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Felicità – opera prima di Micaela Ramazzotti

Il 2023 è stato un anno felice per i debutti alla regia di attrici e attori, a cominciare dall’acclamatissima opera prima di Paola Cortellesi “C’è ancora domani” che ha sbancato il botteghino; e vale la pena annotare il documentario biografico della polacca italianizzata Kasia Smutniak che in “Mur” racconta la zona geografica caldissima, di grande attualità, tra la sua Polonia e la Biolorussia; e sul versante maschile debuttano gli attori Alessandro Roja con il suo “Con la grazia di Dio”, Michele Riondino con “Palazzina LAF” e il figlio d’arte Brando De Sica con “Mimì – il principe delle tenebre” oltre ad altri interessanti registi puri (non attori) i cui nomi non ci dicono nulla nell’immediato. Ma non tutti hanno goduto o ancora godono dell’attenzione del pubblico, come nel caso di questo debutto che al Festival di Venezia, presentato nella Sezione Orizzonti, ha ricevuto il Premio Spettatori, e una benevola attenzione della critica che però non ha mancato di segnalare alcune debolezze del film.

A mio avviso la debolezza principale sta proprio nell’attrice che dichiaratamente ha realizzato un film sulla scia del suo personale percorso artistico, senza tentare vie meno comode, come quello della Smutniak, o come quell’altro meno riuscito di Jasmine Trinca che con “Marcel!” ha tentato una favola drammatica senza riuscire a maneggiare appieno il materiale, però; o l’originale thriller psicologico “Tapirulàn” molto ben diretto e interpretato da Claudia Gerini.

Il film di Micaela Ramazzotti, che ha incassato meno di 600 mila euro, è già in chiaro su Sky Cinema per accompagnare l’uscita della serie “Un amore” che interpreta insieme a Stefano Accorsi che l’ha ideata e prodotta, e per l’occasione è intervistata da Omar Schillaci nel suo programma “Stories” nel quale si racconta con una voce da donna adulta che mi stupisce perché mi ero convinto che il suo tono sempre cantilenante di bambina un po’ imbronciata, che è il marchio tipico delle sue interpretazioni, fosse il suo naturale modulo espressivo.

Molto generosamente cita il successo della Cortellesi, rivendicando il ruolo delle attrici nel nostro cinema, e nell’insieme si racconta rivelando che per costruirsi la carriera ha seguito un modello: all’inizio ha capito che andava la svampita e come tale si presentava ai provini e sui set, procedendo passo passo nella carriera di attrice dopo il suo debutto a tredici anni come interprete dei fotoromanzi “Cioè” e il suo primo ruolo significativo lo ebbe a 21 anni come “Zora la vampira” che fu il debutto dei fratelli registi accreditati come Manetti Bros. Il grande successo, e la svolta anche nella vita privata, arriva con “Tutta la vita davanti” di Paolo Virzì, col quale scoccò una scintilla sul set tanto da convolare a nozze; nel film, che le valse la nomination ai David di Donatello come non protagonista, era una giovane madre scombinata, un ruolo che immergeva in un contesto drammatico la svampita che l’aveva condotta fin lì; è un personaggio molto riuscito e Micaela, che fedele alla sua ricerca della via che porta al successo prende a cavalcare anche quel tipo di donna che lei definisce “storta”, un tipo nel quale il pubblico e la critica la apprezzano: è intensa, indifesa e forte al contempo, e dimostra anche sicure doti di commediante, tanto che – volendo fare uno di quegli inutili accostamenti che però aiutano la lettura – un po’ ricorda Monica Vitti.

Avevo notato che funzionavano i personaggi svampiti, leggeri, – racconta a Omar Schillaci – quindi i registi un po’ li ho presi In giro fingendo di essere veramente svampita, leggera, frivola. Poi a un certo punto me lo sentivo stretto, sentivo che forse ero anche io un po’ fraintesa come persona. E allora ho iniziato ad amarle veramente queste donne e a studiarmele seriamente, a scegliere quei personaggi e scegliere appunto le loro storture. Perché ho sempre amato chi sbaglia, l’imperfezione, chi cade e si rialza. Mi è sempre piaciuto portare al cinema quelle donne lì”. Ma è anche vittima di queste sue donne “storte” che le riescono così bene e su questa traccia comincia a pensare al suo film da debutto autorale; lo scrive insieme all’amica attrice livornese Isabella Cecchi, un’eredità affettiva che le è rimasta dal marito livornese ormai ex, e la non identificata Alessandra Guidi. In realtà nessuna delle tre sembra avere un percorso formativo di scrittura cinematografica e proprio la sceneggiatura è la parte più debole del film, insieme all’inevitabile sensazione di dejà vu: quante famiglie problematiche abbiamo visto al cinema?

Perché l’argomento potesse passare indenne da queste forche caudine avrebbe avuto bisogno di qualcosa di nuovo, un punto di vista personale, più forte; invece il film percorre la via della commedia drammatica, in cui l’ex marito è maestro, che sembra essere la nuova commedia italiana del nuovo millennio. La scrittura soffre anche di tante ingenuità, a cominciare dalla vecchissima gag delle parole tecniche o straniere storpiate, una gag che si rifà all’avanspettacolo, a un’epoca in cui l’ignoranza era diffusa e ci si rideva sopra: ma oggi che una certa ignoranza è drammaticamente di ritorno, ancora più grossolana e anche cattiva, essa non fa più neanche sorridere e arriva cinematograficamente patetica; per non dire delle caratterizzazioni dei personaggi e di certe situazioni che sono rimaste nel grezzo stadio embrionale.

C’è poi il suo personaggio di sempiterna svampita in salsa drammatica, personaggio che qui sdoppia nella figura del fratello disadattato, e stavolta davvero la misura è colma: perché se lei maneggia con sicurezza il suo modulo recitativo, a Matteo Olivetti, che abbiamo visto debuttare nel film di debutto dei Fratelli D’Innocenzo “La terra dell’abbastanza”, non riesce altrettanto: l’attore non sembra maturo per personaggi di un tale spessore, e la cosa grave è che continua a biascicare incomprensibilmente come in quel debutto, dove però il biascichio era lì funzionale.

Dal punto di vista tecnico, puramente registico, il film è invece molto ben confezionato: basta notare la sequenza d’apertura che si svolge su un set cinematografico dove la nostra lavora come parrucchiera, con un dolly ripreso da un altro dolly in un gioco di specchi dove il cinema racconta il cinema. Per il resto, come dicevo, l’autrice fa partire la sua storia di famiglia “storta” da quei set cinematografici che da attrice ben conosce, non riuscendo a immaginarsi come autrice in un contesto diverso: insomma va sul sicuro, si butta col salvagente, e coinvolgendo gli amici: il regista Giovanni Veronesi, col quale però non ha girato alcun film, fa sé stesso; e si affida ad ottimi professionisti: fotografia di Luca Bigazzi, montaggio di Jacopo Quadri e musiche dell’ex cognato Carlo Virzì al quale deve in qualche modo la sua fortuna di attrice: era stato lui a notarla e a presentarla al fratello Paolo.

Anche il titolo, “Felicità”, appare alquanto improbabile in questa storia di dissoluzioni familiari, tanto che i giornalisti gliene hanno chiesto conto, e Ramazzotti ha spiegato: “L’ho scelto perché è una parola che sta sulla bocca di tutti noi, quasi sempre durante la giornata, sia ai bambini che ai grandi, è una parola che mi piaceva, è facile, si ricorda. La felicità per quanto riguarda il mio film viene dal meraviglioso termine greco eudaimonìa che è il percorso che una persona fa per arrivare a quella famosa felicità, salire su quel benedetto treno. Perché la felicità insomma, oggi come oggi, è difficile trovarla, bisogna quasi inventarsela. Invece l’eudaimonìa è una conquista, un percorso che uno fa, uno stile di vita, è un andargli incontro.” In realtà i giornalisti hanno chiesto, e l’autrice ha dovuto spiegare, perché nel finale sorella e fratello si avviano verso una loro personale presa di coscienza, consapevolezza – ma la felicità è un po’ troppo oltre – e cinematograficamente il finale è debole, resta lì, sospeso, non finale aperto ma solo non conclusivo. Felicità resta solo una bella parola accattivante che strizza l’occhio al pubblico, per poi deluderlo.

Di gran livello il resto dei coprotagonisti. L’ex comico televisivo Max Tortora, giunto in età più che matura si sta reinventando come caratterista di lusso nel cinema romano e romanesco; fu proprio nel film di debutto dei D’Innocenzo che per la prima volta si confrontò con un personaggio drammatico a tutto tondo; è qui il padre di famiglia della tossica famiglia, con un personaggio evidentemente scritto su di lui: si ostina a fare il comico e l’intrattenitore che in età avanzata sogna ancora una brillante carriera ma intanto sbarca il lunario esibendosi nei centri per anziani. Anche il ruolo della madre è scritto su misura per Anna Galiena, attrice con studi e frequentazioni internazionali, che ebbe il suo exploit a 41 anni nel 1990 nel sensuale ruolo del titolo in “Il marito della parrucchiera” accanto a Jean Rochefort e diretta da Patrice Leconte; fama che nell’immediato le portò qualche altro bel ruolo ma con l’avanzare degli anni la sua carriera si è stabilizzata nei ruoli di supporto ancorché importanti.

Qui Ramazzotti le offre un’autocitazione quando il personaggio ricorda il suo passato di parrucchiera che tutti desideravano. Detto questo, l’ottuso razzismo e la grettezza dei personaggi, benché resi benissimo dagli interpreti, sono nella scrittura grossolani, a dir poco.

Assai funzionale e ben tratteggiato il marito della protagonista, un intellettuale interpretato con contenuto istrionismo da Sergio Rubini, un personaggio in cui probabilmente confluiscono anche alcune dinamiche private dell’attrice, ma un personaggio che corre anch’esso verso un finale che vuole essere una svolta drammatica a sorpresa e che invece risulta arraffazzonato. In un piccolo ruolo, quello dell’attore con le mani lunghe, Marco Cocci, rockettaro toscano cooptato al cinema da Paolo Virzì, qui a riprova del fatto che l’ex famiglia d’arte toscana dell’ex marito è divenuta anche la famiglia dell’attrice romana.

In un piccolissimo inconcludente ruolo, neanche un cameo, l’ex bellissima francese Florence Guérin attiva anche in Italia dalla seconda metà degli anni ’80 come icona erotica che nulla ha lasciato all’immaginazione – che nel 1998 però, a 33 anni, interruppe la sua carriera a causa di un gravissimo incidente stradale nel quale perse il figlio di cinque anni, restando lei stessa in coma per lungo tempo e subendo diversi interventi chirurgici; è tornata a recitare nel 2000, soprattutto per la televisione francese, con lo pseudonimo di Florence Nicolas prendendo come cognome il nome del figlio perduto.

In conclusione il debutto di Micaela Ramazzotti come regista è un film con molte imperfezioni che però è nell’insieme scorrevole e gradevole, non a caso il premio del pubblico a Venezia. Se ci sarà un’opera seconda mi auguro che si affidi anche per la scrittura a dei comprovati professionisti, per partire sotto i migliori auspici dalle fondamenta delle sceneggiatura. E che abbandoni le vie già percorse e comode. L’abbiamo vista nuda sul settimanale “Max” e sul grande schermo, ha vinto un David di Donatello, quattro Nastri d’Argento e due Ciak d’Oro, è parimenti amata da pubblico e critica, e oggi che ha 45 anni deve trovare la forza di reinventarsi, a cominciare dal ruolo di regista, o passerà presto nei ruoli secondari della zia svampita dai facili costumi.

La terra dell’abbastanza, opera prima dei Fratelli D’Innocenzo

Il titolo indubbiamente riecheggia “La terra dell’abbondanza” che nel 2004 il tedesco Wim Wnders ha girato negli Stati Uniti, una terra detta dell’abbondanza con amara ironia: Wenders fa un altro dei suoi film socio-politici in cui parla di senzatetto e reduci di guerra.

I Fratelli D’Innocenzo, così si firmano, sono i gemelli 32enni Damiano e Fabio, romani de Roma, come si dice, nativi di “Torbella”, ovvero il popolare Tor Bella Monaca, e sin da ragazzi sono portati per l’arte, spaziando dalla scrittura alla fotografia e alla pittura. Senza una specifica formazione realizzano dei video e uno spettacolo teatrale, mentre si guadagnano la pagnotta con lavoretti vari di bassa manovalanza. Fra le cose che scrivono ci sono delle sceneggiature e finalmente trovano dei lungimiranti produttori che investono in loro, ed ecco nel 2018 quest’opera prima che li proietta immediatamente sui podi della cinematografia italiana: Nastri d’Argento come migliori registi esordienti, per la sceneggiatura e migliore opera prima; candidature ai David di Donatello, ma quell’anno i premi principali vanno a “Dogman” di Matteo Garrone, che però ha avuto i due fratelli come collaboratori alla sceneggiatura; e poi “La terra dell’abbastanza” raccoglie altri riconoscimenti in giro per l’Italia. In seguito al successo del film pubblicano un libro di poesie, “Mia madre è un’arma”, e il libro fotografico “Farmacia notturna”, a riprova del fatto che i giovanotti hanno molte cartucce da sparare.

Anche il loro film, come quello che orecchiano nel titolo, è un’opera socio-politica, ambientata in una periferia romana in cui non si vede mai la Roma delle cartoline, una periferia come ce ne sono in tutto il mondo; solo il linguaggio, un romanesco veracissimo, colloca e ambienta la storia. Protagonisti sono due amici che frequentano una scuola alberghiera senza precise prospettive, corrono in macchina e corrono la vita senza una direzione, e con la macchina investono e uccidono un pentito di mafia: quello che sembra un dramma è invece il lasciapassare per un salto di qualità all’interno della criminalità organizzata, dove diventano, col soprannome a sberleffo di Cip e Ciop, bassa manovalanza: omicidi e a tempo perso traffico di droga e prostitute e minorenni; tutti compiti che eseguono senza coinvolgimento emotivo, sempre come su un’auto in corsa, fino all’inevitabile incidente successivo: la presa di coscienza.

I due protagonisti sembrano, come si diceva una volta nel neorealismo, presi dalla strada, ma così non è, e anche per questo il neorealismo dei Fratelli ha un valore in più. I ragazzi hanno studiato e fatto cinema e reggono gli intensissimi lunghi primi piani come e anche meglio di tanti attori quotati, per non dire che il loro romanesco è quello vero delle periferie, a tratti biascicato e incomprensibile come è giusto che sia un vero dialetto – con tutto il rispetto per la bella dizione che deve abitare altrove. Andrea Carpenzano, senza studi specifici, debutta da protagonista in “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni nel 2017 e subito si aggiudica una menzione speciale ai Nastri d’Argento; sarà poi protagonista nel 2019 di un’altra opera prima, “Il campione” di Leonardo D’agostini. Matteo Olivetti è invece al suo debutto: è nato in Inghiterra e parla l’inglese come lingua madre – e a sentire il suo romanesco davvero non si direbbe! – e frequenta scuole di recitazione che lo conducono a questo ruolo che gli varrà un paio di riconoscimenti minori; sarà protagonista in “Occhi blu”, opera prima dell’attrice Michela Cescon, lavorazione ferma per pandemia. Pandemia che ha fermato anche l’uscita dell’opera seconda dei Fratelli D’Innocenzo, “Favolacce”, in cui raccontano – e qui pesco da quello che si legge in giro – le medesime periferie romane ma con uno stile assai diverso, quello da favola appunto, una favola nera che ancora una volta racconta disagi e inadeguatezze umane; una storia che i due avrebbero scritto a 19 anni e che ha avuto il tempo di essere presentata al Festival di Berlino dove ha vinto per la sceneggiatura.

Nel cast troviamo Max Tortora che a mio avviso paga il pegno della sua sovraesposizione come comico: nel ruolo del padre, miserevole e miserabile, di uno dei due, sembra fuori posto perché la sua faccia racconta al nostro immaginario altre cose, e benché sia bravo il suo romanesco è pulito e comprensibile come si conviene in un attore professionista, ma questo stona con il sound generale del film. Non stona invece – benché altrettanto e forse più – volto noto, Luca Zingaretti, che nel ruolo di supporto di capo clan mafioso non ha paura di invecchiarsi e imbruttirsi per aderire al suo personaggio che fa parlare senza enfasi e compiacimenti attoriali. Nel ruolo di madre dell’altro c’è Milena Mancini, ex ballerina professionista per la tv italiana con partecipazioni internazionali a clip e tour di pop-star come Robbie Williams e Ricky Martin. Col passare degli anni, che i ballerini sentono di più, si avvicina alla recitazione e in questo film dà veramente il meglio, tanto da sembrare anche lei una presa dalla strada. Nel cast anche l’ottimo Giordano De Plano come braccio destro del boss, attore con formazione teatrale e molta tv.

Nella terra dell’abbastanza ci si deve accontentare del poco che c’è e vivere, o meglio spendere, le proprie vite senza aspirazioni, perché il futuro – o non cambia – o non c’è.