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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

Felicità – opera prima di Micaela Ramazzotti

Il 2023 è stato un anno felice per i debutti alla regia di attrici e attori, a cominciare dall’acclamatissima opera prima di Paola Cortellesi “C’è ancora domani” che ha sbancato il botteghino; e vale la pena annotare il documentario biografico della polacca italianizzata Kasia Smutniak che in “Mur” racconta la zona geografica caldissima, di grande attualità, tra la sua Polonia e la Biolorussia; e sul versante maschile debuttano gli attori Alessandro Roja con il suo “Con la grazia di Dio”, Michele Riondino con “Palazzina LAF” e il figlio d’arte Brando De Sica con “Mimì – il principe delle tenebre” oltre ad altri interessanti registi puri (non attori) i cui nomi non ci dicono nulla nell’immediato. Ma non tutti hanno goduto o ancora godono dell’attenzione del pubblico, come nel caso di questo debutto che al Festival di Venezia, presentato nella Sezione Orizzonti, ha ricevuto il Premio Spettatori, e una benevola attenzione della critica che però non ha mancato di segnalare alcune debolezze del film.

A mio avviso la debolezza principale sta proprio nell’attrice che dichiaratamente ha realizzato un film sulla scia del suo personale percorso artistico, senza tentare vie meno comode, come quello della Smutniak, o come quell’altro meno riuscito di Jasmine Trinca che con “Marcel!” ha tentato una favola drammatica senza riuscire a maneggiare appieno il materiale, però; o l’originale thriller psicologico “Tapirulàn” molto ben diretto e interpretato da Claudia Gerini.

Il film di Micaela Ramazzotti, che ha incassato meno di 600 mila euro, è già in chiaro su Sky Cinema per accompagnare l’uscita della serie “Un amore” che interpreta insieme a Stefano Accorsi che l’ha ideata e prodotta, e per l’occasione è intervistata da Omar Schillaci nel suo programma “Stories” nel quale si racconta con una voce da donna adulta che mi stupisce perché mi ero convinto che il suo tono sempre cantilenante di bambina un po’ imbronciata, che è il marchio tipico delle sue interpretazioni, fosse il suo naturale modulo espressivo.

Molto generosamente cita il successo della Cortellesi, rivendicando il ruolo delle attrici nel nostro cinema, e nell’insieme si racconta rivelando che per costruirsi la carriera ha seguito un modello: all’inizio ha capito che andava la svampita e come tale si presentava ai provini e sui set, procedendo passo passo nella carriera di attrice dopo il suo debutto a tredici anni come interprete dei fotoromanzi “Cioè” e il suo primo ruolo significativo lo ebbe a 21 anni come “Zora la vampira” che fu il debutto dei fratelli registi accreditati come Manetti Bros. Il grande successo, e la svolta anche nella vita privata, arriva con “Tutta la vita davanti” di Paolo Virzì, col quale scoccò una scintilla sul set tanto da convolare a nozze; nel film, che le valse la nomination ai David di Donatello come non protagonista, era una giovane madre scombinata, un ruolo che immergeva in un contesto drammatico la svampita che l’aveva condotta fin lì; è un personaggio molto riuscito e Micaela, che fedele alla sua ricerca della via che porta al successo prende a cavalcare anche quel tipo di donna che lei definisce “storta”, un tipo nel quale il pubblico e la critica la apprezzano: è intensa, indifesa e forte al contempo, e dimostra anche sicure doti di commediante, tanto che – volendo fare uno di quegli inutili accostamenti che però aiutano la lettura – un po’ ricorda Monica Vitti.

Avevo notato che funzionavano i personaggi svampiti, leggeri, – racconta a Omar Schillaci – quindi i registi un po’ li ho presi In giro fingendo di essere veramente svampita, leggera, frivola. Poi a un certo punto me lo sentivo stretto, sentivo che forse ero anche io un po’ fraintesa come persona. E allora ho iniziato ad amarle veramente queste donne e a studiarmele seriamente, a scegliere quei personaggi e scegliere appunto le loro storture. Perché ho sempre amato chi sbaglia, l’imperfezione, chi cade e si rialza. Mi è sempre piaciuto portare al cinema quelle donne lì”. Ma è anche vittima di queste sue donne “storte” che le riescono così bene e su questa traccia comincia a pensare al suo film da debutto autorale; lo scrive insieme all’amica attrice livornese Isabella Cecchi, un’eredità affettiva che le è rimasta dal marito livornese ormai ex, e la non identificata Alessandra Guidi. In realtà nessuna delle tre sembra avere un percorso formativo di scrittura cinematografica e proprio la sceneggiatura è la parte più debole del film, insieme all’inevitabile sensazione di dejà vu: quante famiglie problematiche abbiamo visto al cinema?

Perché l’argomento potesse passare indenne da queste forche caudine avrebbe avuto bisogno di qualcosa di nuovo, un punto di vista personale, più forte; invece il film percorre la via della commedia drammatica, in cui l’ex marito è maestro, che sembra essere la nuova commedia italiana del nuovo millennio. La scrittura soffre anche di tante ingenuità, a cominciare dalla vecchissima gag delle parole tecniche o straniere storpiate, una gag che si rifà all’avanspettacolo, a un’epoca in cui l’ignoranza era diffusa e ci si rideva sopra: ma oggi che una certa ignoranza è drammaticamente di ritorno, ancora più grossolana e anche cattiva, essa non fa più neanche sorridere e arriva cinematograficamente patetica; per non dire delle caratterizzazioni dei personaggi e di certe situazioni che sono rimaste nel grezzo stadio embrionale.

C’è poi il suo personaggio di sempiterna svampita in salsa drammatica, personaggio che qui sdoppia nella figura del fratello disadattato, e stavolta davvero la misura è colma: perché se lei maneggia con sicurezza il suo modulo recitativo, a Matteo Olivetti, che abbiamo visto debuttare nel film di debutto dei Fratelli D’Innocenzo “La terra dell’abbastanza”, non riesce altrettanto: l’attore non sembra maturo per personaggi di un tale spessore, e la cosa grave è che continua a biascicare incomprensibilmente come in quel debutto, dove però il biascichio era lì funzionale.

Dal punto di vista tecnico, puramente registico, il film è invece molto ben confezionato: basta notare la sequenza d’apertura che si svolge su un set cinematografico dove la nostra lavora come parrucchiera, con un dolly ripreso da un altro dolly in un gioco di specchi dove il cinema racconta il cinema. Per il resto, come dicevo, l’autrice fa partire la sua storia di famiglia “storta” da quei set cinematografici che da attrice ben conosce, non riuscendo a immaginarsi come autrice in un contesto diverso: insomma va sul sicuro, si butta col salvagente, e coinvolgendo gli amici: il regista Giovanni Veronesi, col quale però non ha girato alcun film, fa sé stesso; e si affida ad ottimi professionisti: fotografia di Luca Bigazzi, montaggio di Jacopo Quadri e musiche dell’ex cognato Carlo Virzì al quale deve in qualche modo la sua fortuna di attrice: era stato lui a notarla e a presentarla al fratello Paolo.

Anche il titolo, “Felicità”, appare alquanto improbabile in questa storia di dissoluzioni familiari, tanto che i giornalisti gliene hanno chiesto conto, e Ramazzotti ha spiegato: “L’ho scelto perché è una parola che sta sulla bocca di tutti noi, quasi sempre durante la giornata, sia ai bambini che ai grandi, è una parola che mi piaceva, è facile, si ricorda. La felicità per quanto riguarda il mio film viene dal meraviglioso termine greco eudaimonìa che è il percorso che una persona fa per arrivare a quella famosa felicità, salire su quel benedetto treno. Perché la felicità insomma, oggi come oggi, è difficile trovarla, bisogna quasi inventarsela. Invece l’eudaimonìa è una conquista, un percorso che uno fa, uno stile di vita, è un andargli incontro.” In realtà i giornalisti hanno chiesto, e l’autrice ha dovuto spiegare, perché nel finale sorella e fratello si avviano verso una loro personale presa di coscienza, consapevolezza – ma la felicità è un po’ troppo oltre – e cinematograficamente il finale è debole, resta lì, sospeso, non finale aperto ma solo non conclusivo. Felicità resta solo una bella parola accattivante che strizza l’occhio al pubblico, per poi deluderlo.

Di gran livello il resto dei coprotagonisti. L’ex comico televisivo Max Tortora, giunto in età più che matura si sta reinventando come caratterista di lusso nel cinema romano e romanesco; fu proprio nel film di debutto dei D’Innocenzo che per la prima volta si confrontò con un personaggio drammatico a tutto tondo; è qui il padre di famiglia della tossica famiglia, con un personaggio evidentemente scritto su di lui: si ostina a fare il comico e l’intrattenitore che in età avanzata sogna ancora una brillante carriera ma intanto sbarca il lunario esibendosi nei centri per anziani. Anche il ruolo della madre è scritto su misura per Anna Galiena, attrice con studi e frequentazioni internazionali, che ebbe il suo exploit a 41 anni nel 1990 nel sensuale ruolo del titolo in “Il marito della parrucchiera” accanto a Jean Rochefort e diretta da Patrice Leconte; fama che nell’immediato le portò qualche altro bel ruolo ma con l’avanzare degli anni la sua carriera si è stabilizzata nei ruoli di supporto ancorché importanti.

Qui Ramazzotti le offre un’autocitazione quando il personaggio ricorda il suo passato di parrucchiera che tutti desideravano. Detto questo, l’ottuso razzismo e la grettezza dei personaggi, benché resi benissimo dagli interpreti, sono nella scrittura grossolani, a dir poco.

Assai funzionale e ben tratteggiato il marito della protagonista, un intellettuale interpretato con contenuto istrionismo da Sergio Rubini, un personaggio in cui probabilmente confluiscono anche alcune dinamiche private dell’attrice, ma un personaggio che corre anch’esso verso un finale che vuole essere una svolta drammatica a sorpresa e che invece risulta arraffazzonato. In un piccolo ruolo, quello dell’attore con le mani lunghe, Marco Cocci, rockettaro toscano cooptato al cinema da Paolo Virzì, qui a riprova del fatto che l’ex famiglia d’arte toscana dell’ex marito è divenuta anche la famiglia dell’attrice romana.

In un piccolissimo inconcludente ruolo, neanche un cameo, l’ex bellissima francese Florence Guérin attiva anche in Italia dalla seconda metà degli anni ’80 come icona erotica che nulla ha lasciato all’immaginazione – che nel 1998 però, a 33 anni, interruppe la sua carriera a causa di un gravissimo incidente stradale nel quale perse il figlio di cinque anni, restando lei stessa in coma per lungo tempo e subendo diversi interventi chirurgici; è tornata a recitare nel 2000, soprattutto per la televisione francese, con lo pseudonimo di Florence Nicolas prendendo come cognome il nome del figlio perduto.

In conclusione il debutto di Micaela Ramazzotti come regista è un film con molte imperfezioni che però è nell’insieme scorrevole e gradevole, non a caso il premio del pubblico a Venezia. Se ci sarà un’opera seconda mi auguro che si affidi anche per la scrittura a dei comprovati professionisti, per partire sotto i migliori auspici dalle fondamenta delle sceneggiatura. E che abbandoni le vie già percorse e comode. L’abbiamo vista nuda sul settimanale “Max” e sul grande schermo, ha vinto un David di Donatello, quattro Nastri d’Argento e due Ciak d’Oro, è parimenti amata da pubblico e critica, e oggi che ha 45 anni deve trovare la forza di reinventarsi, a cominciare dal ruolo di regista, o passerà presto nei ruoli secondari della zia svampita dai facili costumi.

Il giovane favoloso

Mi porta fuori strada e rimane per me un mistero il titolo: Il Giovane Favoloso, che comunque funziona e resta impresso nella memoria. Ma sento che è fuori contesto, essendo “favoloso” un termine moderno rispetto al linguaggio di Leopardi e all’italiano desueto e rigoroso con cui è scritto il film: viene da quel “fabulous” che i gay americani hanno adottato come aggettivo di meraviglia e che è arrivato, con le stesse caratteristiche, anche in Italia. Peraltro nel suo significato da dizionario italiano “favoloso” viene da “favola” e sta per mitico, leggendario, immaginario con tutte le accezioni possibili e immaginabili, aggettivi che apparentemente nulla hanno a che vedere col giovane Leopardi. Benché favolose, nel senso di immaginifiche, siano le sue liriche…

Il film, diretto da Mario Martone che lo ha scritto con Ippolita Di Maio, è quasi un miracolo: lo si intuisce difficile e lo si scopre scorrevole, ci si aspetta un film letterario e pur senza deludere è anche un film emozionante. Oltre alla eccellente scrittura il merito è di Elio Germano che infila un’altra perla nel filo delle sue magistrali interpretazioni. Mi dispiace che a Venezia non abbia avuto la Coppa Volpi come migliore attore e aspetto di vedere il vincitore Adam Driver che con Alba Rohrwacher ha fatto la doppietta per il film di Saverio Costanzo “Hungry hearts”. Sicuramente Elio Germano potrà rifarsi ai David di Donatello anche perché il film sta andando molto bene al botteghino e si sa che quel premio è sensibile ai risultati economici dato che spesso si è inventato premi per film mediocri ma di cassetta.

Elio Germano dà voce alle più importanti liriche di Leopardi con quella naturalezza senza enfasi che si dovrebbe insegnare sin dai banchi di scuola, così come tutto l’eccellente cast recita un italiano aulico con grande naturalezza laddove ci stiamo abituando al biascicare e al birignao di sedicenti attori e attrici che non hanno naturalezza neanche con le frasi fatte delle sceneggiature televisive. Non a caso i principali interpreti vengono dal teatro: Massimo Popolizio è il padre conte Monaldo Leopardi, grande studioso e illuminato pur nel suo assai rigoroso conservatorismo; Paolo Graziosi il vecchio zio marchese, vera anima conservatrice retaggio di un’epoca, l’Ottocento, ormai alla fine; Raffaella Giordano come rigida madre anaffettiva; ma anche Michele Riondino nei panni dell’amico Antonio Ranieri, di cui Leopardi osserva e invidia la bellezza virile e il successo con le donne, quelle donne che lui non conoscerà mai carnalmente a causa della sua salute cagionevole che negli anni gli piega le ossa e lo indebolisce, e del suo spirito eletto e geniale che diventa il suo unico punto di vista sul mondo, non scevro da una forte dose di ironia e da una necessaria voglia di ribellione che lo porterà alla fuga da Recanati per il mondo allora possibile: Firenze, Roma, Napoli. Altri interpreti: la francese Anna Mouglalis come musa ispiratrice di vita e amante del suo amico Ranieri, Isabella Ragonese ed Edoardo Natoli come suo fratelli, Valerio Binasco come il poeta Giordani che lo ispira alla fuga fisica e intellettuale, Iaia Forte come padrona di casa napoletana un po’ vaiassa.

L’intero film, ricco di bellissime inquadrature che fanno da preciso contrappunto alle bellissime parole di Leopardi, sempre troppo poco lette perché troppo male studiate, risulta oltre che scorrevole anche commovente nel raccontarci la vita priva di avventure e ricca di – necessaria? inevitabile? – interiorità di uno spirito eletto che ha lottato per l’intera esistenza con le scatole cinesi in cui era racchiuso: la famiglia anaffettiva, la casa paterna, Recanati, il suo corpo inadatto alla vita – in contrapposizione al suo spirito sempre troppo oltre rispetto al mondo che lo racchiudeva.

E forse in conclusione trovo il mio senso al titolo “favoloso”: in quel finale d’Ottocento il giovane Leopardi è stato così moderno che oggi lo si potrebbe soltanto definire così, con un pizzico di arroganza e di allegria che non gli sarebbero dispiaciuti: un giovane davvero favoloso!