innestato in tutti i suoi film, con l’eccezione di “Terraferma” dove gli obblighi produttivi gli hanno imposto la star televisiva Beppe Fiorello.

Quella sua opera prima americana pare che sia il compito bene eseguito di un regista in cerca di identità, ma che percorre la via del sentimentalismo giovanilistico con moti eversivi che però non graffiano, restando sul già visto, ponendo in campo però quei caratteri che benissimo metterà a fuoco successivamente: i personaggi che non vogliono lasciarsi ingabbiare nelle convenzioni sociali e che preferiscono bruciare nelle loro passioni, a cominciare dalla protagonista di “Respiro”, moglie e madre che mette a soqquadro l’intera isola di Lampedusa per dare forma a un malessere che non ha nome né ragione: che a chiamarla depressione è quanto mai riduttivo, trattandosi della ribellione creativa di una donna che non si riconosce nell’unica realtà in cui lei esiste, un mondo che gli uomini hanno immaginato al maschile, a loro immagine e somiglianza, e tutto quello che devia da quell’ordine costituito diventa incomprensibile. Per un ulteriore sguardo su questo tema rimando al mio articolo sul linguaggio inclusivo.

Benché romano di nascita Emanuele Crialese resta intimamente innestato sulle sue radici siciliane. Dopo Lampedusa, dove l’autore aveva vissuto per alcuni mesi di certo con l’intento di trovarvi ispirazione, si sposta cinematograficamente nella Sicilia interna, montuosa, quella rurale d’inizio secolo 1900, a Petralia Sottana in provincia di Palermo, uno dei tanti piccoli comuni da cui i contadini fuggirono in cerca di fortuna nel “Nuovomondo”; figura cardine è il personaggio di Vincenzo Amato ma per la coproduzione con la Francia entra nella storia Charlotte Gainsbourg come gentildonna inglese che fugge in America, raccontata da Crialese come simbolo dell’emancipazione femminile. L’emigrazione dei siciliani oltre oceano viene messa a confronto con l’immigrazione degli africani verso il nostro vecchio mondo in “Terraferma” che ispirandosi a “I Malavoglia” di Giovanni Verga racconta di una famiglia di pescatori siciliani di Linosa (mai nominata nel film), isola prossima alla più nota e drammaticamente frequentata Lampedusa e che insieme costituiscono un comune in provincia di Agrigento.

Dopo undici anni ecco il nuovo film che, non specificamente dichiarato, è un’autobiografia attraverso la quale Crialese parla della sua transizione di genere. A Venezia, dove il film era candidato al Leone d’Oro e al Queer Lion, detto volgarmente leone gay, una sezione creata nel 2007 che assegna il premio al “Miglior film con tematiche omosessuali & Queer Culture”; l’oro è andato al documentario americano “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitras e il queer al tedesco “Aus meiner Haut” di Alex Schaad. Della transizione di genere di Crialese si mormorava già dai suoi esordi ma è sempre rimasto opportunamente e giustamente un fatto privato sul quale, solo in occasione del film, in un’intervista l’autore ha specificato che non essendo un personaggio pubblico o una rock star non aveva senso parlare della sua vita privata. Chiuso argomento.

Quello che c’è da dire è tutto nel film, delicato emozionante e imperfetto. Gli nuoce, a mio avviso, la solita necessità produttiva di avere nel cast un nome di garanzia, in questo caso la sempre eccellente Penelope Cruz nel ruolo della madre, ruolo per il quale l’attrice ringrazia, e che costringe l’autore su equilibrismi narrativi che, benché assai ben risolti, tolgono però forza alla sua ispirazione primaria, in questo caso i tormenti di una dodicenne che già sa di essere un ragazzo nato per sbaglio in un corpo femminile e che si sottopone a innocenti rituali empirici, come tentare di mettersi in contatto con gli alieni dai quali crede di provenire o cercare un miracolo divino, per tentare di risolvere il suo dilemma esistenziale. Sono gli anni ’70 e la famiglia siciliana alto borghese che si trasferisce nella periferia romana è quella tipica di quegli anni, che ruota attorno a uno di quei capi famiglia più autoritari che autorevoli che verranno messi in discussione dalle nascenti rivoluzioni sociali di cui però nel film non c’è colpevole sentore né lontana eco. Sarà che la vita della famiglia si svolge tutta all’interno delle due anime in cerca della loro identità, madre e figli*, che trovano una più facile via di fuga nei lustrini in bianco e nero e nelle note accattivanti e melodiche dei programmi tivù del sabato sera. La sicilianità, poi, s’innesta giocoforza dello spagnolo che la Cruz porta con sé, aggiungendo al film sfumature non immediatamente necessarie.

Quello che avrebbe potuto essere a tutto tondo l’emozionante racconto di un ragazzo alla scoperta della sua identità e della sua sessualità, ancorché intrappolato in un corpo che non riconosce come suo, diventa il contraltare di un racconto parallelo che già avevamo visto e amato in “Respiro”, quello di una donna che esprime con una fantasia eversiva il suo male di esistere in un ruolo socio-familiare che non riconosce come suo. I due ruoli si sostengono e compenetrano a vicenda senza però riuscire a farsi complementari in un racconto uniforme; questo nonostante l’invenzione, fantasticheria del giovane protagonista, che fa di sua madre una stella pop di quel piccolo schermo in bianco e nero, prima Raffaella Carrà e poi Patty Pravo, e il film diventa a tratti anche musical, moltiplicando ispirazioni e stili, giungendo a un finale dove il lieto fine è più onirico che reale e il protagonista si esibisce finalmente in smoking cantando con la voce di Johnny Dorelli davanti alla platea di Canzonissima. Si sente che via via che è stato scritto e riscritto e adattato alle varie esigenze produttive, il film ha perso la freschezza e l’urgenza del racconto primario che ormai affiora a tratti, convincente nell’esecuzione ma meno convinto in fase di scrittura, con passaggi di un’autobiografia romanzata che rimangono oscuri perché se ne sono persi i riferimenti: l’incendio del salotto di cui la madre viene incolpata, e per il quale viene mandata a rieducarsi in una casa di cura, come e perché è realmente accaduto? e poi, l’avventuroso perdersi del gruppo dei ragazzini nei meandri del vecchio bunker militare sotterraneo, com’è che si conclude senza una vera morale della favola? Sono passaggi che nel minutaggio del copione devono aver ceduto il passo ad altre urgenze e non mi stupirei se fra qualche anno il film venisse sviluppato in una miniserie televisiva come è già accaduto per “A casa tutti bene” di Gabriele Muccino.

L’anno scorso ha trionfato a Venezia un’altra biografia d’autore, “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino che si è portato a casa il Leone d’Argento e ha veicolato il Premio Marcello Mastroianni al miglior esordiente Filippo Scotti. Ritengo che se Crialese fosse stato più libero nella composizione del suo film avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati ed è un peccato che l’esordiente Luana Giuliani non abbia avuto nessun riconoscimento. E va dato merito all’autore che ha sempre saputo scegliere con grandissima cura i giovani interpreti sempre presenti nei suoi film. Per questo delicatissimo ruolo ha indirizzato la sua ricerca verso ragazze che praticassero sport maschili, che in qualche modo avessero accantonato i vezzi tipici di quell’età per affrontare rudi prove fisiche, e la prescelta è stata questa piccola campionessa di minimoto, che già ben quattro anni fa, per un terzo della sua vita, ha incontrato Crialese e cominciato l’addestramento alla recitazione e al cinema, dovendo abbandonare lo sport per non mettere a rischio l’integrità fisica; e, racconta Luana, essendo in un’età di precoce crescita e cambiamento, le riprese sono state concentrate il più possibile in un breve periodo.

Francesco Casisa con Valeria Golino e Vincenzo Amato in “Respiro”

Anche gli altri bambini del film sono degli esordienti e fra tutti spicca il fratello minore, interpretato da un più che convincente Patrizio Francioni nel ruolo del figlio di mezzo, quello che più interiorizza e meno esprime, salvo poi liberare le sue frustrazioni in modo scatologico; un bambino che molto ricorda, per intensità espressiva, un altro bambino che vent’anni fa debuttava in “Respiro” e che oggi Wikipedia classifica come attore e criminale italiano: Francesco Casisa, palermitano del quartiene Zen, è coprotagonista accanto a Golino e Amato, e poi di nuovo con Crialese come figlio maggiore dell’emigrante in “Nuovomondo”; nonostante si fosse ben avviato alla carriera di attore anche con partecipazioni in tv, fra il primo e il secondo film ha messo a segno una denuncia per rapina, e poi è finito in ospedale per un grave incidente col motorino dopo aver fatto il parcheggiatore abusivo fuori da una discoteca: in coma per tre giorni ha perso tutti gli incisivi e i canini e Valeria Golino con Maria Grazia Cucinotta gli hanno pagato la ricostruzione dentistica; negli anni a seguire viene arrestato per il possesso di mezzo chilo di hashish e alcuni grammi di cocaina e poi di nuovo condannato sempre per traffico di stupefacenti si rende latitante andando a vivere a Parigi; successivamente gli viene revocata la condanna di custodia cautelare e può rientrare in Italia ma non in Sicilia; in quest’ultimo film interpreta il piccolo ruolo di un molestatore. Nel resto del cast la bambina Maria Chiara Goretti come sorellina minore ma già saggia, Penelope Nieto Conti come primo amore dell’adolescente, la mai abbastanza utilizzata dal cinema Alvia Reale come algida nonna paterna alto borghese, il coach di recitazione di Luana Carlo Gallo interpreta il ruolo dello zio, Elena Arvigo, Laura Nardi e Valentina Cenni come zie e cognate pronte a puntare l’indice.

Vincenzo Amato, che da Crialese era stato lanciato nel cinema italiano, pur con diverse partecipazioni anche sui set internazionali non è mai riuscito a sfondare davvero, segno che la sua espressività cinematografica è tutta nel segno dell’amico di gioventù. Palermitano di nascita, 18enne si trasferisce a Roma con la madre, la cantante folk Muzzi Loffredo che fu attrice per Francesco Rosi e Lina Wertmüller; Vincenzo, dieci anni dopo da Roma si trasferisce a New York dove fra le altre cose lavorerà il ferro battuto creando delle sculture, lavoro e residenza presso i quali ritorna quando non è sui set: “Da quando vivo all’estero sono diventato ancora più siciliano e più italiano. Ho avuto la stessa sensazione che hanno gli astronauti quando vedono la Terra dallo spazio: quando poi torni indietro riesci a vedere le cose in modo oggettivo. L’Italia mi manca molto, stando lontano e non avendo a che fare ogni giorno coi suoi aspetti negativi mi ricordo solo le cose belle.”

Del film resta da dire che il coinvolgimento autobiografico dell’autore resta una nota per gli addetti ai lavori e per gli spettatori professionisti; tutti gli altri, le coppie di anziani coniugi o le anziane amiche in pausa dal torneo di burraco – ché l’età media e l’estrazione sociale della platea di cui ho fatto parte erano proprio quelle – stanno vedendo un film ambientato negli anni Settanta, epoca che ben riconoscono e nella quale facilmente si introiettano, senza però capire il senso dell’operazione retrò: l’autore ha detto tante cose sul red carpet e nelle varie interviste ma nel film aleggia un’aria di reticenza, di pudicizia certo, che non spiega bene che cosa stia raccontando, e perché. Si apprezza sulla fiducia. A questo punto la cosa da fare sarebbe andare a rivedere tutta la breve filmografia di Emanuele Crialese. E poi, a tempo perso, possiamo andarci a vedere l’omonimo “L’immensità” del 1967 con Don Backy e Caterina Caselli.

Oscar 2022, la sintesi della serata

A inizio serata Daniel Kaluuya, premio Oscar 2021 non protagonista per “Judas and the Black Messiah” di Shaka King, insieme a H.E.R. premio Oscar per la miglior canzone originale per lo stesso film, annunciano il premio alla migliore attrice non protagonista 2022 ma soprattutto, insieme, vestono i colori della bandiera ucraina.

Ariana De Bose riceve l’Oscar come migliore attrice non protagonista per il ruolo di Anita in “West Side Story” remake di Steven Spielberg del musical del 1961 diretto da Robert Wise e Jerome Robbins, dove a ricevere l’Oscar per lo stesso ruolo fu Rita Moreno, che in questo remake è fra i produttori e si ritaglia il piccolo ruolo di Valentina che volge al femminile il personaggio di Doc del musical originale.

Rita Moreno, 91 anni

A seguire “Dune” di Denis Villeneuve si aggiudica tre premi tecnici per l’impianto sonoro, la fotografia e gli effetti speciali.

Viene poi omaggiata la saga di 007 che compie 60 anni, essendo cominciata nel 1962 con “Agente 007 licenza di uccidere”, starring Sean Connery, e conclusa con la morte della spia più longeva iconica e redditizia dell’industria cinematografica nell’ultima interpretazione di Daniel Craig “No Time to Die”. In mezzo possiamo recuperare altre chicche come la parodia del 1967 “Casino Royale” che è anche il titolo del primo film con Daniel Craig, reboot della serie nel 2006. Ma c’è anche uno 007 apocrifo del 1983, o fuori serie, che per complesse azioni legali viene realizzato da una differente produzione, e per l’occasione viene riscritturato un già anziano Sean Connery da mandare in duello al botteghino con lo 007 ufficiale che all’epoca era Roger Moore, del quale abbiamo il primo 007 “Vivi e lascia morire” del 1973. E c’è la parentesi George Lazenby “Agente 007 al Servizio Segreto di sua Maestà” del 1969.

Viene poi premiato il miglior film di animazione, “Encanto”.

Mentre il miglior corto di animazione è “The Windshield Wiper”, sei anni di lavorazione, che è integralmente disponibile su Youtube, in lingua originale, con limitazioni per scene di sesso. La sinossi: all’interno di un bar, mentre fuma un intero pacchetto di sigarette, un uomo di mezza età fa a sé stesso e a noi pubblico una domanda ambiziosa: “Cos’è l’Amore?”. Troverà la risposta in una raccolta di scenette e situazioni animate ma talmente iperrealistiche da sembrare ridisegnate su un film dal vero; in realtà, come racconta l’autore Alberto Mielgo, lui parte da sopralluoghi reali in cui scatta delle fotografie che userà per dipingere i suoi scenari in 2D mentre i personaggi in movimento sono in 3D. Oltre ai dialoghi sceneggiati e riprodotti, sullo schermo compaiono molte scritte che riproducono voci fuori campo, maschili e femminili, che rispondono fuori copione a domande sull’amore. Poi spiega il titolo che in italiano è tergicristallo: “Il titolo è molto importante e molto significativo. Ogni volta che proviamo a definire l’amore, per lo più falliamo, perché è quasi indefinibile. Questo perché la definizione di amore si basa sulle relazioni e ogni relazione è diversa. Uso la metafora di un tergicristallo perché ogni goccia d’acqua crea un motivo su un parabrezza, quindi il tergicristallo pulisce le gocce e poi la pioggia crea uno schema completamente diverso. Non è mai lo stesso. Ogni modello di gocce è una relazione diversa. E questo si riflette anche nel ritmo del film, che è lo stesso di un tergicristallo. Mostra e pulisce e mostra e pulisce. Rivela un modello, ma il modello non viene mai spiegato. È un po’ come un codice che solo le coppie conoscono, ma in realtà nemmeno le coppie ne capiscono il modello.”

La sudcorena Youn Yuh-jung migliore attrice non protagonista lo scorso anno per “Minari” proclama il migliore non protagonista 2022 il non udente Troy Kotsur per il film “I segni del cuore” che è il remake del francese “La Famiglia Bélier” del 2014 diretto da Éric Lartigau, che aveva una marcia in più perché gli interpreti dei ruoli dei genitori sordomuti della protagonista sono due attori normodotati talmente bravi da sembrare realmente sordomuti. Va ricordato che Troy Kotsur è il secondo attore sordomuto premiato con l’Oscar dopo Marlee Matlin che lo vinse nel 1987 per “Figli di un Dio Minore” di Randa Haines e che qui è la madre della protagonista normodotata che vuole fare la cantante. Dispiace che l’attore ringrazi la regista e sceneggiatrice Sian Heder per aver messo insieme, col suo film, il mondo dei non udenti con quello degli udenti, dimenticando clamorosamente che la sceneggiatura originale è francese.

Segue l’Oscar al miglior film internazionale che vedeva schierato il nostro “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino già Oscar nel 2014 con “La grande bellezza” e che è andato al giapponese “Drive my car” di Ryūsuke Hamaguchi che aveva vinto anche il Prix du Scénario a Cannes.

E’ poi il momento di Mila Kunis, che, essendo ucraina di nascita e statunitense d’adozione, era molto atteso il suo intervento come presentatrice di una delle migliori canzoni originali candidate; non delude le aspettative mantenendosi nella traccia obbligatoria della serata e parla, senza fare nomi di luoghi e persone, di eventi totali, forza e dignità, devastazione, resilienza, forza, lotta, buio inimmaginabile; poi presenta il brano “Somehow you do” di Diane Warren eseguita da Reba McEntire per il film “Quattro buone giornate” che Mila Kunis interpreta con Glenn Close.

Dopodiché compare il cartello: “We’d like to have a moment of silence to show our support for the people of Ukraine currently facing invasion, conflict and prejudice within their own borders. While film is an important avenue for us to express our humanity in times of conflict, the reality is millions of families in Ukraine need food, medical care, clean water, and emergency services. And we – collectively as a global community – can do more. We ask to support Ukraine in any way you are able. #standwithukraine”. Il ventilato intervento del presidente Volodymyr Zelens’kyj non c’è stato.

Lupita Nyong’o – l’attrice keniota premiata al suo debutto cinematografico come migliore non protagonista in “12 anni schiavo” del 2013 di Steve McQueen, regista nero inglese omonimo del bianco divo hollywoodiano – entra sul palco accompagnata da Ruth Carter, prima costumista nera a vincere l’Oscar per “Black Panther” del 2018 diretto dal nero Ryan Coogler (un momento di orgoglio nero, dunque); presentano i candidati migliori costumisti, and the Oscar goes to Jenny Beavan per “Crudelia” di Craig Gillespie con Emma Stone, film targato Disney che rinverdisce il mito della cattiva di “La carica dei 101” mettendola al centro di una storia tutta sua dove i dalmata sono solo comprimari, ispirato al mitico cartone animato del 1961 che nel 1996 è stato rifatto in live action, regia di Stephen Herek, in cui una strepitosa Glenn Close ha dato vita al personaggio.

Segue l’ispanico John Leguizamo che dà vita a un suo momento di orgoglio latino raccontando che nel 1928 come modello per la statuetta dell’Oscar è stato preso l’ispanico Emilio Fernandez, e conclude col doppio senso che è “come avere un 30 centimetri di messicano nelle tue mani che si chiama Oscar”; presenta la seconda canzone originale in gara, “Dos Oruguitas” di Lin-Manuel Miranda.

A introdurre i candidati alla miglior sceneggiatura originale arriva il terzetto dei protagonisti del film “Juno” del 2007 diretto da Jason Reitman che vinse proprio in questa categoria con la sceneggiatura di Diablo Cody; il terzetto è formato da J. K. Simmons, Jennifer Garner e Elliot Page che all’epoca del film era ancora anagraficamente donna col nome di Ellen Page. Si aggiudica la statuetta Kenneth Branagh che ha scritto e diretto il semi-autobiografico “Belfast”, primo Oscar dopo ben otto nomination nella sua carriera di attore e regista.

Il cantante Shawn Mendes e la performer (cantante, attrice comica, conduttrice tv, regista) Tracee Ellis Ross (figlia di Diana Ross) con un ardito décolleté, sono chiamati a presentare la migliore sceneggiatura non originale, ovvero tratta da preesistente opera; e vince la Sian Heder (al suo secondo film) che ha riscritto il film francese sulla famiglia di sordomuti e che nel suo discorso di ringraziamento non dice una parola sull’opera originale a cui si è ispirata.

Jason Momoa, nel cast di “Dune”, accetta a nome del compositore Hans Zimmer, che non poteva essere presente alla serata, il premio per la miglior colonna sonora originale.

Subito a seguire Rami Malek, che era il cattivo dell’ultimo 007, presenta la canzone scritta per il film e candidata fra le migliori canzoni originali, “No Time to Die” di Billie Eilish e Finneas O’Connell che a dispetto dei nomi sono sorella e fratello, che più avanti nella serata verrà proclamata vincitrice nella cinquina presentata da Jake Gillenhaal e Zoe Kravitz.

A presentare i candidati per il miglior montaggio è una voce femminile fuori campo mentre scorrono le clip dei cinque film, e vince ancora “Dune” col montaggio di Joe Walker, assiduo collaboratore del regista, Denis Villeneuve, per il quale aveva montato “Arrival” ricevendo una candidatura, e di un altro regista col cui film era stato precedentemente nominato, Steve McQueen, “12 anni schiavo”.

Per annunciare il miglior documentario arriva sul palco il comico Chris Rock che com’è prassi fa un po’ di battute, prima prendendo di mira la coppia Javier Bardem – Penelope Cruz entrambi nominati nelle rispettive sezioni da protagonisti, poi passando a Will Smith e sua moglie Jada Pinkett che notoriamente soffre di alopecia e infatti sfoggia un look testa rasata, e il comico fa un’infelice battuta: non vede l’ora di vederla nel remake di “Soldato Jane”, film in cui Demi Moore sfoggiava il look testa rasata; Jade ha alzato gli occhi al cielo, mentre il comico si commenta da solo dicendosi che la battuta non era male; ma Will Smith si alza dalla platea e sale in palcoscenico a dargli un pugno in faccia, proprio come si fa nei film, e Chris Rock continua a sorridere commentando “Wow! Will Smith mi ha appena dato un bel pugno!” mentre Smith, tornando a sedere gli grida: “Togliti il nome di mia moglie dalla tua cazzo di bocca!” Gelo in sala.

Si prosegue con la presentazione dei documentari candidati e la nomina del vincitore: “Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised)” regia del musicista Questlove.

Il rapper Sean Diddy Combs, noto anche come Puffy Daddy, viene sul palco per ricordare il 50esimo anniversario di “Il Padrino” ma non può fare a meno di parlare, da artista nero, di quello che è appena successo fra altri due artisti neri, e si auspica che nel retropalco tutto verrà chiarito perché si è tutti una grande famiglia. Poi dopo sequenze dei film della seria compaiono insieme sul palco Francis Ford Coppola (83 anni) Robert De Niro (79) e Al Pacino (82) ed è subito standing ovation.

Arriva il sempre commovente momento In Memoriam col tappeto canoro dei The Samples Choir, e Tyler Perry apre la sequenza omaggiando Sidney Poitier; segue l’intervento di Bill Murray per ricordare il regista Ivan Reitman; conclude Jamie Lee Curtis che omaggia Betty White; fra gli altri nomi più noti scomparsi nell’ultimo anno: la nostra Lina Wertmuller, il recentissimo William Hurt, il francese Jean-Paul Belmondo; e poi il musicista Mikis Theodorakis, e i registi Peter Bogdanovich, Richard Donner, Jean-Marc Vallée, e gli attori Ned Beatty, Charles Grodin, Michael K. Williams, Sally Kellerman, Dean Stockwell.

Ancora un’altra statuetta a “Dune” che si aggiudica anche la migliore scenografia di Patrice Vermette e Zsuzsanna Sipos, piazzandosi con 6 Oscar su 10 nomination al primo posto fra i premiati.

Kevin Costner presenta i candidati alla miglior regia che va a Jane Campion per “Il potere del cane” che con 12 nomination era in testa e si aggiudica solo quest’importante premio.

A 28 anni da “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino, arriva sul palco il terzetto formato da Uma Thurman, John Travolta e Samuel L. Jackson – altra standing ovation – per nominare il miglior attore protagonista, che è Will Smith per “Una Famiglia Vincente – King Richard” dove interpreta il padre delle tenniste Serena e Venus Williams. E Will Smith si aggiudica il premio tornando sul palco dove prima era salito a difendere l’onore di sua moglie, ora commosso fino alle lacrime. Dice che è “stato chiamato in questa vita ad amare le persone e a proteggere le persone”. Protegge la memoria di Richard Williams che ha interpretato, la collega Aunjanue Ellis che interpreta sua moglie e le ragazze che interpretano le figlie. E poi cita il beduino interpretato da Anthony Quinn in “Lawrence d’Arabia”: “Io sono un fiume per la mia gente”, consapevole di essere uno degli attori più potenti di Hollywood, nominato dalla rivista Newsweek il più nel 2007. Poi, parlando di lavoro mischia finzione e la realtà e fa un riferimento velato a quanto successo parlando di persone che non portano rispetto, e cita Denzel Washington che gli ha detto: “Nel tuo momento più alto è proprio quello il momento in cui il diavolo viene a tirarti per la manica” e alla fine chiede scusa all’Accademy e a tutti i colleghi fra lunghe pause e lacrime copiose che dicono molto più delle parole, e alla fine ringrazia con una battuta: “Spero che mi invitino di nuovo su questo palco!”

Nel retropalco Will Smith incontra e abbraccia Sir Anthony Hopkins che sta andando a premiare la migliore attrice. Nel frattempo viene premiato il miglior trucco per “Gli occhi di Tammy Faye” di Michael Showalter. Vengono anche annunciati gli Oscar alla carriera: Samuel L. Jackson, Liv Ullmann e Elaine May, e contrariamente agli anni precedenti non vengono premiati in palcoscenico ma solo inquadrati nel salottino in cui sono relegati e senza la possibilità di dire una sola parola. Triste.

L’ingresso di Anthony Hopkins suscita un’altra standing ovation, e comincia dicendo: “Will Smith ha già detto tutto”; poi dopo avere speso belle parole per le attrici della cinquina annuncia la vincitrice Jessica Chastain. Segue Lady Gaga, protagonista del discusso “House of Gucci” per il quale si aspettava una candidatura non arrivata, che sale sul palco a nominare il miglior film 2022 che a sorpresa è l’outsider “I Segni del Cuore” a riprova che quando ci sono disabilità e buoni sentimenti l’Academy non si tira mai indietro, e fra i ben dieci film in concorso ce n’erano di titoli certamente migliori. In ogni caso molta bella roba da vedere, avendone la possibilità.

Dolor y Gloria, e premio a Cannes

Almodóvar, di casa a Cannes ma non solo, torna a vincere con l’interpretazione del suo amico Antonio Banderas la cui qualità dell’interpretazione è lampante sin da subito nel suo sguardo acuto e indagatore ma anche sperduto, di uno che è abituato a pensare ogni parola ma che nel contempo ha perduto se stesso. Insomma, Pedro affidando ad Antonio di interpretarlo, ha fatto centro con un film denso, drammatico ma al contempo lieve e che si lascia seguire con una leggero sorriso per l’intera durata. Lontano anni luce dai film surrealisti e grotteschi che lo hanno imposto all’attenzione internazionale e lontano anche, per fortuna, dai film degli ultimi anni dove il suo talento, perdendo la sua visionarietà, si era anche perso per strada.

Questo film si allaccia al meno riuscito “La Mala Educación” che altrettanto si ispirava alla sua infanzia ma, sempre nell’ambito della “auto-fiction” come fa dire a uno dei suoi personaggi, questa finta autobiografia fa centro nei nostri cuori per il grande equilibrio dell’avvenuta maturità col quale gestisce l’intero racconto: come lui dice in un’intervista ciò che vediamo nel film è vero al 30% ma intimamente vero al 90%. Sono veri gli arredi e i quadri della casa del protagonista, il regista in crisi e dalla salute precaria Salvador Mallo, che provengono tutti dalla sua casa. E’ vera la dipendenza da cocaina che qui racconta senza filtri o false giustificazioni, ed è vera la crisi creativa che, fondamentalmente, è ciò di cui parla il film: un film sul processo della creatività narrativa ma anche sull’amore, quello per la madre e quello per gli uomini.

Senza grandi colpi di scena porta tutti i colpi a segno, oscillando fra il passato che racconta la sua infanzia felice interrotta dalla visione del corpo nudo di un uomo in un espediente narrativo di gran classe, e il presente dove incanutito si trascina fra acciacchi e dipendenza e vecchi rancori fino al momento in cui decide di riprendere in mano la sua vita e tornare alla salvifica creatività.

Penélope Cruz è la sua solare madre della gioventù, interpretata sul letto di morte da Julieta Serrano. Asier Etxeandía è l’altro protagonista e rivelazione del film, new entry nella filmografia di Almodóvar e qui intenso nemico-amico del protagonista. Leonardo Sbaraglia, anche lui alla sua prima volta con Pedro, è il grande amore che torna dal passato e come amica e confidente ritroviamo la veterana almodovariana Cecliia Roth. Ma va ricordato anche il protagonista bambino Asier Flores con la sua grande espressività e simpatia; César Vicente è il giovane uomo amico troppo prematuro della sua infanzia e Raúl Arévalo è il padre.

Finale almodovariano che con una carrellata svela i segreti della narrativa filmica. Applausi interiorizzati.

Assassinio sull’Orient Express, sempre grandi star

Nel 1974 dirigeva Sidney Lumet (4 nomination agli Oscar e uno alla carriera nel 2005) un cast all stars con 11 interpreti nominati agli Oscar di cui 6 vincitori e uno alla carriera nel 2009 a Lauren Bacall; un cast che il regista riuscì a mettere insieme facendo firmare per primo Sean Connery, allora una punta di diamante dello star system. Ingrid Bergman rifiutò il ruolo della Principessa Dragomiroff e si offrì per quello della missionaria col quale vinse l’Oscar come non protagonista; nomination ebbero il regista e il protagonista Albert Finney. Un gran film che è un classico da rivedere. Come gran film è anche quello attuale e per il quale, conoscere l’identità dell’assassino, nulla toglie al piacere della visione, anzi!

Nel 2017 dirige Kenneth Branagh che interpreta anche il protagonista Hercule Poirot e mette il cappello sul prossimo film con un richiamo nel finale nel quale viene richiesto in Egitto per un delitto sul Nilo. “Assassinio sul Nilo” fece seguito nel ’78 all’Orient Express del ’74 con un nuovo regista, John Guillermin, che si era fatto notare per la regia del catastrofico “Inferno di Cristallo” altro filmone all stars ma di qualità inferiore, come di qualità inferiore fu il film dal romanzo della Christie; anche l’interprete di Poirot cambiò con l’interpretazione di Peter Ustinov, che a mio avviso fu un interprete più azzeccato.

Branagh, e la più moderna sceneggiatura di Michael Green lo supporta, tratteggia un Poirot meno macchiettistico di come l’ha creato l’autrice, con la sua precisione maniacale che però si stempera in un afflato di umanità che arricchisce e dà profondità al personaggio – ma per il quale si inventa degli spettacoli doppi baffetti! Anche lui dirige un cast all stars, anche se gli Oscar al seguito sono di meno per motivi anagrafici, e tecnicamente il film è più ricco di azione ed effetti speciali, per cui la bufera di neve che blocca il treno diventa una vera e propria spettacolare valanga. E’ ovvio e divertente fare adesso il confronto fra il vecchio e il nuovo cast.

L’ambiguo antagonista, che nel ’74 fu Richard Widmark che accettò il ruolo solo per poter lavorare con tutte quelle star, oggi è un sorprendente Johnny Depp che con gustoso e misurato ghigno con cicatrice incorporata si muove fuori dal seminato dei suoi personaggi sempre positivi e sbruffoni portando una ventata di freschezza al film e alla sua filmografia.

Si è detto di Ingrid Bergman premiata per il ruolo della missionaria svedese Greta Ohlsson che qui diventa spagnola, Pilar Estravados, con l’aderente interpretazione di Penelope Cruz che però rimane negli standard: il carattere riprende il nome di un personaggio di Agatha Christie che compare in “Il Natale di Poirot” messo in film nel 1994 ma di cui non rimane traccia nella memoria.

Si è anche detto di Sean Connery, che interpretava Arbuthnot, colonnello nel romanzo e nel film, che di innamora di miss Debenham durante l’azione. Oggi il personaggio cambia vistosamente, rendendo più moderna e dinamica la trama e rimanendo altresì credibile: Arbuthnot è un medico di colore, interpretato da Leslie Odom jr, già segretamente in amore con la bella e giovane Debenham, segretamente perché all’epoca dei fatti narrati, gli anni ’30 del Novecento, non si parlava di amori interraziali, esistenti ma stigmatizzati.

La bella e giovane Mary Debenham oggi è interpretata dalla pressoché sconosciuta Daisy Ridley mentre nel ’74 era nientepopodimeno che Vanessa Redgrave in azzeccatissima coppia con Sean Connery.

Ruolo chiave della vicenda è Mrs Hubbard, vedova americana dalla parlantina brillante e tagliente che da Lauren Bacall passa oggi a Michelle Pfeiffer: entrambe star di prima grandezza ormai sessantenni, entrambe totalmente in parte, con una mia personale debolezza, anche anagrafica, per la Pfeiffer che mostra una dolcezza in più rispetto alla Bacall: le auguro una candidatura agli Oscar, anche senza premio, che la possa rilanciare nello star business, dato che il suo ultimo film con buoni esiti al botteghino è “Chéri” di Stephen Frears del 2009. Ma vale la pena fare l’elenco dei film di grande successo che ha rifiutato perché non ha saputo valutare sulla carta (tra parentesi l’attrice che la sostituì): Thelma e Louise (Geena Davis), Basic Istinct (Sharon Stone, nomination Golden Globe), Il Silenzio degli Innocenti (Jodie Foster, premio Oscar), Insonnia d’Amore (Meg Ryan, nomination Golden Globe), Pretty Woman (Julia Roberts, nomination Oscar e Golden Globe), Evita (Madonna, Golden Globe) e altri ancora.

Anche il personaggio di Hector MacQueen, segretario tuttofare del cattivo Ratchett/Cassetti, subisce una interessante evoluzione. Nel ’74 era interpretato da un Anthony Perkins con ancora attaccate addosso le nevrosi dello “Psycho” di quattordici anni prima. Oggi è interpretato da Josh Gad, cicciottello comico ebraico-americano che qui fa un salto di qualità ben riuscito, certo cercando di allinearsi ai suoi colleghi comici cicciottelli ormai star mainframe come Jack Black o Jonah Hill.

Il maggiordomo passa da John Gielgud (nominato agli Oscar) a Derek Jacobi nella migliore tradizione dei maggiordomi inglesi.

Ma sul treno c’è un altro investigatore privato in incognito, altro ruolo chiave della vicenda, Cyrus Hardman che, già interpretato dal caratterista Colin Blakely, cambia nome di battesimo in Gerhard e lo fa Willem Dafoe, con una performance a mio avviso sotto tono rispetto all’impegno generale – o forse il ruolo, a tratti lievemente grottesco, non è adatto a lui.

L’anziana Principessa Natalia Dragomiroff che fu Wendy Hiller oggi entra nello schermo con lo sguardo assassino di Judy Dench che dà subito il carattere del personaggio, che poi però rimane tutto lì: un personaggio di supporto poco definito da interpretare proprio come un cameo. La sua dama di compagnia, la tedesca Hildegarde Schmidt passa da Rachel Roberts a Olivia Colman senza colpo ferire.

Ci sono poi i Conti Rudolph Andrenyi e la Contessa Helena Maria Andrenyi che se ne stanno in disparte chiusi nella loro cabina che, interpretati originariamente da due nomi come Michael York e Jacqueline Bisset qui vengono affidati agli sconosciuti Sergei Polunin, che nasce come ballerino russo, e Lucy Boynton, ex attrice bambina inglese, condannando di fatto questi due personaggi al bozzetto di fondo.

C’è poi Antonio Foscarelli, venditore di automobili un po’ sbruffone, ovviamente italiano nella fantasia di Agatha Christie, che fu interpretato dallo sconosciuto inglese Denis Quilley e che oggi diventa Biniamino Marquez, interpretato dal messicano Manuel Garcia-Rulfo, certo per coprire la quota hispanica della super produzione statunitensi.

Il capo carrozza Pierre Michel, che fu interpretato dal francese Jean-Pierre Cassell oggi è il tunisino-olandese Marwan Kenzari; mentre il capotreno, il belga Bouc, che in francese significa caprone, certo con qualche intenzionalità nell’autrice, conterraneo amico e assistente improvvisato di Poirot, cui oggi dà il volto l’aitante australiano Tom Bateman, nel ’74 era diventato un Mr Bianchi interpretato da Martin Balsam.

Il film è riuscitissimo. Le star non sono quelle di una volta ma neanche il pubblico lo è, ben che vada è invecchiato come il sottoscritto. E la trovata più azzeccata è quella della risoluzione finale del giallo, che nel primo film avveniva all’interno del lussuoso treno, come da racconto, quando Poirot riunisce tutti per svelare il nome dell’assassino: oggi, a causa del treno bloccato per la valanga, la scena è montata all’aperto, e i 12 personaggi coinvolti sono tutti seduti a un lungo tavolo come in un’ultima cena, per un ultimo resoconto dove al peccato segue, ancora una volta, il perdono.

Note di costume: il pubblico in sala era per lo più fatto di adulti e anziani. I pochi giovani erano un ragazzo solitario, come ero io che al calcio preferivo un pomeriggio al cinema, e ragazzine selfie-dipendenti che erano solo venute a vedere Johnny Depp restando deluse (è il loro punto di vista) dalla performance, e sorprese che la storia fosse scritta da Agatha Christie: chissà che si credevano, povere stelle!