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Per grazia ricevuta – opera prima di Nino Manfredi

E’ il 1971 e Saturnino Manfredi detto Nino ha cinquant’anni quando debutta in regia col suo primo lungometraggio in cui però ne dichiara quaranta scarsi, credibilissimi per carità, e si fa esageratamente truccare come un divo da operetta, ma ci sta perché comincia a mostrare una lieve sindrome della palpebra cadente sull’occhio sinistro, che mostrerà cinque anni dopo, accentuata dal trucco, nella sua memorabile interpretazione in “Brutti, sporchi e cattivi” di Ettore Scola. Primo lungometraggio, dicevo, perché Manfredi si era già cimentato dieci anni prima dirigendo e interpretando il cortometraggio “L’avventura di un soldato” da un racconto di Italo Calvino nel film a episodi “L’amore difficile”.

#nino manfredi from Bianco&Nero
Nino Manfredi con Luigi Magni

Per questo debutto sviluppa un suo soggetto originale, con riferimenti autobiografici che fanno da struttura portante a un’opera di fantasia, e si fa aiutare nella sceneggiatura da Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, ma soprattutto dall’amico regista Luigi Magni, col quale spesso aveva lunghe piacevoli chiacchierate sulla religione il clero e il potere temporale, regista per il quale era stato protagonista di “Nell’anno del Signore” cui seguiranno “In nome del Papa Re”, “Secondo Ponzio Pilato” e “In nome del popolo sovrano”, tutti film anticlericali. Perché di questo tratta questo suo primo film semi autobiografico: di dubbi sulla fede religiosa, un argomento assai importante per chiunque vi si fosse impegnato, e particolarmente spinoso in quel periodo perché sono gli anni in cui l’Italia si avvia verso le contestazioni sociali e la libertà sessuale; ma è anche un periodo appena successivo al Concilio Vaticano II, su cui certamente Manfredi e Magni si saranno confrontati, un concilio di apertura, sempre entro i limiti sistematici, che non fu in grado di approfondire l’argomento del momento, la contraccezione, né men che meno vi si parlò di divorzio, altro argomento caldo. Argomenti che allora come oggi riguardano la vita sociale e sui quali, come oggi succede riguardo al DDL Zan, la chiesa pone i suoi veti – ammesso che sia lecito – senza mai essersi ufficialmente interrogata e/o confrontata su quegli argomenti.

Nino Manfredi parte dalla sua reale esperienza di bambino ciociaro con radici contadine, assai vivace, e trasferisce nel film la sua vera esperienza come semi internista in un collegio cattolico da cui scappa molte volte per poi finire nella reclusione forzata di un sanatorio quando sedicenne si ammala di tubercolosi. Sono gli anni formativi della personalità e di quella coscienza religiosa con la quale si confronta: quella intrisa di superstizioni nell’ambito contadino che trova pure riscontro nel buon senso e nel cattolicesimo addomesticato e molto casalingo dei fraticelli che racconta nella prima parte del film, quella dell’infanzia del protagonista, che sopravvissuto indenne a una terribile caduta viene fatto oggetto di culto perché miracolato da Sant’Eusebio. Il bambino è anche sopravvissuto alla religione punitiva e terrorizzante impartita dalla procace zia con cui vive – è orfano – la quale, zitella, intrattiene quella che un tempo era definita relazione illecita, e il bambino la scopre nuda mentre si fa il bagno: eventi che lo segneranno per sempre con l’esplosivo dualismo della religione persecutoria e del sesso illecito e proibito che ne faranno un adulto disadattato… ma non racconterò la trama del film, che va visto.

Mario Scaccia, al centro

Parlerò dell’ironica simpatia con cui mostra i fraticelli che come garrule casalinghe si affollano attorno all’Ape del venditore ambulante che si avventura per borghi e vallate sperdute; dell’attenzione che mette nel ritrarre tutti i personaggi di contorno con attori di vaglia che purtroppo, all’epoca, dovevano fare i conti con la piaga pervasiva del doppiaggio; dell’abilità con cui dosa commedia e dramma, gestendo con grande equilibrio anche un momento esilarante a ridosso della tragedia del tentato suicidio; la sua interpretazione sempre spaurita da uomo sempre fuori contesto che però ha gli sguardi e i tentennamenti di un’intelligenza sempre volta a comprendere, sempre tesa a dipanare i dubbi esistenziali che devono essere stati gli stessi dubbi del Nino Manfredi uomo. “Per grazia ricevuta” è un film riuscitissimo che gli valse a Cannes il premio per la migliore opera prima, il Nastro d’Argento a soggetto e sceneggiatura e un David di Donatello speciale per il suo esordio da regista insieme ad Enrico Maria Salerno che quello stesso anno esordiva con “Anonimo veneziano”. Ma gli valse anche il favore del pubblico che in quella stagione cinematografica, ’70-71, con quasi quattro miliardi di lire di incassi si piazzò al primo posto e a tutt’oggi detiene il 32° posto nella lista dei film italiani più visti.

Anche se io al cinema non lo vidi perché ero un preadolescente e in famiglia non si andava al cinema, e mi sarei mosso da solo dopo i 16 anni, conoscevo benissimo il film per le tante volte che se ne era parlato in televisione dove Nino Manfredi era anche una star dei varietà del sabato sera, nelle interviste e nei servizi dei telegiornali che registravano l’enorme successo, e per la canzone della processione “Viva viva sant’Eusebio” che passava continuamente alla radio e che ormai tutti canticchiavamo, musica di Guido e Maurizio De Angelis e parole di Manfredi che la canta; autori anche dell’altro successo “Me pizzica, me mozzica”.

Nel cast il ruolo più di rilievo e andato all’americano Lionel Stander doppiato da Corrado Gaipa, e l’attrice più famosa è un’ancora sconosciuta Mariangela Melato nel ruolo della maestrina della colonia, qui doppiata da Angiola Baggi così bene che a un primo ascolto sembrava la vera voce della Melato che abbiamo imparato a conoscere, e che diventerà prestissimo famosa perché protagonista in “La classe operaio va in paradiso” di Elio Petri ma soprattutto in “Mimì metallurgico ferito nell’onore” di Lina Wertmuller. Nel ruolo femminile principale c’è Delia Boccardo, attrice assai interessante e decisamente bella utilizzata al cinema per lo più nei poliziotteschi e che ebbe una carriera più interessante negli sceneggiati Rai, senza mai assurgere all’ambito ruolo di stella di prima grandezza. Mario Scaccia è il priore dell’abbazia e Paola Borboni, detta dal marito scenico Lionel Stander la iena come anche l’avvoltoio, dà il meglio di sé con sguardi severi ma doppiata però, forse a causa di impegni teatrali, dall’altrettanto valida Pina Cei. Fausto Tozzi è l’autorevole chirurgo ed Enzo Cannavale è il lungodegente dalla malattia che non si sa che cos’è, che al richiamo dell’infermiera Fiammetta Baralla che gli ordina di rientrare perché fa fresco, risponde: Almeno muoio di qualcosa che si sa! La francese Véronique Vendell, oggi del tutto dimenticata anche perché già nel 1979 si ritirò dalle scene, nel significativo ruolo di una prostituta che si auto definisce ragazza chiacchierata e che tenta senza successo le reali virtù del protagonista. Il messinese Tano Cimarosa, doppiato da Pino Caruso, è il venditore ambulante.

Nel ruolo del divertente ingenuo Fra’ Gesuino c’è l’invecchiato fenomeno noto come Mister O.K., l’italo-belga Rick De Sonay che diede l’inizio alla tradizione di tuffarsi nel Tevere, vorticoso e gelido, a capodanno subito dopo lo sparo di cannone di mezzogiorno del Gianicolo. La gente affacciata al parapetto di Ponte Cavour, che misura sul fiume circa 18 metri, stava pochi secondi col fiato sospeso finché l’eccentrico tuffatore non riappariva facendo il gesto dell’O.K. per dire che stava bene, e da lì il soprannome che lo rese famoso insieme all’impresa che negli anni raccolse altri adepti. Già nel 1968 aveva debuttato nel cinema salvando proprio Nino Manfredi che si era buttato nel Tevere in “Straziami, ma di baci saziami” di Dino Risi.

Nino Manfredi, che resterà nella nostra memoria come il primo e in assoluto migliore Geppetto nel Pinocchio televisivo, firmerà anche altre regie ma questa rimarrà la sua opera migliore, per la sincerità dell’spirazione e la complessità del tema trattato con esemplare equilibrio fra leggerezza e approfondimento. Del famoso quartetto che ha dominato la nostra cinematografia lui era quello che ha dato voce ai personaggi più sinceri e popolari, laddove Alberto Sordi era la maschera più infida ma nel contempo divertente, Vittorio Gassman il fanfarone, Ugo Tognazzi il più eccentrico; contemporaneo a quel quartetto ma fuori dagli schemi per la sua particolare inclassificabile complessità è stato Marcello Mastroianni, sempre in fuga dalla star system. Solo Nino Manfredi, con Sordi e Tognazzi, si cimenteranno nella regia, e lui è quello che fra tutti si è espresso più chiaramente sui sempre scomodi temi della fede. Alla sua morte, 83enne, nel 2004, benché dichiaratamente ateo ebbe un funerale religioso che la famiglia avrebbe potuto evitare se solo si fosse ricordata del finale di “Per grazia ricevuta”.

Qui il film completo su YouTube (dove curiosamente, come in tv, manca il nome di Lionel Stander nei titoli, forse per la perdita di un paio di fotogrammi).