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Povere creature! – Leone d’Oro e Oscar 2024

Ovvero quando in Italia proprio non ci azzeccano coi titoli. Dietro questo film c’è un romanzo, “Poor Things!” appunto, che l’eclettico artista scozzese Alasdair Gray diede alle stampe nel 1992 e che da noi Marcos y Marcos tradusse come “Poveracci!” che se uno lo comprava senza sapere cosa, poteva pensare che si trattasse di un romanzo inedito di Pier Paolo Pasolini sulle sue periferie romane; ma la casa editrice milanese dovette subito rendersi conto della figuraccia tant’è che lo stesso anno uscì con un’altra edizione reintitolata “Vita e misteri della prima donna medico d’Inghilterra” facendo pensare stavolta a un saggio storico su Elizabeth Blackwell che fu la prima donna a laurearsi in medicina nel 1849; doveva essere molto faticoso alla Marcos y Marcos – che orgogliosamente si sono dedicati esclusivamente alla traduzione e diffusione di letteratura straniera – pensare a un titolo più rispettoso dell’originale, magari lasciandolo così com’è dato che ormai tutti comprendiamo due parole come poor things. Risultato: le vendite non decollarono e il geniale – in patria – autore scozzese restò da noi misconosciuto. Ma con eccezionale tempismo da standing ovation (su cui indagherò) la piccola casa editrice Safarà (anch’essa con vocazione straniera dedicata alla pubblicazione di opere lontane nello spazio e nel tempo, come si legge sul sito) con sede in Pordenone, dunque periferia geografia e periferia editoriale, fa il colpaccio acquisendo per tempo i diritti ed esce in contemporanea col film al Festival di Venezia, entrambi i lavori, libro e film stavolta intitolati “Povere Creature!”: film e libro di successo.

Alasdair Gray

Il progetto del film non è cosa recente. Nel 2009 l’autore greco Yorgos Lanthimos arrivato proprio in quell’anno alla ribalta con “Dogtooth”, suo terzo lungometraggio tutto greco (il titolo originale era “Kynodontas”) incoronato miglior film al Festival di Cannes nella categoria Un Certain Regard cui seguirono le candidature al British Film Awards e all’Oscar, forte della recentissima fama acquisita in ambito internazionale, andò fino in Scozia per chiedere ad Alasdair Gray, scrittore drammaturgo e artista visivo, di concedergli i diritti del romanzo in questione, e quando arrivò a casa dello scrittore fu sorpreso dall’accoglienza: lo scozzese aveva visto e apprezzato molto il suo film e il greco lo ricambiò esprimendogli la sua ammirazione per quel romanzo che nessuno aveva mai pensato di trasporre per il cinema, fino a ispirarsene: l’inizio di “Dogtooth” e l’inizio del romanzo hanno un aspetto identico: in entrambe le narrazioni i genitori tengono i figli chiusi in casa senza nessun contatto col mondo esterno, reale. Nel film poi le cose procedono in maniera assai più inquietante che nel romanzo, il quale attraverso una narrazione pastiche rimane una favola morale con evidentissimi rimandi al Frankenstein di Mary Shelley e con richiami anche ai mondi narrativi di Arthur Conan Doyle e Lewis Carroll: il romanzo gotico fine ‘800. Da buoni nuovi amici il 75enne scozzese portò il 36enne greco in giro per Glasgow a mostrargli i luoghi reali che aveva inserito nella storia, storia che però era quanto mai irreale, lontana dagli altri suoi romanzi in cui raccontava una città più realistica con indagini sul sociale.

Alasdair Gray a una sua mostra

Le “povere cose” del romanzo, in cui l’autore inserisce anche delle tavole illustrate di propria mano firmate però con lo pseudonimo di William Strang, si muovono in una fantasiosa epoca vittoriana raccontata come iperbole per continuare a parlare dei temi cari: le disuguaglianze sociali, l’ambiguità delle relazioni interpersonali e la ricerca dell’identità – temi cari anche all’autore greco che di suo aggiunge un gusto assai noir ellenicamente intriso di eros e thanatos: il progetto prese il via restando però come lungo work in progress data la difficoltà dell’impresa.

Una delle illustrazioni di Gray: è evidente che lo stile è stato ripreso nelle scenografie del film.

I film successivi di Lanthimos si aprono alle coproduzioni internazionali e vengono girati in lingua inglese, ma restano ancora nell’ambito delle produzioni indipendenti, però con l’arrivo sui set dei primi divi: Colin Farrell, Rachel Weisz e in un ruolo secondario l’apprezzata ma non ancora nota Olivia Colman per “The Lobster” (2015) Premio della Giuria a Cannes, candidatura all’Oscar per la sceneggiatura e al Golden Globe per Colin Farrell che ha rilanciato la sua carriera che s’era avviata in fase discendente; Farrell torna nel successivo film affiancato da Nicole Kidman in “Il Sacrificio del Cervo Sacro” (2017) con la sceneggiatura premiata a Cannes più molte altre candidature in altri premi – ma sono film ancora a basso costo che trattano le tematiche noir e grottesche tipiche dell’autore. Il 2019 è l’anno della consacrazione (anche se ancora gli sfugge l’Oscar personale) col triangolo lesbico nei palazzi reali inglesi del 1700 in “La Favorita” dove per la prima volta l’autore lavora su una sceneggiatura non sua, e per il ruolo della protagonista restò fermo su Olivia Colman che vincerà Oscar e Golden Globe divenendo una delle attrici più richieste; mentre per l’altra protagonista, dopo che Kate Winslet ha lasciato il progetto, offrì il ruolo a Cate Blanchett che però ringraziando declinò; a quel punto Lanthimos ripescò Rachel Weisz che non si fece problemi nell’essere una terza scelta e anzi si disse molto stimolata considerando il ruolo come “il più succoso” della sua carriera, paragonando la sceneggiatura a “Eva contro Eva” ma più divertente perché mossa dalla passione e dal sesso.

Protagonista e regista sul set

Emma Stone si autocandidò: aveva chiesto al suo agente di metterla in contatto col regista, che dopo averla incontrata le chiese di prendersi un insegnante per acquisire l’accento british, e la Stone s’impegnò così tanto che fra i due scoccò una scintilla professionale, tanto che Lanthimos le anticipò il suo progetto su “Poor Things”.

“Dopo il relativo successo di ‘La Favorita’ – ha dichiarato il regista – dove in realtà ho realizzato un film leggermente più costoso che ha avuto successo, le persone erano più propense a permettermi di fare qualunque cosa volessi, quindi sono tornato al libro di Gray e ho detto: ‘Questo è quello che voglio fare.’ È stato un processo lungo, ma il libro era sempre nella mia mente.” Processo talmente lungo che nel 2019 Alasdair Gray se ne andò 85enne senza aver potuto vedere il film tratto dal suo romanzo: il progetto fu ufficialmente annunciato nel 2021, in piena pandemia Covid, con Emma Stone che fece il grande salto da attrice scritturata a co-produttrice: “È stato molto interessante essere coinvolta nel modo in cui il film veniva messo insieme, dal cast ai capi dipartimento a ciò che è stato messo insieme. Alla fine, Yorgos è stato colui che ha preso quelle decisioni, ma io sono stato molta coinvolta nel processo, che è iniziato durante la pandemia; stavamo contattando le persone, facendo il casting e tutto il resto durante quel periodo, perché non potevamo andare da nessuna parte.” Mentre era chiusa in casa, pensando al personaggio sperimentò di farsi una tintura che accidentalmente risultò nera corvina, cosa che non era nelle sue aspettative; ma quel look che contrastava con la sua carnagione chiara piacque al regista e decisero di mantenerlo. Nel costruire il personaggio di Bella Baxter, l’attrice era attratta dall’idea di ritrarre una donna rinata con una mentalità libera dalle pressioni sociali: “Chiaramente, questo non può realmente accadere, ma l’idea che tu possa ricominciare daccapo come donna, con un corpo già formato, e vedere tutto per la prima volta e provare a capire la natura della sessualità, o del potere, o del denaro o della scelta, la capacità di fare delle scelte e di vivere secondo le proprie regole e non quelle della società: ho pensato che fosse un mondo davvero affascinante in cui compenetrarmi. Era il personaggio più gioioso al mondo da interpretare, perché non ha vergogna di nulla. E’ nuova, sai? Non ho mai dovuto costruire un personaggio prima che non avesse cose che gli erano accadute o che non gli erano state imposte dalla società per tutta la vita. È stata un’esperienza estremamente liberatoria essere lei.”

Si proseguì con la composizione del cast e per i ruoli maschili firmarono il veterano Willem Dafoe nel ruolo del frankensteiniano creatore di Bella che ogni giorno si è sottoposto a sei ore di trucco e parrucco, e il cinematograficamente poco noto ma già premiato comico americano di origine egiziana Ramy Youssef come suo aiutante e promesso sposo della creatura: entrambi, per prepararsi ai ruoli, hanno frequentato una scuola per becchini. Mark Ruffalo prese il ruolo del fascinoso manipolatore avvocato che introduce Bella nel mondo reale pensando di poterla usare come oggetto di piacere e al contempo controllare, non immaginando che la voglia di vita di lei avrebbe preso il sopravvento scompaginando tutte le regole vittoriane sulle quali l’uomo basava ogni sua convinzione: interpretazione molto autoironica e divertente. Nel ruolo del sadico marito della prima vita della protagonista l’emergente Christopher Abbott.

Si aggiungono Margareth Qualley (figlia di Andie McDowell) come nuova creatura in sostituzione della transfuga Bella, e nel ruolo della tenutaria del bordello Kathryn Hunter nata in America da genitori greci come Aikaterini Hadjipateras e poi naturalizzata britannica: forte caratterista che per la sua fisicità viene spesso chiamata sui set di film in costume; la nera francese Suzy Bemba, vista come protagonista della serie tv francese sul balletto “L’Opéra”, è una delle prostitute; e come crocieristi sul transatlantico il filosofo nero Jerrod Carmichael che principalmente è un altro comico televisivo e la rediviva 80enne Hanna Schygulla, indimenticata star di tutti gli anni ’70 fino alla metà degli ’80, nel divertito ruolo di una vecchia ricca signora dallo spirito assai innovativo rispetto a quell’Ottocento.

Oscar anche ai costumi di Holly Waddington che ha lavorato a stretto contatto con l’autore per rendere attraverso il guardaroba la crescita e lo sviluppo di Bella, dall’infanzia con abiti gonfi al corsetto che la fascia alla fine del film; anche l’attrice produttrice ci ha messo del suo pensando che nella sua infanzia Bella si veste in modo più tradizionale (si fa per dire, visti i costumi) mentre via via che cresce sceglie di vestirsi in modo più bizzarro – in un contesto surreale e grottesco dove qualsiasi cosa è plausibile.

E Oscar anche alla scenografia firmata dagli inglesi James Price e Shona Heath a cui in un secondo tempo si è aggiunto l’ungherese Zsuzsa Mihalek per i set interamente costruiti in studio in Ungheria, con i fondali dipinti in stile vecchia Hollywood secondo la visione del regista, e partendo dalle illustrazioni che Gray aveva realizzato per illustrare il suo romanzo, Lanthimos ha invitato gli scenografi a liberare tutta la loro follia: sono stati così realizzati, oltre alle versioni in miniatura per i campi lunghi, quattro enormi set in stile Escher, con versioni distorte e vertiginose delle capitali europee in cui Bella viaggia, come visioni nate dalla fantasia del personaggio ancora bambina.

Distorsioni visive accentuata anche dalla visione registica che col direttore della fotografia Robbie Rayan (candidato) hanno usato spessissimo le lenti deformanti come il grandangolo e il fish-eye. Un altro compiacimento autorale è l’uso del bianco e nero in molte sequenze all’inizio del film, che è generalmente gradevole pur senza essere compreso appieno, e qui arrivano le dotte spiegazioni: Lanthimos parte dal fatto che secondo eminenti studi i neonati cominciano a vedere il mondo in bianco e nero e solo dopo, lentamente, cominciano a riconoscere i colori: dunque il b/n del film è lo stato mentale della rinata Bella. Inoltre il b/n, sempre nelle intenzioni del regista, rimanda ai primi film horror con Frankenstein. Io da solo come spettatore medio non c’ero arrivato.

Oscar anche a trucco e acconciature di Nadia Stacey, Mark Coulier Josh Weston. Non premiato con l’Oscar come Miglior Film, categoria che invece è stata premiata ai Golden Globe insieme alla protagonista, e con il Leone d’Oro al Festival di Venezia. Solo candidatura per la sceneggiatura firmata dall’australiano Tony McNamara (di nuovo l’autore si è fatto da parte come sceneggiatore) e per i non protagonisti Willem Dafoe e Mark Ruffalo; solo nomination anche per il musicista Jerskin Fendrix qui debuttante come compositore di colonna sonora.

Ariane Lebed

E poiché Yorgos Lanthimos non se ne sta con le mani in mano, fra un film e l’altro ha realizzato due cortometraggi che è il caso di definire d’autore: nel 2019 con Matt Dillon ha realizzato “Nimic” e nel 2022 durante la lavorazione di “Poor Things” con Emma Stone ha girato “Bleat”, cortometraggi che sarebbe interessante andare a vedere. E al momento sta già ultimando il prossimo film “Kind of Kindness” di cui pochissimo si sa, se non che è stato girato a New Orleans e che dovrebbe uscire la prossima estate; nel cast di nuovo la Stone con Willem Dafoe e Margareth Qualley, ma stavolta è tornato a scrivere lui la sua sceneggiatura col suo amico di sempre Efthimis Filippou; e ricordiamoci, ora che è diventato una star hollywoodiana, che deve ancora piazzare anche la moglie attrice francese Ariane Labed per la quale, oltre a un ruolo di cameriera in “Lobster” non ha ancora trovato una parte succosa; intanto lei è l’altra protagonista della serie francese “L’Opéra” insieme a Suzy Bemba: si suppone che il colore della pelle nelle grandi produzioni sia determinante per l’assegnazione delle quote etniche.

Già si parla del prossimo film sempre con la Stone, perché squadra vincente non si cambia (a meno che un pettegolezzo dell’ultim’ora non ci sveli una loro relazione anche amorosa) che dovrebbe essere il remake della commedia fantasy sud-coreana “Save the green planet”: staremo a vedere cosa accadrà sui grandi schermi e sui grandi rotocalchi. Loro intanto, regista e attrice, interrogati dalla stampa, scherzano: “Facciamo schifo, e lo sappiamo. Perciò ci continuiamo a provare!”

Da qui in poi non si parla più del film ma di finanza ed editoria.

Gennaio 2016. La Elgo Holding con sede a Londra che è proprietaria di oltre 25 aziende sparse nel mondo, ha investito nell’assetto societario dell’azienda pordenonese dmyzero srl che si occupa di comunicazione aziendale ed editoria avendo creato un’innovativa sintesi fra i due settori: due marchi che hanno unito le loro storie per creare una realtà unica e condivisa, capace di evolvere insieme nel tempo: la D’Orsi Studio che opera nell’ambito della comunicazione visiva ai più diversi livelli e la Safarà Editore, una casa editrice che si dedica alla pubblicazione di letteratura e saggistica internazionale e che è tra le 58 case editrici europee vincitrici del bando Europa Creativa, un programma che premia la traduzione e promozione di opere letterarie di qualità firmate da autori provenienti dai più diversi paesi dell’Unione Europea. Elgo, scegliendo D’Orsi Studio per sviluppare la comunicazione delle oltre 25 aziende del gruppo, ha acquisito anche la casa editrice con l’intento di sviluppare importanti progetti editoriali di levatura mondiale. Da qui la dritta della più o meno imminente realizzazione del film dal romanzo già malamente edito in Italia. Marcos y Marcos che ne deteneva i diritti per l’Italia è stata ben lieta di sbarazzarsene e Safarà, che nasconde la longa manus di Elgo, ha fatto il colpaccio. Se è vero che bisogna trovarsi al posto giusto nel momento giusto, è anche vero quello che diceva mia nonna: i soldi fanno i soldi e i pidocchi fanno i pidocchi.

The Father – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Come “Comedians” un altro film tratto, ma forse è più corretto dire sviluppato, da un’opera teatrale, e che è anche l’opera prima cinematografica del suo autore, il drammaturgo francese Florian Zeller, che ha scritto un’opera sorprendente ma che è stato anche capace, in pochi anni, di raccogliere il massimo dei consensi mondiali con il massimo dell’esposizione.

Immagine di ricerca visiva
Alessandro Haber con Lucrezia Lante Della Rovere

Dopo l’acclamato debutto francese nel 2012, la pièce è stata tradotta dal britannico Christopher Hampton che l’ha messa in scena a Londra l’anno successivo, e da lì in poi – forte della veicolazione della lingua inglese – il dramma teatrale è stato rappresentato in tutto il mondo; in Italia è stato realizzato dal regista Piero Maccarinelli nel 2017 con l’interpretazione di Alessandro Haber e Lucrezia Lante Della Rovere.

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Jean Rochefort

Del 2015 è il primo adattamento cinematografico, il francese “Florida” diretto da Philippe Le Guay con protagonista l’eclettico commediante, anche frequentatore dei set italiani, Jean Rochefort, alla sua ultima interpretazione; un film che nella scrittura non vede coinvolto il suo autore teatrale e che prende lo spunto del dramma per farne una storia con altre ispirazioni, sin dal titolo.

Quell’operazione non deve aver soddisfatto Florian Zeller, che ora coinvolge l’inglese che l’ha fatto conoscere al mondo, Christopher Hampton, per scrivere la sceneggiatura di un nuovo film; e per non sbagliare stavolta lo dirige pure, debuttando come regista cinematografico con un film in lingua inglese, con grandi interpreti già premiati con l’Oscar, e pronto già sulla carta a raccogliere ulteriori consensi. Ne è protagonista il grandioso Anthony Hopkins, premio Oscar nel 1992 per “Il Silenzio degli Innocenti”, cui gli sceneggiatori pensano sin da subito chiamando Anthony il suo personaggio. La figlia è interpretata da Olivia Colman, Oscar 2019 per “La Favorita”, e per entrambi mi limito a ricordare solo gli Oscar dato che gli scaffali dei loro premi sono più che pieni.

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Frank Langella e Kathryn Erbe nella messa in scena di Broadway del 2016

Il film, come il dramma teatrale, racconta la perdita della memoria, e dell’intera personalità, a causa della degenerazione progressiva dovuta all’Alzheimer, ma è nuovo e vincente, oltre che narrativamente affascinante e coinvolgente, il racconto dal punto di vista del malato: il dramma comincia come un thriller psicologico in cui l’uomo sembra al centro di un oscuro complotto per cui gli vengono tolti i suoi punti di riferimento, e viene inspiegabilmente ingannato da estranei che si sostituiscono ai suoi familiari: qui c’è il colpo di genio dell’autore, quello di fare interpretare a dei doppi i ruoli dei coprotagonisti, facendoci così precipitare all’interno dello spaesamento del protagonista che non riconosce più le persone: sua figlia, che nel film è fisicamente doppiata da un’altra attrice di gran classe, Olivia Williams, mentre il genero ostile interpretato da un altro protagonista del cinema internazionale, Rufus Sewell, ha il suo doppio nel caratterista di provenienza brillante Mark Gatiss, il quale dà alla sua interpretazione un ghigno che vuole essere rassicurante ma che è molto inquietante; conclude il ristretto cast la più giovane Imogen Poots nel ruolo della badante.

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L’autore regista debuttante firma un film di altissimo livello, coinvolgente e spiazzante, come deve essere stato il suo dramma teatrale per chi ha avuto l’opportunità di vederlo: uno spazio scenico che a poco a poco si spogliava di tutti i suoi arredi, come espediente concettuale e visivo della progressione dello svuotamento della mente del protagonista, che alla fine si ritrovava nella stanza di un ospizio per lungo degenti; e se nel dramma teatrale c’era la figlia ad assisterlo, nel film resta a prendersi cura di lui la sconosciuta che ora è un’infermiera. Uno svuotamento di spazi che non è possibile rendere al cinema dove il racconto deve essere più naturalistico e meno simbolico, così la scrittura esplora altre vie narrative: i silenzi, le solitudini dei personaggi e i dettagli minimi, i sogni e le visioni che arrivano improvvisi dietro porte che si aprono su altri spazi e altre epoche, in uno spiazzamento che una scrittura esemplare diventa interpretazione magistrale. Premio Oscar ad Anthony Hopkins, candidature a Olivia Colman e alla sceneggiatura, candidature anche come Miglior Film, Miglior Montaggio e Migliore Scenografia. E ancora mi limito agli Oscar. Qui da noi la BiM ha ritenuto opportuno distribuire il film con lo stupido sottotitolo “Nulla è come sembra” facendolo sembrare una sciocca commedia degli equivoci. Era stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio 2020 e successivamente è uscito nelle sale di New York e Los Angeles, poi chiuse per la pandemia, così è stato distribuito on demand; in Europa si è affacciato nelle sale nel 2021 e in qualsiasi uscita ha fatto sempre eccellenti incassi.

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Fra le curiosità va detto che Hopkins con i suoi 83 anni si è piazzato come il più vecchio a ricevere il premio da protagonista: il detentore del primato per anzianità era il 76enne Henry Fonda che però aveva ricevuto nel 1981 l’Oscar onorario e l’anno dopo quello come Non Protagonista per “Sul Lago Dorato”; per trovare il protagonista più anziano bisogna risalire al 1970 e al 62enne John Wayne “Il Grinta”. Il miglior Non Protagonista più vecchio al momento è il recentemente scomparso Christopher Plummer per “Beginners” 2012. Fra le donne le più anziane detentrici del primato sono Jessica Tandy, 80 anni, protagonista per “A spasso con Daisy” 1980 e Peggy Ashcroft, 77 anni, non protagonista in “Passaggio in India” 1985.

Vale la pena ricordare che questo non è il primo film sull’Alzheimer, benché sia il primo che racconta il punto di vista del malato. Per chi volesse recuperarli ci sono stati l’inglese “Iris – Un Amore Vero” del 2001 con Judi Dench e Kate Winslet nel ruolo di Iris nelle diverse età e con Jim Broadbent vincitore dell’Oscar, diretti da Richard Eyre. “Lontano da Lei” del 2006 diretto da Sarah Polley con Julie Christie candidata all’Oscar e premiata con il Golden Globe. Del 2010 è il Sud Coreano “Poetry” di Lee Chang-dong, premiato per la sceneggiatura a Cannes. Del 2011 è l’iraniano “Una Separazione” di Asghar Farhadi, Orso d’Oro a Berlino, Golden Globe e Oscar.

Se ne conclude che l’Alzheimer, restando un dramma per chi lo vive su di sé e per le loro famiglie, si conferma un dramma sempre vincente per l’industria dell’intrattenimento.

Regine inglesi al cinema e in corsa per gli Oscar

Un solo pomeriggio-sera, un’occasione da non mancare per gli appassionati del genere, la visione di due film storici su regine inglesi: “La Favorita” e “Maria Regina di Scozia” sul più famoso duetto-duello regale della storia inglese, fra Mary Stuart ed Elizabeth Tudor. Il dramma teatrale di Friedrich Schiller “Mary Stuart” ha anche ispirato l’opera lirica “Maria Stuarda” di Gaetano Donizetti e ha avuto da noi un’epica regia teatrale di Franco Zeffirelli del 1983 con le regine del palcoscenico Rossella Falk e Valentina Cortese.

Nei decenni l’intricata e intrigante vicenda è stata ispirazione per diversi film fra i quali vale la pena ricordare il muto “Regina Elisabetta” con Sarah Bernhardt del 1912; una “Maria di Scozia” del 1936 con Katharine Hepburn cui fece seguito l’anno dopo una “Elisabetta d’Inghilterra” con Vivian Leigh; del 1953 è “La regina vergine” con Jean Simmons come Elisabetta ma non dimentichiamo Bette Davis che ha impersonato Elisabetta in due diversi film: “Il conte di Essex” del 1939 con Errol Flynn che nel titolo inglese era “The Private Lives of Elizabeth and Essex” e Il favorito della grande regina” del 1955 con Richard Todd; nel 1971 arriva “Maria Stuarda regina di Scozia” con le duellanti Vanessa Redgrave e Glenda Jackson. In anni più recenti abbiamo visto Cate Blanchett nei due film “Elizabeth” del 1998 cui ha fatto seguito nel 2007 “Elizabeth: the golden age”.

Nel film attuale, ben diretto dalla regista teatrale Josie Rourke, raccolgono i pesanti testimoni la ventiquattrenne irlandese Saoirse Ronan già dotata attrice bambina, tre volte candidata agli Oscar, e la ventinovenne australiana Margot Robbie candidata all’Oscar lo scorso anno per “Tonya”. Due astri nascenti di sicuro talento che reggono in modo eccellente il peso delle parti in un film che rilegge la vicenda in chiave più femminile e femminista dove i caratteri maschili sono rivelati come doppiogiochisti e manipolatori. Ma nessuna candidatura per le due, stavolta, e a mio avviso le avrebbero meritate.

Film storicamente fedele aggiunge il dettaglio del vaiolo che avrebbe deturpato Elisabetta, che da quel momento in poi si coprirà il viso di una maschera bianca alla biacca avvelenandosi col piombo della mistura. Più risalto è data alla vicenda omosessuale del menestrello italiano Davide Rizzio (Ismael Cruz Còrdova) che si porta a letto il bel marito di Maria (Jack Lowden) ansioso di potere oltre che di vino e piaceri alternativi; ansia di potere che ha anche il di lei fratellastro James (James Mc Ardle); alla corte di Elisabetta tramano i manipolatori Lord Maitland (Ian Hart) e Willian Cecil (Guy Pearce). Una nota a parte sul nero Adrian Lester che interpreta l’ambasciatore Lord Randolph in un’epoca in cui i neri erano solo schiavi servi e valletti, in questo ruolo solo perché la produzione, inglese, si deve preoccupare delle “quote” di colore di pelle inserite nel cast, quel politically correct che vede anche la cinese Gemma Chan come dama di compagnia di Maria. Ricordiamo le altre candidature all’Oscar per i costumi e per trucco e parrucco davvero eccellenti.

Conclusione sul fatidico e tanto atteso incontro fra le due regine qui ottimamente drammatizzato in un capanno dove sono stesi ad asciugare panni di lino come vaporoso labirinto in cui si muovono le due donne. Questo incontro, già nel dramma di Schiller e momento topico di ogni rappresentazione di questo dramma in ogni sua forma, non è storicamente certo che sia avvenuto ed è soltanto verosimile più che vero, credibile e plausibile, e in mancanza di prove opposte diventa immancabile appuntamento drammaturgico.

Di tutt’altro stile “La Favorita” del greco Yorgos Lanthimos che ha trovato in patria i soldi della produzione che batte bandiera greca. La vicenda mette in campo la regina Maria con tutti i suoi acciacchi, capricci, debolezze, indolenze, dolori, insicurezze, crisi ed estasi per la passione omosessuale e perversa per la sua favorita che ben presto trova una degna rivale a contendersi i favori della regina in una sorta di “Eva contro Eva” fra crinoline e veleni.

Ricordando che questa Anna è pronipote di Mary Stuart il cui figlio è stato nominato erede al trono da Elizabeth, al contrario dell’altro film che spiega la vicenda storica con veloci e necessarie scritte, qui non sappiamo nulla di questa regina e chi non conosce dettagliatamente la storia inglese si trova spiazzato: sembra che alla sceneggiatrice Deborah Davis e al regista, più del contesto storico importi il dettaglio della vicenda minima che si svolge tutta nel chiusa del palazzo reale che, a dispetto dei grandi spazi, risulta opprimente e claustrofobico, grazie alla fotografia che al giorno dà un lucore grigiastro e alle notti le guizzanti fiammelle delle candele.

Mentre “Maria” è drammaticamente solenne questo film è dichiaratamente divertente, da un lato prendendosi gioco dell’imbarazzante regina e dall’altro mettendo in campo un duello femminile fra le due favorite senza esclusione di colpi bassi. Si ride spesso delle feroci schermaglie e delle battute al vetriolo di cui è cosparso l’intero film: “Siete venuto a corteggiarmi o a violentarmi?” “Sono un gentiluomo!” “Allora violentatemi.” Abbonda anche un altrettanto divertente turpiloquio credibilmente in linea anche con le corti reali del passato mentre più azzardati e surreali e grotteschi mi sembrano altri passaggi, fra cui una danza di corte che diventa troppo moderna e un uso spropositato di grandangolo e di occhio di pesce che storpiando le inquadrature include spazi immensi in un racconto drammatico che non c’è. Ma anche qui c’è la visione femminile e femminista del mondo passato e se da un lato le donne sono mostrate al naturale o sobriamente truccate, gli uomini sono dei cicisbei imparruccati che si trastullano in discutibili giochi di corte mentre giocano alla guerra con una Francia che qui, a differenza dell’altro film, è solo un’ipotesi lontana come un gioco da tavolo. Non si fa cenno al dramma delle differenze religiose sempre presente nelle corti inglesi passate e tutto il film gioca sul gioco al massacro delle tre donne protagoniste: a mio avviso, tolti gli orpelli, i merletti, i candelieri e le boiserie, resta solo un film del genere amiche-nemiche abilmente confezionato e collocato in un’epoca remota di cui mostra solo le spettacolari esteriorità di trucco e parrucco. Senza il contesto storico è una vicenda che potrebbe essere collocata in qualsiasi periodo e in qualsiasi luogo.

Candidature agli Oscar per tutti: regista, sceneggiatrice, direttore della fotografia, scenografia, costumi, montaggio e miglior film. Per la protagonista Olivia Colman che è la regina Maria già premiata con la Coppa Volpi a Venezia e con il Golden Globe. Per le non protagoniste Rachel Weisz e Emma Stone, entrambe già Oscar e Golden Globe che saranno così rivali anche alla serata delle premiazioni, e stavolta non c’è una favorita. Alla fine l’Oscar è andato a Olivia Colman, a bocca asciutta tutte le altre.

Assassinio sull’Orient Express, sempre grandi star

Nel 1974 dirigeva Sidney Lumet (4 nomination agli Oscar e uno alla carriera nel 2005) un cast all stars con 11 interpreti nominati agli Oscar di cui 6 vincitori e uno alla carriera nel 2009 a Lauren Bacall; un cast che il regista riuscì a mettere insieme facendo firmare per primo Sean Connery, allora una punta di diamante dello star system. Ingrid Bergman rifiutò il ruolo della Principessa Dragomiroff e si offrì per quello della missionaria col quale vinse l’Oscar come non protagonista; nomination ebbero il regista e il protagonista Albert Finney. Un gran film che è un classico da rivedere. Come gran film è anche quello attuale e per il quale, conoscere l’identità dell’assassino, nulla toglie al piacere della visione, anzi!

Nel 2017 dirige Kenneth Branagh che interpreta anche il protagonista Hercule Poirot e mette il cappello sul prossimo film con un richiamo nel finale nel quale viene richiesto in Egitto per un delitto sul Nilo. “Assassinio sul Nilo” fece seguito nel ’78 all’Orient Express del ’74 con un nuovo regista, John Guillermin, che si era fatto notare per la regia del catastrofico “Inferno di Cristallo” altro filmone all stars ma di qualità inferiore, come di qualità inferiore fu il film dal romanzo della Christie; anche l’interprete di Poirot cambiò con l’interpretazione di Peter Ustinov, che a mio avviso fu un interprete più azzeccato.

Branagh, e la più moderna sceneggiatura di Michael Green lo supporta, tratteggia un Poirot meno macchiettistico di come l’ha creato l’autrice, con la sua precisione maniacale che però si stempera in un afflato di umanità che arricchisce e dà profondità al personaggio – ma per il quale si inventa degli spettacoli doppi baffetti! Anche lui dirige un cast all stars, anche se gli Oscar al seguito sono di meno per motivi anagrafici, e tecnicamente il film è più ricco di azione ed effetti speciali, per cui la bufera di neve che blocca il treno diventa una vera e propria spettacolare valanga. E’ ovvio e divertente fare adesso il confronto fra il vecchio e il nuovo cast.

L’ambiguo antagonista, che nel ’74 fu Richard Widmark che accettò il ruolo solo per poter lavorare con tutte quelle star, oggi è un sorprendente Johnny Depp che con gustoso e misurato ghigno con cicatrice incorporata si muove fuori dal seminato dei suoi personaggi sempre positivi e sbruffoni portando una ventata di freschezza al film e alla sua filmografia.

Si è detto di Ingrid Bergman premiata per il ruolo della missionaria svedese Greta Ohlsson che qui diventa spagnola, Pilar Estravados, con l’aderente interpretazione di Penelope Cruz che però rimane negli standard: il carattere riprende il nome di un personaggio di Agatha Christie che compare in “Il Natale di Poirot” messo in film nel 1994 ma di cui non rimane traccia nella memoria.

Si è anche detto di Sean Connery, che interpretava Arbuthnot, colonnello nel romanzo e nel film, che di innamora di miss Debenham durante l’azione. Oggi il personaggio cambia vistosamente, rendendo più moderna e dinamica la trama e rimanendo altresì credibile: Arbuthnot è un medico di colore, interpretato da Leslie Odom jr, già segretamente in amore con la bella e giovane Debenham, segretamente perché all’epoca dei fatti narrati, gli anni ’30 del Novecento, non si parlava di amori interraziali, esistenti ma stigmatizzati.

La bella e giovane Mary Debenham oggi è interpretata dalla pressoché sconosciuta Daisy Ridley mentre nel ’74 era nientepopodimeno che Vanessa Redgrave in azzeccatissima coppia con Sean Connery.

Ruolo chiave della vicenda è Mrs Hubbard, vedova americana dalla parlantina brillante e tagliente che da Lauren Bacall passa oggi a Michelle Pfeiffer: entrambe star di prima grandezza ormai sessantenni, entrambe totalmente in parte, con una mia personale debolezza, anche anagrafica, per la Pfeiffer che mostra una dolcezza in più rispetto alla Bacall: le auguro una candidatura agli Oscar, anche senza premio, che la possa rilanciare nello star business, dato che il suo ultimo film con buoni esiti al botteghino è “Chéri” di Stephen Frears del 2009. Ma vale la pena fare l’elenco dei film di grande successo che ha rifiutato perché non ha saputo valutare sulla carta (tra parentesi l’attrice che la sostituì): Thelma e Louise (Geena Davis), Basic Istinct (Sharon Stone, nomination Golden Globe), Il Silenzio degli Innocenti (Jodie Foster, premio Oscar), Insonnia d’Amore (Meg Ryan, nomination Golden Globe), Pretty Woman (Julia Roberts, nomination Oscar e Golden Globe), Evita (Madonna, Golden Globe) e altri ancora.

Anche il personaggio di Hector MacQueen, segretario tuttofare del cattivo Ratchett/Cassetti, subisce una interessante evoluzione. Nel ’74 era interpretato da un Anthony Perkins con ancora attaccate addosso le nevrosi dello “Psycho” di quattordici anni prima. Oggi è interpretato da Josh Gad, cicciottello comico ebraico-americano che qui fa un salto di qualità ben riuscito, certo cercando di allinearsi ai suoi colleghi comici cicciottelli ormai star mainframe come Jack Black o Jonah Hill.

Il maggiordomo passa da John Gielgud (nominato agli Oscar) a Derek Jacobi nella migliore tradizione dei maggiordomi inglesi.

Ma sul treno c’è un altro investigatore privato in incognito, altro ruolo chiave della vicenda, Cyrus Hardman che, già interpretato dal caratterista Colin Blakely, cambia nome di battesimo in Gerhard e lo fa Willem Dafoe, con una performance a mio avviso sotto tono rispetto all’impegno generale – o forse il ruolo, a tratti lievemente grottesco, non è adatto a lui.

L’anziana Principessa Natalia Dragomiroff che fu Wendy Hiller oggi entra nello schermo con lo sguardo assassino di Judy Dench che dà subito il carattere del personaggio, che poi però rimane tutto lì: un personaggio di supporto poco definito da interpretare proprio come un cameo. La sua dama di compagnia, la tedesca Hildegarde Schmidt passa da Rachel Roberts a Olivia Colman senza colpo ferire.

Ci sono poi i Conti Rudolph Andrenyi e la Contessa Helena Maria Andrenyi che se ne stanno in disparte chiusi nella loro cabina che, interpretati originariamente da due nomi come Michael York e Jacqueline Bisset qui vengono affidati agli sconosciuti Sergei Polunin, che nasce come ballerino russo, e Lucy Boynton, ex attrice bambina inglese, condannando di fatto questi due personaggi al bozzetto di fondo.

C’è poi Antonio Foscarelli, venditore di automobili un po’ sbruffone, ovviamente italiano nella fantasia di Agatha Christie, che fu interpretato dallo sconosciuto inglese Denis Quilley e che oggi diventa Biniamino Marquez, interpretato dal messicano Manuel Garcia-Rulfo, certo per coprire la quota hispanica della super produzione statunitensi.

Il capo carrozza Pierre Michel, che fu interpretato dal francese Jean-Pierre Cassell oggi è il tunisino-olandese Marwan Kenzari; mentre il capotreno, il belga Bouc, che in francese significa caprone, certo con qualche intenzionalità nell’autrice, conterraneo amico e assistente improvvisato di Poirot, cui oggi dà il volto l’aitante australiano Tom Bateman, nel ’74 era diventato un Mr Bianchi interpretato da Martin Balsam.

Il film è riuscitissimo. Le star non sono quelle di una volta ma neanche il pubblico lo è, ben che vada è invecchiato come il sottoscritto. E la trovata più azzeccata è quella della risoluzione finale del giallo, che nel primo film avveniva all’interno del lussuoso treno, come da racconto, quando Poirot riunisce tutti per svelare il nome dell’assassino: oggi, a causa del treno bloccato per la valanga, la scena è montata all’aperto, e i 12 personaggi coinvolti sono tutti seduti a un lungo tavolo come in un’ultima cena, per un ultimo resoconto dove al peccato segue, ancora una volta, il perdono.

Note di costume: il pubblico in sala era per lo più fatto di adulti e anziani. I pochi giovani erano un ragazzo solitario, come ero io che al calcio preferivo un pomeriggio al cinema, e ragazzine selfie-dipendenti che erano solo venute a vedere Johnny Depp restando deluse (è il loro punto di vista) dalla performance, e sorprese che la storia fosse scritta da Agatha Christie: chissà che si credevano, povere stelle!