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La passeggiata – opera prima di Renato Rascel

Opera prima e anche unica dato che fu un clamoroso insuccesso per l’artista che volle fare il passo più lungo della gamba, ma andiamo con ordine.

Su YouTube il film completo… anzi no, incompleto: manca il vero finale

Renato Rascel nato Renato Ranucci nel 1912, dunque quest’anno sono 110 anni dalla nascita, fu un figlio d’arte che casualmente nacque a Torino dove i genitori romani erano in tournée: il padre cantante d’operetta e la madre ballerina. Il bambino crebbe a Roma affidato a una zia dati i continui spostamenti dei genitori, e poiché il frutto non cade mai lontano dall’albero, Renatino già a dieci anni canta nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina, poiché crescendo nel rione Borgo a ridosso del Vaticano frequentava la Scuola Pontificia Pio IX; e sempre in quegli anni preadolescenziali si esibisce addirittura alla batteria di un complessino jazz di dilettanti, e a seguire debutta come attore bambino sotto la direzione del padre che nel frattempo era divenuto direttore di una compagnia filodrammatica. Ma papà Ranucci, che sulle sue spalle aveva la consapevolezza di quanto potesse essere dura una carriera artistica, interruppe lì l’esperimento attoriale del ragazzino e tentò di avviarlo verso mestieri più tradizionali, ancorché umili: garzone di barbiere, muratore e anche apprendista calderaio; ma il danno era già fatto, il ragazzo aveva già assaggiato il velenoso brivido dell’esibirsi in pubblico, ed essendo anche talentuoso, ancora tredicenne venne scritturato come musicista presso un locale capitolino, e due anni dopo entra a far parte di un complesso musicale e lì un impresario teatrale, notando la sua simpatica esuberanza, lo spinge ad esibirsi in improvvisazione estemporanee durante le pause del complesso, numeri di arte varia e balletti inventati lì per lì che divertono molto la platea con la sua freschezza naïf. Nasce così l’arte varia di Renato Rascel: attore, comico, ballerino, musicista, cantante, cantautore e più avanti conduttore televisivo e anche giornalista. La sua comicità sarà di un segno nuovo rispetto al classico panorama dell’epoca, dove la risata era strappata grazie a doppi sensi sessuali più o meno espliciti, e comunque sempre di grana grossa; lui, che ancora bambino aveva imparato a improvvisare, crea un personaggio originale, una nuova maschera: un omino dall’aria candida che esprime una comicità più ingenua – ma anche finta ingenua all’occorrenza – attraverso monologhi surreali ricchi di ardite sperimentazioni linguistiche che lasciano molto indietro la comicità fin lì fatta di più grevi qui pro quo; le sue esibizioni verbali sono invenzioni estemporanee con repentini cambi di prospettiva che spiazzano il pubblico, che sulle prime non lo comprende, e anche fisicamente si impegna con pantomime grottesche al limite dell’acrobatico, possedendo nella piccola statura doti atletiche non comuni.

Scatola vintage madreperlata di cipria Diadermina della Rachel

Ventenne, all’inizio degli anni Trenta e già con un lungo tirocinio in compagnie di varietà di second’ordine, il giovanotto decide di scegliersi un nome d’arte, e come si usava all’epoca ispirandosi al favoloso e favoleggiato varietà d’oltralpe con quei nomi scivolosi ed eleganti: sceglie il nome di una cipria francese che usava in camerino, la Rachel con pronuncia rascèl, ma poiché quel nome, stampato sui manifesti veniva erroneamente letto così com’era scritto, all’italiana, Rachel con accento sulla A e dunque pronunciato ràkel, Renato pensò bene di italianizzare il segno CH in SC, quantunque il nome finì con l’essere pronunciato sempre Ràscel. Italianizzazione che però non bastò a quei dettami fascisti emanati da Achille Starace secondo i quali tutti i nomi tronchi dovevano finire con una vocale per essere italianizzati, e gli fu intimato di cambiare il nome in Rascèle, ma il giovanotto pare che non si fece passare la mosca sotto al naso e replicò: “Cambiate prima Manin in Manino e poi ne riparliamo!” e da lì in poi i suoi rapporti col regime non furono dei più cordiali.

È del 1939, dunque a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, l’invenzione di “È arrivata la bufera” in cui, all’interno di quei versi surreali, il ritornello “È arrivata la bufera / è arrivato il temporale / chi sta bene e chi sta male / e chi sta come gli par” fa presagire l’arrivo di ben altra bufera, e in quattro versi tutta l’espressione dei vari comportamenti sociali e politici. E i burocrati fascisti, che come tutti gli estremisti d’ogni fede mancano di fantasia e ironia, lo braccano ripetutamente perché si ostinano a voler leggere nei testi bizzarri delle sue canzoncine chissà quali significati nascosti ed eversivi; stiamo parlando di titoli come “Torna a casa che mamma ha buttato la pasta” e “La canzone della zanzara tubercolotica“. Ma Renato Rascel si prenderà la sua rivincita nel film a episodi “Gran varietà” del 1953 diretto da Domenico Paolella, in cui fa la parodia di uno di quei burocrati nell’episodio “Il censore” in cui interpreta se stesso e in doppio ruolo il censore fascista, di certo partecipando alla sceneggiatura anche se non accreditato.

Aveva debuttato come attore cinematografico nel 1942 in “Pazzo d’amore”, un film che Vittorio Metz, anche regista, scrisse per lui dopo averlo visto al varietà, ma con scarsi risultati, dato che il film è piuttosto goffo e non mette a fuoco la comicità di Rascel, che inspiegabilmente è anche doppiato, forse perché al momento del doppiaggio l’attore era impegnato in tournée, cosa che all’epoca e in quegli ambienti accadeva sovente. Con la successiva caduta del fascismo e l’occupazione nazista di Roma, Rascel e la sua novella sposa, la showgirl Tina De Mola, sono costretti a darsi alla macchia perché invisi al regime e riparano, ovviamente dati i trascorsi del ragazzo Renato Ranucci, in Vaticano. Con gli anni ’50 continua la sua attività sia teatrale che cinematografica con una punta di diamante nel 1952: “Il cappotto” diretto da Alberto Lattuada e tratto dal racconto omonimo di Gogol è la sua prima interpretazione drammatica che gli frutterà il Nastro d’Argento ma anche la delusione per avere sfiorato il premio come migliore attore a Cannes, che quell’anno andò a Marlon Brando per “Viva Zapata!” di Elia Kazan, e scusate se è poco.

A quel punto, e siamo nel 1953, Rascel si mette in testa di voler continuare su quella strada per accreditarsi come un vero attore, uno di quelli seri e drammatici da premi prestigiosi, e per dare continuità al suo nuovo percorso appena iniziato si focalizza su un altro racconto di Gogol, “La prospettiva Nevskij”, con l’intento di assumerne anche la regia, ahilui, perché la strada si fa tutta in salita dato che per i produttori lui rimane un attore comico, da varietà, casualmente passato al drammatico e, soprattutto, ben diretto da un vero regista: che ora anche lui aspirasse alla regia non era credibile, anche perché Rascel non era scrittore né men che meno sceneggiatore e per scrivere il film aveva messo insieme una corposa squadra di tutto rispetto coinvolgendo i professionisti che avevano partecipato al progetto di “Il cappotto”: il neoregista Franco Rossi che aveva debuttato l’anno prima col poliziesco “I falsari” scritto da Ugo Guerra, e da cui Rascel si farà affiancare nella sua regia per la parte tecnica: era consapevole dell’inesperienza; lo stesso Ugo Guerra, anch’egli a inizio carriera e che si affermerà come sceneggiatore e produttore; e gli scrittori e drammaturghi Diego Fabbri, Turi Vasile e Giorgio Prosperi; ma fu col coinvolgimento del veterano Cesare Zavattini che riuscì a chiudere il pacchetto vincente e si assicurò la produzione della cattolica – guarda un po’ – Film Costellazione che con lungimiranza aveva già in produzione un altro regista debuttante, Antonio Pietrangeli con “Il sole negli occhi”, e la lavorazione del film prese il via, con la vicenda di nuovo trasferita da San Pietroburgo a Roma e con tante di quelle libertà narrative da far dire alla critica dell’epoca che il film non aveva più nulla a che vedere col racconto di Gogol che, per chi lo volesse leggere, lo trova a questo link.

Il racconto russo si apre con una lunga descrizione della più importante via di Pietroburgo, la Prospettiva Nevskij appunto, brulicante di varia umanità nella quale l’autore sceglie i suoi protagonisti. Rispettando l’ispirazione il film italiano viene intitolato “La passeggiata”, ma impropriamente perché nel film non c’è nessuna introduzione descrittiva di qualsivoglia centrale via romana altrettanto brulicante di varia umanità, e l’unica passeggiata che vi si racconta è quella che avviene alla fine del film, in calesse, sull’Appia Antica. E da lì in poi il racconto sviluppato da Rascel e dalla sua squadra di sceneggiatori vive di vita propria, con il clamoroso errore di aver voluto inserire in una vicenda drammatica dei momenti di comicità surreale, fatti di pantomime, il cui accostamento immediato e dichiarato è quello con Charlie Chaplin, senza però averne la grandezza narrativa e senza padroneggiare il linguaggio cinematografico: se con Charlot i momenti surreali si integravano nel dramma, qui rimangono siparietti a sé stanti. A questo si aggiunge il problema della censura, assai pressante all’epoca: passando dal fascismo al catto-centrismo della Democrazia Cristiana non era cambiato praticamente nulla nell’imposizione di direttive morali, e gli sceneggiatori si autocensurano già in sede di scrittura scegliendo di non raccontare la tossicodipendenza del protagonista, e di fare della prostituta e delle sue volgarità una elegantissima e forbita dama, un po’ principessa delle favole e un po’ fata madrina, alla quale vengono pure immillati afflati di maternità insoddisfatta e dolente; ma per la censura il punto più scabroso sul quale intervenne con uno specifico divieto fu il suicidio del protagonista alla fine della storia, quando il poverino non riesce a realizzare il suo sogno d’amore e si suicida: giammai un suicidio poteva essere raccontato al cinema, ché se durante il Ventennio di vent’anni prima era da pusillanimi senza nerbo, in quell’oggi era perverso e anti cristiano.

La prostituta del film, assai sui generis e molto gran dama, è interpretata da una bravissima Valentina Cortese, già diva del cinema e del teatro, che recita con grande naturalezza, assai moderna, un personaggio assai improbabile nella scrittura. Paolo Stoppa, altro divo cine-teatrale dell’epoca sempre caratterista al cinema, rifà uno dei suoi tanti riusciti cliché come preside del collegio dove il protagonista insegna. Altri volti riconoscibile da chi ha superato gli anta sono Francesco Mulè come altro insegnante e l’elegante Tino Bianchi, volto assai noto degli sceneggiati Rai, qui come politico affascinato dalla folgorante bellezza della prostituta in libera uscita come donna dei sogni d’ognuno.

All’inizio del film programmato dalla meritevole Cine34 – che facendo passare film d’ogni genere sia vintage che vecchi e stravecchi ha il merito di proporre vere rarità – c’è un cartello che spiega: “La copia del film che state per vedere è il risultato di un lavoro di ‘collazione’ basato sulle due copie d’archivio 35mm conservate dalla Cineteca Nazionale, di cui una a colori e con sottotitoli in inglese, e l’altra in bianco e nero. La prima copia di un ‘autarchico ed inconfondibile Ferraniacolor’ – corrisponde ad una versione breve del film – forse accorciata per la distribuzione estera oppure ‘mutilata’ per ragioni di censura a noi sconosciute. Il taglio dei 20 minuti del finale sono stati quindi ricollocati proprio nel punto dove il protagonista viene cacciato dal collegio, scena che concludeva il film… Nel proseguimento in bianco e nero – Paolo interpretato da Renato Rascel – prosegue la sua vicenda d’amore con la prostituta Lisa interpretata da Valentina Cortese… Il lavoro di ricostruzione è stato realizzato dalla Cineteca Nazionale.” La versione disponibile su YouTube è quella breve, mutila, mentre per la versione completa bisogna stare al passo con la programmazione tv di Cine34 che ripropone ciclicamente tutti i film che ha in repertorio, e anche se un film imperfetto e velleitario vale la pena vederlo come documento d’epoca, e opera unica di un personaggio altrettanto unico come Renato Rascel.

Che, va detto, acquisì anche fama internazionale con la sua canzone “Arrivederci Roma” che spopolerà in America, tanto da spingere un produttore di Hollywood a metterlo in coppia col tenore italo-americano Mario Lanza e nel 1957 viene confezionato il film “The Seven Hills of Rome”, con Marisa Allasio nel cast e Roy Rowland alla regia, che da noi verrà distribuito col titolo della canzone di Rascel che Lanza canta nel film, e a seguire sarà un successo che canteranno anche Dean Martin, Johnny Mathis, Perry Como, Nat King Cole… In quello stesso anno Rascel viene contattato dal cantant’attore francese Tino Rossi che gli chiede l’autorizzazione a incidere in francese quella canzone, e poiché da cosa nasce cosa con stima reciproca, Renato Rascel finì con lo scrivere tutta la partitura musicale dell’operetta “Naples au baiser de feu” da un racconto di Auguste Bailly che già era diventato un film americano come “La fiamma e la carne” di Richard Brooks con Lana Turner; e quando l’operetta andò in scena a Parigi, il piccolo grande Renato Rascel salì sul podio nell’inusuale ruolo di direttore d’orchestra.

E nel 1960 vince a Sanremo con “Romantica” cantata in doppio con Tony Dallara, la cui versione da cantante urlatore avrà più successo di quella sussurrata e romantica dell’autore Rascel, che se ci rimane male come cantante è però contento di incassare i diritti d’autore; per quella canzone viene però accusato di plagio da tale Nicola Festa, veterinario e musicista, autore di “Angiulella” dalla quale a suo dire Rascel avrebbe copiato: a dirimere la disputa musical-legale venne addirittura interpellato Igor Stravinski che emise sentenza a favore del nostro. Il suo ultimo impegno come attore sarà nel 1977 con un piccolo ma significativo ruolo nella miniserie tv “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli. Tutto il resto saranno partecipazioni nei varietà televisivi dove sempre più anziano riproporrà i suoi successi di sempre. Muore 79enne in conseguenza a un’arteriosclerosi.

La giornata balorda – un film scritto da Moravia e Pasolini

Dopo “La classe operaia va in paradiso” restiamo sull’accoppiata film-lavoro facendo però un salto indietro di una decina d’anni e arrivando al 1960, epoca in cui il nostro cinema abbandonava lo stile e le istanze del neorealismo per inventare la commedia all’italiana. L’ispirazione sono due racconti di Alberto Moravia, “Il naso” e “La raccomandazione” dalle raccolte “Racconti romani” e “Nuovi racconti romani”, che l’autore trasforma in sceneggiatura insieme a un’altra firma eccellente, Pier Paolo Pasolini.

Pasolini come imputato in tribunale

Di Pasolini basta ricordare che è già stato coinvolto in un processo per atti osceni in luogo pubblico (ha pagato tre minorenni per una masturbazione collettiva) ed era la fine degli anni ’40; trasferendosi poi a Roma scriverà: “La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c’è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che altri lo accettino o no.” Nel 1960 oltre a essere già un rinomato poeta ha già pubblicato il suo primo romanzo “Ragazzi di vita”, cui seguirà “Una vita violenta”, grande successo ma accusato di oscenità perché tratta di prostituzione maschile omosessuale e per questo escluso dai Premi Viareggio e Strega. Sul finire degli anni ’50 co-scrive le sceneggiature di un film di Bolognini, “Marisa la civetta” per la star delle commedie Marisa Allasio, e soprattutto partecipa alla scrittura di “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini con Giulietta Masina che ottiene l’Oscar come Miglior Film Straniero; tutto mentre continua a scrivere su riviste letterarie e politiche, ovviamente di sinistra. Intanto sta già pensando al suo primo film da regista, “Accattone” che riuscirà a girare l’anno dopo, mentre nel ’62 aiuterà a debuttare il giovane Bernardo Bertolucci con il suo soggetto “La commare secca”.

Moravia con la moglie Elsa Morante

Il più anziano e celebrato Alberto Moravia che si era fatto conoscere già nel 1929 con “Gli indifferenti”, sorta di primo romanzo esistenzialista, messo in film nel 1964 da Francesco Maselli e inutilmente rifatto nel 2019 da Leonardo Guerra Seràgnoli che lo ambienta in epoca odierna e cambia anche il finale. Nel 1952 vince il Premio Strega per “I racconti” e comincia a essere tradotto all’estero mentre questi suoi racconti cominciano a diventare sceneggiature cinematografiche; ed è proprio nello stesso 1960 che Vittorio De Sica dirige “La ciociara” con Sophia Loren che vince l’Oscar come Migliore Attrice. Dunque nella scrittura di questo film si incontrano il cinico distacco esistenziale di Moravia assai critico verso la borghesia, e lo sguardo partecipativo di Pasolini ai disagi della classe operaia e alla descrizione delle periferie.

Pasolini e Bolognini

La regia è affidata all’esteta Mauro Bolognini, non dichiaratamente omosessuale, che deve all’amicizia con Pasolini il suo re-indirizzamento verso un cinema di qualità superiore. Si era laureato in architettura e poi diplomato in scenografia al Centro Sperimentale di Cinematografia, ma nella pratica si orienta subito verso la regia, dapprima come aiuto e poi debuttando come regista di commedie musicali, sentimentali e di cappa e spada passando anche per Totò e Peppino. Da regista di genere, la svolta avviene quando Pasolini gli offre la sceneggiatura di “La notte brava” da un suo racconto, e poi la sceneggiatura di “Il bell’Antonio” dal romanzo di Vitaliano Brancati; segue questo “La giornata balorda” in cui il regista dà il meglio di sé come architetto e scenografo filmando una lunga magistrale carrellata – da applauso – che apre il film sull’interno balconato di un casermone di periferia, che poi chiude il cerchio del racconto concludendo anche il film, e che ispira il titolo per il mercato anglofono “From a Roman Balcony” mentre in Francia esce come “Ça s’est passé à Rome”.

Per la sua struttura oggi lo definiremmo un one day movie svolgendosi tutto in una giornata, assai balorda appunto, ma è anche un film di formazione perché il protagonista, che vaga per Roma alla ricerca di un qualsiasi impiego essendo un ventenne che non sa fare nulla armato però di buona volontà, impara almeno l’arte di arrangiarsi: il boom economico verso cui l’Italia si è avviata e che vedremo in altri film tipo “Il sorpasso” qui non è ancora arrivato, qui in questa periferia di stampo pasoliniano; e in questo il film ricorda assai da vicino “La commare secca” del debuttante Bernardo Bertolucci in cui la scrittura di Pasolini rimane assai presente, un’altra giornata balorda – con omicidio – scandita per momenti e punti di vista: vedere per credere.

Per il resto il film non è un capolavoro ma rimane un gioiellino da vedere come una finestra su una Roma dalle periferie sparite e su un modo di fare cinema – pensarlo, scriverlo, realizzarlo – irripetibile. E’ stato accusato di discontinuità e frammentarietà quando questi due aspetti sono proprio la struttura della storia: frammenti di esperienze diverse e discontinue di un giovane alla ricerca di un impiego qualsiasi, che entra in contatto con persone e ambienti diversi, che però gli rimangono tutti alieni. Risulta davvero debole, invece, la scelta del protagonista, il 26enne francese Jean Sorel nato Jean Bernard Antoine de Chieusses de Combaud-Roquebrune da nobile e antica famiglia. Decisamente gran bel ragazzo che fa la sua figura a petto nudo in diverse sequenze, è credibile come 20enne, ma si porta però dietro quell’aria da rampollo che non ci fa mai credere di essere un borgataro romano, per quanto ben doppiato in romanesco dall’ex attore bambino Massimo Turci, e bene che vada sembra più un attore di fotoromanzi. Di fatto, Jean Sorel, dopo aver debuttato in patria viene adottato dai nostri cineasti e si accasa in Italia con una carriera di tutto rispetto, tornando a recitare occasionalmente in Francia e lavorando anche con Luis Buñuel e Sidney Lumet, mentre in età matura si dà anche al teatro.

In ordine di apparizione fanno da contorno a Jean Sorel-Davide, il giovane fauno dinoccolato e piacione, la quindicenne Valeria Ciangottini che nonostante la giovanissima età ha già all’attivo un corso all’Actor’s Studio e ha debuttato in “La dolce vita” di Fellini che esce lo stesso anno, e qui è la ragazzina, vicina di casa e amichetta della sorella del protagonista del quale ha già partorito il figlio; e lui vuole solo onestamente sistemarsi: un’aspirazione che i ventenni di oggi non hanno più perché già troppo ben sistemati a casa con mamma e papà, in una società in cui la fine dell’infanzia, così come la fine della giovinezza e l’inizio dell’età matura, si è molto spostata in avanti negli anni.

Un’altra scena in cui il regista mette a frutto il suo gusto per l’architettura

Un’altra francese – il film e una coproduzione franco-italiana – è la 19enne Jeanne Valérie che è più convincente nel ruolo di Marina, un’altra abitante del caseggiato che la mattina attraversa i pratoni per andare a prendere il tram insieme al protagonista, di cui è un’ex filarino, per andare a fare la manicure, ma scopriremo che va a fare altro, e nel corso della giornata si concederà ancora al piacione fra i tetti di Roma. Fra Francia e Italia e fra cinema e tv Jeanne Valérie resterà un’attrice nell’ombra; è morta in Italia lo scorso anno.

Con un biglietto di raccomandazione di un losco zio traffichino, Davide va a incontrare un personaggio diversamente losco in abito color crema, un viscido trafficante di carte bollate nell’interpretazione da routine, per la non originalità, ma sempre centrata di Paolo Stoppa, che dà al film uno segmento di spessore col suo avvocato Moglie che, nomen omen, tradisce la moglie con la manicurista.

Rik Battaglia con Isabelle Corey

Rik Battaglia, benché protagonista in tanti film anche d’autore – lo ha fatto debuttare Mario Soldati accanto a una giovane Sophia Loren in “La donna del fiume”, e ha anche recitato per il suo amico Sergio Leone – non ha sfondato, restando un attore al margine; qui nel ruolo di un camionista trafficante di olio contraffatto, con un preciso riferimento a uno scandalo di un paio d’anni prima, svelato nel 1958 dall’Espresso nell’articolo “L’asino in bottiglia” che raccontava una clamorosa frode alimentare: il 90 per cento dell’olio d’oliva venduto in Italia sin dal dopoguerra conteneva grassi di animali morti, cavalli, buoi, asini e montoni. Strada facendo i due giovanotti si concedono una pausa con la prostituta Sabina interpretata da Isabelle Corey, altra francese trasferitasi in Italia per recitare nei peplum e nella commedia.

Ed è poi il momento di Lea Massari, all’anagrafe Anna Maria Massatani, che accorciando il cognome si è data il nome di Lea in memoria del fidanzato Leo morto in un incidente a pochi giorni dalle nozze. Attrice a tutto tondo impegnata sia in teatro che in cinema e in tv, indubbiamente dotata di talento e di un fascino felino e sfuggente, recita anche in francese e le sue partecipazioni oltralpe sono forse più importanti che quelle nostrane, in ogni caso quasi tutte interpretazioni di donne borghesi con un lato oscuro. Qui è Freja, l’amica – non moglie, come specifica quasi con ambiguo orgoglio – dell’anziano affarista dell’olio contraffatto, che si lascia affascinare dal bel borgataro dai semplici sogni, ed elegantemente flirta con lui concedendogli fiducia e simpatia, non altro però: troppo scaltra per fare un passo falso così banale. Nella locandina, dove è il secondo nome dopo il protagonista, sovrasta il giovane steso ai suoi piedi alludendo a ciò che di fatto non accade. Lea Massari, oggi 88enne si è ritirata dalle scene a 57 anni.

Notevole anche la colonna sonora jazz di Piero Piccioni. Il film è interamente disponibile su YouTube.

Boccaccio ’70

Boccaccio 70

Dice il cartello all’inizio del film “Scherzo in quattro atti ideato da Cesare Zavattini” e i quattro atti, come se fossimo a teatro, sono introdotti e chiusi da un sipario dipinto.

I atto: Renzo e Luciana

Roma spettacolo: settembre 2013

Già dal titolo riconosciamo la fonte dell’ispirazione: quei Renzo e Lucia di manzoniana memoria, coppia osteggiata dagli uomini e dagli eventi che faticheranno non poco per coronare il loro sogno d’amore. Ma allora che c’entra Boccaccio? L’episodio, anzi il primo atto, scritto a sei mani dalla prolifica e acclamata sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico; dallo scrittore Giovanni Arpino, meno attivo al cinema ma ben rappresentato: suo il romanzo da cui fu tratto “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, 1962; da un suo racconto fu poi scritto “Profumo di donna” di Dino Risi, 1974, da cui il remake americano “Scent of a woman” di Martin Brest, 1992; e poi “Anima persa” sempre di Risi, 1977; terzo sceneggiatore fu lo scrittore Italo Calvino che veicolò il cortometraggio da un suo proprio racconto, “L’avventura di due sposi” dalla collezione “Gli amori difficili”. Ma allora, di nuovo, che c’entra Boccaccio? Praticamente nulla, come avvisato all’inizio del film è uno “scherzo”, puramente intellettuale, messo in opera, come stiamo vedendo, da grandi firme della letteratura contemporanea e con le direzioni di altri quattro grandi registi dell’epoca.

7 film di Monicelli su Iris: cosa vedere e cosa (si può) evitare | Nuovo  Cinema Locatelli

Il film è del 1962 e con quel ’70 allunga una mano sull’incognito futuro, come a volersene appropriare, ma piuttosto che essere il precursore di una serie di film a episodi ben scritti e diretti, farà da ispirazione a una lunga sequela di film di serie B, più o meno boccacceschi, decisamente più ammiccanti fino a sfiorare la pornografia nel peggiore dei casi; in ogni caso, come già detto altrove, schema narrativo come esercizio di stile per gli italici divi dell’epoca. in realtà “Boccaccio ’70” è un film di costume che mette in scena l’Italia di quei primi anni ’60 con il boom economico che portò in ogni casa la lavatrice rigorosamente pagata a cambiali mensili, lo sviluppo delle periferie, e i conseguenti mutamenti nel costume sociale. Monicelli realizza un film garbato che oggi possiamo vedere come uno spaccato sulle condizioni socio-economiche di quel proletariato, soprattutto in chiave femminile, dato che fondamentalmente racconta l’uso e l’abuso dei contratti di lavoro in cui si chiedeva alle donne di mantenersi nubili e sterili pena il licenziamento, contrattualità che verrà abolita e regolamentata e punita non prima del 1970, inizio di un periodo di ulteriori sconvolgimenti sociali, in chiave più drammatica, che presenteranno i conti aperti nell’allegro decennio precedente. Vale la pena ricordare che questo racconto di Italo Calvino aveva anche ispirato la “Canzone triste” di Sergio Liberovici.

Marisa Solinas, Playmen Magazine May 1968 Cover Photo - Italy

Mario Monicelli sceglie come protagonisti due debuttanti di bell’aspetto e convincente interpretazione. Renzo è Germano Gilioli, qui doppiato da Renzo Montagnani, che dopo aver preso parte due anni dopo al misconosciuto “Le conseguenze” regia di Sergio Capogna, scompare dal mondo cinematografico. Lei è Marisa Solinas, che sarà anche cantante di musica leggera, coinvolta nello scandalo che seguì il suicidio di Luigi Tenco a Sanremo, per il quale dichiarò che il cantautore si era tolto la vita a causa dei debiti contratti per una tangente di 6 milioni di lire pagata agli organizzatori del festival; ovviamente la società coinvolta la denunciò e lei in seguito raddoppiò dichiarando di avere ricevuto minacce per il figlio se non avesse rettificato: vero o falso che sia il tutto, si sa che dove c’è fumo anche se non sempre c’è un arrosto c’è comunque qualcosa che brucia. Marisa Solinas si ritaglierà anche uno spazio nell’erotismo posando nuda per Playmen e per la Gina Lollobrigida fotografa autrice di “Italia mia”, e incidendo anche due canzoni pseudo erotiche sulla falsa riga della francese “Je t’aime… moi non plus”. In un piccolissimo ruolo, come Ercole circense, l’ancora poco noto Giuliano Gemma qui doppiato da un Alighiero Noschese già frequentatore degli studi Rai ma non ancora approdato alla fama di imitatore, anche politico (cosa non facile all’epoca) nei varietà.

II atto: Le tentazioni del dottor Antonio

Boccaccio '70 – Le tentazioni del Dottor Antonio - Italy For Movies

Fellini firma questo secondo atto e il suo stile è subito evidente: quello grottesco e surreale che al contempo si prende gioco della società, di quella società prevalentemente guidata da un imperante perbenismo di tracimazione cattolica. Ne è protagonista assoluto un Peppino De Filippo in gran spolvero, mattatoriale una volta tanto, dato che la sua carriera è di eterno secondo: fratello minore, anche artisticamente, di Eduardo, e poi spalla di Totò. Peppino era stato protagonista per Fellini in “Luci del varietà”, debutto del regista in co-regia con Alberto Lattuada, grande insuccesso e terreno di successive polemiche sulla paternità del film. Fellini, che in quell’occasione rimase incantato da Peppino De Filippo, ebbe a dire di lui: “Era un attore che mi piaceva moltissimo, un buffone glorioso, un attore comico straordinario e a mio parere molto più bravo del fratello Eduardo, più cattivo, più originale: il povero cristo che impersonava sempre Eduardo era stato già anticipato in tanti racconti di Cechov, in tanto teatro, lo stesso Viviani in fondo lo aveva interpretato in maniera molto più scattante, diavolesca e potente. Mi sembrava che Peppino fosse una delle incarnazioni più riuscite di questo personaggio sfrontato, patetico nella sua spavalderia, come sapeva muoversi in scena, con l’arroganza e la disinvoltura di certi cani, una presunzione, una spavalderia solo sua”. Peppino era morto nel 1980, Fellini morirà nel 1993.

49 idee su Peppino De Filippo | attori, cinema, personaggi

L’altra protagonista è l’iconica Anita Ekberg, la statuaria ex Miss Svezia già Golden Globe a Hollywood come migliore attrice emergente per “Hollywood o morte” del 1956 con la coppia Jerry Lewis – Dean Martin. Anitona, come affettuosamente la chiamerà Fellini, approderà nella Hollywood sul Tevere per girare un peplum e da lì parte la sua storia artistica tutta italiana e felliniana. Qui recita se stessa, quella resa nota da “La dolce vita”, con la sua voce e quel suo accento sufficientemente alieno da trovare posto nell’immaginario di un Fellini sempre alla ricerca di volti particolari che abbina sempre a doppiaggi altrettanto fuori dal comune: in questo film, ad esempio, fa doppiare una donna brutta da un uomo in falsetto. Anitona, in gigantografia da un manifesto che pubblicizza il latte, turba la fantasia del dottor Antonio Mazzuolo che, nomen omen, da puritano intransigente mazzìa e perseguita tutti quelli che, a suo dire, disturbano la morale comune e il comune senso del pudore: in realtà anche il clero e i politicanti si mostrano più tolleranti e compiacenti di lui. In un incubo notturno e durante un temporale Anitona esce dal manifesto in tutta la sua enormità e duetta con il misero omettino tentandolo come una fascinosa e gigantesca diavolessa, mentre risuona ossessivo il motivetto di Nino Rota della pubblicità. Motivetto che, dopo aver visto il film in tivù decenni fa da ragazzino, ancora ricordo, così come il vagare notturno dell’affascinante gigantessa fra i palazzi modernisti dell’EUR.

Anche in questo cortometraggio, introdotto dal racconto di una bambina nei panni di un Amorino capriccioso che poi conclude il film, non c’è alcun riferimento diretto a Boccaccio, ma tant’è. E’ scritto da Fellini con lo scrittore Ennio Flaiano e con Tullio Pinelli, primogenito dei piemontesi conti Pinelli già brillante autore di commedie teatrali finché vinse una selezione come sceneggiatore cinematografico alla Lux Film di Roma, sorpassando calibri come Vitaliano Brancati ed Elio Vittorini. Qui conosce Fellini col quale collaborerà praticamente a tutti i suoi film.

Fra le curiosità c’è da riportare che nella scena in cui Antonio Mazzuolo schiaffeggia una donna seduta al tavolino di un bar per la sua generosa scollatura, riprende il vero accadimento in cui un giovane Oscar Luigi Scalfaro (Presidente della Repubblica dal 1992 al 1999) allora presidente di Azione Cattolica, schiaffeggiò una donna in un locale pubblico per l’identica ragione. Poi, secondo gli autori di “A New Guide to Italian Cinema” del 2007, l’Anitona di Fellini sarebbe stata ispirata dalla gigantessa di un B-movie americano del 1958, “Attack of the 50 Foot Woman” dove i 50 piedi americani corrispondono a circa 15 metri: quel film non è mai arrivato in Italia e l’ipotesi, ancorché plausibile, non trova conferme nei fatti.

III attoIl lavoro

Un’inquadratura del film che esemplifica l’incomunicabilità fra i due coniugi, distanti, lui riflesso in uno specchio: simbolo cinematografico del doppio ma anche del narcisismo, come pure di parossismo schizofrenico: in ogni caso disagio esistenziale.

Dirige Luchino Visconti, che scrive il cortometraggio con Suso Cecchi D’Amico, la quale passa con nonchalance dal proletariato del primo atto a questa ricca borghesia, meglio ancora nobiltà, del terzo episodio, sempre ambientato a Milano. E ancora una volta Boccaccio non c’entra in quanto la storia è derivata da un racconto di Guy de Maupassant, “Au bord du lit”, tradotto da noi sia come “Accanto al letto” che “Sul bordo del letto”, un dramma morale in forma di beffa amara che può ricongiungersi ai temi narrati nel “Decamerone” dal Boccaccio: una donna, scoperte le numerose relazioni del marito puttaniere, decide di concedersi a lui solo dietro compenso. Luchino Visconti di Modrone conte di Lonate Pozzolo si diverte a farne un film molto personale in cui con tagliente autoironia svende la sua classe sociale allo spettatore medio in cerca di brividi scandalistici, ed è anche l’unico episodio dove si intravede un nudo femminile, per la gioia degli occhi e il prezzo del biglietto, dato che per il resto è tutto uno sterile esercizio di stile abbastanza freddo, cerebrale, in cui Visconti mostra anche una copia tedesca de “Il Gattopardo” che è il racconto da cui stava preparando il suo film successivo. Un piccolo film di auto citazioni.

In un lungo antefatto mette in scena lo sproloquio di un avvocato che introduce il tema delle numerose ragazze squillo con le quali si è sollazzato il giovane piacente conte Ottavio, tutto nella norma per carità, se non fosse che una delle ragazze ha parlato e lo scandalo è finito su tutti i giornali; ma non è tanto lo scandalo a preoccupare il conte e il suo avvocato, quanto piuttosto la reazione del suocero che chiude i cordoni della borsa. Da qui, dopo aver subìto il monologo dell’avvocato, il conte passa a duettare con la moglie Pupe, tedesca che parla in tedesco col padre al telefono, al quale dice che vuol trovarsi un lavoro, come da titolo del film, pur non sapendo cosa davvero significhi quella parola: è un capriccio che la trama non giustifica, fine a se stesso come ogni capriccio della nobiltà, ma un capriccio che introduce l’anima del racconto: poiché al marito piace pagare le donne, e nel contempo continua a desiderare anche la bella moglie, lei gli si concederà dietro compenso, quadrando il cerchio: trova un lavoro e beffa il marito, ma a che prezzo? la consapevolezza di poter fare solo la puttana.

Boccaccio '70: le location del film con Romy Schneider e Sophia Loren

Benché l’uso e l’abuso di attori stranieri sia la tendenza del cinema italiano dell’epoca sempre in cerca di co-finanziamenti e lasciapassare per il mercato estero, in Visconti è anche un gusto personale che segue la sua formazione artistica: ha cominciato a lavorare nel cinema francese al seguito di Jean Renoir; e nella sua cinematografia la nobiltà e l’alta borghesia, e la decadenza sociale e umana, diverranno filo conduttore, dal prossimo film “Il Gattopardo” all’ultimo “L’Innocente”, mentre prima di questo momento di svolta si era espresso dentro la vena del neorealismo a cominciare dal suo primo film “Ossessione” e poi con “La terra trema” e “Bellissima” e “Rocco e i suoi fratelli” fra i quali inserisce quello che fu considerato il suo primo tradimento al neorealismo: “Senso”.

Romolo Valli e Paolo Stoppa

Protagonista di questo episodio è Thomas Milian, nato a Cuba durante i regimi pre Castro che, dopo avere assistito al suicidio di suo padre, ex generale di regime caduto in disgrazia nel regime successivo, fugge negli Stati Uniti dove prende la cittadinanza e la via della recitazione. Sul finire degli anni ’50 venne in Italia a esibirsi al Festival di Spoleto in una pantomima di Jean Cocteau, e gli andò bene perché gli erano rimasti in tasca solo 5 dollari: lo notò Mauro Bolognini che gli aprì una carriera cinematografica in serie A, fino a questa regia di Luchino Visconti dove è doppiato da Corrado Pani; percorre tutto il film facendo in realtà da spalla ai protagonisti dei due segmenti della storia: nel primo, come detto, fa da interpunzione al monologo dell’avvocato interpretato da Romolo Valli, grande interprete teatrale con importanti incursioni al cinema, prematuramente scomparso a causa di un incidente stradale, a 55 anni. Nella seconda parte Thomas – come dai titoli – ma poi Tomas Milian, fa da spalla a Romy Schneider, doppiata da Adriana Asti, un’austriaca naturalizzata francese e resa famosa dalla trilogia di film sulla Principessa Sissi ma dalla cui zuccherosità volle subito prendere le distanze cercando ruoli più impegnativi. A questo terzetto bisogna aggiungere la partecipazione di Paolo Stoppa, altro amico e collaboratore di Visconti, qui nel ruolo muto e beffardo di un secondo avvocato.

Tomas Milian diventerà famoso passando agli spaghetti-western e ai poliziotteschi dove sarà “Er Monnezza”, mentre Romy Schneider proseguirà con una fulgida carriera stroncata a 43 anni da quello che si credette un suicidio ma che in realtà fu un arresto cardiaco dovuto sia ad abuso di alcol che a una profonda depressione per i postumi di un cancro, e soprattutto per la tragica morte del figlio 14enne trovato infilzato su un cancello che voleva scavalcare. Ma secondo un articolo del 2009 del quotidiano tedesco “Bild”, l’attrice fu vittima di spionaggio da parte della Stasi, i servizi segreti della DDR, per il suo sostegno a un comitato di opposizione al regime sovietico, e si adombra l’ipotesi dell’omicidio.

IV atto: La riffa

Sophia Loren, Boccaccio '70 | Sophia loren, Celebrità, Attrice

Il quarto atto è tutto al servizio di Sophia Loren che già nei titoli del manifesto non condivide il suo spazio con un secondo interprete, come accade per gli altri episodi; del resto produce suo marito Carlo Ponti e dirige il suo maestro d’arte Vittorio De Sica: “Chi mi ha in segnato a credere in me stessa? Vittorio De Sica: non solo un grande amico, ma anche un importante mentore nella mia vita” ha dichiarato recentemente l’ottantasettenne diva, e anche: “Devo ringraziare mio marito e De Sica. Ho cominciato dal niente. Mia madre era una povera signora, ci morivamo di fame e siamo andate a Roma. Senza persone che credono in te non vai da nessuna parte. Incontrai Carlo Ponti, il mio futuro marito, e mi fece conoscere Vittorio De Sica. Lo porto nel cuore.

Un piccolo grande miracolo: Vittorio De Sica, Cesare Zavattini e “La porta  del cielo” | Associazione Cinematografica "La Dolce Vita"
Vittorio De Sica e Cesare Zavattini

Scrive la sceneggiatura originale quel Cesare Zavattini che si è praticamente inventato l’intero film. Artista eclettico – scrittore giornalista poeta commediografo ma anche pittore e sceneggiatore di fumetti – ha avuto un lungo e proficuo sodalizio con De Sica col quale ha creato film come “Sciuscià” “Ladri di biciclette” “Miracolo a Milano” imponendosi come autore di punta del neorealismo ma nel contempo artisticamente e culturalmente impegnato a svecchiare l’arte del cinema che considerava duttile e insieme popolare, un’espressione artistica che secondo il suo sentire avrebbe potuto avviare un rinnovamento civile della società sottraendola alle sterili leggi del mercato.

Qui, partendo dal neorealismo, colloca il suo racconto a Lugo di Romagna durante una fiera del bestiame con un ampio antefatto affollato di gente vera, interpreti presi dalla strada, tipi particolari come piacciono anche a Fellini, con la differenza che Fellini li trucca e li veste e li fa muovere dando vita all’immaginario dei suoi bozzetti, mentre De Sica li filma così come sono, limitandosi a estrapolarli dal contesto per metterli al centro del racconto immaginato da Zavattini: in entrambe le soluzioni sempre doppiati. La storia è una favola sulla cui logica bisogna passare oltre. Nella fiera andiamo a scoprire lentamente la protagonista: il personaggio della popolana sfrontata e dal buon cuore sulla quale la Loren ha costruito l’intera carriera. Qui è Zoe, una napoletana che nella fiera gestisce una baracca di tiro a segno insieme a una coppia locale, con la cui complicità ha messo su un’attività illecita: una riffa il cui biglietto vincente, il primo estratto sulla ruota di Napoli ovviamente, darà al fortunato vincitore l’ambitissimo premio di giacere con cotanta maggiorata, che però fa la difficile e vorrebbe ma non può scegliere l’uomo da premiare, e nel frattempo si dà da fare col belloccio del paese, il buttero Gaetano. E’ chiaro che si tratta di prostituzione bella e buona ma in questa favola la buona e bella Zoe mantiene un cuore innocente e tanti leciti sogni che pensa di realizzare con i guadagni, già cospicui, un vero tesoretto, delle riffe che ha già organizzato nelle fiere di paese in paese. Vince il timido scialbo sacrestano e il biglietto vincente diventa l’ambito oggetto di un’asta al rialzo sempre più ardito fra i vari tipi che interpretano se stessi con i lori veri nomi, ma il sacrestano è risoluto nel volere godere il suo inaspettato e altrimenti irraggiungibile premio, la prorompente napoletana con un vestito rosso che sembra dipinto addosso. A questo punto un paio di ben congegnati colpi di scena danno alla vicenda dei risvolti inaspettati… Accanto alla Sophia nazionale Alfio Vita (cinque soli film all’attivo) è l’impacciato sagrestano e Luigi Giuliani (a quota tredici film) è il bello della fiera, mentre tutti gli altri interpreti, come detto, sono presi dalla strada, eccezioni fatta per Annarosa Garatti, l’amica del tiro a segno, professionista con pochi film che si è dedicata successivamente al doppiaggio.

Questo è l’unico episodio che, benché senza riferimenti diretti, resta in linea con la narrativa del toscano Giovanni Boccaccio e del suo Decamerone che incontrano l’arte di arrangiarsi partenopea: dunque, a mio avviso, l’episodio stilisticamente più riuscito all’interno di un film a episodi in cui del Boccaccio nel titolo non c’è traccia: uno scherzo in quattro atti ideato da Cesare Zavattini, appunto. L’episodio che rimane più impresso è di nuovo quello di Fellini, come accadrà per “Tre passi nel delirio” e c’è da riportare l’incidente avvenuto con la distribuzione all’estero: presentato fuori concorso al Festival di Cannes che quell’anno, il 1962, ha premiato il dimenticato film brasiliano “La parola data” – mentre c’erano in concorso “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, “Il processo di Giovanna d’Arco” di Robert Bresson, “L’angelo sterminatore” di Luis Buñuel, “Il lungo viaggio verso la notte” di Sidney Lumet, “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi – da “Boccaccio ’70” è stato eliminato l’episodio “Renzo e Luciana” diretto da Monicelli per portare nelle sale un film di durata più consona: l’originale dura più di tre ore e mezza; ne ha fatto le spese l’episodio con meno appeal, con protagonisti sconosciuti e un tipico racconto della realtà sociale italiana del momento. Per protesta e solidarietà col collega escluso De Sica Fellini e Visconti disertarono il festival. Qui di seguito i manifesti francese, che come sempre francesizzano anche i nomi propri, inglese e tedesco.

Boccace 70 de Luchino Visconti, Federico Fellini, Vittorio De Sica, Mario  Monicelli (1962) - UniFrance
Boccaccio '70 (1962) - IMDb
BOCCACCIO 70 (1962) – Cinema Italiano Database