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I soliti ignoti – e per la prima volta sullo schermo Claudia Cardinale e Tiberio Murgia

Questo film del 1958 è un caposaldo del cinema italiano ma partiamo da più lontano nel tempo e nello spazio, dalla Hollywood dei primi anni ’50 che con film come “Giungla d’asfalto” di John Huston dal genere thriller, o noir per dirla alla francese, sviluppa il sottogenere caper movie detto anche heist movie, ovvero film dove una banda di malviventi organizza un colpa grosso; e se heist è comprensibile in quanto significa rapina, caper è meno chiaro perché letteralmente significa cappero ma in realtà è stato coniato fra i malavitosi italo-americani che hanno anglicizzato l’italiano capriola con riferimento ai salti mortali e a tutte le acrobazie che dovevano fare per sfuggire alle forze dell’ordine. Sta di fatto che il genere piacque molto al pubblico, e fra i principali caper movie bisogna ricordare “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick mentre in Francia ci fu il grande successo di “Rififi” di Jules Dassin, e scavalcando gli anni ’60 in Italia Marco Vicario diresse il dittico “Sette uomini d’oro” e “Il grande colpo dei sette uomini d’oro” al servizio di sua moglie Rossana Podestà; del 1969 è il francese “Il clan dei siciliani” di Henri Verneuil con Jean Gabin, Alain Delon e Lino Ventura; per tornare a Hollywood con “La stangata” di George Roy Hill del 1974 starring Paul Newman e Roibert Redford; poi primeggia il corale “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992 fino al trittico di Steven Soderbergh iniziato con “Ocean’s Eleven”, con George Clooney capo brigata, che a sua volta era il remake di “Colpo grosso” del 1960 di Lewis Mileston col Rat Pack Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr. Insomma ce n’è per tutti i gusti.

Aldo Reggiani, Loretta Goggi e Arnoldo Foà protagonisti dello sceneggiato Rai

Ma torniamo in Italia alla fine degli anni ’50. Il genere imperante era il neorealismo nato sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, e ancora resistevano i generi peplum (e vale la pena ricordare il debutto cinematografico di Sergio Leone con “Il colosso di Rodi”) e cappa e spada (nessun film italiano memorabile, supplisce lo sceneggiato Rai “La freccia nera” diretto da Anton Giulio Majano dal romanzo di Robert Luis Stevenson) mentre il cinema spensierato dei telefoni bianchi che imitava le commedie sofisticate hollywoodiane era stato sostituito dalla commedia rosa o sentimentale che abbandonando le ambientazioni scintillanti e irrealistiche si era adattato alla nostra realtà con gli operai e le commesse “Poveri ma belli” di Dino Risi del 1957.

Scena da “I cadetti di Guascogna”, in primo piano da sinistra Riccardo Billi, Mario Riva, Carlo Campanini, Carlo Croccolo e seduto sulla branda Walter Chiari

Sul piano del film comico, film per ridere, si era fermi alle pellicole che derivavano dai palcoscenici dell’avanspettacolo e del varietà (ad esempio “I cadetti di Guascogna” che vide il debutto di Ugo Tognazzi e Carlo Croccolo) con interpreti che da lì venivano con le loro maschere e le loro gag (Mario Riva, Riccardo Billi, Carlo Campanini, Macario, Renato Rascel) di cui Totò era il più prolifico esponente, non amato dalla critica colta per quei suoi filmetti senza spessore. In questa brulicante vivacissima realtà si muoveva un gruppo di soggettisti e sceneggiatori che sentivano l’urgenza di raccontare la realtà, la loro realtà, quella realtà di quel preciso momento storico, il dopoguerra e il boom economico, mettendone in evidenza tutte le contraddizioni, l’impossibilità di conciliare il vecchio con il nuovo, l’ipocrisia e l’effimero: una realtà che autori come Pier Paolo Pasolini (“Accattone”) o Bernardo Bertolucci (“La commare secca”) presero di petto, mentre scrittori dalla penna più leggera e ironica e spesso caustica, e forse per questo più incisiva (ricordiamo l’adagio latino “castigat ridendo mores”) come Age & Scarpelli qui autori del soggetto e sceneggiatori insieme a Suso Cecchi D’Amico e allo stesso regista Mario Monicelli, che aveva esordito come braccio destro di Pietro Germi e fu poi regista di Totò che aveva sdoganato in un ruolo drammatico nella co-regia con Steno “Guardie e ladri” che valse all’attore l’ambito Nastro d’Argento e che lo convinse che poteva abbandonare il genere avanspettacolo che lo aveva reso ricco e famoso, ma con la media di cinque film l’anno in cantiere, il successo del pubblico e le pressioni dei produttori, passò ancora qualche anno fino a che concluse la sua carriera lavorando con Pasolini: “Uccellacci e uccellini”, “La terra vista dalla luna” nel film a episodi “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel film a episodi “Capriccio all’italiana”.

Monicelli e Totò durante una pausa sul set

Quando il gruppetto di amici si riunì per buttare giù una nuova sceneggiatura non sapevano che stavano cominciando a scrivere una pagina della storia del cinema. Partirono dall’idea di fare una parodia di quel genere tanto di moda, il caper movie, e presero come modello il noir “Rififi” tanto che il primo titolo pensato per il film in scrittura fu “Rufufù”, ma non erano autori da fermarsi al semplice parodistico e come altra ispirazione ebbero il racconto di Italo Calvino “Furto in una pasticceria”.

Memmo Carotenuto con Gassman

Poi c’era la realtà sociale in cui il gruppetto voleva collocare storia e personaggi, e pur condividendo con Pasolini il degrado della periferia romana in cui il boom sarebbe tardato ad arrivare e ancora si sarebbe vissuto di espedienti, i loro ladruncoli non hanno l’innocente cattiveria degli accattoni e dei ragazzi di vita pasoliniani, ma risentendo della leggerezza della Commedia dell’Arte (che i nostri ovviamente conoscono) sono Arlecchino e Brighella e Pulcinella i cui espedienti per procurarsi il tozzo di pane rimangono fallimentari e grotteschi, come certi capitomboli del fanfarone Er Pantera, ma sono qui intessuti dell’umanità di persone reali che soffrono e addirittura – novità assoluta in commedia – muoiono tragicamente, come il personaggio motore della storia interpretato da Memmo Carotenuto. Il risultato è un dolce-amaro, un grottesco patetico venato di tristezza, qualcosa di talmente simile alla vita reale da portare al cinema folle di spettatori che ridevano insieme delle loro stesse sventure, e però non mancano le battute folgoranti come quando Capannelle chiede a un ragazzino di un certo Mario e quello gli risponde che lì nel quartiere ce ne sono cento; sì ma questo è stato in galera, specifica Capannelle, sempre cento sono, risponde il ragazzino.

Tiberio Murgia nell’atrio del cinema dove si proietta il Kean di e con Vittorio Gassman in un corto circuito di citazioni

A scrittura ultimata sarebbe stata fondamentale la scelta del cast. I produttori, Franco Cristaldi in testa, avrebbero voluto scritturare i soliti noti che venivano dal varietà e dall’avanspettacolo, a cominciare da Alberto Sordi nel ruolo del pugile suonato Peppe er Pantera per il quale Monicelli e gli altri sceneggiatori – che avevano creato tutti i personaggi intorno ad un baricentro realistico, senza vezzi e gag, corredandoli però di un patrimonio di battute e situazioni brillanti e folgoranti sulle quale si sarebbe dovuta giocare tutta la comicità del film – si erano impuntati su Vittorio Gassman, in quale venendo dal teatro impegnato nel cinema aveva per lo più interpretato ruoli da cattivo, e con la sua aria da intellettuale non dava ai produttori nessuna garanzia di successo come attore comico, ma alla fine dovettero cedere alle argomentazioni di Monicelli & company, che con l’aiuto del truccatore Romolo De Martino crearono per Gassman un pesante trucco che con una parrucca gli abbassava l’attaccatura sulla fronte, e accentuando il profilo del naso e rendendo le labbra leggermente calanti lo ridisegnarono proprio come quel pugile suonato di periferia che avevano immaginato sulla carta, e l’invenzione poi della sibilante balbuzie completò il personaggio, sdoganando Gassman in un mondo ancora per lui inesplorato. Va segnalato che nel film viene omaggiato ritraendo la locandina del suo “Kean – genio e sregolatezza” che aveva diretto e interpretato a teatro e poi diretto e interpretato anche sullo schermo con l’importante contributo tecnico di Francesco Rosi.

Nel calibratissimo cast Renato Salvatori (doppiato da Marcello Prando) entrò come secondo nome (in percentuale di misura più piccola rispetto a Gassman) e come segno di continuità con la commedia rosa di cui era protagonista, anche qui protagonista di una storia amorosa ovviamente assai contrastata. Il caratterista Memmo Carotenuto, fratello di Mario, faccia da duro e voce roca è al terzo posto nei titoli di testa e probabilmente nel suo ruolo più significativo. Con le lettere che continuano a rimpicciolirsi segue Rossana Rory (Rossana Coppa sui documenti) già fotomodella e foto-attrice per “Sogno” che qui è l’unica componente femminile della banda e anche nel suo ruolo più importante (doppiata da Monica Vitti): nonostante l’impegno, andò a studiare recitazione presso la londinese Royal Academy of Dramatic Art, non riuscì a sfondare e pochi anni dopo, dopo aver partecipato a “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, si ritirò dalla carriera artistica. Segue nei titoli la 17enne in rapida ascesa Carla Gravina qui al suo terzo film e che aveva debuttato 15enne in “Guendalina” dello scopritore di Lolite Alberto Lattuada. Dopo di lei nei titoli di testa viene la non ancora ventenne Claudia Cardinale (doppiata dalla palermitana Lucia Guzzardi) qui al suo debutto cinematografico italiano e per la quale vale la pena spendere qualche parola in più.

Era nata a Tunisi da genitori altrettanto tunisini per nascita ma di discendenza siciliana. Va ricordato che la Tunisia era un protettorato francese e durante la Seconda Guerra Mondiale (Claudia nata nel ’38 era ancora bambina) l’Italia mussoliniana con la Germania hitleriana occuparono Tunisi con gravi e diverse conseguenze per tutta l’enclave italiana che lì viveva; nello specifico il padre di Claudia che aveva mantenuto rapporti con la famiglia d’origine in Sicilia, non aveva preso la nazionalità francese mantenendo quella italiana, e se in quel frangente ciò poteva giocare a suo favore agli occhi del regime, nei fatti tutti quegli italiani d’Africa furono vittime di un diffuso e paradossale sentimento italiano anti-italiano, con italo-tunisini che sposarono la causa fascista, altri che restarono fedeli alla Francia e altri ancora che volevano restare neutrali come fu per la famiglia Cardinale. Superato il disagio della guerra l’adolescente Claudia parlava solo arabo tunisino, francese e il siciliano trapanese appreso in famiglia, e come tutte le ragazze della sua generazione era una fan della Brigitte Bardot esplosa con “E Dio creò la donna” di Roger Vadim, star con la quale duetterà anni dopo, nel 1971, nel brutto western “Le pistolere” di Christian-Jacque. In ogni caso il cinema la attendeva: a diciotto anni partecipò a un cortometraggio documentaristico che omaggiava l’intraprendenza delle donne tunisine nell’immediato dopoguerra: “Les Anneaux d’or” di René Vautier che al Festival di Berlino vinse l’Orso d’Argento.  Bastò l’unico primo piano di quel film per farla diventare una celebrità locale ed essere richiesta dal regista Jacques Baratier che la volle per un ruolo secondario in “I giorni dell’amore”, ruolo che accettò con riluttanza perché aspirava a quello della protagonista nel quale la produzione volle un’attrice di pura nazionalità tunisina; protagonista maschile il giovane egiziano Omar Sharif in un film candidato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes che per la nostra riluttante Claudia fu il primo vero impegno come attrice cinematografica, per il quale in ogni caso aveva ottenuto la dicitura in cartellone “e la partecipazione di” essendo ancora in pratica una sconosciuta. Claudia avrebbe duettato da protagonista con Sharif nel 1991 in “Mayrig” del franco-armeno Henri Verneuil, che l’anno dopo ebbe il seguito “Quella strada chiamata paradiso”, film che raccontano il genocidio armeno che però hanno avuto scarsa diffusione.

Momentaneamente accantonata la non del tutto per lei soddisfacente, benché di qualità, esperienza cinematografica, la giovane scalpitava e non sapeva come uscire dall’impasse della sua vita borghese tunisina, così non le parve vero quando a Tunisi si tenne la “Settimana del Cinema Italiano” organizzata da “Unitalia FilmRivista trimestrale dell’Unione nazionale per la diffusione del film italiano all’estero”, durante la quale vinse – “in modo del tutto involontario e inconsapevole” recitano le cronache – il concorso “La più bella italiana di Tunisia” dove probabilmente si era iscritta in modo del tutto altrettanto involontario e inconsapevole: ma la ragazza, come vedremo, era fortemente motivata e consapevole.

Claudia Cardinale in quel fatale 1957 a Venezia

Il premio del concorso consisteva in una vacanza spesata alla Mostra del Cinema di Venezia in cui seppe mettersi in mostra agli occhi dei tanti pigmalioni, registi e giornalisti e soprattutto produttori lì presenti, Franco Cristaldi in testa. Dicono sempre le cronache che accettò l’invito da parte del produttore Salvatore Argento (padre del regista Dario Argento) e del giornalista Lidio Bozzini l’offerta di fermarsi a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, che la ragazza accettò – non si sa a che titolo: chi pagava cosa e per cosa? Probabilmente oggi è lecito immaginare che i due fossero i prestanome del produttore Cristaldi, che di 14 anni più anziano della ragazza e già sposato, non si poteva esporre in quell’epoca in cui il divorzio era illegale in un Paese ultra cattolico in cui le relazioni extraconiugali creavano scandalo e condanna sociale: oggi sappiamo che Franco Cristaldi e Claudia Cardinale avevano già cominciato una relazione. Ma gli studi di recitazione e dizione, sua insegnante al Centro fu Tina Lattanzi, misero in evidenza la sua scarsa attitudine sia alla recitazione che all’apprendimento e dopo appena un trimestre abbandonò l’impresa per tornare a Tunisi… ma dato che la sua fotogenia era indiscutibile e la sua relazione con Cristaldi solida, si fece di necessità virtù e fu dato eco sulla stampa, con copertina sul settimanale “Epoca”, a quel suo inconcepibile rifiuto di continuare la carriera cinematografica: anche gli handicap se ben gestiti posso diventare vantaggi nelle mani di un solido ufficio stampa. Del suo stile recitativo, una volta diventata famosa, coerentemente dirà: “Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica.”

Moglie e marito, produttore e protagonista, sul set di “La tenda rossa” diretto da Michail Kalazotov

Ancora di quell’intenso periodo è un’altra pagina che resterà oscura nella vita dell’attrice: la gravidanza del suo primogenito Patrick che partorirà a Londra, lontano da occhi indiscreti, dopo la fine della lavorazione del film. Durante la lavorazione ha tenuto segreta la gravidanza, come segreta rimarrà la genesi: verrà raccontato in seguito che rimase vittima di uno stupro da parte di uno sconosciuto ma alla luce dei fatti è lecito pensare che il figlio fosse del produttore e che l’invenzione dello stupro servisse anche, ancora una volta, a far di necessità virtù – ma questa è mia personale speculazione essendo a tutt’oggi la vicenda narrata così come fu data sin dall’inizio. E se dal lato professionale questo ruolo di siciliana illibata ritagliato su di lei la portò all’immediato successo, sul piano privato fu per lei un periodo assai difficile: era consapevole che la relazione con Cristaldi non poteva essere ufficiliazzata e soffriva lo stereotipo dell’immagine della giovane avventura del produttore attempato. Con l’avvio della sua carriera la famiglia la raggiunge a Roma e durante i primi anni mostrerà in pubblico suo figlio presentandolo come un fratellino.

In seguito, anni dopo, dichiarerà di non essersi mai sentita davvero la compagna di Cristaldi, quanto piuttosto un trofeo da tenere sotto vetro, una “Cenerentola gratificata dalla sua generosità” per l’aiuto dato nel difficile momento della gravidanza segreta e per, va da sé, l’impegno profuso per costruirle una carriera e un’immagine professionale adeguata; ma per il resto si era sentita in trappola: per il doppio legame, personale e professionale, si sentiva schiacciata e costantemente sotto controllo attraverso lo staff – il responsabile stampa, la segretaria e l’autista personali – che facevano riferimento a Cristaldi che probabilmente aveva perso la testa per la ragazza e finì col rinchiuderla in una gabbia dorata, una torre d’avorio, sempre ricordandole e rinfacciandole che lui l’aveva creata e che dunque gli apparteneva. Conducevano sempre vite separate, tranne qualche breve viaggio, e anche dopo il matrimonio che nel 1966 lui organizzò negli Stati Uniti avendo ottenuto l’annullamento della precedente unione dalla Sacra Rota, lei non lo chiamò mai Franco ma sempre e solo Cristaldi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel 1975, allorché Claudia si era innamorata del regista Pasquale Squitieri conosciuto sul set di “I guappi”. Col matrimonio Cristaldi aveva adottato legalmente il primogenito dell’attrice. E sarebbe ancora lunga la narrazione su Claudia Cardinale se non fosse che devo rientrare nei ranghi del film che l’ha lanciata.

il gruppo dei ladruncoli al completo: Totò, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Di spalle l’agente di controllo per il Dante Cruciani di Totò, attore non accreditato.

Al suo nome seguono nei titoli di testa i primi tre insieme dopo i nomi da solisti: Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e Gina Rovere, lei nel ruolo secondario della moglie in galera di Marcello Mastroianni, è una caratterista romana che avrà i suoi ruoli più importanti nei prossimi “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il napoletano Pisacane viene invece dalla gloriosa filodrammatica partenopea e aveva cominciato a fare cinema già in gioventù all’epoca del muto per poi proseguire come caratterista generico e qui è al suo primo personaggio importante, quel Capannelle che gli porterà talmente fortuna e fama da venire accreditato nelle produzioni future anche come solo Capannelle; il suo riuscitissimo accento bolognese è dovuto al doppiaggio del friulano Nico Pepe.

I debuttanti Claudia Cardinale e Tiberio Murgia come sorella e fratello.

Il sardo Tiberio Murgia è al suo debutto cinematografico diventando siciliano col doppiaggio del napoletano Renato Cominetti e anche il suo personaggio ha talmente fortuna che proseguirà la carriera continuando a essere scritturato come siciliano. Prima di approdare al cinema ha un passato rocambolesco: di famiglia povera emigra in Belgio per andare a fare il minatore a Marcinelle dal cui disastro scampa perché si era dato malato per stare con la moglie di un collega di cui era divenuto amante, ma l’intera storia è oggi ritenuta falsa perché viene da un articolo della rivista “Gente” di genere scandalistico-propagandistico per favorire la carriera del neo-attore. Di fatto Murgia fu veramente minatore in Belgio e poi lavapiatti in un ristorante di Roma dove fu notato da un assistente di Monicelli e da lì si avviò la sua carriera di caratterista siciliano.

Va dato merito al regista e al suo staff di co-sceneggiatori l’avere inserito nel cast dei coprotagonisti due piccoli caratteristi, Carlo Pisacane di antica scuola teatrale e Tiberio Murgia preso dalla strada: due personaggi veramente costruiti a tavolino che nulla avevano e avranno a che fare col carisma dell’interprete; due facce che già da sé erano maschere, ma personaggi creati col supporto di altri due professionisti a dare loro la voce: in pratica per ogni personaggio due attori, uno davanti e l’altro dietro la macchina da presa, perché senza quelle voci e quegli accenti le due maschere non sarebbero mai esistite. Pratica oggi irrealizzabile per fortuna, per la dignità professionale degli interpreti, ma che allora era prassi comune se si pensa che anche molti dei protagonisti venivano doppiati e la cosa non creava scandalo. Qui c’è Renato Salvatori che praticamente sarà sempre doppiato in tutta la sua carriera e se ciò non fosse stato consentito probabilmente si sarebbe impegnato a studiare recitazione e dizione laddove la fotogenia non sarebbe bastata più; per molti anni Claudia Cardinale fu doppiata, però si è battuta per recitare con la sua voce, e anche Totò che verso la fine era ormai quasi cieco e aveva come doppiatore ufficiale Carlo Croccolo. I titoli di testa continuano col resto dei generici fra i quali bisogna ricordare Elisa Fabrizi che è un errore di trascrizione trattandosi in realtà di Elena Fabrizi, sorella di Aldo Fabrizi, che dopo la scomparsa del fratello diverrà nota come Lella Fabrizi o più semplicemente Sora Lella, attrice intrattenitrice e proprietaria di una trattoria sull’isola Tiberina a Roma. I titoli si concludono “con” Marcello Mastroianni le cui lettere riprendono la misura massima che Gassman aveva avuto in apertura, “e con la partecipazione straordinaria” di Totò. Non è accreditato il prevalentemente radio-televisivo Mario Feliciani nel ruolo del commissario di polizia che tornerà nel sequel dell’anno dopo messo in cantiere a tambur battente.

Sul momento nessuno si rese conto di cosa era accaduto: il fatto più evidente fu il clamoroso successo del film che fu distribuito praticamente in tutto il mondo: negli USA e nel Regno Unito col titolo “Big Deal on Madonna Street” e lì avrebbe avuto grande risonanza soprattutto fra gli addetti ai lavori tanto che nei decenni a seguire avrebbero realizzato ben due remake; mentre in Spagna fu ripreso il primo titolo provvisorio “Rufufù” e in Francia si optò per “Le Pigeon” il piccione, vai a capire perché, mentre in Argentina e Brasile fecero una fedele traduzione del titolo: “Los desconocidos de siempre” e Os eternos Desconhecidos“.

Dovette passare qualche anno perché ci si rendesse conto che “I soliti ignoti” era diventato il capostipite di un nuovo genere cinematografico: la commedia all’italiana. Che era un po’ quello che era successo secoli prima nel teatro quando dalla Commedia dell’Arte si passò alla commedia brillante borghese dove i caratteri avevano perso la fissità delle maschere per diventare esseri umani a tutto tondo con i loro chiaroscuri. Da quel film in poi tutti dovettero fare i conti con quel modo di scrivere e realizzare pellicole brillanti e in un paio di decenni si realizzarono grandi film, molti dei quali a episodi, fino a che la commedia all’italiana non morì verso la fine degli anni Settanta stretta fra le spire della commedia sexy. Mario Monicelli fu candidato agli Oscar nella categoria Miglior Film Straniero e vinse lo spagnolo Festival di San Sebastian; ai Nastri d’Argento vinse Vittorio Gassman come miglior protagonista e l’intera squadra degli scrittori fu premiata per la miglior sceneggiatura.

L’anno dopo uscì il sequel “Audace colpo dei soliti ignoti” con Nanni Loy che prese il controllo dell’impresa, e un secondo tardivo nostalgico seguito si ebbe nel 1985 diretto da Amanzio Todini: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Del 2020 è l’adattamento teatrale andato in scena al Teatro La Pergola di Firenze, diretto e interpretato da Vinicio Marchioni su copione di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli. Altro adattamento teatrale ma in musical fu quello che Bob Fosse realizzò nel 1986, “Big Deal”, che non vide praticamente nessuno: 6 anteprime e 69 repliche, a Broadway. Due i remake americani, dicevamo: il primo è “Crackers” del 1984 diretto da Louis Malle con Donald Sutherland e Sean Penn, mentre del 2002 è “Welcome to Collinwood” diretto dai fratelli Anthony & Joe Russo e prodotto da George Clooney che si è collocato nel ruolo che fu di Totò. Nel 2000 Woody Allen fece un’importante citazione-omaggio nel suo “Criminali da strapazzo”. Un altro importante omaggio è nel film “A/R Andata + Ritorno” del 2004, terza regia di Marco Ponti.

Fra le curiosità: il film sarebbe dovuto uscire col titolo “Le Madame” che era il soprannome con cui i criminali chiamavano i poliziotti e che venne rigettato dalla censura perché non si poteva ironizzare sulle forze dell’ordine. La Via delle Madonne in cui viene tentato il colpo, ripreso dal titolo americano, in realtà non esiste, trattandosi della scalinata di Via della Cordonata che scende su Via delle Tre Cannelle, dietro Piazza Venezia. La ragazza che litiga col fidanzato sotto il lucernario su cui restano appesi i ladruncoli è l’ungherese Edith Bruck, scampata ai campi di concentramento nazisti, che si era stabilita a Roma dopo aver tentato di rientrare in patria, dove non aveva più nessuno, per poi di trasferirsi in Israele nel 1948 a ridosso della formazione del nuovo stato, immaginato “di latte e miele”, come scriverà, ma percorso da altri insopportabili conflitti. Come ancora oggi è. A Roma frequenta ovviamente l’ambiente intellettuale dove conosce e poi sposerà il poeta-regista Nelo Risi, fratello di Dino, e debutterà come scrittrice nel 1959 con “Chi ti ama così” scrivendo in lingua italiana, una lingua non sua, come spiegherà, che le consente il necessario distacco per descrivere la sua esperienza nei campi di concentramento. Ultima curiosità: i nomignoli Capannelle e Ferribotte erano stati orecchiati nella vita reale: a Capannelle c’è l’ippodromo di Roma ed era il soprannome di un assiduo scommettitore sulle corse dei cavalli, caratteristica che nel personaggio del film non c’è, mentre Ferribotte è la storpiatura di ferry boat, il traghetto che i siciliani prendevano per raggiungere il continente e come molti ancora lo chiamavano: ferribotte o ferribotto. Entrambi i personaggi torneranno nel prossimo sequel mentre solo Ferribotte sopravvivrà vent’anni dopo.

Edith Bruck

Il film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

Barry Lyndon – ricordando Ryan O’Neal

Lo scorso 8 dicembre 2023 abbiamo detto addio all’82enne Ryan O’Neal che i più giovani ricordano già anziano e acciaccato come padre della protagonista nella serie tv “Bones” ma per i meno giovani O’Neal richiama alla mente film epocali come “Love Story” del 1970 di Arthur Hill che lo lanciò nel panorama internazionale: per quel film da noi vinse il David di Donatello e in patria fu candidato a all’Oscar e al Golden Globe per il quale fu tre anni dopo candidato ancora per “Paper Moon” di Peter Bogdanovich dove recitò con la figlia decenne Tatum O’Neal che si aggiudicò sia l’Oscar che il Golden Globe come migliore debuttante, e il nostro David di Donatello, surclassando così il padre che nella sua carriera non vinse mai nulla. Dalla parte di Tatum, c’è da dire, all’epoca giocò in suo favore la giovane età, e difatti della sua carriera cinematografica, che pur continuò, non ricordiamo più nulla. Dalla parte del padre, ottimo attore e questo “Barry Lyndon” lo dimostra, giocò forse a sfavore l’essersi speso in commedie che, tranne qualche preziosa perla, anch’esse non sono memorabili. Era anche il periodo in cui Robert Redford, che fu in lizza per il ruolo ed era l’attore più fisicamente simile a lui, rastrellava per sé il meglio delle produzioni poiché non aveva il timore di impegnarsi in film più difficili. Anche il suo fascino, da belloccio della porta accanto, mancava del magnetismo dei vari Paul Newman, Marlon Brando, Alain Delon e via dicendo. Insomma, agli inizi col botto non seguì un’adeguata carriera. Quando il geniale Stanley Kubrick lo scelse come protagonista del suo capolavoro storico, il 33enne Ryan, che si era fatto conoscere dal grande pubblico televisivo nella soap opera “Peyton Place” accanto a Mia Farrow, aveva già dato il meglio di sé appunto con “Love Story” di cui tenterà l’inutile sequel “Oliver’s Story”, e con la commedia di Peter Bogdanovich “Ma papà ti manda sola?” dove fece coppia con Barbra Streisand, coppia che si riformò qualche anno dopo con “Ma che sei tutta matta?” di Howard Zieff, e la similitudine dei titoli e solo dovuta al genio della distribuzione italiana.

Come il protagonista irlandese del romanzo “Le memorie di Barry Lyndon” di William Makepeace Thackeray, l’attore losangelino aveva origini irlandesi (il cognome è evidente) e ascoltando il sonoro originale del film (disponibile su Sky Cinema) è altrettanto evidente che Ryan ha studiato l’accento irish-british. Del film è protagonista assoluto (e anche per questo l’ho scelto per ricordarlo, oltre all’importanza del film stesso) benché nei titoli di testa faccia coppia con la modella passata al cinema Marisa Berenson che appare sullo schermo esattamente dopo mezzo film per poi ritrovarla in scene occasionali con un ruolo più decorativo che altro, ma che resterà impresso nella memoria dei cineamatori anche perché lei pure non girerà più nulla di memorabile. Nonostante la grandiosità del film di Stanley Kubrick che oltre a dirigere, scrisse e produsse, esso deluse le aspettative non ottenendo un gran successo al botteghino – e forse questo contribuì a creare in Ryan O’Neal una certa freddezza per i film cosiddetti “importanti” e “impegnati”. Ma il film è davvero notevole e visto oggi, a mezzo secolo di distanza, sembra girato appena ieri e le tre ore passano velocemente, magari con una pausa accentata (caffè-pipì). Difatti, benché apprezzato dalla critica già alla sua uscita, oggi è stato ampiamente rivalutato e comunemente ritenuto fra i migliori film o anche il migliore di Kubrick, e Martin Scorsese ha dichiarato di essere stato ispirato da questo film per girare il suo “L’età dell’innocenza” (1993) mentre all’epoca furono diversi i registi e le produzioni che si ispirarono: uno fra tutti “I Duellanti” del debuttante (alla grande) Ridley Scott del 1977.

Kubrick, del cui debutto “Paura e desiderio” abbiamo parlato, si era fatto conoscere dalle grandi platee come regista di “Spartacus” nel 1960, kolossal in cui il protagonista Kirk Douglas lo volle di nuovo alla regia dopo la felice collaborazione in “Orizzonti di gloria”; era seguito il film scandalo “Lolita”, il grottesco “Il Dottor Stranamore”, il fantascientifico-filosofico “2001: Odissea nello spazio” e il disturbante “Arancia Meccanica”: tutti capolavori, e di genere sempre diverso che l’autore maneggia in modo personalissimo sempre allontanandosi dai canoni cinematografici imperanti e sempre creando film personalissimi. Il suo successivo film avrebbe dovuto essere su Napoleone con Jack Nicholson (chissà quale altro capolavoro avrebbe potuto essere) ma l’autore lo accantonò in seguito all’insuccesso del simile “Waterloo” di Sergej Bondarčuk del 1970 con Rod Steiger, Christopher Plummer e Orson Welles a produzione dell’italiano trasmigrato a Hollywood Dino De Laurentiis che sempre alternò blockbusters a clamorosi flop. Accantonando Napoleone gli era però rimasto il gusto per il film storico che non aveva ancora esplorato e rivolse la sua attenzione al romanzo di Thackeray: “Ho avuto l’intera collezione delle opere di Thackeray sulla libreria, a casa, per anni. Dovetti leggere i libri svariate volte prima di arrivare a Barry Lyndon. Prima, ad esempio, mi interessava “La fiera della vanità” ma la storia era troppo intricata per essere spiegata solo in un film. Oggi ci sarebbero le miniserie televisive, ma non avevo assolutamente l’intenzione di girarne una.” Difatti accantonò “La fiera della vanità” quando seppe che era in scrittura una miniserie televisiva che poi però non venne mai realizzata.

Parla ancora Kubrick: Barry Lyndon offriva l’opportunità di fare una delle cose che il cinema può realizzare meglio di qualunque altra forma d’arte: presentare cioè una vicenda a sfondo storico. La descrizione non è una delle cose nelle quali i romanzi riescono meglio, però è qualcosa in cui i film riescono senza sforzo, almeno rispetto allo sforzo che viene richiesto al pubblico.” Inizialmente Kubrick aveva proposto il film alla Metro-Goldwyn-Mayer che volle nel ruolo del protagonista Robert Redford ma l’attore, che in un primo momento si era detto interessato, poi declinò l’invito per tornare a lavorare con George Roy Hill che dopo il clamoroso successo di “La Stangata”, in coppia con Paul Newman, aveva pensato solo per lui “Il Temerario” che però non ottenne altrettanto successo. Anche la collaborazione con la MGM prese la via dell’aceto perché la produzione cominciò a pretendere da Kubrick un maggiore controllo sul progetto, così che l’autore ruppe la collaborazione e produsse il film da sé. Con l’uscita della MGM e di Redford entrò nel progetto la star in ascesa Ryan O’Neal, che comunque era già nel pacchetto dei papabili che oltre a lui e Redford comprendeva Steve McQueen, Paul Newman e Marlon Brando: solo voci di corridoio e nessun contatto specifico pare. O’Neal era anche etnicamente più appropriato avendo ascendenze irlandesi come il cognome dichiara, e anni dopo Kubrick spiegherà in un’intervista: “Era l’attore migliore per la parte. Aveva l’aspetto giusto ed ero sicuro che avesse più dote di quanto non ne aveva mostrato sino ad allora. Penso di averci visto giusto, data la sua performance, e non riesco ancora neanche a concepire uno che avrebbe interpretato meglio Barry. Ad esempio, nonostante siano grandi attori, Al Pacino, Jack Nicholson o Dustin Hoffman sarebbero sicuramente stati errati in quel ruolo.”

Per il ruolo di Lady Lyndon scelse Marisa Berenson che qualche anno prima, in linea col suo primo lavoro di modella, avrebbe dovuto debuttare in “Blow-up” di Michelangelo Antonioni che però le preferì la più pepata Jane Birkin; la Berenson debuttò poi come attrice, praticamente muta, in “Morte a Venezia” di Luchino Visconti, film pochissimo parlato a dire il vero, e poi ebbe un ruolo secondario ma significativo in “Cabaret” di Bob Fosse; a seguire pur di fare la protagonista accettò un filmetto della commedia sexy all’italiana, “Un modo di essere donna” di Pier Ludovico Pavoni (chi ricorda il film e il regista?) e finalmente approda sul set di Kubrick dove è assai funzionale col suo fascino gelido e fragile insieme.

La lavorazione del film si rivela assai complessa perché il maestro al suo solito è assai pignolo e non tralascia alcun dettaglio; per dirne una: ideò lui stesso le candele con tre stoppini – per avere più fiamma e più luce – che insieme ai lumi a olio avrebbero reso l’illuminazione naturale degli interni-notte, riproducendo la luce dei dipinti cui si ispirò per la composizione delle sue scene nella scenografia firmata da Ken Adam, Roy WalkerVernon Dixon. E poiché per l’illuminazione interno-notte le candele potenziate non bastavano, Kubrick portò sul set le telecamere progettate da Carl Zeiss e utilizzate dalla Nasa per filmare lo sbarco sulla Luna dell’Apollo 11 nel 1969. La location principale, la tenuta dei Lyndon, era la Powerscourt Estate in Irlanda: era, perché alcuni mesi dopo la fine della lavorazione fu completamente distrutta da un incendio e questo film rimane l’unico documento visivo degli interni del palazzo che fu. A metà lavorazione ci fu un’escalation di attacchi terroristici da parte dell’IRA che combatteva per un’Irlanda unificata fuori dal dominio britannico e lo stesso Kubrick fu minacciato di morte per l’essersi impegnato in quel film; ricevette una telefonata anonima che gli intimava di lasciare l’Irlanda entro 24 ore e il maestro non se lo fece ripetere: la lasciò entro 12 ore, trasferendo i suoi set in Inghilterra, e anche questo aggiunse ritardi sulla tabella di marcia. La lavorazione si protrasse per 300 giorni, 10 mesi, in un arco complessivo di due anni, dal 1973 al 1975 con un costo che levitò fino agli 11 milioni di dollari, e all’uscita nelle sale americane fu un flop che parzialmente si riprese sul mercato internazionale arrivando a incassare una ventina di milioni: 9 milioni di dollari di incasso lordo, da cui togliere tasse e spese, sono ben meno della cifra iniziale spesa.

Sotto alcuni dei quadri cui si ispirò Kubrick

Benché la fotografia porti la firma di John Alcott, già suo collaboratore, in realtà ci lavorò anche Kubrick che, ricordiamolo, nasceva fotografo: la sua carriera cominciò quando 17enne vendette alla rivista Look uno scatto in cui ritraeva un edicolante che rattristato legge la notizia della morte del presidente Roosevelt – e vale la pena farsi una passeggiata sul web a scoprire gli scatti giovanili che Kubrick pubblicò sulla rivista.

Tornando al film: anche la musica è un elemento fondante e usa e riadatta esclusivamente brani di classica: Bach, Händel, Mozart, Paisiello, Schubert e Vivaldi. “Per quanto i compositori di colonne sonore possano essere bravi, non saranno mai un Beethoven, un Mozart o un Brahms. Perché usare una colonna sonora discreta quando c’è dell’ottima musica disponibile dal nostro passato più recente? Quando completai il montaggio di “2001” avevo fatto registrare alcune musiche originali che volevo usare nel film. Lo stesso compositore, però, davanti al ‘Bel Danubio blu’ rimase esterrefatto e allora cambiò idea e inserì queste tracce nelle scene. Con ‘Barry Lyndon’ non ricaddi nell’errore e usai direttamente musiche non originali. La musica del XVIII secolo non è però molto drammatica. Sentii il tema di Händel, che fa da sottofondo a molte scene del film, suonato con una chitarra, e stranamente, mi faceva pensare a Ennio Morricone. Allora aggiungemmo i bassi e la musica si adattò perfettamente alla drammaticità della pellicola.” E le musiche gliele ha riscritte e riorchestrate Leonard Rosenman, mentre l’autore faceva ascoltare agli attori sul set i brani originali per ispirarli. Nelle foto sotto: Dominic Savage con la “madre” Marisa Berenson, e Leon Vitali fra il “patrigno” Ryan O’Neal e la “madre” Marisa Berenson, dietro la cui spalla sinistra s’intravede come figurante la figlia dell’autore Vivian Kubrick.

Nel resto del cast principale Patrick MaGee interpretò lo “Chevalier” di Balibari, ricordandoci che in passato come oggi si definiva elegantemente e genericamente “cavaliere” un individuo di oscure origini e dai traffici poco chiari: noi abbiamo recentemente avuto il cavaliere Silvio Berlusconi. Hardy Krüger era il capitano tedesco che cooptò Redmond Barry non ancora Lyndon alla sua causa; Steven Berkoff e Gay Hamilton nel parterre dei nobili, la caratterista irlandese Marie Kean come madre di Barry e Murray Melvin era il reverendo precettore del giovane Lord Bullington interpretato prima dall’intenso debuttante 13enne Dominic Savage che crescendo preferì darsi alla regia; personaggio che da adulto fu interpretato da Leon Vitali, il quale affascinato dalla personalità di Kubrick preferì diventare suo braccio destro nei successivi film salvo avere un ruolo secondario nell’ultimo poco riuscito film del maestro “Eyes Wide Shut”.

Giancarlo Giannini, riconoscibilissimo, doppia il protagonista mentre Lady Lyndon ha la voce della tedesca naturalizzata italiana (senza alcun accento) Solvi Stübing, che all’epoca divenne da noi popolarissima con la pubblicità in cui sussurrava agli italiani “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”, e tutti di corsa a comprare la birra sognando di bersi la bella tedesca. Alberto Lionello doppiò lo Chevalier, Oreste Lionello (nessuna parentela con Alberto) il precettore e la teatrale Gianna Piaz diede voce alla madre di Barry; Rodolfo Traversa fu la voce di Lord Bullington mentre all’importante voce fuori campo del narratore ci fu Romolo Valli che nell’originale aveva la voce di Michael Hordern.

Il film ottenne gli Oscar per Fotografia, Scenografia, Colonna Sonora, Costumi della danese Ulla-Britt Soderlund in coppia con l’italiana Milena Canonero che aveva debuttato da costumista solista nel precedente film di Kubrick “Arancia meccanica”. Tre nomination all’autore per il film, la regia e la sceneggiatura. Kubrick si aggiudicò però il Golden Globe sia come regista che nella categoria Film Drammatico e nel Regno Unito il BAFTA alla regia e alla fotografia, e fra gli altri premi minori in giro per gli Stati Uniti e il mondo ebbe anche il nostro David di Donatello sotto forma di David Europeo. Resta da dire che Kubrick, economicamente scottato dall’impresa, pensò per il film successivo di rivolgersi a un genere che andava molto fra le masse: l’horror, e tirò fuori dal suo cilindro quell’altro capolavoro che fu “Shining”.

Tornando al compianto Ryan O’Neal, a seguire lavorò di nuovo con Peter Bogdanovich in “Vecchia America” che non ebbe lo stesso esito di “Ma papà ti manda sola?” e “Paper Moon”, e dopo il corale bellico “Quell’ultimo ponte” di Richard Attenborough, andò a infilarsi nella bislacca commedia “Jeans dagli occhi rosa” di Andrew Bergman (nessuna parentela col maestro svedese) in coppia con la nostra Mariangela Melato in una delle sue poche e poco riuscite incursioni a Hollywood (compreso il suo ultimo film, duole dirlo). In quegli anni ’70 Ryan fu in lizza insieme ai soliti noti (Robert Redford, James Caan, Burt Reynolds) come protagonista per “Rocky” (i produttori non credevano in Sylvester Stallone come attore benché il film l’avesse scritto lui) e per il ruolo di Michael Corleone in “Il Padrino” insieme al solito Redford, ma in lizza c’erano anche Jack Nicholson e Dustin Hoffman (sempre i produttori non volevano Al Pacino che definirono “un nanerottolo”). E per il nostro, fra vita privata burrascosa (si definì un pessimo padre che non avrebbe dovuto avere figli: ne ebbe quattro da tre donne diverse e tutti entravano e uscivano dai centri di riabilitazione) e scelte professionali sbagliate, per lui non ci fu più nulla di memorabile, se non l’arresto in tarda età, a 63 anni, per possesso di stupefacenti insieme all’ultimogenito Redmond, chiamato così in onore del suo più importante personaggio Redmond Barry Lyndon, e avuto con la sua ultima compagna Farrah Fawcett. Nel 2001 gli fu diagnosticata la leucemia mieloide cronica, e mentre lottava con la sua malattia è sempre stato vicino a Farrah che intanto combatteva contro un cancro che l’ha portata via nel 2009. Nel 2012 l’attore ha dichiarato che gli era stato diagnosticato un cancro alla prostata. Con lui se ne vanno molti bei ricordi cinematografici tutti concentrati negli anni ’70 del secolo scorso.

Una delle ultime foto di Ryan con il terzogenito Patrick (cronista sportivo) avuto con l’attrice Leigh Taylor-Young

Sotto con la figlia Tatum sul set di “Paper Moon” e ancora con lei adulta

Con le colleghe Ali McGrow, Mariangela Melato e Barbra Streisand

Il cast della soap opera che lo rese famoso insieme a Mia Farrow l’ultima a destra e sul set di “Quell’ultimo ponte” secondo da sinistra dopo Gene Hackman, seguono Michael Caine, Edward Fox e Dirk Bogarde

con Farrah Fawcett nel momento del massimo splendore

Gioventù bruciata – e per la prima volta sullo schermo Dennis Hopper

Appena due anni prima, nel 1953, Michelangelo Antonioni aveva composto il suo film a episodi “I vinti” ispirandosi a fatti di cronaca, un film rigorosamente specchio della realtà nell’intenzione dell’autore, ma poco apprezzato da pubblico e critica che solitamente amano essere solleticati con prodotti più accattivanti; là Antonioni parlava di “generazione bruciata” ed era un concetto che girava nell’aria se due anni dopo, appunto, i distributori italiani intitolarono “Gioventù bruciata” il film che nell’originale è “Rebel Without a Cause” il cui titolo rimanda al libro che lo psichiatra Robert Lidner aveva pubblicato nel ’44, “Ribelle senza causa: analisi di uno psicopatico criminale” in cui studiava lo psicopatico come qualcuno “incapace di compiere sforzi per il bene altrui”, non empatico diremmo oggi, riferendosi al caso reale di un ragazzo di nome Harold allora detenuto in Pennsylvania. La Warner Bros. aveva subito acquisito i diritti per svilupparne un film che nel corso degli anni e delle riscritture aveva alla fine una narrazione che più nulla conservava del libro se non il titolo, e il progetto finì momentaneamente in un cassetto. Ma l’argomento “giovani ribelli” era nell’aria e furono messi in cantiere vari progetti fra cui spiccarono in quella prima metà degli anni ’50 “Il selvaggio” con Marlon Brando diretto dall’ungherese László Benedek e “Il seme della violenza” con Glenn Ford diretto da Richard Brooks. Così Nicholas Ray, attento agli umori del botteghino, rispolverò il suo soggetto la cui sceneggiatura conclusiva la firmò Stewart Stern qui alla sua prima prova importante: era amico di James Dean e in qualche modo veicolò la sua scrittura attorno alla figura del giovane attore emergente, chiamando James-Jimmy il suo personaggio. Stern due anni dopo l’improvvisa morte di Dean scrisse il documentario “La storia di James Dean” diretto da un giovane Robert Altman già sceneggiatore per la tv ma non ancora regista cinematografico.

Primo giorno di lettura della sceneggiatura. In senso orario da sinistra in basso: di spalle dietro al paralume Nicholas Ray e Stewart Stern, poi James Dean con gli occhiali (era fortemente miope), accanto lui un uomo non identificato, poi l’attore Jim Backus e Natalie Wood. Saltando un uomo e una donna, con la camicia a quadri Sal Mineo.

Il film di Ray si distingue dagli altri perché per la prima volta esamina il contesto dei giovani ribelli non più come espressione delle classi disagiate ma anche all’interno dell’alta borghesia, un contesto in cui gli adulti erano colpevoli quanto e forse più dei ragazzi. Con la scrittura di Stern si definirono le influenze chiavi del film: Ray auspicava un tono classico e senza tempo per la sua storia, guardando a “Romeo e Giulietta”“la migliore commedia scritta su giovani delinquenti” aveva detto, mentre lo sceneggiatore dal canto suo considerava il film una rilettura di Peter Pan; di fatto entrambi hanno attinto alle proprie vite, e Stern in particolare prese ispirazione dal rapporto conflittuale con i suoi genitori: “Ray aveva terribili rimorsi di coscienza su sé stesso come padre, e io ero terribilmente furioso con me stesso come figlio” ha ricordato lo sceneggiatore. Il resto del cast: Edward Platt è il poliziotto assai comprensivo, Jim Backus, Ann Doran e la veterana Virginia Bissac sono i genitori e la nonna del protagonista; William Hopper e Rochelle Hudson sono i genitori della ragazza; Marietta Candy è la mamie, e Corey Allen è il capo dei “bravacci” che sfida il protagonista nella corsa mortale; nel gruppo debutta Dennis Hopper.

Mentre il film era in scrittura, nel 1947 venne convocato negli studios il 23enne Marlon Brando, già giovane ribelle emergente nelle produzioni teatrali, a cui furono date alcune pagine di una sceneggiatura incompleta per sostenere un provino col regista, al quale bastarono solo cinque minuti per decidere che il ruolo sarebbe andato a lui, facendolo debuttare sul grande schermo; senonché, non essendoci ancora una vera sceneggiatura completa da valutare, il giovanotto che aveva già le idee molto chiare preferì continuare a fare teatro e quell’anno trionfò in “Un tram che si chiama Desiderio” di Tennessee Williams, dramma che avrebbe poi recitato al cinema nel suo secondo film del 1951: aveva debuttato l’anno prima con “Il mio corpo ti appartiene” di Fred Zinneman. Per gli appassionati di Brando quel provino è inserito in un’edizione speciale del DVD del 2006 di “A Streetcar Named Desire”. Quando nel 1950 fu conclusa la sceneggiatura definitiva Marlon Brando era ormai irraggiungibile, oltre a essere fuori parte per ragioni anagrafiche dato che aveva 31 anni e il personaggio ne aveva 16, e produzione e regista appuntarono la loro attenzione sul 24enne James Dean già star con “La valle dell’Eden” di Elia Kazan.

Natalie Wood già attrice bambina

La vera 17enne Natalie Wood (all’anagrafe Natal’ja Nikolaevna Zacharenko, figlia di immigrati ucraini) era all’epoca un’ex attrice bambina che con questo film rilanciò la sua carriera come adulta, benché avesse seriamente rischiato di non ottenere la parte perché secondo il regista aveva l’aria da brava ragazza per niente ribelle e, come ella stessa raccontò nella sua autobiografia, solo quando finì in ospedale per un incidente d’auto dopo una serata con gli amici e Nicholas Ray andò a trovarla – e c’è molto di romanzato a mio avviso in questo racconto: il dottore l’aveva apostrofata “dannata delinquente giovanile” e lei urlò subito al regista: “Hai sentito come mi ha chiamato, Nick?! Mi ha chiamato un dannata delinquente giovanile! Ora me la dai la parte?!”

Il 16enne Sal Mineo, figlio di immigrati siciliani (il padre Salvatore senior era un costruttore di bare) aveva debuttato lo stesso anno in “La rapina del secolo” interpretando Tony Curtis da ragazzo; anche sua sorella Sarina e i fratelli Michael e Victor erano stati avviati al palcoscenico dalla madre che evidentemente covava sogni artistici, e il ragazzino si era fatto notare nelle messa in scena del 1951 di “La rosa tatuata” di Tennessee Williams, dramma che l’autore aveva scritto per la nostra Anna Magnani che però declinò l’offerta perché non riteneva il suoi inglese abbastanza buono da potersi esibire in teatro, e avrebbe recitato il personaggio nel film di quattro anni dopo diretto da Daniel Mann; Sal continuò in teatro come principino nel musical “Il Re ed Io”, libretto di Oscar Hammerstein II e musiche di Richard Rodgers, con Yul Brinner nel ruolo del protagonista che avrebbe ripreso nel film diretto da Walter Lang nel 1956.

Nella prima inquadratura vediamo che Plato, il personaggio di Sal Mineo, portava i calzini scompagnati: nel sinistro senza scarpa ha un calzino rosso…
…nell’inquadratura successiva il piede sinistro col calzino rosso ha la scarpa ed è il destro col calzino blu ad essere scalzo.

Il film, venduto come un torbido dramma generazionale, riscosse grande successo in patria e all’estero, ma in realtà è un gran pasticcio pieno di superficialità e retorica che sfiorano il ridicolo, nonché di madornali errori. Comincia presentando i tre giovani ribelli che si incontrano a un posto di polizia: James Dean, fermato per ubriachezza molesta, rivela un tormentato rapporto con la famiglia ultra borghese, ma poi a casa si attacca un paio di volte alla bottiglia del latte, espediente narrativo per far capire al pubblico che in fondo è un bravo ragazzo; Natalie Wood, fermata perché coinvolta in una rissa dei suoi amici definiti dal doppiaggio italiano “bravacci” con memoria leopardiana, perché i bulli e il bullismo sono di là da venire; anche la ragazza è in piena crisi generazionale: essendo divenuta adolescente non è più la cocca di papà del quale cerca ancora imbarazzanti baci e abbracci, e il pover’uomo fatica a staccarsela di dosso per non sembrare un maniaco; Sal Mineo è stato abbandonato da entrambi i genitori alle cure della mamie negra e poverino fa il ribelle sparando agli animaletti. Psicologia da strapazzo e caratteri sbozzati con l’accetta, e la critica non fu tutta benevola: il film, altrove lodatissimo, fu tacciato di superficialità e rozzezza espressiva, i personaggi e le situazioni quasi da cartone animato, mentre di James Dean si arrivò a dire che aveva copiato lo stile recitativo di Marlon Brando con una malignità che pescava nei retroscena della vita segreta dei due…

Mineo ha un ruolo fortemente ambiguo: il suo personaggio si lega a quello del protagonista, spinto a parole da una forte ammirazione prossima all’idolatria, ma nei fatti sembra spinto da una forte attrazione omoerotica e Nicholas Ray preme il pedale in questo senso e in molte inquadrature, come del resto in tutta la sceneggiatura, il ragazzino è sempre lì a fare da terzo incomodo fra James Dean e Natalie Wood, quasi un ménage à trois.

In un’intervista del 1972, quattro anni prima della sua tragica morte, l’attore – che aveva già dichiarato la sua bisessualità (come compromesso per non dichiararsi pienamente omo) in un’epoca ancora fortemente omofoba – spiega che quel suo personaggio “è stato, in un certo senso, il primo adolescente gay nei film. Lo guardi ora, sai che aveva una cotta per James Dean. Lo guardi ora, e tutti sanno della bisessualità di Jimmy, quindi è come se lui avesse avuto una cotta per Natalie e me. Ergo, io dovevo essere fatto fuori”. Fu tristemente profeta: aveva 37 anni e stava interpretando in teatro il ruolo di un ladro omosessuale in “P.S. Your Cat Is Dead!” spettacolo che da San Francisco si stava spostando a Los Angeles: fu accoltellato al cuore mentre rientrava a casa dalla prova generale; l’immediata supposizione fu quella di un reato omofobo ma venne arrestato un fattorino di pizze a domicilio colpevole di diversi rapine nella zona il quale dichiarò di non sapere chi fosse la vittima; ma Mineo non era stato derubato quindi di suppose ancora che il delitto fosse maturato nell’ambiente della droga di cui l’attore era consumatore abituale; in ogni caso il movente restò insoluto.

Il film fu censurato nel Regno Unito e addirittura bandito in Nuova Zelanda, e Spagna dove poi uscì nel 1964. Ricevette tre nomination agli Oscar del 1956: miglior soggetto a Nicholas Ray e migliori non protagonisti Sal Mineo e Natalie Wood che però si aggiudicò il Golden Globe, mentre quell’anno James Dean ebbe una candidatura postuma – la prima nella storia degli Oscar – nella sezione protagonisti per il precedente dello stesso anno “La valle dell’Eden”. Nomination ai britannici BAFTA per il miglior film e il protagonista. Con tutte le sue imperfezioni il film è stato inserito fra i 100 migliori americani ed è diventato un cult grazie anche alla sua fama di film maledetto per la tragica fine dei suoi tre protagonisti: di Mineo ho detto; e come si sa Dean era morto in un incidente sulla sua Porsche 550 Spyder “Little Bastard” mentre finiva di girare il suo ultimo film “Il gigante” che uscì postumo, e anche quando uscì “Gioventù bruciata” nell’ottobre del ’55, Jimmy era già morto da un mese.

Natalie Wood morì 43enne in un incidente nautico che tutt’oggi rimane misterioso: all’epoca l’autopsia rivelò che l’attrice era morta annegata cadendo dal gommone del suo yacht, e nel suo sangue furono ritrovate importanti tracce di alcol e psicofarmaci; la sera prima aveva litigato col marito Robert Wagner perché lei flirtava col collega Christopher Walken, ospite sull’imbarcazione, col quale lei stava girando il fantascientifico “Brainstorm” diretto da Douglas Trumbull e uscito postumo; diverse circostanze e dettagli fecero pensare che si trattasse di uxoricidio passionale, e le indagini sono state riaperte un paio di volte in anni più recenti però senza mai giungere a ulteriori risultati specifici. Nel 2004 Peter Bogdanovich diresse la miniserie TV “Il mistero di Natalie Wood”.

Appena finite le riprese del film Dean, Mineo e il debuttante Dennis Hopper saranno di nuovo scritturati per “Il gigante”. Hopper, benché in ruoli secondari si fece notare come ribelle e come tale continuò per qualche anno, passando per la factory di Andy Warhol e partecipando a un suo filmetto sperimentale, prima di posare per una delle sue opere photo-pop. Hopper aveva davvero un animo da ribelle, da ribelle secondo la borghesissima morale dell’epoca, e per il breve periodo hippie che percorse gli anni ’60 ne fu esponente, prima di debuttare in regia con “Easy Rider” nel 1969 in cui esprime proprio quella cultura, controcorrente e assolutamente pacifista.

E ora le chiacchiere e i pettegolezzi. Nel 2016 è stato pubblicato il libro, scandalistico sin dallo stile della copertina, “James Dean: Tomorrow Never Come”, scritto da Darwin Porter e Danforth Prince, entrambi abitualmente scrittori di libri e guide per viaggiatori che qui pare abbiano tentato il salto “Hot, Unauthorized, and Unapologetic!” nel mondo delle biografie più o meno bollenti, non autorizzate e men che meno apologetiche. Nel libro parla a ruota libera un vecchio amico di Dean, Stanley Haggart, altro autore di libri di viaggi e vacanze, che ha riferito che Jimmy Dean aveva incontrato per la prima volta il suo idolo Marlon Brando allorché quello era andato a New York perché curioso di sentirlo durante un incontro col pubblico e la stampa. I due si incrociarono per pochi istanti, sufficienti perché Jimmy dichiarasse a Marlon la sua grande ammirazione e anche il suo amore, e gratificato da tanta attenzione Marlon rispose baciandolo sulla bocca: fu l’inizio di una relazione bollente dai risvolti sadomaso col più anziano e macho che si divertiva a manipolare e umiliare il più giovane e fragile, usandolo come oggetto sessuale, e pare anche che gli spegnesse addosso le cicche di sigarette, e più Jimmy gli mostrava di aver perso completamente la testa, più Marlon lo umiliava in un cortocircuito di omofobia all’interno di un rapporto omosessuale. “Avevo l’impressione che Jimmy avesse una relazione da gatto e topo con Brando, Brando era il gatto, ovviamente. Sembrava giocare con Jimmy per divertimento, lo usava sadicamente e Jimmy lo seguiva come un cane, con la lingua fuori” ha rivelato Haggart che ha aggiunto che Brando costringeva Dean a fare da spettatore passivo mentre lui se la spassava con altri, oppure lo lasciava “come un cucciolo di cane” ad aspettare fuori dalla porta che lui si decidesse a farlo entrare. Marlon amava solo sé stesso: “Mi comandava sempre mentre facevamo l’amore” confessava Jimmy agli amici. Nel libro parla anche il compositore Alec Wilder che fu amico di entrambi gli attori: “Erano sicuramente una coppia. Ma si potrebbe dire che la ‘fedeltà sessuale’ non facesse parte del loro vocabolario”. In età matura Brando ha dichiarato: “Come un gran numero di uomini, ho avuto esperienze gay e non me ne vergogno. Non ho mai prestato molta attenzione a ciò che la gente pensa di me”.

Brando mostra il dito medio ai fotografi che lo immortalano accanto a Dean.

La stella di James Dean brillò con tre soli film in un solo anno e la sua morte tragica e improvvisa contribuì a creare il suo mito fra i giovani, e anche fra i meno giovani, che all’epoca non volevano sentir parlare di omosessualità. Jonathan Gilmore, ex attore bambino diventato giornalista scandalistico, fu il primo a parlare pubblicamente dell’omosessualità di Jimmy nel suo libro “The Real James Dean” ma nessuno gli credette e anzi fu etichettato come uno sporco profanatore di tombe. La giovane sfortunata star ebbe un solo amore femminile: l’italiana Anna Maria Pierangeli, adottata a Hollywood come Pier Angeli, la quale aveva avuto un affaire sentimentale col collega Kirk Douglas incontrato sul set dell’episodio “Equilibrio” nel film a episodi “Storia di tre amori”.

I due, disadattati ognuno a suo modo, si incontrarono nell’estate del 1954 mentre lei stava girando “Il calice d’argento” nel set della Warner accanto a quello dove lui girava “La valle dell’Eden”. Elia Kazan, regista di lui, dichiarò in un’autobiografia di averli sentiti fare l’amore nel camerino di lui. Lei, emigrata a Hollywood, non si era ancora del tutto integrata; lui era di suo fragile e disadattato, in cerca di un amore assoluto che sapesse accoglierlo con tutte le sue imperfezioni: “Sono un essere malvagio, altrimenti mia madre non sarebbe morta (era morta di cancro all’utero quando lui aveva 9 anni e il padre lo aveva mandato a vivere presso parenti) e mio padre non m’avrebbe abbandonato” aveva confessato a un sacerdote che poi, tanto per cambiare, si era approfittato sessualmente di lui. Jimmy e Pier si intesero subito, e subito lui avrebbe voluto sposarla. Ma la madre di lei, cattolicissima, si oppose perché lui era di famiglia quacchera, oltre a tutte le altre chiacchiere di corridoio; la rigidissima signora, che metteva bocca su tutto nella vita della figlia, avrebbe voluto invece accasarla col macho Marlon Brando, ignorando le intime digressioni del divo. Come fu, come non fu, alcuni mesi dopo lei sposò il cantant’attore italo-americano Vic Damone, e la rottura improvvisa che seguì all’improvviso matrimonio, contribuirono ad acuire il senso di auto distruzione dell’attore, che finì come finì: fra i documenti personali trovati nel cruscotto dell’auto c’era un foglio con la formula matrimoniale e sopra, scritto a penna, il nome di Anna Maria Pierangeli. Alla morte di lui, lei cadde in una profonda depressione tanto che fu ricoverata in una clinica in Italia e per lei seguì una vita sentimentale fatta di fallimenti, così come la carriera andò via via in discesa. Morì suicida a 39 anni per overdose da psicofarmaci, quindici anni dopo la morte di lui. Subito dopo la sua morte venne ritrovata una sua lettera destinata a James Dean che si concludeva: “A te, mio unico, grande amore”.

Oggi diventa illuminante ciò che Jimmy aveva detto di sé: “Essere un attore è la cosa più solitaria del mondo. Sei completamente da solo con la tua concentrazione e con la tua immaginazione, e quello è tutto ciò che hai… Credo ci sia una sola forma di grandezza per l’uomo. Se un uomo può colmare il vuoto tra la vita e la morte. Voglio dire, se riesce a vivere anche dopo che è morto, allora forse quello era un grand’uomo. Per me l’unico successo, l’unica grandezza, è l’immortalità”. 

La Porsche 550 Spyder sulla quale Dean perse la vita fu prodotta fra il 1953 e il 1957, e fu proprio lui a soprannominarla affettuosamente “Little Bastard” per le sue performance. Inizialmente fu impiegata dalla Porsche nelle corse professionali come Le Mans e poi con alcune modifiche fu proposta agli acquirenti privati, quei ragazzacci come James Dean o Steve McQueen in cerca del brivido delle corse più o meno legali su strada. La Warner Bros. aveva espressamente vietato all’attore sotto contratto, che amava anche scorrazzare in moto, di fare corse: aveva appena finito di girare “Gioventù bruciata” era già impegnato sul set di “Il gigante” – ma Dean disattese il divieto. George Barris, il suo meccanico, si incaricò di recuperare la vettura gravemente danneggiata e mentre veniva caricata su un rimorchio un sostegno si spezzò e finì per fratturare l’anca e una gamba a un meccanico: comincia lì la sinistra ma affascinante fama di auto maledetta intorno alla quale sorsero chiacchiere e leggende, ma alcuni fatti sono reali, riportati dalla stampa con tanto di nomi e cognomi. Barris aveva tenuto in garage telaio e carrozzeria rivendendo alcuni pezzi. Il motore venne acquistato da un altro di quei piloti dilettanti in cerca di fama ed emozioni, e ne ebbe a sufficienza quando durante una gara perse il controllo dell’auto e finì per travolgere e uccidere un commissario tecnico e ferire un medico. Un altro pilota dilettante montò un semiasse della Little Bastard e finì coinvolto in un gravissimo incidente; un altro ancora, che acquistò gli pneumatici rischiò di perdere la vita. Pare che addirittura un ragazzino avesse tentato di rubare un pezzo dell’auto dal garage di Barris ma col telaio si tagliò un braccio in modo così da grave da dover essere amputato, storia non documentata dai giornali quest’ultima, ma le vere storie raccapriccianti continuarono: la “bastardina” fu utilizzata per una campagna itinerante di sensibilizzazione contro la velocità: pagando un biglietto si poteva salire sull’auto accartocciata, dove un cartello con la scritta “questo incidente poteva essere evitato” fungeva da ulteriore scoraggiamento; ma giunta a Sacramento, il telaio dell’auto cedette e fracassò l’anca di un visitatore. Poi, durante la trasferta verso la tappa successiva, il camion che la trasportava venne tamponato, i portelloni si aprirono e la Porsche scivolò fuori uccidendo un uomo a bordo di un’altra auto. Ma non finisce qui: giunta a New Orleans, in seguito alla rottura della pedana di sostegno l’auto si spaccò in undici pezzi: ce n’era abbastanza e terrorizzati gli addetti ai lavori decisero di rispedire i rottami a Los Angeles tramite un mezzo più sicuro: il treno. E la macabra storia si conclude con un mistero: l’auto scomparve nel nulla durante il viaggio e non fu mai più ritrovata. Vennero anche ingaggiati degli investigatori privati e addirittura fu messa una taglia di un milione di dollari che molti cercarono di incassare con delle imitazioni, ma ancora oggi dove sia finita la Little Bastard rimane un mistero. Un mito macabro all’interno di un mito romantico.

I vinti – a proposito di mostri

1952. Terzo film di Michelangelo Antonioni dopo “Cronaca di un amore” e “La signora senza camelie”. L’autore, già quarantenne, aveva cominciato ad interessarsi al teatro già da universitario, finché poco meno che trentenne si trasferì a Roma attratto dal sogno della celluloide e cominciò a scrivere per la rivista “Cinema” mentre frequentava pure il Centro Sperimentale di Cinematografia e collaborando alla sceneggiatura del film bellico propagandistico del 1942 di Roberto Rossellini “Un pilota ritorna”. Dopodiché andò in Francia a offrirsi come assistente a Marcel Carné nel film favola “L’amore e il diavolo” sempre del ’42, e l’anno dopo rientrò in Italia a causa della guerra che vedeva le due nazioni su fronti opposti. Lavorò a dei cortometraggi e con Luchino Visconti ad altri progetti che non videro mai la luce, e a guerra terminata partecipò, insieme a Carlo Lizzani e Cesare Zavattini alla sceneggiatura del post-bellico “Caccia tragica”, opera prima di Giuseppe De Santis, la cui opera seconda sarà il capolavoro “Riso amaro”. Antonioni, che non è più un ragazzino, freme, e forte della sua esperienza tecnica dietro la macchina da presa, nonché portatore di messaggi molto personali, debuttò con la storia noir di una coppia in “Cronaca di un amore” in cui lucidamente, e a suo modo, raccontò dei mostri. Con “La signora senza camelie” raccontò il mondo del cinema graffiando via la patina luccicante con la quale il mezzo si era fin lì raccontato, ambiente di mostri esso stesso, e al contempo l’autore introduce uno dei temi che caratterizzeranno la sua cinematografia: la crisi dei sentimenti, lo squallore oltre il sentimentalismo. Qui scrive soggetto e sceneggiatura insieme a Giorgio Bassani, Diego Fabbri, Suso Cecchi D’Amico e Turi Vasile.

Segue questo strano film moraleggiante fatto di tre episodi che nelle filmografie ufficiali di Antonioni viene spesso dimenticato: eppure non è un film secondario o brutto, tutt’altro. La sua debolezza sta forse nella lunga spiegazione in apertura del film, voce fuori campo di Mario Pisu su immagini di repertorio e titoli di giornali che spiegano la poetica del film che vuole raccontare il dramma sociale della violenza gratuita perpetrata da bravi ragazzi di buone famiglie: l’orrore dei mostri che una decina di anni dopo, prendendosi meno sul serio e attraverso la lente deformante del paradosso e del grottesco, Dino Risi racconterà nel suo capolavoro a episodi sfruttando le maschere di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Ma non tutti sono portati alla commedia e la grandezza di Antonioni sta tutta nella sua poetica, oltre che nel suo stile lucido e tagliente. Ha viaggiato e ha lavorato in Francia ed è subito evidente che le sue aspirazioni guardano già fuori dai confini nazionali e, benché potendo raccontare storie di crimini tutti italiani che certo non mancavano in cronaca, sceglie di raccontare i tre episodi così come li ha letti sulla stampa internazionale e dedica un episodio alla Francia, uno all’Italia e l’ultimo all’Inghilterra, girati in loco e con troupe tecniche e artistiche locali. E ricordiamoci che in quel 1952 la guerra è finita da appena sette anni.

Francia, Parigi. I bravi ragazzi borghesi covano braci ardenti: la bella Simone cova disprezzo per i genitori e sogna una vita da favola; Pierre è un mitomane megalomane che si racconta come un parvenu, senza vergogna quando favoleggia di essere ricco oltre che desiderato dalle donne, le più anziane delle quali pagherebbero per averlo; i fratelli André e Georges che si fingono studenti modello ma architettano di uccidere l’amico ricco per fare anche loro una vita da favola possibilmente all’estero. Nel gruppo di giovani attori l’unico che ha avuto una brillante carriera è stato Jean-Pierre Mocky che cominciò come attore e poi facendosi assiduo aiuto di Antonioni imparò il mestiere e proseguì come regista, talmente prolifico da riuscire a girare anche tre film in un anno – qui nel ruolo di Pierre, la vittima. Non c’è un ruolo per il 45enne Alain Cuny, che aveva già lavorato con Antonioni in “La signora senza camelie”, e qui l’attore si accontenta di affiancare il maestro italiano come aiuto regista, anche se non farà mai il regista. Alla sceneggiatura si aggiunge la firma del francese Roger Nimier. L’episodio ebbe seri problemi di censura in patria tanto che non fu distribuito fino al 1963.

Questi i fatti: nel settembre del 1952, un uomo che resterà identificato solo come Monsieur I. intentò causa per chiedere che il governo francese sequestrasse il film che all’epoca era ancora in produzione. Il titolo francese del film era “Sans Amour” ed era composto da tre parti, tutte basate su storie vere, una delle quali era un famigerato affair del 1948 in cui un ragazzo di sedici anni aveva sparato a un compagno di classe, apparentemente a causa di una ragazza. Monsieur I. era il padre di quella ragazza, citata come Nicole I. che era stata condannata per complicità nel crimine, ma in quanto minorenne il suo nome restò secretato. Monsieur I. accusava il regista Michelangelo Antonioni e il suo assistente alla regia Alain Cuny di aver girato una storia in cui la ragazza sarebbe stata identificabile. Il governo francese prese le sue severe misure contro l’episodio: In primo luogo l’esportazione del negativo in Italia, dove Antonioni risiedeva, fu vietata; ma il divieto non divenne esecutivo e allora il governo pensò bene di vietare l’episodio in Francia, perché – come scrisse il critico Jean de Baroncelli su Le Monde dieci anni dopo, nel 1963, quando l’episodio fu distribuito sul territorio francese: – “Il Ministero della Giustizia si oppone alla realizzazione di qualsiasi sceneggiatura che evochi una vicenda giudiziaria che coinvolga persone ancora in vita”.

Italia, Roma. Protagonista è il 22enne Franco Interlenghi che aveva debuttato 15enne in “Sciuscià” di Vittorio De Sica, film premiato con l’Oscar. È il bravo ragazzo di buonissima famiglia che non accontentandosi del lusso in cui vive, c’è la servitù che lo chiama “il signorino”, invece di andare all’università si dà al contrabbando di sigarette: perché la gioventù gli brucia dentro e vuole tutto e subito. Ma il trasbordo delle sigarette allo scalo di San Paolo, allora periferia della città, viene interrotto dalla polizia e seguono fuggi fuggi e sparatorie, in una delle quali il giovane mostro uccide un uomo, ma poi nella fuga fa una brutta caduta in cui batte la testa. Rinviene, è sonnolento, raggiunge la sua ragazza e le confessa il delitto in un monologo un po’ troppo retorico, e a rendere ancora meno plausibile il dialogo che segue c’è che lei alla confessione del delitto non batte ciglio: vabbè che è ciecamente innamorata, ma un minimo di sana reazione sarebbe stato logico. È l’episodio meno riuscito e forse anche per questo non ebbe alcun problema con la censura. La ragazza è Anna Maria Ferrero che aveva debuttato nel 1950 nell’opera prima di Claudio Gora “Il cielo è rosso” e da allora è stata attivissima fino a tutti gli anni Sessanta, quando si ritirò per fare la moglie a tempo pieno del francese Jean Sorel, salvo poi pentirsene quando era troppo tardi. Nei ruoli dei genitori la signora del teatro Evi Maltagliati e l’ex baritono Eduardo Cianelli; il caratterista cine-televisivo Mario Feliciani è il commissario di polizia; Francesco Rosi è l’aiuto regista che debutterà come autore sei anni dopo con “La sfida”. Ah dimenticavo: il protagonista muore nel suo letto per le conseguenze del trauma cranico.

Inghilterra, Londra. Il mostro è uno psicopatico egomaniaco megalomane e anche lui vuole fama e ricchezza senza onesto sudore della fronte; è un poeta frustrato e frustrante e poiché il quotidiano scandalistico Daily Witness paga chiunque porti una storia da prima pagina – questa è l’altra mostruosità creatrice di mostri – va a vendere la sua notizia: ha ritrovato il cadavere di una donna e pretende di scrivere lui stesso l’articolo con tanto di sua foto in quanto anche autore del pezzo. Ma la cronaca trita e passa oltre, così dopo qualche giorno, di nuovo in cerca di soldi facili e di fama, confessa l’omicidio, credendo di aver commesso un crimine perfetto per il quale non potrà mai essere condannato. Ovviamente si è sopravvalutato e viene condannato a morte.

L’episodio è riuscitissimo, tanto che incorre nelle ire della censura italiana e tagliato fino a renderlo incomprensibile. Verrà recuperato integralmente e inserito in un altro film a episodi “Il fiore e la violenza” del 1962, che mette insieme, oltre all’episodio di Antonioni girato dieci anni prima, uno girato da Jean Renoir addirittura nel 1937, e uno completamente nuovo di François Reichenbach, poliedrico autore francese che fra le altre cose scrisse delle canzoni per Édith Piaf. Il centratissimo protagonista è interpretato da Peter Reynolds qui certamente nel suo ruolo più importante dato che il resto della sua carriera fu tutta una carrellata di caratterizzazioni in film di serie B; il giornalista lo interpreta il caratterista Patrick Barr. L’anziana patetica vittima è interpretata dall’ex attrice del muto Fay Compton; mentre la ventenne Eileen Moore, che interpreta la passione non corrisposta del protagonista, avrà una carriera di genere.

Il film, che fu presentato senza alcun esito al Festival di Venezia, benché considerato minore nella produzione dell’autore, e anche imperfetto, è certamente molto interessante e sicuramente da recuperare. Ciò che colpisce è che dalla sua analisi in poi, quel tipo di mostri urbani, di generazione bruciata come li definisce nel discorso di apertura, non hanno più smesso di esistere e quei giovani senza valori, o il cui unico valore è la soddisfazione personale a tutti i costi anche attraverso il crimine, sono ancora oggi in cronaca. Antonioni li racconta come figli della guerra, ragazzi nati durante il conflitto, che nella ritrovata pace non hanno più i valori fondanti delle generazioni precedenti e aspirano a un benessere, informe e indistinto, che con il boom economico avverrà solo dieci anni più tardi. Solo due anni dopo la distribuzione italiana re-intitolerà “Rebel Without a Cause” di Nicholas Ray come “Gioventù bruciata”: fu un caso? Sta di fatto che quel film divenne il manifesto di una generazione, di tanti giovani che si videro rappresentati e che si immedesimarono nel protagonista che, al contrario dei giovani frammentati nei tre episodi di Antonioni, è anche accattivante, affascinante. Antonioni avvertiva che avrebbe raccontato la realtà senza abbellirla ma il suo film è stato praticamente dimenticato mentre l’antieroe di James Dean ancora vive: segno che la realtà, al cinema, non può mai essere reale.

Blow-up – per ricordare Jane Birkin

Il 16 luglio di questo 2023 a 76 anni se n’è andata Jane Birkin, che viene universalmente ricordata non tanto per la sua carriera di attrice che pure ha avuto dei picchi importanti, quanto perché è stata un’icona sexy e, prima che attrice, è stata anche più attiva come cantante. Aveva cominciato a 17 anni a calcare le scene londinesi seguendo la madre Judy Campbell, attrice e cantante famosa per i musical di Noël Coward, mentre il padre David nulla aveva a che fare col mondo dello spettacolo essendo un comandante della Royal Navy. La 18enne Jane debuttò anche lei in un musical del compositore John Barry, autore delle colonne sonore di 007 e non solo, che finì con lo sposare l’anno dopo. Lo stesso anno debutta sullo schermo con un piccolo ruolo nel film di Richard Lester che fu Palma d’Oro al Festival di Cannes “Non tutti ce l’hanno” ed è col film successivo, questo “Blow-up” del 1966 che accende la fantasia di tutti mostrando il seno nudo e diventando un’icona della Swinging London, la Londra del boom economico, che caratterizzò la seconda metà degli anni Sessanta.

Il film di Michelangelo Antonioni si inscrive a pieno titolo nel cinema che espresse quella dondolante e altalenante Londra, la Swinging London, che fu un movimento sociale e culturale che si espresse anche nella moda – il cui personaggio chiave fu Mary Quant con la sua minigonna – e nella musica – includendo band come i Beatles, i Rolling Stones e i Who. Antonioni, che aveva debuttato nel 1950 con “Cronaca di un amore” imponendosi come un autore rivolto al rinnovamento degli stili, un decennio dopo fra il ’60 e il ’62 realizzò la sua famosa “trilogia dell’incomunicabilità” o “esistenziale” con riferimento anche all’alienazione e al disagio mentale, protagonista la sua compagna dell’epoca Monica Vitti. Ma è con il successivo “Il deserto rosso” del 1964, Leone d’Oro al Festival di Venezia, che si impose all’attenzione internazionale e gli si aprirono le porte per realizzare questo suo film inglese. L’idea gli era venuta con la lettura del racconto “Le bave del diavolo” dell’argentino Julio Cortázar da cui prese solo lo spunto sviluppando una sua personalissima storia – nel racconto il crimine è la pedofilia, nel suo film è un omicidio – storia intrisa ancora del suo disagio sull’incomunicabilità ma che nello sviluppo narrativo diventa anche documento, ancora attualissimo, di quella Swinging London: cos’era, com’era, cosa si faceva, che musica si ascoltava. Alla fine dell’articolo il link dove leggere il racconto completo che ha ispirato il soggetto di Michelangelo Antonioni.

Nella prima versione della sua sceneggiatura c’erano anche scene di sesso ma poi Antonioni si autocensurò ricordando i problemi che aveva avuto con “L’avventura” e non voleva che il suo primo film internazionale potesse incorrere in alcun incidente, ma nonostante ciò la magistratura italiana sequestrò il film per oscenità – e davvero non c’è oscenità nel film, se non il seno di Jane Birkin appunto, e qualche altro nudo e degli amplessi di quel sesso libero ma con inquadrature veloci e in campo lungo: ovviamente oggi abbiamo una differente percezione dell’oscenità. E da questo punto di vista, quello strettamente sociale e politico, il film dovette essere stato considerato osceno per il suo angosciante pessimismo, intriso di nichilismo antireligioso e antisociale: mette in discussione la percezione stessa della realtà, e in un’epoca di boom economico e di edonismo spinto era un punto di vista disturbante, perché la visione del film non era quella di una realtà momentaneamente distorta dalle droghe psichedeliche ma una realtà messa in discussione per principio, e come fine ultimo della narrazione. Il fotografo scopre nei dettagli sempre più ingranditi dei suoi scatti la prova di un probabile omicidio, fino a trovare fisicamente il cadavere. Salvo poi non trovarlo più quando torna armato di macchina fotografica per provare il crimine – che resta solo nelle immagini sgranate degli scatti rubati, tanto sgranati da sembrare irreali, e forse davvero irreali.

Alla fine del film il protagonista si distrae con una coppia di mimi che gioca a tennis senza racchette e senza palla, seguiti da un pubblico di altri mimi che seguono la traiettoria della palla inesistente, e anche la macchina da presa la comincia a seguire nei suoi rimbalzi, e cominciamo anche a sentire i colpi di racchette inesistenti sulla palla inesistente; finché la palla vola oltre il recinto da dove il protagonista osservava, e invitato va egli stesso a raccogliere la palla inesistente: la realtà la si può inventare, è tutto frutto di fantasia. Un messaggio potente, da uno che fa cinema, fotografia in movimento.

Il fotografo di moda protagonista del film è lui stesso alla moda: il regista chiese a David Hemmings di vestirsi “à la Sachs” ovvero come il playboy tedesco Gunther Sachs all’epoca sulle pagine di tutti i rotocalchi come marito di Brigitte Bardot: camicia azzurra, jeans bianchi e mocassini senza calze. Ma è un fotografo tormentato, appunto: disprezza le fotomodelle e la loro vacuità, e sta lavorando a un libro fotografico d’impegno sociale dove ritrae gli hippy ma soprattutto i diseredati, i senzatetto, e difatti il film si apre con lui che esce da un dormitorio pubblico dove ha passato la notte.

Jean Birkin, per l’occasione bionda, ha davvero un ruolo secondario, che però risalta perché la narrazione intorno al protagonista è tutta fatta di ruoli di contorno; Vanessa Redgrave ha il ruolo più importante: è la donna coinvolta nel complotto che il fotografo crede di svelare; l’altro nome di punta è Sarah Miles come amica del protagonista; l’indossatrice Veruschka compare come sé stessa. David Hemmings, qui doppiato da Giancarlo Giannini, giunge alla notorietà e alla maturità artistica con questo film ma è sulle scene sin dall’infanzia, prima come boy soprano, ovvero voce bianca, sul quale il compositore Benjamin Britten compose anche un’opera; col sopraggiungere dell’adolescenza e la perdita della voce bianca il ragazzo passò alla recitazione ed è qui nel suo primo ruolo adulto importante. Vanessa Redgrave, figlia e sorella d’arte e già attrice shakespeariana nonché moglie del regista Tony Richardson che tra l’altro la diresse insieme a Hemmings in “I seicento di Balaklava”, anche lei raggiunge la fama internazionale grazie a questo film. Nel terzetto di nomi femminili di punta Sarah Miles è quella che meno viene ricordata dal pubblico: raggiunge il picco come protagonista in “La figlia di Ryan” nel 1970 di David Lean che le frutta una candidatura all’Oscar, ma dal 2004 non è più attiva.

Veruschka è il nome d’arte della contessa tedesca Vera Gottliebe Anna von Lehndorff-Steinort, il cui padre conte, in controtendenza alla nobiltà prussiana del suo tempo era stato antinazista, e poi accusato di aver preso parte a un complotto contro Hitler fu giustiziato nel 1944 quando Vera aveva 5 anni; insieme alle sue sorelle, mentre la madre incinta veniva internata in un campo di lavoro, fu trasferita in una cittadina di provincia insieme ai figli di tutti gli altri congiurati in una sorta di kindergarten per sorvegliati speciali; finita la guerra e tornata libera la ragazza venne a studiare in Italia dove a 20 anni fu scoperta dal fotografo Ugo Mulas che la lanciò come modella; ma non riscosse il successo sperato e tornando in Germania sparse la voce che fosse una fuoruscita russa, Veruschka appunto, e lo stratagemma riuscì.

Il film si sarebbe dovuto ambientare a Parigi, come nel racconto originale. Ma ad Antonioni, che già da tempo pensava all’estero come naturale sbocco della sua cinematografia, l’idea di collocare il suo film in quella Swinging London, che così bene ha saputo raccontare, venne quando andò a trovare la sua compagna Monica Vitti sul set di “Modesty Blaise – la bellissima che uccide” di Joseph Losey. Scrisse la sua sceneggiatura col suo fedele Tonino Guerra e per l’ottimizzazione dei dialoghi in inglese si affidò al drammaturgo Edward Bond. Per rendere viva e attuale la sua Londra, Antonioni inserì nel film alcune celebrità dell’epoca: la giornalista Janet Street-Porter balla insieme ad alcune spogliarelliste mentre nel concerto rock del prefinale si esibiscono gli Yardbirds con Jimmy Page e Jeff Beck che come da prassi sfascia la chitarra. Costato un milione e ottocentomila dollari ne incassò venti milioni in tutto il mondo. Osannato dalla critica, film e regista ebbero la nomination all’Oscar, sceneggiatura e regista furono anche nominati ai Golden Globe, e dopo altre tre nomination ai britannici BAFTA finì col vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes e l’italiano Nastro d’Argento ad Antonioni come miglior regista per un film straniero.

Grazie a questo film Jane Birkin soffiò una parte da protagonista alla top-model americana Marisa Berenson che dovette aspettare ancora qualche anno prima di diventare attrice debuttando nel 1971 con Luchino Visconti in “Morte a Venezia”. Il film in questione era il dimenticabile “Slogan” diretto da Pierre Grimblat e scritto su misura del protagonista Serge Gainsbourg, e il resto è storia. Il divo francese, nonché tombeur de femmes, che da poco aveva rotto con Brigitte Bardot che per lui aveva rotto col precedente marito Gunther Sachs, non aveva gradito la sostituzione della Berenson, sulla quale aveva probabilmente fatto un pensierino, e sul set maltrattò non poco la Birkin; l’inglesina, anche lei fresca di separazione da John Barry e decisamente attratta dagli uomini più maturi, chiese al regista la cortesia di organizzare un’uscita a tre per poi allontanarsi a metà serata: lo stratagemma riuscì e si formò la coppia-scandalo di quegli anni. Lui poi, su suggerimento dell’amica Mireille Darc, tirò fuori dal cassetto l’esplicita canzone che parla di sesso “Je t’aime… moi non plus” che aveva già inciso con la Bardot ma che era stata messa via su richiesta della diva francese timorosa dello scandalo che l’ancora marito cornuto Gunther Sachs le aveva promesso. Il brano uscì con tutto lo scandalo che seguì, particolarmente nel Regno Unito patria della Birkin, e in Italia, patria del Vaticano, il cui organo di stampa L’Osservatore Romano pubblicò una sgangherata e peggiorativa traduzione del testo per allarmare i propri lettori, e il distributore del disco viene scomunicato; va da sé che la Rai ne vietò la trasmissione radiofonica finché la Procura della Repubblica di Milano non ordinò il sequestro e la distruzione di tutte le copie sul territorio nazionale, che però venne importato clandestinamente e venduto a 3000 lire anziché 750, mentre veniva trasmesso dalle emittenti estere Radio Monte Carlo e Radio Capodistria che erano ricevute nell’etere italiano. Ovviamente seguirono molte reinterpretazioni nelle varie lingue e anche parodie. In Italia il testo fu riscritto da Daiano, “Ti amo… ed io di più” e fu interpretato dagli improbabili divi teatrali Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer all’epoca compagni di vita. Ma ci fu anche una versione adattata da Gian Piero Simontacchi, “Ti amo… io di più” senza ed, per Ombretta Colli con la voce maschile dello sconosciuto Gianfranco Aiolfi amico e collaboratore di Ombretta e del marito Giorgio Gaber.

Nel 1976 Serge Gaisbourg pensò bene di farne anche un film e debuttò come autore cinematografico dirigendo la sua Jane Birkin che recitò quasi sempre nuda accanto a Joe D’Alessandro, star americano del porno gay lanciato da Andy Warhol, nel ruolo di un camionista omosessuale che inizia una relazione con la donna dall’aspetto androgino, che perciò si chiama Johnny, e con la quale ha soltanto rapporti anali. Viene da chiedersi chissà quanta droga circolasse sul set. In ruoli di contorno i non ancora famosi Gérard Depardieu e Michel Blanc.

La carriera di Jane, che nel frattempo aveva preso la nazionalità francese, proseguì da un lato continuando continuando a incidere le canzoni di lui divenendo una delle più apprezzate cantanti d’oltralpe, e dall’altro continuando la carriera di attrice anche in produzioni internazionali. Nel 1971 nacque la loro figlia Charlotte Gainsbourg e nel 1980 la coppia scoppiò perché lei, maturando, si era stancata delle sregolatezze di lui, e pur continuando a incidere i suoi brani scelse uno stile di vita più regolato legandosi al regista Jacques Doillon. Lavorò anche con Jean-Loc Godard, Patrice Leconte, Alain Resnais, Roger Vadim, Jacques Rivette, Bertrand Tavernier e il Paul Morissey che aveva contribuito al successo di Joe D’Alessandro, ma soprattutto ebbe un’intensa e proficua collaborazione con Agnès Varda che nel 1988 le dedicò il film “Jane B. par Agnès V.” Nel 2007 dirige anche il film di fiction autobiografica “Boxes – Les boîtes” mentre nel 2021 sua figlia Charlotte la dirige nel film-documentario-intervista “Jane by Charlotte” in questi giorni su Sky in cui finalmente sentiamo Jane Birkin che manda affanculo Serge Gainsbourg.

Il giardino dei Finzi Contini – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Sarò controcorrente: secondo me questo film non è fra i migliori di Vittorio De Sica. Tratta un argomento importante, è vero, è tratto da un importante romanzo, è altrettanto vero, ed ebbe grande successo anche oltreoceano dove notoriamente sono assai sensibili riguardo al tema dell’ebraismo: il film negli Stati Uniti si aggiudicò l’Oscar come miglior film straniero ed ebbero la candidatura per la miglior sceneggiatura non originale Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli; e poi candidatura al Grammy per la musica di Manuel De Sica, figlio maggiore del regista, qui alla sua terza colonna sonora; Vittorio De Sica vinse anche l’Orso d’Oro a Berlino e il britannico BAFTA dove ci fu la candidatura di Ennio Guarnieri per la miglior fotografia. Premi in Italia: David di Donatello come miglior film e David Speciale al protagonista Lino Capolicchio; Nastro d’Argento a Romolo Valli come miglior attore non protagonista e a Giancarlo Bartolini Salimbeni per la miglior scenografia; e per finire Globo d’Oro a Fabio Testi come miglior attore rivelazione. Elencati per dovere di cronaca premi e riconoscimenti specifico che nel mio essere controcorrente sono in buona compagnia perché all’epoca non tutta la critica fu d’accordo nell’elogiare il film e Morando Morandini sul quotidiano milanese “Il Giorno” scrisse che era eccessivamente melenso. Be’ lo è.

Secondo me questo stile, melenso per Morandini, eccessivamente patinato aggiungo io, non è in linea con la miglior produzione di De Sica che nasce nel neorealismo e anche quando si trasforma in commedia mantiene certe radici veristiche e veraci, popolari e popolane, mentre la vita agiata di questa oziosa famiglia altoborghese, tutti leccati in abiti fra il bianco e il color crema, non appartiene al regista e dunque la racconta per luoghi comuni dove la quotidianità si fa cicaleccio e birignao: una leggiadria certo necessaria a far risaltare la tragedia incombente delle persecuzioni nazi-fasciste, ma non fosse stato per il risvolto drammatico questo ritratto di famiglia in un esterno sarebbe potuto diventare parodia: i Finzi-Contini, con trattino come nel romanzo di Giorgio Bassani, che sono “altro” nella comunità ebraica della Ferrara dell’epoca, restano “altro” anche nella cinematografia di De Sica.

Già l’inizio è imbarazzante dal punto di vista sonoro: Livia Giampalmo, che effettivamente era agli inizi in sala di doppiaggio, doppia Dominique Sanda quasi facendo il verso alle querule doppiatrici d’antan delle sofisticated comedies hollywoodiane, come dandosi un tono perché sta dando voce a una signorina di buonissima famiglia: stonatissima e fasulla; più avanti ci si fa l’orecchio, giocoforza, ma arriva subito anche il doppiaggio altrettanto stonato di Roberto Del Giudice che dà voce a Helmut Berger: l’atmosfera generale è che stiano giocando a fare le persone fini.

Alessandro D’Alatri, recentissimamente morto 68enne dopo una lunga malattia, recita nel film il ruolo del protagonista da adolescente, ma aveva debuttato 14enne l’anno prima da protagonista nel piccolo film di avventura e formazione (di cui non rimane traccia) “Il ragazzo dagli occhi chiari” di Emilio Marsili (due soli film nel portfolio e anch’egli sparito senza lasciare traccia) e poi in Rai con un piccolo ruolo nella miniserie “I fratelli Karamazov” diretta da Sandro Bolchi, dopodiché smette di recitare e da giovane adulto negli anni ’80 è al top come regista di pubblicità, debuttando come regista cinematografico solo nel 1991, 36enne, con “Americano Rosso” che gli varrà il David di Donatello come miglior regista esordiente; era una commedia sentimentale guarda caso ambientata nel 1934 con lo stesso entroterra fascista di questo film di De Sica cui resta legato il suo nome come giovane attore. Nel ruolo di Micol da giovane c’è l’ex attrice bambina Cinzia Bruno che aveva debuttato a tre anni proseguendo la carriera di giovane attrice anche in radio e nel doppiaggio ma per un problema alle corde vocali ha dovuto abbandonare la carriera artistica ed ha aperto un’agenzia di viaggi.

Proprio per il ruolo di Micol, De Sica aveva seriamente considerato Patty Pravo ma non se ne fece niente perché Patty era troppo impegnata, era appena arrivata al successo con “La bambola” (canzone che odiava perché dava l’immagine di una donna totalmente dipendente dall’uomo), inoltre la sua casa discografica stava battendo il ferro ben caldo: in quel 1970 era al successo con “La spada nel cuore” e poiché stava costruendosi una brillante carriera come cantante non volle distrarsi col cinema, tanto che in seguito rifiutò anche “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni: oggi se ne dice pentita. Però l’anno prima aveva doppiato Jacqueline Kennedy nel documentario di Gianni Bisiach “I due Kennedy”.

Alla sceneggiatura del film, come detto firmata da Bonicelli e Pirro, inizialmente partecipa anche l’autore del romanzo, Giorgio Bassani, che però abbandona il progetto per insanabili divergenze col regista, tanto da chiedere, e ottenere, che il suo nome venisse tolto dai titoli. Pare che il punto di rottura fu l’esplicitazione nel film della relazione fra Micol e il comunista milanese Malnati, che nel romanzo è solo accennata da Giorgio che è l’io narrante. E non si può dire che per lo scrittore sia stato il capriccio autorale di uno che non comprende le esigenze cinematografiche, perché egli stesso era da tempo attivo sia come soggettista che sceneggiatore, per non dire che aveva anche doppiato Orson Welles diretto da Pier Paolo Pasolini nell’episodio “la ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”.

Lino Capolicchio è il protagonista Giorgio, nome autobiografico dell’autore che in qualche modo si rispecchia nel personaggio, ebreo come lui, che narra le vicende reali di una famiglia ferrarese cui nel romanzo sono stati cambiati i nomi (tranne quello del cane Jor) e alcuni dettagli: da qui forse il suo attaccamento a certi passaggi della sua narrativa che nel film non sono stati rispettati. Micol è interpretata dall’ex modella francese Dominique Sanda che dopo un’intenso debutto il patria con Robert Bresson che la diresse in “Così bella, così dolce”, subito viene adottata dai cineasti italiani a quell’epoca sempre affascinati dalle bellezze straniere, tanto c’era il doppiaggio: lo stesso anno gira con Bernardo Bertolucci “Il conformista” e si avvia a una carriera in film d’autore con personaggi tormentati e ambigui. Oggi è una bella signora 71enne che si dedica principalmente al teatro. Mentre ricordiamo che Capolicchio è morto 79enne lo scorso anno: la sua scomparsa ha creato un’impennata di visioni di questo film che fino a quel momento era in chiaro su Sky Cinema e che dopo la sua morte è passato a pagamento su Sky Primafila per sfruttare commercialmente la grande richiesta, e infine scompare del tutto; oggi è visibile a pagamento su Prime Video. Restaurato nel 2015 è reperibile in chiaro su YouTube una vecchia versione per il mercato anglofono con titolo e sottotitoli in inglese.

Ferrara, con Roma e Venezia, era una delle città con maggiore popolazione ebraica, e anche dopo la chiusura del ghetto in epoca fascista rimase un importante centro per la comunità, tanto che alle prime restrizioni vi confluirono ebrei da altre province pensando di trovare un ambiente più favorevole grazie alla presenza del deputato fascista ferrarese Italo Balbo e del suo amico Renzo Ravenna che fu uno dei due soli ebrei (l’altro fu il triestino Enrico Paolo Salem) a ricoprire il ruolo di podestà, fino all’emanazione delle leggi razziali che non risparmiò neanche loro. Ferrara dunque fu un centro nevralgico che anche il regista ferrarese Florestano Vancini racconterà nei suoi film.

Il giardino del titolo è quello della villa che realmente a Ferrara, e poi nel romanzo e infine del film, divenne ritrovo e porto franco per tutti gli ebrei e chiunque altro fosse inviso al regime fascista che aveva cominciato le persecuzioni e le restrizioni sociali; metafora di un sogno bello e impossibile che la realtà andrà a dissacrare. Romanzo e film raccontano come la comunità ebraica non si rese conto di quanto stava accadendo; ci fu chi reagì cercando di mimetizzarsi e si iscrisse al Fascismo, come il suddetto podestà della città e come il padre del protagonista interpretato da Romolo Valli, chi davvero senza poter comprendere, perché si era tutti italiani e da secoli, a memoria umana, non c’erano più state divisioni per ragioni religiose e men che meno razziali. Come detto a Romolo Valli, gran signore del teatro sempre in ruoli di supporto al cinema, è andato il riconoscimento del Nastro d’Argento. A Fabio Testi nel ruolo di Malnate è andato il Globo d’Oro come unico premio in una lunga carriera iniziata appena quattro prima come controfigura sul set di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che in seguito gli affida un ruolo in “C’era una volta il west” che però taglia in post-produzione perché non ottimale; ma è un aitante belloccio e dopo una serie di piccoli ruoli è protagonista in un paio di film di serie B; è qui alla sua prima occasione in un film importante e l’industria cinematografica che sta puntando su di lui lo premia per sdoganarlo fra quelli che contano. Conclude il cast dei ruoli principali l’altro bello e possibile già ex modello austriaco Helmut Berger che Luchino Visconti aveva diretto proprio come ragazzaccio austriaco in un episodio del film “Le streghe” e che lancerà come protagonista in “Ludwig” un paio d’anni dopo.

Curiosità letteraria, nel romanzo c’è un prossimamente: Giorgio racconta a Malnate di un’episodio accaduto in città poco tempo prima, che riguarda un otorinolaringoiatra coinvolto in uno scandalo omosessuale per il quale si tolse la vita; nomina il personaggio come Athos Fadigati, personaggio protagonista di un altro romanzo al quale stava lavorando: “Gli occhiali d’oro” che con la regia di Giuliano Montaldo diverrà film nel 1987. Una lettura integrale del romanzo “Il Giardino dei Finzi-Contini” a più voci, è stata realizzata dalla Rai di Torino, e poi una riduzione radiofonica e andata in onda su Radio 3. La New York City Opera e il National Yiddish Theatre Folksbiene ne hanno realizzato lo scorso anno un adattamento operistico presso il Museo del Patrimonio Ebraico di Manhattan.

L’amore in città – esperimento unico nel 1953 di film e rivista contemporanei

la locandina del film

Esempio più unico che raro: possiamo vedere e sfogliare online, contemporaneamente, il film e il cinegiornale che lo racconta. Nell’articolo precedente ho parlato delle riviste di cinema in Italia e qui esploriamo questa curiosa operazione, cinematografica e rivista cartacea insieme, l’una complementare all’altra, pensata di certo con l’intento di portare i lettori al cinema e fare degli spettatori dei potenziali lettori: l’idea non era male, se non che negli anni ’50 il il mercato era già saturo; così “Lo Spettatore”, pomposamente diretto da Cesare Zavattini, Riccardo Ghione e Marco Ferreri, visse per un solo numero. A fine articolo è possibile sfogliare la rivista e vedere il film completo.

nei titoli di testa del film

Ma andiamo a vedere chi furono i tre creatori del progetto. Si legge nella rivista: “Due giovani cineasti, RICCARDO GHIONE e MARCO FERRERI, hanno ideato, assieme a Zavattini – Zavattini è in piccolo perché è citato nell’occhiello precedente – ‘la rivista filmata’ o ‘giornale cinematografico’, con il titolo ‘Lo Spettatore’ che dedicherà i suoi numeri, cioè i suoi films, ad alcuni dei più caratteristici aspetti della vita contemporanea. ‘Amore in città’ è il primo film della serie e svolge il tema dei vari e mutevoli aspetti dell’amore in una grande città.” I “due giovani cineasti” furono molto generosi nell’autodefinirsi, dato che cinematograficamente non avevano ancora prodotto nulla.

Riccardo Ghione è oggi il nome meno noto che viene ricordato come sceneggiatore, regista e produttore; in realtà non ha lasciato nulla di memorabile e possiamo considerarlo un intellettuale che amava il cinema, e si sa che non sempre siamo in grado di fare ciò che amiamo. Già due anni prima Ghione, e già in coppia con Ferreri, aveva fondato il cinegiornale Documento Mensile che nonostante avesse coinvolto bei nomi del cinema vivrà per soli tre numeri. Ci riprova con questo Lo Spettatore che andrà anche peggio. Dal 1956 si dà alla sceneggiatura, e nel 1968 dopo aver firmato un documentario mai distribuito debutta con il lungometraggio erotico “La rivoluzione sessuale”; dirigerà altri due soli film mentre come sceneggiatore resta nella scia dell’erotico firmando film come “Fotografando Patrizia” di Salvatore Samperi cui seguirà “Scandalosa Gilda” sempre con Monica Guerritore ma diretta dal marito Gabriele Lavia; seguono titoli come “Delizia” “Senza scrupoli” “Casa di piacere” “Una donna da guardare” “Diario di un vizio”…

Marco Ferreri, che studiava veterinaria nella natia Milano, cominciò a bazzicare nel mondo del cinema senza sapere ancora dove andare a parare: di certo era uno spirito inquieto e lo dimostra nell’intera sua cinematografia; l’anno prima di questa avventura produttiva aveva fatto la comparsa sul set di “Il cappotto” in cui Renato Rascel recitava in un ruolo insolitamente drammatico con Alberto Lattuada alla regia, film di cui Riccardo Ghione era supervisore alla travagliata sceneggiatura a più firme. Fallita la doppia avventura editoriale, Ferreri si fece agente di commercio per una ditta di obiettivi ottici viaggiando tutta la penisola con puntate anche in Francia e Spagna, dove conobbe lo scrittore Rafael Azcona col quale adattò per lo schermo il di lui romanzo “El Pisito” che dirigerà in lingua spagnola debuttando come regista cinematografico nel 1958. Dunque all’epoca di questo cineromanzo è ancora soltanto un giovanotto di belle speranze.

I meno che 30enni Ghione e Ferreri, non paghi del fallimento della prima esperienza editoriale, si rimettono dunque in gioco ma stavolta coinvolgono il 50enne di rango Cesare Zavattini, oggi ricordato come uno degli sceneggiatori più rilevanti del cinema neorealista. Già giornalista e scrittore si avvicina al cinema nel 1934 e dal suo incontro con Vittorio De Sica nasceranno capolavori come “Sciuscià” “Ladri di biciclette” “Miracolo a Milano” “Umberto D.” Sposando il nuovo progetto editorial-cinematografico dei due giovani rampanti, Zavattini pensa di bene di passare anche dietro la macchina da presa e con la sua sceneggiatura debutta come co-regista insieme a un altro debuttante: Francesco Maselli. E in quanto “grande vecchio” o perlomeno persona con più esperienza, oltre al nome ci mette anche la faccia, come si dice, oltre al suo lavoro espone l’idea del progetto, la cosiddetta poetica, che era quella di rilanciare il già morente neorealismo, sorto nell’immediato dopoguerra come necessario bagno di verità dopo il patinato cinema di regime, e che stava già morendo sulla spinta del nuovo genere che attirava gli italiani al cinema: la commedia all’italiana, e di questo periodo sono molti i film che mischiano i due generi, come ponte sul futuro.

Maresa Gallo, una delle attrici professioniste

Zavattini rilancia dicendo di volere avviare una sorta di cinema-verità, una specie di indagine socio-cinematografica dove gli attori non sono più quelli presi dalla strada ma sono addirittura gli stessi protagonisti delle loro vicende: “Il regista deve saper trarre da loro, come dagli ambienti veri, tutti i valori estetici e morali possibili, prescindendo dalle loro capacità tecniche ed interpretative.” Dunque non sarà la creatività dei cineasti a prendere spunto dalla realtà, ma si farà combaciare questa realtà con la creatività. Ambizioso dal punto di vista creativo di sceneggiatori e registi ma assai deleterio dal punto di vista degli attori professionisti, gente che all’epoca si faceva le ossa in palcoscenico, teatro di prosa o rivista che fosse, ma che nel caso di questo cinema-verità sarebbero stati solo di supporto, come accade in questo film.

L’esperienza fu però fallimentare e invece di rilanciare il neorealismo gli diede il colpo di grazia, in quanto gli esperimenti, più che indagine sociale sembrano più situazioni da “Specchio segreto”, il programma Rai che un decennio dopo Nanni Loy scrisse e diresse, che consisteva nel riprendere persone comuni messe in una situazione non comune dallo stesso Loy e altri attori professionisti capaci di seguire a braccio un copione; il programma era stato direttamente copiato dallo statunitense “Candid Camera” (che certo gli avventurieri di questo esempio di cinema-verità conoscevano) che andò in onda dal 1948 fino a tutto il 2014 e che era partito come programma radiofonico, “The Candid Microphone”, dove per candid si intende spontaneo, naturale, sincero – dunque non costruito; e nella sua versione italiana, Nanni Loy, che fu anche attore sceneggiatore e regista di vaglia, aggiunse una sana dose di cinismo nell’indagare la psicologia della vittima impreparata, spingendosi oltre la comicità fine a sé stessa incentrata solo sul prendersi gioco del malcapitato: una visione che possiamo approfondire su Rai Play di cui qui sotto un assaggio. Ricordiamo pure che da questi programmi è poi nato su Mediaset “Scherzi a parte” dove a subire gli scherzi saranno dei personaggi noti.

Il film, strutturato come un cinegiornale con narratore in voce fuori campo, è composto da sei episodi le cui sinossi è possibile leggere sulla rivista, che ha per attori dei non professionisti che interpretano sé stessi e le loro personali vicende: un cinema-verità che per essere realizzato di fatto interpreta la verità rendendola già finzione; il narratore all’inizio chiede a noi spettatori: “Li avete mai ascoltati cosa si dicono sul serio quando credono che nessuno li veda e li senta?” ma per il fatto che quei dialoghi sono stati trascritti, adattati, provati e riprovati e infine filmati non possono più definirsi verità – ma l’esperimento con la gente comune che reinterpreta sé stessa rimane interessante, e dalla visione si possono distinguere quelli che recitano con la loro voce dagli altri che sono stati doppiati: ulteriore manipolazione della verità.

AMORE CHE SI PAGA di Carlo Lizzani

Parlando di prostituzione e intervistando le “signore della notte” salta subito all’attenzione il paternalismo moralista infarcito di pietà pelosa con cui all’epoca veniva raccontato l’argomento. Carlo Lizzani, che non ha messo mano alla sceneggiatura del suo episodio, proprio in quel 1953 aveva cominciato a scrivere la sua “Storia del cinema italiano”. Era stato partigiano nella Resistenza Romana, poi iscritto al Partito Comunista Italiano. Aveva esordito due anni prima con la regia di “Achtung! Banditi!” che non lascia dubbi sull’impegno dell’autore nel cinema neorealista e politico. Nel 2013 si suicidò 91enne gettandosi dal balcone di casa. Nel ruolo della prostituta Anna la professionista Mara Berni alla quale il trucco ha aggiunto un velo scuro di baffetti sopra le labbra per renderla meno diva e più popolana. In un’inquadratura viene omaggiato Michelangelo Antonioni, altro regista di questo progetto, all’epoca nelle sale con il suo secondo film “La signora senza camelie”, e regista dell’episodio seguente.

TENTATO SUICIDIO di Michelangelo Antonioni

Raccogliendo tutti i personaggi in un teatro di posa, avvia poi i racconti delle singole vicende; prima la vicenda di una ragazza che ha cercato di buttarsi sotto un’auto perché il fidanzato l’aveva lasciata sapendola incinta; è evidente, nell’intervista alla protagonista, che lei sta leggendo da un gobbo il racconto della sua stessa vicenda, alla faccia del cinema-verità. Poi è la volta di un’altra, già ballerina di varietà nonché “entrenuse” come lei stessa pronuncia, che finge il suicidio con pochi barbiturici, dopo altri tentativi falliti, per riconquistare il marito che l’aveva lasciata e che alla fine la riprende in casa, ma lei continua a pensare al suicidio perché fondamentalmente insoddisfatta della vita di casalinga: quella che avrebbe potuto essere un’interessante indagine sull’insoddisfazione di una donna irrealizzata in un’epoca in cui alle donne comuni era preclusa ogni possibilità di riscatto sociale, quest’episodio nell’episodio si limita a raccontare il tentato suicidio.

Sempre per pene d’amore una terza si butta nel Tevere e una quarta, che va da sola in Vespa e definita “esponente di quella gioventù sfasata che riempie le cronache” per dire quanto i giovani fossero male considerati, si taglia le vene pensando che fosse più facile morire, per poi dichiarare che le piacerebbe fare l’attrice; al chi l’intervistatore-narratore, che segue la sceneggiatura dello stesso Antonioni, le chiede se il tentato suicidio non sia stato soltanto una posa. Una quinta racconta con grande naturalezza – “e se ne andette via co’ la moglie” – il triangolo amoroso in cui era la vittima.

Michelangelo Antonioni sta girando in contemporanea il suo terzo film, “I vinti”, un interessante e contrastato film a episodi che ispirandosi a fatti di cronaca avvenuti in nazioni diverse, racconta tre storie nelle tre diverse lingue: francese italiano e inglese. Conoscerà Monica Vitti durante il doppiaggio del successivo “Il grido” dove lei dà la voce a Dorian Gray, e fu subito amore insieme al trittico dei film sull’incomunicabilità.

PARADISO PER 3 ORE di Dino Risi

Che nella rivista viene erroneamente annunciato per 4 ore; ed è già esagerato definire “tre ore di felicità, tre ore di paradiso” poche ore di semplice svago per cameriere e militari, secondo la narrazione del dicitore; il Dancing Astoria sito in via di San Giovanni in Laterano 87 è luogo di svago anche per coppie già formate e già avvelenate dalla gelosia, ma soprattutto è luogo di incontri per giovanotti e signorine, alcune delle quali accompagnate da mammà che filtra i pretendenti al ballo perché non si sa mai se da cosa nasce cosa. Senza raccontare storie specifiche questo episodio si limita a mostrare tipi e comportamenti facendosi onesto documento sociale senza i fronzoli delle pretese narrative e drammaturgiche. Dino Risi aveva debuttato l’anno prima con “Vacanze con il gangster” e all’epoca stava lavorando già al suo secondo lungometraggio “Il viale della speranza”, entrambi film che si collocano come ponti fra il neorealismo e quella commedia all’italiana di cui Risi diverrà indiscusso maestro.

UN GIORNALISTA RACCONTA:
AGENZIA MATRIMONIALE di Federico Fellini

Fellini è Fellini sin dagli inizi. L’anno prima aveva debuttato con “Lo sceicco bianco” che non era piaciuto a tutti perché inaugurava un nuovo stile che sarebbe rimasto tutto suo personale: un realismo onirico e magico venato di amaro e anche sarcastico umorismo che successivamente verrà definito fantarealismo. Quello stesso 1953 esce col suo secondo lungometraggio “I vitelloni” che si aggiudica il Leone d’Argento a Venezia e riempie i cinema anche all’estero. Nel segno di questo fantarealismo firma il suo episodio che molto poco ha a che vedere col cinema-verità dell’intero progetto e che proprio per questo è l’episodio più riuscito: lascia la sua traccia autorale facendosi beffe dell’intero parterre degli ideatori. Di vero, ma anche no, dichiara che c’è l’ispirazione della storia, di quando giornalista fu incaricato di fare un servizio sulle agenzie matrimoniali. Scopriamo che la voce narrante di tutti gli episodi appartiene a questo personaggio, il giornalista, interpretato da Antonio Cifariello col suo vero nome e doppiato da Enrico Maria Salerno che dunque è il narratore dell’intero film; inoltre questo cortometraggio felliniano è quello che dichiaratamente schiera più attori professionisti: Silvio Lillo è il proprietario dell’agenzia che Livia Venturini gestisce e Cristina Grado è la giovane povera in cerca di sistemazione matrimoniale.

UN FATTO VERO: STORIA DI CATERINA
di Francesco Maselli con la collaborazione di Cesare Zavattini

Già dichiarare l’episodio “un fatto vero” sin dal titolo getta un’ombra sulla veridicità degli episodi precedenti… diciamo allora che è un po’ più vero degli altri; del resto non c’era l’attrice Mara Berni a interpretare una delle prostitute nelle finte interviste in “Amore che si paga”? Come spiega la rivista il debutto in regia di Cesare Zavattini è dovuto all’attaccamento per il suo soggetto del cortometraggio, alla cui regia c’è l’altro debuttante, il 22enne Francesco Maselli; la storia è quella vera che tenne banco sulle cronache dell’anno prima: Caterina Rigoglioso interpreta sé stessa in una vera e propria performance recitativa che niente ha a che vedere con le assai più semplici interviste dei primi episodi; esempio di cinema-verità alla massima espressione che rimane come vero documento di un’epoca: vediamo nel film che alla Provincia di Roma c’era l’Ufficio Assistenza Illegittimi, roba che oggi sembra fantapolitica. La palermitana Caterina nel 1949 era andata a Roma a fare la cameriera e lì come molte ragazze sprovvedute venne sedotta e abbandonata, diede alla luce il “figlio del peccato” (come all’epoca venivano definiti i “bastardi”, altro termine fortunatamente non più in uso neanche per i cani) che abbandonò in un giardinetto perché non era in grado di sostentarlo, salvo poi pentirsi e riprendersi il figlio, fra altre disavventure compreso il carcere.

Goliarda Sapienza

La doppia – con l’accento vagamente romanesco tipico di tanti immigrati che si spostano nella capitale, che tentano di mimetizzarsi linguisticamente – la catanese Goliarda Sapienza, oggi acclamata poetessa e scrittrice che 16enne si era iscritta all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, dove la famiglia si era trasferita, poi protagonista pirandelliana in teatro; di sei anni più grande di Francesco Maselli, si erano conosciuti quando lui era 19enne ed ebbero una tormentata relazione che durò diciotto anni. Avvicinatasi al cinema non vi si dedicò mai pienamente dato che stava scoprendo la scrittura nella quale ha lasciato il meglio di sé.

LO SPETTATORE SI DIVERTE: GLI ITALIANI SI VOLTANO di Alberto Lattuada

Conclude un episodio scapricciatello dove non c’è neanche traccia di parlato ché le sequenze parlano da sé (tranne un paio di inutili battute che annacquano la precisa e vincente scelta stilistica); tante belle ragazze spuntano da ogni dove in una soleggiata mattinata romana quasi come in una sfilata di moda accompagnata dalla musichetta accattivante di Mario Nascimbene, che musica tutti gli episodi. Le belle ragazze invadono le strade e gli uomini si voltano qualcuno anche tentando un approccio, e tranne qualche inquadratura occasionalmente rubata tutto è argutamente costruito in un episodio di cinema-verità studiato a tavolino.

Del regista Alberto Lattuada bisogna ricordare che è praticamente l’unico fra tutti i cineasti coinvolti ad avere un passato di fascista, anche se pare che aderì al GUF, Gruppo Universitari Fascisti, solo per avere mano libera nell’organizzare retrospettive cinematografiche di pregio. Dopo un necessario passaggio al neorealismo, tappa quasi d’obbligo per l’autorato del dopoguerra, oggi è ricordato soprattutto come scopritore di talenti femminili – Marina Berti, Carla Del Poggio (poi sua moglie) Valeria Moriconi, Catherine Spaak, Dalila Di Lazzaro, Teresa Ann Savoy, Nastassja Kinski, Clio Goldsmith, Barbara De Rossi fra le altre – in una cinematografia pervasa di garbata sensualità; dunque possiamo considerare questa carrellata di bellezze come un prodromo della sua matura cinematografia.

Dell’intero film, oltre al musicista Nascimbeni, vanno ricordati Gianni Di Venanzo per la fotografia, Eraldo Da Roma per il montaggio e Gianni Polidori per la scenografia; mentre alle sceneggiature ci sono le penne di: Aldo Buzzi (anche aiuto regista), Luigi Chiarini, Luigi Malerba, Tullio Pinelli, Luigi Vanzi e Vittorio Veltroni, e fra gli aiuto-registi c’era anche Gillo Pontecorvo. Nell’insieme un film ancora oggi gradevole pur con tutti i limiti di un progetto velleitario che non fece scuola, e da vedere per l’intero pacchetto di nomi che schiera.

Fastidiosissima la numerosa pubblicità che partendo a minutaggi prestabiliti interrompe la visione senza rispettarne i tempi narrativi.

BBB – Breve storia delle riviste di cinema in Italia

Le riviste di cinema esistono in Italia da quando il cinema esiste, prima strettamente legate al nuovo “fenomeno” poi via via sempre più slegate dalle notizie specifiche, titolo trama eccetera, per allargarsi a considerazioni più ampie, finendo in alcuni casi col fare da “palestra” a intellettuali e teorici insieme ai cineasti veri e propri: gli sceneggiatori e i registi; queste “palestre” a loro volta si sono sempre più differenziate dai semplici rotocalchi informativi che mischiavano pubblicità e divismo, e dalle riviste di critica che nei decenni si fecero sempre più militanti fino a spingersi all’indagine sociologica che il cinema, non a torto, consentiva, e ancora consente.

In questo link possiamo sfogliare on line la rivista grazie al sito Internet Archive.

1900-1910. Quelle che oggi vengono considerate i prototipi delle riviste cinematografiche derivano a loro volta dai primi materiali stampati che in un modo o nell’altro parlavano del cinema nell’epoca oggi detta “pre-cinema”: erano bollettini tecnico-scientifici che discettavano del nuovo fenomeno fra i quali va ricordato l’Optical Lantern and Cinematograph Journal pubblicato a Londra fra il 1904 e il 1907 e su cui già si parlava del valore educativo e incantatorio delle immagini in movimento. A partire da quegli anni, al diffondersi di una vera e propria industria cinematografica, sulla carta stampata si accompagnano sia le analisi estetiche e tecniche che le vere e proprie dichiarazioni di poetica e di stile dei primi cineasti autodidatti: è così che la stampa comincia ad accompagnare la fotografia in movimento.

Oltralpe esisteva già la pubblicazione Pathé-Journal della casa di produzione omonima, ma in Italia ricordiamo come data di nascita delle riviste di cinema il 1907 a seguito dello sviluppo delle nostre prime imprese cinematografiche: quelle prime pubblicazioni erano non più che cataloghi di titoli e trame rivolti agli esercenti delle sale, prodotti con finalità pubblicitarie dalle stesse case di produzione; ne abbiamo un esempio in Lux del 1908 rivista della SIGLASocietà Italiana Gustavo Lombardo Anonima, del napoletano Gustavo Lombardo, appunto, che fu prima distributore per le regioni centrali ma anche produttore in proprio fino a fondare nel 1928 la Titanus. Nel primo decennio del Novecento le riviste cinematografiche erano già molte ma poiché l’interesse storico per questo materiale è un fatto recente, si sono conservate poche solo copie poiché a lungo ritenute materiale di scarsa importanza.

Erano per lo più foglietti settimanali o quindicinali che annunciavano le uscite e le programmazioni nelle sale, con uno spazio dedicato ad attrici e attori, i quali utilizzavano quegli spazi per pubblicizzare la loro partecipazione a progetti in corso, come anche la propria disponibilità in veri e propri annunci di ricerca di impiego. Le notizie sui film erano accompagnate da fotografie e brevi sinossi delle trame, generalmente ad opera degli stessi produttori e registi, con indicazioni tecniche sull’uso di lenti e obiettivi e delle specifiche di stampa delle pellicole – altro modo con cui verranno chiamati i film, anzi le film: l’articolo femminile era traslato dal sostantivo femminile pellicola di cui film era la traduzione. Ma già cominciano ad affacciarsi su quelle riviste ciò che oggi consideriamo recensioni: ce ne sono su L’arte muta, che si dedica ai divi del momento analizzandone l’arte sia sul palcoscenico che sullo schermo; e una delle prime firme che diverranno importanti sarà quella di Anton Giulio Bragaglia, regista critico e saggista nonché poliedrico sperimentatore e personaggio dell’epoca, che scrive su Apollon – Rassegna di arte cinematografica. È possibile sfogliare on line la rivista Apollon n° 1 del 1916 questo link sul sito del Museo Nazionale del Cinema dove si trovano digitalizzate molte altre riviste d’epoca.

Ricordando che le più importanti e prolifiche case di produzione erano sorte a Torino, Milano, Roma e Napoli, da lì vengono anche le prime riviste cinematografiche:

Il Cinema-Chantant: giornale artistico internazionale Napoli 1907
Il Cinema-Teatro: notiziario internazionale dell’arte cinematografica Roma 1910 
L’illustrazione cinematografica: rivista quindicinale illustrata Milano 1912
L’Olimpo: quindicinale illustrato dei teatri di varietà, caffè-concerti, cinema, teatri di vita dell’ambiente Livorno 1913
Le Maschere: rivista illustrata d’arte, teatro e cinema Catania 1914
La Rassegna del Cinema: arte e letteratura cinematografica Roma 1917
Cinema music-hall: rivista mensile del varietà e della cinematografia Taranto 1920
Corriere del cinema e del teatro Torino 1920

e poco altro ancora, ricordando che ciascuna rivista non aveva distribuzione nazionale e che per lo più morivano dopo poche o addirittura una sola pubblicazione; fra quelle più fortunate e durevoli ci sono state la torinese La Vita Cinematografica (1910-1934) e la veneziana Cinemundus (1918-1946) che avrà una nuova serie fra gli anni 1952-1966.

1920. I ruggenti Anni Venti, The Roaring Twenties, come gli americani ce li hanno tramandati con la loro letteratura il loro cinema e la loro musica che esplose nel jazz, furono per loro un creativissimo decennio di espansione industriale che sarebbe imploso con la tremenda crisi del 1929 e del proibizionismo. In Europa, che era appena uscita dalla Prima Guerra Mondiale e dalla febbre spagnola, i ruggenti Anni Venti ebbero altre espressioni: Les Année Folles in Francia e nel francofono Canada, Goldene Zwanziger in Germania e Felices Años Veinte in Spagna, denominazioni che mettono l’accento sulla follia l’oro e la felicità; ma da noi fu un decennio che, pur risentendo di quelle caratteristiche, si presentò più complesso: come in Germania – dove alla fine del conflitto il marco, il papiermark, stampato in gran quantità per pagare le spese della perduta guerra finì col non valere più nulla e le banconote vennero addirittura usate per accendere il fuoco, che almeno scaldava – in Italia si sentiva altrettanto forte l’incertezza del dopoguerra e si crearono i presupposti di un esperimento sociale: il nascente Fascismo si proponeva con istanze di rivendicazione sociale e partecipazione di massa alla cosa pubblica, salvo poi pretendere di imporsi come pensiero unico e avere una svolta autoritaria e repressiva.

In quel clima il cinema continua ad espandersi perché affare redditizio, e le sue riviste diventano una realtà stabile facendosi libretti con più pagine e a pubblicazione regolare; ad esempio, nel 1923 a Bologna viene creato Eco del Cinema: periodico cinematografico mensile e a Firenze Cinema: pubblicazione settimanale mentre nel 1927 a Palermo si tenta la via della rivista di lusso con Serraglio: quindicinale del teatro e del cinema, e tutte si distinguono, secondo un criterio odierno, per approssimazione e incompetenza: praticamente latita la qualità critica e letteraria degli interventi e gli autori sono ancora autodidatti che con molta faccia tosta spacciano una professionalità ancora in divenire: vengono esaltati i titoli e si discute delle qualità tecniche. Escono anche le prime monografie divistiche, ad esempio su Francesca Bertini, Rina De Liguoro, Leda Gys, Pola Negri e il naturalizzato americano Rodolfo Valentino per restare sui nomi italiani – non per adesione politica a un certo pensiero contemporaneo ma solo perché qui si parla del cinema italiano; dunque le riviste di cinema diventano anche intrattenimento per il pubblico e via via si separano dalle riviste più tecniche che più specificamente si vanno rivolgendo agli addetti ai lavori.

Cominciano ad affermarsi sulla carta stampata anche, e parallelamente, i primi nomi che professionalmente si affermano nell’industria cinematografica: Alessandro Blasetti, che fu regista e sceneggiatore ma anche montatore oltre che critico cinematografico, che fonda nel 1926 Il mondo e lo schermo, poi semplificato in Lo schermo, che l’anno dopo trasforma ancora in cinematografo con l’iniziale eccezionalmente (per l’epoca) minuscola, cui fa seguire ancora Lo Spettacolo d’Italia che però avrà vita più breve. Sul finire dei Venti e scavallando il seguente decennio escono, fra l’altro, il rotocalco La Rivista Cinematografica e Mondana a Palermo nel 1927 e Cine romanzo a Milano nel 1929, entrambe a forte imitazione dei modelli americani ed entrambe avviano un nuovo modello editoriale: il rotocalco cinematografico, che si svilupperà nei decenni a seguire.

Il rotocalco, che prende il nome dalla tecnica rotocalcografica, nasce in seguito a quella nuova possibilità di stampa; fino a quel momento erano in uso le rotative a lastre di piombo che verranno sostituite da cilindri di rame che consentono di riprodurre le sfumature di colore, le mezzetinte, migliorando di molto la resa della fotografie; e poiché ricco di immagini il rotocalco avrà grande diffusione popolare anche fra quanti erano semi o totalmente analfabeti: farsi vedere mentre si sfoglia un rotocalco è un nuovo status sociale. Il primo rotocalco italiano proviene dal settimanale Il Secolo Illustrato che era stato fondato nel 1913 come supplemento al quotidiano Il Secolo, che Arnoldo Mondadori acquistò nel 1923 e che due anni dopo cominciò a stampare con la nuova tecnica. Ma il grande successo del genere rotocalco si deve proprio alle pubblicazioni cinematografiche. Del 1929 abbiamo detto è la rivista Cine-Romanzo, e seguirono: Films e Cinema Illustrazione presenta nel 1930; Stelle nel 1933.

1930. E da qui in poi i rotocalchi cinematografici si moltiplicheranno talmente che cercare di ricordarli tutti produrrebbe uno sterile elenco. Utile ricordare che i rotocalchi erano in genere settimanali di 16 pagine circa che inventarono il cineromanzo, ovvero la narrazione romanzata della trama del film, che se da un lato invogliava ad andare in sala dall’altro consentiva di immaginarsi al cinema a chi non poteva, con uno stile che riecheggiava i feuilleton ottocenteschi, mentre le vite dei divi venivano raccontate come vere e proprie favole di principi e principesse: vite favolose; cineromanzi che accompagnati da fotografie e didascalie saranno i capostipiti dei fotoromanzi che verranno.

1940. Nei primi anni Quaranta insieme al cinema neorealista arriva anche la prima pubblicazione di stampo neorealista: esce prima col nome di Taccuino che presto viene cambiato in Si gira che annovera fra i suoi collaboratori nomi ancora oggi noti: Vitaliano Brancati, Carlo Lizzani, Antonio Pietrangeli e Cesare Zavattini, fra gli altri. E nascono in quegli anni gli scritti d’autore, che spostano la semplice recensione verso una vera e propria critica, teorica ed estetica del mezzo, con spazio all’autore che esprime un suo stile e un suo linguaggio; qualcosa di così specialistico e intellettuale che non trovando più spazio sulle riviste popolari comincia a spostarsi su altri tipi di pubblicazioni: i primi libri sul cinema e più estesamente su altri tipi di riviste che mischiavano i discorsi sul cinema a considerazioni di tipo politico e sociale: L’Europeo, Oggi, Omnibus, Mondo.

La prima metà di quegli anni Quaranta sono anche gli anni della Seconda Guerra Mondiale alla fine della quale c’è da noi il crollo del fascismo, che se da un lato aveva dato un forte impulso all’industria cinematografica – intesa però come strumento di propaganda e di controllo delle masse – dall’altro aveva messo su una cinematografia, quella detta dei telefoni bianchi, che raccontava benesseri e felicità totalmente fasulli, favole senza nessun appiglio con la realtà; oppure si producevano drammi storici con l’intento di esaltare l’italianità. Da quel crollo di ideali e di cinema patinato o in costume nasce il neorealismo, che da un lato è un movimento di presa di coscienza e dunque di ideologia, e dall’altro è un necessario modello produttivo povero, che gira fuori dagli studi direttamente sulle strade e fra le macerie, prendendo dalla strada molti attori non professionisti ad affiancare quei professionisti che non hanno il birignao della recitazione sofisticata. E a parlare di cinema su quelle riviste ci sono anche Vittorio De Sica, Pietro Germi, Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Camillo Mastrocinque, Giuseppe De Santis, Michelangelo Antonioni.

Alla fine della guerra venne anche istituita una commissione per l’epurazione di registi e sceneggiatori che avevano collaborato col fascismo, e in realtà si arrivò solo a una blanda punizione e nomi come Goffredo Alessandrini, Carmine Gallone e Augusto Genina furono solo sospesi dall’attività, salvo poi rimettersi al lavoro pochi anni dopo: niente a che vedere con le feroci persecuzioni della contemporanea Hollywood che però se la prendeva coi comunisti, perché erano gli anni in cui si inaugurò la cosiddetta guerra fredda. Nel 1946 i nostri critici cinematografici, ormai diventati una realtà professionale, si sono organizzati nel sindacato SNGCI, Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, che pubblicherà il suo Cinemagazine che copia il nome dalla preesistente rivista francese. Mentre Ferrania, che produce pellicole e lampade, pubblica una propria rivista col nome dell’impresa.

Yvonne De Carlo che si infila fra Sophia Loren e Gina Lollobrigida per non perdere lo scatto al Berlin Film Festival del 1954

1950. Negli anni Cinquanta si assesta e si arricchisce il panorama delle riviste cinematografiche che cominciano anche a parlare di un nuovo fenomeno, la televisione, e ormai anche quasi tutti i quotidiani hanno le loro rubriche di cinema; arrivano inoltre le prime collane di libri sul cinema con monografie su registi e sceneggiatori, e dato l’ormai gran numero di pubblicazioni, e di penne specificamente addette, si registra uno strano corto circuito: le recensioni sulle riviste cominciano a parlare dei libri e della altre riviste, e viceversa, in un focus narrativo che si allontana dal principale oggetto del contendere: il cinema. La critica omaggia se stessa: quanto lontani si è dalle prime pubblicazioni con quegli scarni e ingenui bollettini, bollettini che però vengono ancora pubblicati dalla Lux Film e dalla Titanus, e si deve a quest’ultima testata e alla genialità del suo patron Gustavo Lombardo l’invenzione della rivalità fra Sophia Loren e Gina Lollobrigida cui tanti ancora oggi credono, e che ha fatto scuola fra i rotocalchi scandalistici che ancora oggi inventano rivalità e amori e tradimenti fino a scadere nel più becero pettegolezzo cui ormai si aggrappano solo quei disperati che vivacchiano ai margini dello show business, altro che Loren e Lollobrigida.

1960. Negli anni Sessanta, mentre aprono nuove testate, resistono in edicola Rivista del cinematografo, Bianco e Nero e Filmcritica, mentre Cinema Nuovo diretto da Guido Aristarco rallenta e da quindicinale diventa bimestrale. Altre riviste degne di nota sono Cineclub, vissuta fino al 1998, e Cineforum che è ancora in edicola e che nacque a Bergamo nel 1961 come bollettino della cattolica Federazione Italiana Cineforum che riuniva le associazioni culturali senza scopo di lucro sorte su tutto il territorio nazionale finalizzate alla diffusione e alla preservazione della cultura e dell’arte cinematografica, che fra le varie attività – dibattiti, conferenze, fondazioni di biblioteche e cineteche, produzione di film sperimentali – organizzavano le proiezioni di quei film che non trovavano spazio nella distribuzione regolare, oggi detta mainstream: tali luoghi di ritrovo si chiamarono Cine Club, poi cineclub o cineforum, copiati dai francesi Ciné-Club dagli inglesi Film Society e dai tedeschi Filmfreunden; cineclub che ebbero, appunto, la loro rivista omonima.

Ciak sul set di un film sperimentale fascista dei CineGuf.

Quei club erano guidati da un’ideologia politica sempre più spostata a sinistra e via via si perde la memoria dei primi sperimentali circoli cinematografici italiani degli anni Venti e Trenta e dei fascisti CineGuf. Coi cineclub viene anche lanciato il concetto giuridico di cinema d’essai o film d’essai che abbrevia la qualifica “Cinéma d’art et d’essai” (cinema d’arte e di prova) che si erano attestati in Francia sin dagli anni ’40 come sale in cui si faceva una programmazione di film sperimentali di derivazione avanguardista e indirizzati a un pubblico di nicchia, più colto; qui da noi questi cosiddetti cineclub arrivarono vent’anni dopo e la prima sala italiana ad avvalersi della qualifica legale di “Cinema d’essai” fu il Quirinetta a Roma nel 1960, cui seguirono il Cinema Centrale a Milano e il Nuovo Romano a Torino. Questa capillarizzazione dei club sfornarono subito una nuova generazione di spettatori più preparati che portarono al successo commerciale film d’autore come “La dolce vita” di Federico Fellini e “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, entrambi del 1960; cosicché i club, ora incalzati dalle sale mainstream che scoprivano il cinema d’autore, si riorganizzarono creando l’Associazione Italiana Amici Cinema d’Essai (AIACE) come stimolo verso un circuito di sale con una programmazione alternativa altrettanto mainstream.

1970-2023. Negli anni Settanta escono Edav Educazione Audiovisiva, ancora in edicola, e Cinema & Cinema che chiuderà i battenti nel 1994. Dagli anni Ottanta in poi possiamo dire di essere entrati nell’era odierna con testate che aprono e chiudono come nei decenni passati. Resistono le riviste specialistiche Immagine. Note di Storia del Cinema e Segnocinema, mentre fra le riviste più commerciali troviamo in edicola Nocturno, che si specializza nei film di genere horror e poliziesco arrivando ai film hard passando per l’exploitation; Best Movie che fondata nel 2002 è stata inizialmente distribuita gratuitamente nei cinema e che dal 2004 esiste in quattro versioni: continua la gratuita ma in versione ridotta, più completa la versione in edicola e solo in abbonamento con spedizione a casa la versione da collezione con copertina priva di didascalie, e infine la versione online dove è disponibile il download gratuito.

La parte del leone ce l’ha a tutt’oggi Ciak, fondata nel 1985 come mensile legato a TV Sorrisi e Canzoni e già l’anno dopo, nel 1986, ha dato vita al premio Ciak d’Oro, premio per il cinema italiano, che ha avuto anche le sue serate tv sulle reti Mediaset e che si inventa sempre nuovi premi – Ciak d’oro Stile d’Attore e Stile d’Autore o Premio speciale Aspettando il Festival, tanto per dirne un paio – che lasciano il tempo che trovano ma che comunque spargono a piene mani polvere di stelle.

Fra tutte queste avventure editoriali sul cinema, nel 1953 ci fu il curioso esperimento Lo Spettatore che visse di un solo numero e che come un cineromanzo monografico presentava il film a episodi “L’amore in città”. Andremo a darci un’occhiata, sia alla rivista che al film.

IL SOSPETTO – omaggio a Francesco “Citto” Maselli

Sarò sincero, non sono mai stato un fan dell’appena scomparso 92enne Francesco Maselli e trovando su YouTube questo suo importante film che ho visto per la prima volta, confermo la mia posizione: il suo impegno politico e sociale prevarica l’attenzione per il pubblico, tant’è che i suoi film non hanno mai avuto grande riscontro al botteghino. Ci sono film di maestri coevi, Francesco Rosi Florestano Vancini ed Elio Petri tanto per citare i primi che mi vengono in mente, che pur indagando la politica e il sociale non derogano da quella che dovrebbe una delle regole portanti del cinema: la spettacolarità, che non sono solo botti e botte da orbi, ma soprattutto scrittura accattivante e ritmo coinvolgente: chi continuerebbe a leggere un libro che risulta ostico se non noioso sin dalle prime pagine?

Francesco Maselli è “nato bene” come si diceva una volta, in una famiglia di intellettuali romani: suo padre era un critico d’arte che ospitava nel suo salotto i bei nomi intellettuali e progressisti dell’epoca, ed era intimo amico di Luigi Pirandello che gli dava da leggere in anteprima i suoi manoscritti, e fu proprio Pirandello a tenere a battesimo Francesco affibbiandogli il nomignolo Citto. Il ragazzo si dimostrò anch’egli un intellettuale precocissimo: a sette anni aveva già imparato l’Amleto a memoria; e a tredici, durante l’occupazione tedesca della capitale, portava armi e cibo ai partigiani del Gap, Gruppo d’Azione Partigiana; e a seguire, a soli quattordici anni riuscì entrare nell’allora clandestino Pci, Partito Comunista Italiano. In quegli anni gira anche i suoi due primi cortometraggi in 8mm fra i 15 e i 17 e ancora 17enne viene accettato al Centro Sperimentale di Cinematografia da cui si diploma 19enne; sarà subito assistente di Luigi Chiarini, critico e teorico del cinema fra i fondatori del Centro, suo padrino professionale, oltre ad affiancarsi come aiuto di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti: insomma, il giovane Citto “nato bene” non ha dovuto sgomitare per lavorare coi migliori. Si comincia già a delineare il suo talento come documentarista che è in linea coi suoi impegni politici e civili e probabilmente proprio in questo tipo di cinematografia riesce a dare il meglio: perché essendo film dichiaratamente documento non hanno l’obbligo – ammesso che sia un obbligo – della spettacolarità, ovvero di dover piacere al grande pubblico. Perché questo sarà il nodo irrisolto di tutta la cinematografia di Citto Maselli: non riesce a piacere al pubblico di massa, tanto che per indagare questo aspetto andrà anche in analisi. Di fatto l’autore mette sempre in primo piano la politica che, di fatto, è la sua formazione emotiva, quella che ha formato l’adolescente; racconta i suoi personaggi e struttura i suoi film secondo una visione intimamente marxista, facendone dei casi-limite, esempi di un’umanità e di contesti sociali che finiscono con l’essere poco accattivanti e indigesti al botteghino.

Prendiamo ad esempio questo “Il sospetto” del 1975, che per non essere confuso col film omonimo del 1941 di Alfred Hitchcock “Suspicion” in originale, verrà distribuito come “Il sospetto di Francesco Maselli” (poi ci sarà un altro film omonimo nel 2012 del danese Thomas Vinterberg). Ambientato nella Torino del 1934, centro nevralgico di interessi politici della sinistra operaia per la gran massa di operai della Fiat, racconta di un dirigente del Partito Comunista Italiano in clandestinità perché si è nel bel mezzo del cosiddetto ventennio fascista.

Scorcio parigino del film

L’ambientazione è inappuntabile e accattivante, si fa grande sfoggio di auto d’epoca e di comparse bene acconciate, e la cinematografia di Giulio Albonico insieme al montaggio di Vincenzo Verdecchi scarnificano l’opera rendendola fascinosamente essenziale, senza sbavature e inutili compiacimenti – ma già alla base del progetto c’è una scrittura – sceneggiatura di Franco Solinas (già critico cinematografico per il quotidiano comunista l’Unità) da un soggetto dello stesso Maselli – che sembra non tenere conto degli spettatori: è scritto come se parlasse solo ai tesserati del partito, dando per scontati dettagli informazioni e utili raccordi che vengono a mancare a chi non è addentro a quelle specifiche dinamiche, col risultato che io spettatore “non iniziato” e non iscritto al Partito Comunista faccio fatica ad entrare nello spirito del film, della sua narrazione; è esemplare il finale del film con il lungo monologo-spiegazione del funzionario del partito fascista, che dà un senso all’intero impianto del film ma che nelle mani di altri cineasti sarebbe potuto diventare un confronto più serrato e drammaticamente vivo; e l’intera storia che contiene tutti gli elementi di un thriller – il sospetto che ci sia un traditore fra le fila dei comunisti e l’indagine per smascherarlo – viene invece condotta come un film a tesi che spiega solo le dinamiche interne al partito: le tesi appunto e i contrasti, i dirigenti in clandestinità e quelli in esilio all’estero, l’allontanamento ideologico dal Partito Socialista Italiano, le direttive imposte dall’alto e il sacrificio individuale.

Ne è protagonista il sempre centratissimo Gian Maria Volonté, anch’egli comunista attivissimo: proprio in quel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, carica da cui si dimise appena sei mesi dopo, motivando: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso” a dimostrazione che la purezza e l’integrità ideologica non possono andare di pari passo con l’attività politica sul campo che deve fare i conti con le varie realtà trasformando l’iniziale ideologia in fatti concreti. A latere bisogna sempre ricordare che quelli erano i cosiddetti anni di piombo (modo di dire derivato dal film omonimo del 1981 della tedesca Margarethe Von Trotta) del terrorismo di destra e sinistra che aveva fatto del territorio italiano un campo di battaglia, si suppone col supporto dei servizi segreti americani che temevano l’espandersi della comunista Russia nell’Europa Occidentale: già nel film si parla dell’Unione Sovietica come ideologico faro dell’umanità. E anche in tale contesto va collocata l’ispirazione politica di autore e protagonista.

Fanno da contorno a Volonté un insolito Renato Salvatori per chi lo ricorda brillante giovanottone che era arrivato al successo negli anni ’50 con la trilogia di Dino Risi dei “Poveri ma belli” e, nonostante fosse quasi sempre doppiato ebbe anche bei ruoli in film drammatici; ma per Salvatori quegli anni ’70 erano già gli anni del declino: aveva ceduto all’alcolismo e consequenzialmente veniva chiamato per ruoli meno impegnativi benché sempre tenuto in considerazione da amici e colleghi; morirà 55enne di cirrosi epatica. Nel ruolo della dirigente italiana in esilio a Parigi c’è la parigina Annie Girardot, amica di famiglia essendo l’ex moglie di Salvatori con il quale era rimasta in affettuosi rapporti: si erano conosciuti nel 1960 sul set di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, film che peraltro segnò l’apice della carriera di lui come interprete drammatico. Nel ruolo di un altro dirigente di partito c’è il torinese doc Felice Andreasi che era appena divenuto noto come ospite fisso del televisivo “Il poeta e il contadino” condotto da Cochi e Renato. Chiude il cast dei ruoli principali il sempre eccellente Pietro Biondi, l’unico ancora in vita fra gli elencati, nel ruolo del monologante agente dell’OVRA, la polizia politica fascista. Accreditato nel cast benché con un ruolo da figurante in campo lunghissimo c’è l’emergente Gabriele Lavia che già al cinema aveva avuto ruoli da protagonista: si suppone che il suo personaggio si sia perso in sala di montaggio.

protagonista e regista

L’occasione della scomparsa di Citto Maselli mi accende la curiosità sulla sua filmografia che non ho mai frequentato, con un focus sui lavori collettivi, i cosiddetti film a episodi, e quelli più onestamente politici e documentaristici. Nel 1981 Maselli ha confessato a Paese Sera: “Ho un’ambizione che non ho mai rivelato a nessuno, nemmeno a me stesso. È quella di essere dimenticato come regista e riscoperto, invece, come fotografo… La cosa più orribilmente sincera che abbia mai detto.” E inquadrati in quest’ottica i suoi film sono più fotografici che narrativi, nel senso che staticamente si focalizzano su personaggi e situazioni senza raccontarne lo sviluppo, la dinamicità, il divenire, e in questo modo congelando ogni afflato emotivo. Interessante la sua svolta negli anni ’80 con quattro film incentrati sulla donna: “Storia d’amore” del 1986 gran successo al Festival di Venezia dove l’autore vince il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria mentre alla protagonista Valeria Golino va la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Nel 1988 segue lo sperimentale “Codice privato” con Ornella Muti unica interprete del film, nominata ai David di Donatello, ai Nastri d’Argento agli European Film Awards e vincitrice del Ciak d’Oro. Del 1990 sono gli altri due film con protagonista Nastassja Kinski, “L’alba” e “Il segreto”, film però entrambi clamorosamente bocciati dalla critica senza dire che il pubblico li ha praticamente ignorati.

Francesco Maselli, oltre a essere cineasta non ha mai abbandonato l’attività politica dedicandosi in particolare alla scrittura saggistica e mantenendo il suo ruolo, fondamentale, come militante della sinistra italiana. Nel 2001 dette vita alla Fondazione Cinema nel Presente riunendo una trentina di autori rappresentativi di tutte le generazioni del cinema italiano, fra i quali: Francesca Comencini, Wilma Labate, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Ettore Scola e Pasquale Scimeca; fondazione che produrrà molti di quei documentari collettivi in cui ha dato il meglio di sé. Andiamo a riscoprirlo.

Il deserto rosso – quarto e ultimo film per la coppia Antonioni-Vitti

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Confesso che non avevo mai visto Monica Vitti in un ruolo drammatico perché non avevo mai visto nessuno dei cosiddetti film dell’alienazione o dell’incomunicabilità o esistenzialisti della coppia d’arte e di vita che lei formò con Michelangelo Antonioni; e casualmente comincio dall’ultimo, quello a colori del 1964, che la critica ufficiale a volte colloca come ultimo di una tetralogia e altre volte come appendice, a colori appunto, di una trilogia in bianco e nero: “L’avventura”, “La notte” e “L’eclissi”, quattro grandi film in quattro anni che accompagnano e bruciano anche la relazione sentimentale fra l’autore e l’attrice.

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Dorian Gray in “Il grido”

Si erano conosciuti durante la post produzione di “Il grido” (1957) dove lei doppiava Maria Luisa Mangini divenuta famosa col nome d’arte Dorian Gray senza probabilmente aver mai letto il racconto omonimo di Oscar Wilde dove il protagonista è un uomo; ballerina che dalla danza era passata alla rivista e dalla rivista al cinema brillante in ruoli di bellona, senza mai imparare davvero a parlare e a recitare dato che è stata sempre doppiata.

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Claudia Cardinale e Monica Vitti a una serata di gala per il secondo film che la Vitti ha girato con Carlo Di Palma “Qui comincia l’avventura” 1975

Di contro, Monica Vitti, attrice con solida preparazione (e chi ha avuto modo di vederla in teatro ne ricorda il grande magnetismo) per la sua voce graffiata (come quella di Claudia Cardinale con la quale condividerà un iniziale ostracismo perché le attrici all’epoca dovevano essere usignoli) riceveva solo proposte dal doppiaggio dove, benché giovane, dava voce a donne più mature o di vita vissuta. Dunque, mentre era in sala di doppiaggio, alle sue spalle c’era Antonioni che la osservava dalla cabina di regia e che le fece una battuta rimasta nella storia: “Ha una bella nuca, potrebbe fare del cinema” alla quale lei rispose subito con un beffardo: “Di spalle?” Cominciarono a frequentarsi e lui la inserisce in una sorta di laboratorio teatrale che era stato chiamato a dirigere, con giovani promettenti attori ancora poco noti al grande pubblico come Virna Lisi e Giancarlo Sbragia, per una serie di tre spettacoli da presentare al Teatro Eliseo di Roma. Ma diversi contrasti all’interno del gruppo fanno fallire l’esperienza e il regista dirige a teatro l’attrice in un solo spettacolo, “Scandali segreti”, l’adattamento teatrale di una sceneggiatura mai messa in film di Elio Bartolini, scrittore e sceneggiatore con cui Antonioni aveva collaborato in “Il grido” e ancora collaborerà.

Il passo successivo che salderà la coppia sarà l’inizio della breve intensa avventura cinematografica che si concluderà appunto con questo “Il deserto rosso” dove lei conosce il suo prossimo compagno di vita e d’arte, il direttore della fotografia Carlo Di Palma che per lei si farà regista dirigendola in tre commedie, la prima delle quali è “Teresa la ladra”. Anche per Di Palma è il primo lavoro a colori e vincerà il Nastro d’Argento per la fotografia. Il film vincerà il Leone d’Oro a Venezia e il Kansas City Film Critics Circle Awards come miglior film straniero. Michelangelo Antonioni spiegherà in conferenza stampa che il suo passaggio stilistico dal bianco e nero al colore è stato un percorso del tutto naturale; fra le altre cose dirà: “La storia è nata a colori, ecco perché dico che la decisione di fare il film a colori non l’ho mai presa, non era necessario prenderla. (…) nella vita moderna mi pare che il colore abbia preso un posto molto importante. Siamo circondati sempre più da oggetti colorati, la plastica che è un elemento molto moderno è a colori, (…) e che la gente si stia accorgendo che la realtà è a colori. Nel film ho cercato di usare il colore in funzione espressiva, nel senso che avendo questo mezzo nuovo in mano, ho fatto ogni sforzo perché questo mezzo mi aiutasse a dare allo spettatore quella suggestione che la scena richiedeva.”

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E lo sforzo è notevole, addirittura magistrale. Il film si apre con degli scorci fuori fuoco in un bianco e nero che vira all’azzurro, paesaggi industriali come sospesi nella nebbia e nella mancanza di colori; colori che entrano in campo con la protagonista in lontananza che conduce per mano un bambino, lei con un cappotto verde brillante e lui con un piccolo eskimo ocra. E per certi versi il film è come se continuasse il discorso autorale in un bianco e nero in cui i colori si aprono a sprazzi, macchie, composizioni espressioniste in cui nulla è lasciato al caso, come composizioni pittoriche o installazioni artistiche che hanno per tema il paesaggio industriale. Antonioni compone da un lato un film tutto visivo e dall’altro, insieme a Tonino Guerra, scrive una storia di disagio dove le parole sembrano non avere profondità e sembrano non suscitare nulla nell’interlocutore occasionale, ma solo altre parole senza profondità e senza deriva; dove anche il marito di Giuliana, la protagonista, e i loro amici, sembrano incontri occasionali, estranei, come pure il figlio piccolo che trasforma il suo capriccio di non volere andare all’asilo in un dramma dell’incomunicabilità madre-figlio: estranei all’anima della protagonista che l’autore ci fa percepire come un’aliena in un mondo in disfacimento che pure lei, come lui, accetta: la deriva dell’industrializzazione, i fumi e i liquami, sono un male necessario che conduce al benessere economico e sociale; lo sfruttamento ambientale, in questo film ante litteram ecologista, non è il nemico da contrastare ma un percorso formativo di convivenza, e sopravvivenza ai veleni. Nel finale il bambino chiede alla madre perché il fumo di una ciminiera è giallo e lei spiega che c’è il veleno; ma allora, ragiona il bambino, se gli uccellini ci passano in mezzo, muoiono; no, spiega lei, perché lo hanno imparato e lo evitano. Così come le anguille che sanno di petrolio sono solo una battuta su cui sorridere, per il bene del progresso.

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Il deserto rosso del titolo, che inizialmente avrebbe dovuto contenere parole come blu e verde, è anche quello una suggestione. Nel film i colori preferiti dall’autore e dalla sua protagonista sono quelli freddi, colori coi quali lei vorrebbe dipingere le pareti bianche di un grande spazio vuoto in cui dice di volere aprire un negozio per vendere neanche lei sa cosa: una ulteriore metafora del suo malessere profondo, del suo grande vuoto che non sa come riempire, e che il marito crede essere il risultato di un incidente dal quale lei non si è ripresa, e che invece è la causa di quell’incidente che è stato un tentato suicidio, ma lui non lo sa. Antonioni fa attraversare alla sua protagonista i suoi quadri e le sue composizioni come fossero un labirinto di spazi aperti in cui non c’è nessuna via d’uscita sul piano spaziale – ma con una speranza, alla fine, su quella temporale: il futuro è un eterno divenire dove anche i miasmi industriali e i disagi sentimentali trovano una loro pacificatoria collocazione.

Per questo suo film fortemente metaforico Antonioni torna ancora una volta alla sua Ferrara natia in cui già aveva scelto di ambientare il suo film d’esordio “Cronaca di un amore”; ma si spinge nella periferia est, verso il mare e la valle del Comacchio rinomata appunto per le sue anguille e di cui l’autore mostra un inedito grigio panorama che si perde nella nebbia, fatto di capannoni e ciminiere, con ampi e affascinanti (per chi apprezza l’architettura industriale) scorci di stabilimenti, di cui però non ci è dato sapere cosa producano perché non importa, sono lì per trasformare l’ambiente e le vite.

Il rosso del titolo lo vediamo solo su una fiancata di nave e nelle pareti dipinte dell’interno di un casotto in cui Ugo, il marito di Giuliana, invita a pranzo degli amici per parlare, ancora, di industrie e di affari. Nella sonnolenza postprandiale le tre donne e i tre uomini sono quasi distesi gli uni sugli altri e nello stretto spazio si comincia a parlare di afrodisiaci, viene a ripararsi una coppia di amanti clandestini che credeva vuoto il casotto, Giuliana dice al marito che ha voglia di fare l’amore e per completare il quadro c’è uno specchio incorniciato da figurine di sexy pin-up: ma ancora è solo un’orgia di parole in cui i personaggi si incartano a cominciare da Ugo che non coglie l’esplicita richiesta amorosa di Giuliana perché troppo preso a parlare di imprese. Giuliana tenta l’amore con Corrado, l’imprenditore venuto a chiudere affari con Ugo, sin da subito affascinato dalla donna che si mostra sempre inconcludente in un rimbalzo di conversazioni mai conclusive perché anche lui è un’altra anima in pena in cerca di ulteriori approdi.

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Nel ruolo del marito lo sconosciuto che rimarrà tale Carlo Chionetti. Come coprotagonista, che in realtà fa sempre da spalla a Monica Vitti, venne scritturato l’irlandese Richard Harris – venuto a mancare nel 2002 e che i millennial ricorderanno come Albus Silente nei primi due film della saga di Harry Potter; attore che all’epoca era una nascente star internazionale, che dal Free Cinema inglese degli anni ’50-60 era passato a Hollywood e dopo un ruolo secondario in “I Cannoni di Navarone”, 1961, aveva avuto un ruolo di rilievo in “Gli Ammutinati del Bounty”, 1962, e assurgerà al vero grande successo personale qualche anno dopo, come protagonista di “Un Uomo Chiamato Cavallo”, 1970. Antonioni, dopo avere affiancato a Monica Vitti i francesi Jeanne Moreau In “La notte” e Alain Delon in “L’eclisse”, nonostante anche questo film sia coprodotto con la Francia, che però gli dà carta bianca in virtù dell’adorazione che suscita oltralpe, si prende la libertà di guardare verso il mercato cinematografico d’oltreoceano cui è già proiettato: il suo prossimo film infatti, girato in inglese, sarà una ulteriore sperimentazione, “Blow-up”, 1966.

Il film, come gli altri dell’incomunicabilità, non ebbe successo di pubblico ma fu osannato dalla critica e accrebbe, se ce n’era ancora bisogno, la fama di Antonioni all’estero. Divenne famosa la frase di lei “mi fanno male i capelli”, battuta alla quale il pubblico in sala rise e che ancora oggi viene talvolta citata con ironia, perché decontestualizzata; la frase completa è “mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca” e la frase completa inserita nel più ampio contesto di un dialogo dà totalmente il senso di sperdimento della protagonista; ricordando pure che è una citazione dalla poetessa Amelia Rosselli e che dal punto di vista medico è una vera patologia, dolore dovuto all’infiammazione del cuoio capelluto, che si sintetizza in questa frase.

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Monica Vitti, recentemente scomparsa in vita dopo essere a lungo scomparsa dallo schermo a causa dell’alzheimer che l’ha anche fatta scomparire a se stessa, è stata in qualche modo profetica nel suo libro del 1995 “Il letto è una rosa” dove ha scritto: “Lasciatemi l’emozione, e tenetevi pure la memoria. Io non la voglio, perché è una truffa, e non la si può nemmeno portare in tribunale perché vincerebbe lei. La memoria non è con me, ma contro di me…”

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