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Cry Macho

A 91 anni (quest’anno 92) Clint Eastwood è ancora attivissimo e dirige questo suo ultimo film, ultimo in termini di tempo sperando che non sia l’ultimo in assoluto. Va detto subito che non è fra i suoi migliori, lui che ha realizzato dei capolavori, ma è gradevole e qualsiasi film lui abbia ancora l’energia di fare va senz’altro visto. Gli fu offerta questa sceneggiatura già nel 1988, quando aveva 58 anni, ma lui rifiutò per girare l’ultimo capitolo della cinquina con l’Ispettore Callaghan, e perché probabilmente era ancora troppo giovane e aitante per interpretare un cowboy da rodeo a fine carriera, e lo riprende solo oggi quando lui però è già troppo vecchio, ma ormai Clint è Clint, è una leggenda vivente, ha firmato film da Oscar, e se adesso ci risulta improbabile in questo ruolo non ci mettiamo a fare i pignoli: ispira tenerezza e simpatia, e perché no anche solidarietà, vederlo alla sua veneranda età fare gli occhi dolci alla vedova messicana che ha almeno la metà dei suoi anni: un ruolo che al massimo avrebbe potuto interpretare un 70enne.

Il film nasce da una sceneggiatura che il premiatissimo romanziere e drammaturgo N. Richard Nash aveva scritto nei primi anni ’70 ma che le major avevano rifiutato. Pensò allora di trasformare la sceneggiatura, intitolata “Macho” in un romanzo che diventò “Cry Macho”: “Ho pensato di farne una rapida novellizzazione. Ho ricevuto un anticipo di 10.000 dollari (55.000 odierni) e l’ho completato come ‘Cry Macho’ in due settimane. Ha ottenuto recensioni sorprendentemente buone e nell’istante in cui sono apparsi, tre studi, che avevano tutti rifiutato la sceneggiatura, hanno iniziato a fare offerte per questa terribile, piccola cosa. Ho venduto i diritti a uno. Quando mi hanno chiesto di fare la sceneggiatura, ho dato loro quello che avevano rifiutato — non hanno cambiato una parola – e l’hanno adorato!”: a dimostrazione della miopia di tanti produttori che cercano il successo già impacchettato anziché contribuire a crearlo. E in seguito Nash specificò in un’intervista che in realtà era stata la 20th Century Fox a rifiutare la sceneggiatura originale per ben due volte, prima di accettarla quando cambiò “solo quattro pagine”. Dopo il rifiuto di Clint la sceneggiatura passò all’attenzione di Burt Lancaster e Roy Scheider e Pierce Brosnan fino a che al Festival di Cannes del 2011 venne annunciata una produzione con protagonista Arnold Schwarzenegger che aveva appena dismesso i panni di governatore della California, ma a causa di guai personali, prima uno scandalo legale a fine mandato – aveva dimezzato la pena al figlio di un suo amico colpevole di omicidio – e poi il divorzio dopo un matrimonio 25nnale, fece naufragare il progetto e Scwarzy tornò poi a recitare nel trittico di “I mercenari”.

A questo punto torna in lizza il nostro grande vecchio che affida l’adattamento della sceneggiatura originale – Nash era morto 87enne nel 2000 – al fidato Nick Schenk che prima di incontrarlo aveva sbarcato il lunario in vari modi: attore e sceneggiatore in programmi tv sport-spettacolo sul bowling e le arti marziali, ma ha anche fatto il commesso, l’operaio e l’autista, e solo quando Clint acquista un suo script e ne realizza “Gran Torino” e lui vince l’Oscar per la sceneggiatura, il ragazzone diventa un professionista della scrittura; e dopo aver scritto “The Judge” per un altro grande vecchio, Robert Duvall – evidentemente i drammi sulla terza età gli sono congeniali – scrive ancora per Eastwood “Il corriere – The Mule” e poi questo “Cry Macho” in cui Clint deve aver messo del suo, soprattutto nei passaggi in cui parla della vecchiaia in modo assai partecipato, prossimo all’autobiografia.

Lui nelle varie interpretazioni è stato, in un verso o nell’altro, sempre lo stesso personaggio, quello che Sergio Leone aveva intuito in lui: l’eroe solitario e controcorrente, di poche parole, violento a fin di bene, scostante ma partecipativo e dunque il classico burbero benefico dal titolo dalla commedia di Carlo Goldoni che è diventata un’etichetta; in una carriera fatta di western, a cui è sempre tornato, e di thriller polizieschi, la sua maschera non è mai cambiata nonostante qualche incursione nel genere romantico come in “I ponti di Madison County” con Meryl Streep, e con la terza età si è poi aperto ai film corali divertendosi con i suoi coetanei in “Gli spietati” e “Space Cowboys”, oltre a quelli dove è solo regista e qualche volta anche musicista con notevoli incursioni nelle storie di personaggi reali, fino alle ricostruzioni storiche come nel dittico formato da “Flags of Our Fathers” e “Letters from Iwo Jima” che raccontano i due punti vista, americano e giapponese, sulla battaglia di Iwo Jima; con una menzione speciale: è praticamente l’unico fra i suoi coetanei, o comunque star hollywoodiane, che si è sempre tenuto lontano dalla debolezza del divertimento puro, facendo pure cassa che non guasta, e non ha mai partecipato ai blockbuster fantasy con supereroi e cattivi di lusso.

Qui è Mike Milo, un vecchio cowboy da rodeo in disarmo con ovvio bagaglio di dramma personale, che il suo ex datore di lavoro incarica di recuperare o forse rapire il figlio undicenne che vive, si fa per dire, con la scapestrata madre in Messico, perché il ragazzino, più scapestrato della madre, vive per strada e di espedienti, con un gallo da combattimento che si chiama Macho e in cui ovviamente lui si trasfigura: è un duro imberbe. L’incontro col vecchio leone comincia ovviamente nel peggiore dei modi, salvo poi, sempre ovviamente, comprendersi e reciprocamente apprezzarsi in una storia vista e rivista che non riserva sorprese e in cui, ancora ovviamente, non mancano i momenti di commedia che però non sono mai stati congeniali a Clint, né da attore né da regista, e tuttalpiù sfoggia qualche smorfia e qualche battuta ironica; storia di redenzione per il vecchio e il ragazzo spalmata di buoni sentimenti come erano i film di una volta – e in effetti questo film avrebbe dovuto essere già quello “di una volta” ed è necessariamente ambientato negli anni ’70 perché tante cose sono oggi cambiate da quando la storia è stata concepita, e un forzoso ammodernamento gli avrebbe nuociuto più che aiutarlo.

Il ragazzino coprotagonista, messicano di nascita, è il 16enne Eduardo Minett già star di Instagram e di TikTok in un mondo dove il talento si esprime e si impone attraverso percorsi che personalmente mai avrei immaginato. La vedova dal cuore d’oro che fa brillare gli occhi al vecchietto è l’americana Natalia Traven che, al contrario del ragazzino, non è sui social ed è molto riservata. Fra i ruoli principali completano il cast la cilena Fernanda Urrejola in patria star di telenovelas e da poco trasferita negli States per dare una svolta alla carriera; mentre il cantautore Dwight Yoakam è nel ruolo del padre del ragazzo. In conclusione un film leggero e gradevole che mi auguro non rimanga la firma definitiva di un Clint Eastwood che già si staglia sul suo tramonto.

Green Book, vincente per forza

“Green Book” ha già vinto il Golden Globe nella sezione Miglior Film Commedia e Miglior Attore non protagonista per Mahershala Ali; è candidato all’Oscar come Miglior Film, Miglior Attore Protagonista e Non Protagonista, Miglior Montaggio e Miglior Sceneggiatura al regista Peter Farrelly che l’ha scritta a sei mani con Brian Hayes e Nick Vallelonga che è il figlio del Tony di cui il film racconta la storia “ispirata a vicende reali”. Ricordiamo qui che Peter Farrelly in coppia col fratello Bobby ha firmato grandi successi come “Tutti pazzi per Mary”.

La vicenda cui si ispira è quella del pianista nero Don Shirley, colto azzimato e nero, che per la sua tournée nel profondo sud degli States si affida all’italo-americano Tony Vallelonga, ignorante rozzo e bianco. La vicenda è complicata perché siamo nel 1962, nel sud vige ancora la segregazione razziale e l’eccezionale pianista è accolto da strette di mano e applaudito solo finché si esibisce ma poi non può condividere ristoranti e bagni coi bianchi che lo hanno ingaggiato e osannato. Il Green Book del titolo è una guida di viaggio per negri, per aiutarli a trovare i posti dove possono alloggiare e mangiare più tutte le altre regole della segregazione, come quella della restrizione notturna agli spostamenti.

Fondamentalmente è un film del filone “strana coppia” dove i due, quanto mai diversissimi, finiranno con l’apprezzarsi e col condividere esperienze e culture: nulla di nuovo. Vince l’ambientazione, appunto, e la coppia del cast che schiera due nomi di prim’ordine già pluri premiati: Viggo Mortensen e Mahersala Ali che sembrano divertirsi molto, in libera uscita dai ruoli impegnativi che li hanno premiati in passato, e divertono la platea. Ai Golden Globe ha vinto solo Mahersala Ali come Non Protagonista ed entrambi sono candidati all’Oscar sempre come protagonista Viggo Mortensen e non protagonista Mahershala Ali che di fatto è protagonista tanto quanto: vedremo presto come andrà anche se a mio avviso il film, gradevolissimo, è però molto sopravvalutato. Nel cast la palpitante Linda Cardellini come moglie di Viggo e lo stesso co-sceneggiatore figlio del vero protagonista Nick Vallelonga.

Ma la pecca più grossa del film è il suo doppiaggio italiano che lo riduce a un film di macchiette col suo insentibile “sicilianese” (termine gergale per addetti ai lavori per definire un siciliano inventato e assai sgradevole) che ha il suo peccato originale nell’adattamento dei dialoghi dove sentiamo addirittura un “chissi cosi” che non esiste in nessuno dei dialetti dell’Isola: come rovinare un film in corsa per gli Oscar. Dato il peso specifico artistico di Mortensen ho immaginato che il suo lavoro sulla lingua italo-inglese dovesse essere più raffinato e me ne sono accertato cercando sul web il trailer in lingua originale…