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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

La zona d’interesse – un Oscar quasi scontato

Quasi scontato perché i membri dell’Academy che votano i vincitori sono da sempre assai sensibili ai tema della Shoah, non a caso nel 1999 hanno premiato con l’Oscar al miglior film straniero “La vita è bella” di Roberto Benigni, dunque arrivano assai riduttive se non inopportune le rozze semplificazioni alla Massimo Ceccherini che nel difendere il “suo” “Io Capitano” in quanto co-sceneggiatore ha detto in tv: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.”

Quelli, non vincono sempre, ma vincono spesso perché nell’industria cinematografica statunitense ci sono stati molti autori fuggiti in passato dalle persecuzioni naziste, che hanno lasciato una grande eredità sia simbolica che effettiva in termini generazionali: gli ebrei vincono spesso perché in quel settore sono tanti. Ma non vincono sempre e basta come esempio su tutti il grande Steven Spielberg che è stato preso in considerazione e premiato solo quando ha affrontato direttamente il tema con “Schlinder’s List” nel 1994 dopo trent’anni di onorata carriera costellata da molti capolavori.

Tornando a parlare di “Io capitano” di Matteo Garrone, il film italiano ha una cosa in comune con questo film vincitore: il punto di vista, un nuovo punto di osservazione. Garrone per raccontare il tema dell’immigrazione si addentra in Africa a filmare i punti di partenza, partendo proprio da racconti reali; Jonathan Glazer per il suo film sceglie di raccontare l’orrore dei campi di concentramento dal punto di vista banalmente umano, e per la sua umana banalità anche orribilmente feroce, dei nazisti: ci fa vedere che erano persone reali, ordinari nella ricerca dello status, della crescita sociale, e delle proprie soddisfazioni personali fatte di piccole lecite cose: la piscinetta su un prato perfettamente falciato, la serra sul retro della graziosa e altrettanto banale villetta, il benessere quotidiano semplificato da uno stuolo di silenziosi servitori, i bei figli da crescere in quella pace idilliaca, quasi arcadica: solo che il tutto si svolge a ridosso del muro del campo di concentramento di Auschwitz e la bella e perfetta famigliola è quella del comandante Rudolf Höß (scritto anche Höss) realmente esistito come creatore del campo e poi condannato e giustiziato nel 1946 come criminale di guerra.

L’inglese Jonthan Glazer, che ha scritto anche la sceneggiatura ispirandosi a un romanzo, ha debuttato nel 2000 con un film che lo ha subito portato alla ribalta, il gansteristico grottesco “Sexy Beast” da cui è nata una serie tv recentemente uscita su Paramount+. Cambia genere e prosegue, continuando a collezionare riconoscimenti, col fantasy-psicologico “Birth – Io sono Sean” e poi col fantascientifico “Under The Skin”, e oggi con questo suo quarto film cambia ancora una volta genere, ma non stile: nel film precedente aveva usato delle telecamere nascoste realizzando una sorta di candid camera, e qui accresce in modo esponenziale lo stratagemma tecnico: col direttore della fotografia, il polacco Łukasz Żal (già due volte candidato all’Oscar per i film di due suoi connazionali che erano sempre nella sezioni miglior straniero) piazza nell’appartamento minuziosamente ricostruito dallo scenografo inglese Chris Oddy più di dieci telecamere comandate da remoto come in una casa del “Grande Fratello”, senza l’invasiva presenza di nessun altro supporto tecnico o umano, utilizzando la luce naturale, di modo che gli attori potessero recitare muovendosi liberamente, anche improvvisando qua e là quando si aveva a che fare coi bambini o il cane, realizzando una serie di campi lunghi o medio lunghi senza alcun movimento di camera o di obiettivo: il risultato del materiale montato è quello di una raggelante casa di bambole dove i personaggi sono seguiti come insetti al microscopio, pochi i piani americani e pochissimi i primi piani. E il racconto filmico è su diversi livelli, come un palcoscenico teatrale diviso in più parti: mentre è centrale l’azione dei personaggi principali, di lato o sullo sfondo si muovono discreti e silenziosi i personaggi secondari che fanno funzionare il ben oliato marchingegno domestico: gli untermenschen, uomini e donne di razza inferiore, le serve cooptate fra le locali ragazze polacche e gli uomini di fatica fra i prigionieri del campo.

Questo studio quasi entomologico della famiglia crea un distacco emotivo sul pubblico, tanto che nessuno dei personaggi risulta simpatico – quando è risaputo che molti personaggi negativi di cinema e teatro diventano beniamini del pubblico: qui il male non è spettacolarizzato e reso accattivante ma semplicemente raccontato attraverso un’analisi distaccata; e se la distanza dai personaggi è raggelante non c’è però distanza dal film, che coinvolge e suscita sorpresa, dolore, indignazione, ansia – perché quei personaggi, com’è nelle intenzioni dell’autore, possono essere chiunque di noi perché noi siamo – noi più la circostanza in cui ci troviamo: la famiglia del comandante Höss si è trovata in quelle circostanze, in parte senza poter scegliere, com’è il caso dei figli, che però da adulti hanno poi difeso la memoria del padre celebrandolo come un eroe morto in guerra avendo compiuto soltanto il proprio dovere: dunque anche i bambini da adulti hanno fatto la loro banale scelta scegliendo di non scegliere.

La scena bucolica che apre il film

Il film comincia a schermo nero per un tempo che sembra interminabile mentre udiamo i rumori di fondo che sentiremo per l’intero film: per Jonathan Glazer anche noi pubblico siamo cavie, da abituare all’esercizio di stile che verrà, ovvero l’ascolto di quello che accade in sottofondo piuttosto che le banali conversazioni in primo piano – e qui il film si aggiudica il suo secondo meritatissimo Oscar per il miglior sonoro: il sound designer Johnnie Burn ha prima stilato un documento di ben 600 pagine in cui ha raccolto gli eventi più rilevanti accaduti nel campo di Auschwitz, insieme alle testimonianze dirette dei soravvissuti e una mappa del campo per meglio determinare le distanze e gli echi dei suoni; a quel punto ha impiegato ancora un anno per costruire una libreria sonora che includeva i suoni di macchinari, dei crematori, delle fornaci, di stivali, di spari e urla di dolore; la sua meticolosità si è spinta al punto da inserire le voci dalle proteste parigine del 2022 per ricreare gli echi delle voci dei francesi che in quel preciso momento storico erano stati deportati-importati nel campo; mentre per le voci delle guardie ha inserito quelle degli ubriachi che urlano per strada nel quartiere Reeperbahn di Amburgo: come ha giustamente considerato Glazer il suono è un altro film, probabilmente il vero film.

Era candidato anche per il miglior regista e la miglior sceneggiatura non originale dal romanzo omonimo di Martin Amis: la zona d’interesse è, a cominciare dalla Polonia di Auschwitz, tutto l’est russo in cu Adolf Hitler avrebbe voluto espandersi. Nel romanzo lo scrittore pur ispirandosi alla figura reale di Höss cambia il nome e ne fa una narrazione di fantasia. Glazer, partendo dal romanzo, ha ovviamente cominciato a fare le sue ricerche concentrandosi sempre più sulla figura reale del comandante nazista, e decidendo di togliere il filtro della finzione narrativa ha riesumato il vero personaggio e la sua famiglia aggiungendo dettagli storici e biografici che nel libro non c’erano, come la figura della suocera venuta in vacanza, genericamente e serenamente razzista nei confronti degli ebrei che stanno bene dove stanno, al di là del muro, fino a quando non si rende conto di quello che realmente accade nei forni crematori e scappa lasciando solo un biglietto alla figlia. Seguendo le note di Glazer, il suo lavoro è stato quello di costruire un film che demistificasse i nazisti ormai quasi sempre descritti come mitologicamente malvagi, raccontando l’Olocausto non “come qualcosa di sicuro nel passato” ma come “una storia del qui e ora” e facendo un riferimento diretto, anche nel discorso di accettazione dell’Oscar, a quanto sta accadendo in Medio Oriente: l’orrore delle persecuzioni e la capacità di infliggere sofferenze non si è mai eradicata dall’animo umano qualsiasi sia la fede religiosa o politica che la muove.

Con una produzione anglo-polacca e la decisione di girare il film nelle lingue originali dei luoghi descritti, tedesco polacco e yiddish, è stato contattato l’attore tedesco Christian Friedel che era assai restio avendo già rifiutato in passato di interpretare personaggi nazisti e avendo invece impersonato un oppositore attentatore alla vita di Hitler in “Elser – tredici minuti che non cambiarono la storia” di Oliver Hirschbiegel del 2015; fu però positivamente colpito dal nuovo approccio del regista e rendendosi disponibile suggerì per il ruolo della moglie la collega Sandra Hüller con cui aveva già felicemente lavorato, e poiché anche lei non era disponibile a interpretare figure naziste le fu inviato solo un estratto della sceneggiatura, un dialogo fra moglie e marito, senza alcun riferimento al reale contesto, che convinse l’attrice a leggere la sceneggiatura completa e a incontrare il regista… a quel punto fece scritturare anche il suo Weimaraner nero per interpretare Dilla, il cane della famiglia Höss, mentre Medusa Knopf fu scritturata per interpretare sua madre.

Momento d’oro per l’attrice dato che agli Oscar era personalmente candidata come protagonista per un altro film di produzione francese e girato in francese e inglese, “Anatomia di una caduta” di Justine Triet, regista già premiata in patria con la Palma d’Oro a Cannes, e che si è aggiudicata anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale insieme al suo compagno di vita Arthur Harari. Ma anche “La zona d’interesse” aveva trionfato a Cannes aggiudicandosi il Grand Prix Speciale della giuria, il Cannes Soundtrack Award e il FIPRESCI della critica cinematografica.

Insieme all’uso delle telecamere in stile “Grande Fratello” e al tappeto sonoro come film nel film, Glazer si spinge verso la ricerca sperimentale inserendo anche un paio di sequenze girate con una termocamera, una particolare telecamera di sorveglianza utilizzata dai militari e ufficialmente classificata come arma.

Telecamera termica con le quali rievoca le incursioni notturne di una ragazza che lascia delle mele dove i prigionieri le possano trovare. Anche queste sequenze, le uniche che danno un filo di speranza nel film, sono nate dalle ricerche dell’autore e si ispirano ad Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk che l’autore incontrò nel 2016 poco prima che l’ottantanovenne morisse: all’età di 12 era stata membro dell’Esercito Nazionale Polacco e andava in bicicletta per lasciare nei dintorni del campo, laddove i prigionieri venivano condotti per lavorare, le mele; come è raccontato nel film, ha scoperto uno spartito musicale scritto da un prigioniero, che poi la giovane attrice Julia Polaczek eseguirà al pianoforte in una scena girata nella vera casa di Aleksandra; e anche l’abito che indossa e la bicicletta che usa sono gli originali appartenuti alla protagonista reale, alla quale Glazer ha dedicato il film nel discorso di accettazione del premio. Il brano musicale era stato scritto da Joseph Wulf che poi sopravvisse al campo e fu uno dei primi a testimoniare le atrocità che aveva vissuto.

Sotto finale il comandante del campo accusa dei dolori allo stomaco – gastrite? rigurgiti di coscienza? – e il film fa un ardito salto in avanti, al Museo di Auschwitz da cui l’autore ha avuto completa collaborazione, mentre le donne delle pulizie preparano prima dell’apertura al pubblico; poi si torna al nazista sperduto negli squadrati meandri del palazzo del potere nel cui buio sta per discendere definitivamente.

Incidentalmente, il 19 maggio 2023 il film è stato presentato al Festival di Cannes ricevendo una standing ovation di sei minuti, mentre Martin Amis, l’autore del romanzo, moriva 73enne nella sua casa in Florida, da accanito fumatore per un cancro all’esofago. Da registrare anche che il discorso del regista che accomunava l’Olocausto a quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza, facendo intendere che gli oppressori sono oggi gli ebrei, ha fatto infuriare molti a cominciare dal suo produttore esecutivo Danny Cohen che si è dissociato dichiarando che molti membri della comunità ebraica gli hanno confidato che le parole di Glazer hanno riaperto vecchie ferite nella loro storia etnica nonostante il film sia un capolavoro sulla Shoah: di fatto, è la mia opinione, piuttosto che continuare a ricattare il mondo con “le vecchie ferite” sarebbe necessario riflettere sulle nuove, e sulle nuove responsabilità.

Io capitano – l’Oscar che non c’è

Matteo Garrone non ce l’ha fatta agli Oscar 2024, come non ce l’ha fatta ai Golden Globe dove era altrettanto candidato, e a mio avviso non poteva farcela perché la concorrenza al Miglior Film Internazionale (ex Miglior Film Straniero) era di altissima qualità, nulla togliendo all’italiano. L’Italia, che in ogni caso mantiene il più alto numero di candidature in quella sezione, mancava esattamente da dieci anni quando nel 2014 fu presente con “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che si portò a casa la statuetta insieme al Golden Globe: Sorrentino come nemesi di Garrone? andiamo con ordine.

I due astri nascenti, diversissimi, si ritrovano a confronto in quel di Cannes nel 2008, Garrone con “Gomorra” dal libro inchiesta Roberto Saviano che poi ha moltiplicato pani pesci puntate e pubblico con le 5 stagioni della serie tv Sky, e Sorrentino con “Il Divo” sul mefistofelico Giulio Andreotti; entrambi erano in concorso per la Palma d’Oro che però restò in casa andando a Laurent Cantet per “La classe – Entre le murs” ma i nostri vennero premiati con le pergamene del Grand Prix Speciale della Giuria (quell’anno presieduta da Sean Penn con Sergio Castellitto come italiano fra i giurati) a “Gomorra” e il Premio della Giuria per “Il Divo”, tenendo presente che i due riconoscimenti sono lo stesso premio con due diverse diciture ed è il più importante dopo la Palma d’Oro: insomma due premi apparentemente diversi per non assegnare un ex-aequo. Da lì in poi la stampa ha inventato, o chissà forse solo registrato, una concorrenza diretta fra i due – che non analizzerò per non dilungarmi come al mio solito.

Tornando a oggi, qualsiasi sia la concorrenza vera o presunta fra i due (per certo non sono amici), entrambi sono assai stilosi e di Matteo Garrone si può certo affermare che il tema sociale, insieme al tema del magico e del favoloso, sia parte integrante del suo cinema, con radici coltissime nel favolistico di casa nostra o comunque europeo in generale, e dunque quanto di più lontano dal fumettistico fantastico ed effettistico statunitense: cosa, questa, che lo allontana dal pubblico d’oltreoceano più abituato agli effetti speciali e ai trucchi prostetici che alle atmosfere conturbanti e noir della nostra narrativa fantastica.

Partito ai suoi esordi con stile e contenuti decisamente neo-realistici si fa notare da critica e pubblico con “L’imbalsamatore” (2002) che gli valse il David di Donatello per la sceneggiatura, ma il film collezionò molti altri premi fra attori e produzione: già in questo film usa per il ruolo del protagonista l’attore nano Ernesto Mahieux come elemento di collegamento alla sua visione fantastica della narrativa cinematografica.

Anche il successivo assai disturbante “Primo amore” (2004) liberamente ispirato al romanzo “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini è una favola nera dove l’orco è uno psicopatico ossessionato dalle donne magrissime che spinge la protagonista alla fame in una relazione di amore malato. Segue il “Gomorra” del successo internazionale e dopo realizza “Reality” (2012) dove il protagonista si fa accecare dalle favole moderne e ingannatrici dei reality show, un film con cui torna all’indagine sociale e in cui scatena visivamente la sua vena surreale e grottesca.

Arriva il raffinatissimo, e per questo anche poco digeribile e poco digerito dal grande pubblico, “Il racconto dei racconti” (2015) che schierando un cast internazionale in una coproduzione con Francia e Regno Unito (per cui Garrone anche produttore ha messo un’ipoteca sulla sua casa) è stato distribuito anche col titolo “Tale of Tales”, dalla raccolta di fiabe seicentesche “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile; il film si concentra su tre racconti la cui narrazione si incrocia e incastra, e nell’insieme è un materiale enorme che potrebbe essere raccontato meglio in una coraggiosa produzione televisiva se solo Garrone si lasciasse tentare dalla serialità, cosa che ha fatto Sorrentino in Sky con “The Young Pope” e “The New Pope”, così tanto per dire. Il film di due ore e un quarto lascia un retrogusto amaro in bocca: quello del non perfettamente riuscito – ma la visione fantastica di Matteo Garrone è al suo fulgore massimo.

Ancora con i debiti da pagare accantona il suo successivo grandioso film su Pinocchio e rispolvera un vecchio progetto più a basso costo (4 milioni di euro contro i 15 del precedente) col quale torna alle sue origini di noir metropolitano di indagine sociale: “Dogman” (2018) su un fatto di cronaca nera romana che ebbe come protagonista un uomo detto “er canaro”, altra figura da favola horror, ed è di nuovo amore col Festival di Cannes che premia il protagonista Marcello Fonte, e trionfa ai Nastri d’Argento e ai David di Donatello, fra gli altri premi. E qui vale la pena spendere una curiosità: all’epoca della prima stesura di una decina d’anni prima, Garrone aveva proposto il ruolo a Roberto Benigni che poi sarà Geppetto nel successivo “Pinocchio”, grande favola che stavolta piacerà anche agli americani, molti dei quali ancora credono che il burattino sia un’invenzione di Walt Disney, e difatti riceve due candidature tecniche per costumi e trucco agli Oscar.

È evidente che Garrone, concorrenza o no, punta all’Oscar; del resto ha già trionfato in casa e in Europa e impugnare quella statuetta lo farebbe assurgere all’empireo ultimo, e qui film torna alle origini della sua ispirazione narrativa. Aveva debuttato nel 1996 con “Terra di mezzo” dove ha raccontato in tre e episodi la realtà di differenti immigrati in Italia, opera prima che al Torino Film Festival gli sono valsi il Premi Speciali della Giuria e il Premio Cipputi per il miglior film sul mondo del lavoro, premio ispirato al personaggio del metalmeccanico comunista creato da Altan; e col successivo “Ospiti” si concentra sulla figura di due ragazzi albanesi immigrati a Roma; dunque il tema dell’immigrazione lo appassiona e con quello che continua a succedere nel Mediterraneo era solo questione di tempo prima che anche Garrone ne traesse ispirazione, avendo già due titoli in una filmografia che è già un genere nella cinematografia italiana ricchissima di titoli a partire dalla fine degli anni ’80 con “Il tempo dei gitani” (1988) di Emir Kusturica cui segue a tambur battente “Pummarò” (1990) di Michele Placido, per dire solo i titoli più importanti, cui seguono “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio, “Vesna va veloce” (1996) di Carlo Mazzacurati, “La ballata dei lavavetri” di Peter Del Monte e “L’assedio” di Bernardo Bertolucci, entrambi del 1998 e fra i titoli che si fanno assai più numerosi nel nuovo millennio ricordiamo “Quando sei nato non puoi più nasconderti” di Marco Tullio Giordana, “Bianco e nero” di Cristina Comencini, “Terraferma” di Emanuele Crialese, “Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi ispirato agli scritti di Pier Paolo Pasolini, “Razzabastarda” opera prima di Alessandro Gassmann, “Fuocoammmare” di Gianfranco Rosi e il recentissimo “Nour” del 2020 di Maurizio Zaccaro.

I film fin qui realizzati si fermano a raccontare l’incontro-scontro degli immigrati con la realtà italiana e solo in pochi casi raccontano la tragicità del mare attraversato e dei viaggi, mentre Garrone – col suo team di co-sceneggiatori composto da Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e dall’attore Massimo Ceccherini che avendo nel curriculum uno suo spettacolo teatrale su Pinocchio già aveva affiancato come sceneggiatore Garrone nel di lui “Pinocchio” dove anche interpretò la Volpe – va oltre, sbarca in Africa, si addentra oltre il deserto per giungere in Senegal, nei villaggi e nelle case dove una certa politica vorrebbe rispedire i migranti.

Il soggetto di Garrone si ispira direttamente alle storie vere raccontate da Fofana Amara, Mamadou Kouassi Pli Adama, Arnaud Zohin, Brhane Tareka e Siaka Doumbia, tutti ragazzi che hanno realmente compiuto il viaggio dei due protagonisti del film, accreditati nei titoli come collaboratori alla sceneggiatura insieme a Chiara Leonardi e Nicola Di Robilant.

Il casting venne fatto in loco sotto la direzione del camerunense Henri-Didier Njikam che è incorso in un incidente diplomatico allorché gli fu negato dall’Ambasciata d’Italia a Rabat, Marocco, il visto d’ingresso in Italia per presenziare al Festival di Venezia; tempestivamente intervistato da “The Hollywood Reporter Roma”, Njikam ha accusato i responsabili di razzismo: “L’ambasciata ha giustificato il rifiuto sostenendo che non c’erano garanzie che avrei abbandonato il territorio italiano una volta entrato a Venezia. In pratica mi hanno trattato come un migrante, come se volessi approfittare della situazione per scappare. Ma io ho un lavoro, una tessera professionale del Centro Marocchino del Cinema. E, sinceramente, se avessi voluto lavorare in Europa, lo avrei già fatto: l’ente non ha guardato il mio curriculum né i miei documenti, ma solo il colore della mia pelle. Questo problema esiste solo con l’ambasciata italiana in Marocco, perché i miei colleghi dal Ghana e dalla Costa d’Avorio sono riusciti a partire. Se fossi stato bianco, non credo che sarei stato trattato così.”

Seydou Sarr insieme a Moustapha Fall sono i due ragazzi che abbagliati da sogni di notorietà e ricchezza lasciano la certezza di una tranquilla miseria quotidiana per l’incertissimo viaggio dispensatore di sofferenze e morte che tutti sconsigliavano; e Seydou, vero protagonista del film, è stato insignito a Venezia del Premio Marcello Mastroianni come attore emergente, ma l’intero cast è di altissimo livello e tutte le interpretazioni concorrono all’intensità narrativa del film costruito da Garrone senza sbavature e senza retorica, sempre focalizzato sulla tragedia umana di ragazzi che sognano un mondo migliore ma che trovano squali anche nelle sabbie del deserto.

Gli unici fugaci momenti in cui si indebolisce il racconto, a mio avviso, sono le due sequenza oniriche del protagonista che sogna, prima di salvare una donna nel deserto e poi volare indietro fino a casa ad osservare sua madre che dorme: due brevi momenti di abbagliante bellezza cinematografica che proseguono nella linea stilistica dell’autore ma che in questo caso deviano dall’intensità tragica del racconto, intensità universalmente riconosciuta da critica e pubblico.

Le curiosità: 1. resterà negli annali l’imbarazzante ultim’ora del Televideo Rai in cui il film veniva raccontato come la vicenda del capitano Schettino che abbandonò il comando della Costa Concordia incagliatasi sugli scogli dell’Isola del Giglio in Toscana nel 2012. Non si sa com’è andato l’incidente telematico, c’è chi parla di uno scherzo certo per minimizzare, c’è chi parla di un complotto certo per massimizzare, ma l’ipotesi più credibile è quella dell’intelligenza artificiale che ha creato la notizia pescando nel suo database, notizia farlocca che però è stata pubblicata da qualche intelligenza naturale… naturalmente a riposo.

2. le ultimissime di cronaca riferiscono di Claudio Ceccherini che ospite del programma Rai “Da noi a ruota libera” certo ispirato dal titolo ha parlato a ruota libera: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.” Va da sé che l’attore sceneggiatore non ha tutti i torti, solo che poteva esprimersi in modo diverso: i membri dell’Academy sono da sempre molto sensibili ai temi della Shoah tant’è che nel 1999 premiò “La vita è bella” di Roberto Benigni, miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Non si parla di corde in casa dell’impiccato, si tratta di buon senso ed educazione, e tanto più vanno ponderate le parole in questo periodo di feroce conflitto in Medio Oriente.

3. mia personale curiosità: leggo nella scheda tecnica del film i nomi dei doppiatori ma “Io capitano” è stato distribuito in originale, il wolof parlato in Senegal, il francese e l’inglese, e non c’è traccia di doppiaggio. Si tratta forse di un’altra versione che sarà distribuita nelle versioni Home e On demand?

Accantonata la delusione per non avere afferrato la statuetta dorata Matteo Garrone guarda già al futuro per il suo bellissimo film che proseguirà il viaggio tornando nei luoghi da cui è partito, con proiezioni nei villaggi del Senegal anche su tendoni improvvisati, per raccontare a chi resta che a volte è più coraggioso restare. Meglio che morire nel deserto o nel mare, meglio ancora che essere umiliati da società e apparati politici ciechi alle urgenze umane nel coltivare i loro minimi miserevoli giardinetti recintati e vietati agli estranei.

Comandante

Edoardo De Angelis è un regista napoletano, anzi un autore, da tenere d’occhio; e la napoletanità non è solo una nota biografica ma lo specifico della sua cinematografia. In una decina d’anni ha realizzato cinque film in una parabola crescente sia dal punto di vista dell’impatto su critica e pubblico che su quello prettamente stilistico. Si è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 2006 con il cortometraggio “Mistero e passione di Gino Pacino” dove racconta in napoletano stretto la storia surreale di un uomo che sogna di fare l’amore con Santa Lucia e che per il senso di colpa perde la vista: parabola tragica e grottesca; cortometraggio che va a finire in Serbia al “Küstendorf Film and Music Festival” dove, vincendo il premio della critica, incontra Emir Kusturica che lo supporterà nella realizzazione del primo lungometraggio, co-producendone nel 2011 l’opera prima “Mozzarella Stories”, Luca Zingaretti fra gli altri, una storia altrettanto grottesca e visionaria che continua a muoversi nell’ambiente partenopeo raccontando però una storia originalissima, che all’epoca pochi hanno visto ma che non passa inosservata alla critica; Francesco Alberoni scrisse sul “Corriere della Sera”: “Gli artisti spesso intuiscono il senso dei tempi. Lo ha fatto Edoardo De Angelis nel suo bellissimo e divertente film”. Un film che oggi varrebbe la pena recuperare.

Il talentuoso autore non perde tempo e con l’amico Pierpaolo Verga fonda la casa di produzioni “O’Groove” con la quale realizza nel 2014 il noir napoletano “Perez.”, Zingaretti protagonista, film col quale arrivano i primi riconoscimenti importanti: ai Nastri d’Argento viene candidato per il miglior soggetto e si aggiudica due premi, a Zingaretti va il Premio Hamilton Behind the Camera e a Simona Tabasco nel ruolo di sua figlia il Premio Guglielmo Biraghi; oltre al Globo d’Oro sempre al protagonista.

Nel 2016 dirige un episodio dei tre del collettivo “Vieni a vivere a Napoli” e l’intenso, tragico e doloroso, “Indivisibili”, che nella storia di due gemelle siamesi ritrova uno sprazzo di grottesco, ma ancora più amaro e feroce: le due gemelle si esibiscono come cantanti “fenomeno” nelle feste di paese, sfruttate dalla famiglia in un ambiente di squallida periferia partenopea, e arriva una caterva di altri riconoscimenti fra candidature, su cui sorvolo, e premi ricevuti: 6 David di Donatello, 6 Nastri d’Argento, 6 Ciak d’Oro, un Globo d’Oro, 4 premi minori al Festival di Venezia e altri 3 al Bari International Film Festival. Il 2018 è l’anno di un altro film di storie dolorose e di solitudini ancora ai margini del capoluogo campano, “Il vizio della speranza” e sono altri riconoscimenti fra cui finalmente quello al miglior regista, ma lontano, al Tokyo International Film Festival, che non è poco. Nel 2020 si dedica al teatro con una “Tosca” per il teatro San Carlo di Napoli, e la televisione realizzando per la Rai il primo di una trilogia delle commedie “in famiglia” di Eduardo De Filippo: “Natale in casa Cupiello” cui seguiranno “Non ti pago” e “Sabato, Domenica e Lunedì”. Il biennio 2021-22 lo dedica alla serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti” dal romanzo di Elena Ferrante.

E si arriva a questo “Comandante” con un triplo salto mortale: è il primo film che De Angelis gira lontano da Napoli, è il primo film italiano moderno ambientato in un sottomarino (c’è un precedente del 1955 che diremo) ed è il suo primo con un budget da film internazionale: 14 milioni e mezzo di euro con il pieno sostegno della Marina Militare che ha aperto alla produzione i suoi archivi con i diari di bordo di Salvatore Todaro, il personaggio protagonista interpretato da Pierfrancesco Favino sempre più a suo agio nel riprodurre le cadenze e i dialetti dei personaggi biografici che sempre più spesso interpreta. Alla sua uscita nell’autunno 2023 il film ha incassato poco più di 3 milioni restando assai lontano dal suo costo ma c’è ancora da rifarsi con i diritti tv – al momento è su Paramount+ – con lo streaming, i DVD, il mercato estero su cui non è ancora uscito e il probabile ritorno di fiamma nel pubblico di casa nostra dopo gli eventuali auspicabili premi nostrani.

il vero Salvatore Todaro

Pur iscrivendosi di diritto nel genere bellico, e nel sottogenere sottomarini, il film è crepuscolare, intellettuale, poetico. De Angelis continua la sua ricerca sui personaggi a disagio nel loro contesto, e con lo scrittore Sandro Veronesi che debutta come sceneggiatore, scrive un film con dialoghi e monologhi che hanno una cadenza da tragedia classica dove al protagonista si contrappone un coro, con momenti surreali, come quando tutti, comandante in testa, marciano cantando e ritmando “Parlami d’amore Mariù” come dedica d’amore alle donne che avevano lasciato a casa, e dedicata dal compositore Nino Bixio alla propria moglie, su testo di Ennio Neri per il film “Gli uomini, che mascalzoni…” diretto da Mario Camerini nel 1932 e per la voce del 30enne Vittorio De Sica; la canzone ebbe così tanto successo da divenire per tutti gli italiani un inno all’amore che successivamente fu cantata dai più grandi, anche della lirica.

Coraggiosi momenti surreali, nel film, e grotteschi persino, che si integrano perfettamente nella narrazione riuscendo a coinvolgere ed emozionare, perché il linguaggio alto e ricercato, poetico, da tragedia classica appunto, si sporca dei tanti dialetti che il sommergibile contiene nella sua varia umanità, così sintetizzato dal personaggio del comandante: “Questa è l’Italia unita. Arriva qui un livornese, un siciliano… sono più che stranieri, sono abitanti di due pianeti diversi, e lontani per lingua, cultura, temperamento… eppure proprio il crogiolo di tutti i dialetti, i piccoli manufatti e le grandi opere dell’ingegno, e le ottuse credenze pagane, la rivoluzione egualitaria del cristianesimo e le vecchie reliquie – si sono fusi… è il nostro tesoro. Proprio questo bordello, meraviglioso, e putrido, è l’Italia”: è un’altissima scrittura cinematografica che riesce a mettere insieme ispirazione letteraria e lingua parlata, con monologhi che potrebbero anche diventare repertorio da provino per attori e attrici – perché in un film necessariamente tutto al maschile non mancano le figure femminili: le brevi scene come cartoline ricordo della moglie del comandante, interpretata da Silvia D’Amico, e il monologo della donna che sul pontile guarda partire i marinai, monologo che è valso alla sua interprete Cecilia Bertozzi il Premio David Rivelazioni – Italian Rising Stars, un monologo recitato con voce fuori campo, come un pensiero, e che comincia: “Questo vento, io lo so dove li soffia tutti questi ragazzi, li soffia a morire…” giusto per dare qui il sapore del lirismo della scrittura di De Angelis e Veronesi, che dopo aver concluso il film hanno novellizzato la sceneggiatura per Bompiani.

Immagino che per questa sua scrittura che guarda dentro i cuori e le menti piuttosto che mostrare muscoli, il film potrà piacere più in Europa, e in Giappone dove l’autore è già stato premiato, che in quegli Stati Uniti che tanti film hanno dedicato ai sottomarini. Detto questo il film non manca di pathos e di tensione narrativa in un equilibrio assolutamente magistrale che esplora il limite fra la cieca obbedienza militaresca e la lungimirante pietas umana, con i tanti momenti riflessivi che si alternano a quelli d’azione e tensione: un gran film che secondo me non è stato compreso a fondo. Era in concorso al Festival di Venezia, anche come film d’apertura sostituendo il già programmato “Challengers” – il film americano di Luca Guadagnino la cui uscita è stata posticipata dalla Metro-Goldwyn-Mayer a causa dello sciopero degli attori – ma lì non ha ricevuto nessun premio, neanche minore; ricordiamo che il Leone d’Oro è andato a “Povere Creature” di Yorgos Lanthimos, mentre due Leoni d’Argento sono andati al giapponese Ryūsuke Hamaguchi per “Il male non esiste” e al nostro Matteo Garrone per “Io capitano” che si è aggiudicato anche il Premio Marcello Mastroianni per il debuttante senegalese Seydou Sarr, film che è anche candidato negli Stati Uniti come miglior straniero al Golden Globe e all’Oscar. Film che non ho ancora avuto l’opportunità di vedere. In ogni caso, da quello che leggo, troppa roba con cui confrontarsi, ma io resto un fan di questo film al quale auspico di rivalersi nei prossimi premi nazionali.

Il regista col protagonista

Riguardo ad alcune critiche sul web ne trovo un paio a firma femminile che ideologicamente, e per partito preso, accusano il film d’essere “testosteronico” e ironizzano sulle poche figure femminile come “prefiche”, senza minimamente aver compreso il film sul piano artistico e cinematografico: l’ideologia acceca ed è sciocco volere immaginare, e fin anche pretendere, figure femminili più importanti in una storia che non ne contiene: è come quel politically correct che pretende di rivedere storie e personaggi che appartengono a un’epoca in cui il politically correct non esisteva.

il Cappellini originale

Gran lavoro per lo scenografo Carmine Guarino, concittadino e collaboratore di De Angelis fin dal di lui debutto. Ha ricreato una copia a grandezza naturale del sommergibile Comandante Cappellini il cui nome completo era “Comandante Cappellini – Aquila III – U. IT. 24 – I. 503”. Tranne qualche rara immagine dello scafo non esistono fotografie dell’interno, che è stato costruito nel parco divertimenti Cinecittà World utilizzando come materiale di partenza la replica di un U-Boot costruita per il film statunitense del 2000 “U-571” diretto da Jonathan Mostow, mentre lo scafo esterno è stato costruito col supporto della Marina Militare e di Fincantieri nel bacino navale dell’Arsenale Militare di Taranto, nel cui mare ha poi navigato come una scatola vuota per le riprese esterne. Le riprese subacquee si sono svolte nel Mare del Nord al largo del Belgio da cui provengono alcuni dei personaggi e degli interpreti del film. Mentre gli effetti visivi, che hanno preso il 10% del budget, sono stati curati dall’americano Kevin Tod Haug, fedele collaboratore di David Fincher: un titolo su tutti “Fight Club”, 1999. La curiosità è che il Cappellini è comparso, sempre in copia più o meno conforme, nel 1954 nel film “La grande speranza” di Duilio Coletti; nel film tv anglo-tedesco “L’affondamento del Laconia”, un transatlantico inglese convertito al trasporto di truppe e prigionieri che fu affondato dai tedeschi nel 1942, con il Cappellini che fra altri soccorse i naufraghi; c’è poi un altro film tv del 2022 giapponese “Sensuikan Cappellini-go no boken” che però parte da un aneddoto per raccontare una storia di fantasia. E anche il film di De Angelis, come tanti altri film storici, è incorso in qualche errore o anacronismo: viene usato l’Inno dei Sommergibilisti che però fu creato un anno dopo la vicenda narrata.

Per comporre il cast l’autore partenopeo affida ai suoi fedeli i ruoli principali: il napoletano Massimiliano Rossi, fin qui sentito recitare solo in napoletano più o meno stretto, e col regista fin da “Mozzarella Stories”, è il comandante in seconda e intimo amico del protagonista col quale comunica – primizia assoluta – in dialetto veneto; e ricordiamo che il comandante Todaro era per nascita messinese ma trasferito a Chioggia con la famiglia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale; Gianluca Di Gennaro, nipote del cantante Nunzio Gallo, che ha cominciato a recitare da bambino vent’anni fa, qui alla sua prima collaborazione con De Angelis nel ruolo del marinaio Vincenzo Stumpo che dà la vita per salvare l’intero equipaggio, con un altro bellissimo monologo interiore mentre sott’acqua disincaglia il sommergibile da una mina inesplosa: “Andate voi, andate… tanto io sono morto… e che me ne fotte a me?” si conclude il suo monologo. A un altro giovane napoletano, Giuseppe Brunetti, va il ruolo del cuoco di bordo Gigino il Magnifico, già con De Angelis nel televisivo Rai “Natale in casa Cupiello” e anche nella serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti”, della cui scrittrice Elena Ferrante è stato anche nel cast della terza stagione della serie Rai “L’amica geniale” creata da Saverio Costanzo. I naufraghi belgi che il Comandante accoglie nel sommergibile sono interpretati da Johannes Wirix, che avendo studiato recitazione presso l’Accademia Silvio D’amico a Roma nell’ambito del Progetto Erasmus, recita anche in italiano e nel film fa da traduttore; Johan Heldenbergh interpreta il suo capitano e Lucas Tavernier è il marinaio belga infame, per usare un termine partenopeo.

Completano il cast Arturo Muselli, noto al pubblico televisivo per il suo ruolo nella serie Sky “Gomorra”; l’ex bambino Giorgio Cantarini che a 5 anni ha esordito come figlio di Roberto Benigni nel film premio Oscar “La vita è bella” aggiudicandosi come primo italiano, e come più giovane, il premio Young Artist Award scherzosamente detto Kiddie Oscar, e che tre anni dopo fu anche in un altro film da Oscar come figlio di Russell Crowe in “Il Gladiatore” di Ridley Scott, e oggi ventenne sta cercando una nuova collocazione artistica; per la rappresentanza siciliana c’è Giuseppe Lo Piccolo che abbiamo visto nell’opera prima di Giuseppe Fiorello “Stranizza d’amuri”. In un cameo l’87enne Paolo Bonacelli.

“Comandante”, titolo assoluto impegnativo ed esplicativo, è anche titolo di altri due film: il documentario del 2003 di Oliver Stone su Fidel Castro, e con l’articolo il fu un film con Totò del 1963. Questo di Edoardo De Angelis, oltre che a mio avviso bello, è anche importante in quanto film bellico biografico, e anche necessario, per conservare la memoria della storia e dei fatti, complessi e schizofrenici, che ci hanno condotto fin qui, a oggi. Dove noi siamo culturalmente più schizofrenici che complessi.

I mostri oggi

1962, Dino Risi dirige Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi nel film a episodi “I mostri”: è l’inizio del boom economico, è l’inizio della commedia all’italiana, è un film da salvare fra i 100 migliori. 1977, Risi torna a dirigere Gassman e Tognazzi in “I nuovi mostri” e alla regia si aggiungono Mario Monicelli e Ettore Scola, mentre nel cast entrano Alberto Sordi e Ornella Muti: siamo negli anni di piombo e i mostri si fanno anche più sanguinari, e il film concorre agli Oscar. 2009, nessuno dei registi e dei protagonisti originali è più fra noi – c’è solo la 68enne Ornella Muti che però non conta dato che era solo una bella presenza. I due film ogni tanto tornano in tv e si sono radicati nel nostro immaginario collettivo: nessuno più pensava a un altro seguito. Ma non si può stare mai tranquilli: il cinepanettonaro Enrico Oldoini aveva un’alta opinione di sé.

Enrico Oldoini con Terence Hill sul set di “Don Matteo”

Diplomatosi attore all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica fu poi soggettista e sceneggiatore collaborando con molti bei nomi: Marco Ferreri, Pasquale Festa Campanile, Alberto Lattuada, Nanni Loy, Lina Wertmüller… ma deve essersi sentito più in sintonia con Sergio e Bruno Corbucci di cui ha seguito le orme sfornando film di cassetta. Passato al piccolo schermo lì ha avuto il merito di ideare il personaggio e la serie di “Don Matteo”, uno dei pochi format non traslati da adattamenti esteri. Questo suo “I mostri oggi” è la sua ultima regia cinematografica. È morto 77enne nel 2022 per una sclerosi laterale amiotrofica che l’aveva colpito cinque anni prima.

Questo suo ultimo film è nelle intenzioni (anche) un sincero omaggio, e partendo da un suo soggetto coinvolge nella sceneggiatura i figli d’arte Silvia Scola e Giacomo Scarpelli; assicuratosi l’eredità dei nomi coinvolge nel pacchetto l’amico sceneggiatore di genere Franco Ferrini, e Marco Tiberi già sceneggiatore nella squadra di “Don Matteo”: non esattamente il meglio delle penne cinematografiche in circolazione. Alla produzione tornano Pio Angeletti e Adriano De Micheli con la loro Dean Film insieme a Maurizio Totti (nessuna parentela col pupone Francesco Totti) della Colorado Film fondata insieme a Gabriele Salvatores e Diego Abatantuono (che dunque ha avuto il privilegio della prima scelta sui ruoli) e alla Mari Film di Massimo Boldi che però si tiene fuori dal cast. Vedo adesso per la prima volta questo film di 14 anni fa perché sin dallo stile del manifesto puzzava già di cinepanettone: tutti insieme i bei volti della commedia all’italiana più o meno intelligente o più o meno scollacciata, niente a che vedere coi manifesti dei mostri originali di cui pretende di essere sia omaggio che seguito. D’altro canto ogni film coi propri mostri è specchio del suo tempo: negli anni ’60 gli italiani scoprivano di non essere brave persone e nei ’70 ebbero la conferma di essere pessimi; cosa resta da scoprire agli italiani del nuovo millennio?

Ferro 6

C’è di nuovo che il film si apre con una carrellata su alcuni dei personaggi che vedremo e gli episodi si raccordano l’un l’altro senza più la distinzione netta dei cartelli coi titoli: narrazione più fluida e moderna. Nel primo episodio facciamo la conoscenza di alcuni personaggi del jet-set capitolino in un golf-club fra cui spiccano il Diego di Diego Abantantuono che fa il piacione con la bella di turno, la spagnola Pilar Abella, praticamente rifacendo sé stesso; e c’è il sofisticato Gino di Giorgio Panariello che davvero si sforza, sostenuto anche dal trucco, di creare uno di quei mostri che sappiamo: meno originale perché in pratica li abbiamo già visti tutti e meno originale perché le stesse maschere del pur volenteroso Panariello le abbiamo già viste tutte in tv. Sul green una sciroccata Angela Finocchiaro, che rifà anche lei una delle sue solite maschere da “La TV delle ragazze” di Rai 3 1988-89; non accreditato il suo istruttore dal volto rotondo incorniciato da folta chioma che nasconde Marco D’Amore, futura star del televisivo “Gomorra”, Sky 2014-2021. I mostri sono ancora i ricchi che parlano con la erre moscia: tutto qui?

Unico grande amore

La forzatura è che i due che si incontrano per caso si chiamano Romeo e Giulietta, ma vabbè: genialità e originalità non abitano questo film. Lei è disabile, lui la corteggia, la mette su una giostra e le ruba la carrozzella per accedere gratis allo stadio nel settore riservato ai disabili, per poi saltare in piedi al gol d’a Roma. Il mostro suburbano c’è, nipote di quello che interpretò Gassman in “Che vitaccia!” nel 1962. Aderenti i due protagonisti, Mauro Meconi e Susy Laude, che sono interpreti generici senza maschera grottesca perché ormai la mostruosità è interiorizzata e metabolizzata. Sarebbe stato più divertente e meno ordinario se nei due ruoli ci fossero stati due nomi di prima grandezza a misurarsi con l’ordinarietà.

Il malconcio

La premessa è arguta: partendo dall’episodio “Pronto soccorso” del 1977 con Sordi unico monologante, indaga sul pirata della strada – figura peraltro accennata da Gassman in “La strada è di tutti” nel 1962 – mostrandoci il ritrattino grottesco di un mostro che al volante sniffa cocaina e fa scommesse al telefono, nell’esecuzione di Diego Abatantuono che non è Gassman né Tognazzi né Sordi. L’altra buona trovata è l’aver dato un carattere e una maschera alla vittima del pirata, che con Sordi era un attore generico perché Sordi non dava spazio a nessuno, e qui c’è invece Giorgio Panariello che fa tutte le facce possibili per prendersi il suo spazio. Terza buona trovata è che non avendo più un Alberto Sordi la figura del soccorritore si sdoppia in una coppia con problemi di coppia, Claudio Bisio e Sabrina Ferilli, e qui casca l’asino perché la sceneggiatura si fa più che banale, servita da una recitazione più che ordinaria. L’ultima buona trovata è il malconcio che si va a cercare da sé un pronto soccorso, sfuggendo alla litigiosa coppia che fa pace pomiciando sul cofano dell’auto, con l’improvvido Bisio che davvero fa guizzare la lingua sulle labbra della collega – scherzo da guitto che avrebbe dovuto essere cestinato al montaggio, ma non in un film e in una compagine che esalta – non il sopra – ma il fuori le righe. Soggetto con buone trovate però mal sviluppate in scrittura.

Il vecchio e il cane

Veloce e riuscito episodio sui mostri contemporanei che si apre con un tizio che abbandona il cane per strada. Si ferma un’altra auto con famigliola in partenza per le vacanze estive: genitori con due ragazzi più nonno e cane. Si discute sull’abbandono degli animali e sul costo della vita, poi il capofamiglia invita il vecchio padre a far scendere il cane per i bisogni – e sgomma via abbandonandoli entrambi. Giorgio Panariello al naturale con la sua parlata toscana, così come l’anziano Sergio Forconi che interpreta suo padre; la milanese Angela Finocchiaro si adegua e parla anche lei toscano. Finora l’unico episodio pienamente riuscito.

Padri e figli

Abatantuono e Panariello duettano nella riscrittura di “Come un padre” del 1962 con Ugo Tognazzi e Lando Buzzanca, e l’aggiornamento sta nel fatto che il questuante non è un ansioso uomo tradito ma un meditabondo padre che ha scoperto l’omosessualità del figlio, di cui il professore è l’insegnante; avendo rassicurato il padre, l’anziano docente torna a letto dove ad attenderlo c’è il ragazzo, e il rimando all’altro episodio c’è tutto. La trasposizione con le tematiche del nuovo millennio funziona, quello che non funziona è sempre la sciatteria della sceneggiatura che non sa rinunciare a battute banali, però con Panariello sempre un passo avanti rispetto al bolso Abatantuono. Ma non finisce qui e l’episodio continua con uno sviluppo tutto originale: con l’invito a pranzo che nel ’62 chiudeva l’episodio mentre qui apre un nuovo arguto scenario in cui il padre spinge al confronto con rottura fra il figlio e il professore. Panariello con la sua toscanità pervade l’intero episodio che come nel precedente prevede una moglie conterranea, qui l’imitatrice umbra Emanuela Aureli, mentre il figlio è il debuttante Rocco Giusti con quest’unico film nel curriculum visto che essendo già star di “CentoVetrine” resta a fare la star nelle soap tv. Secondo episodio promosso.

La testa a posto

Dalla toscanità alla napoletanità. Anna Foglietta ha lasciato il lavoro per amore del fidanzato musulmano Alì, interpretato dal tunisino Mohamed Zouaoui, qui al suo secondo film in un carriera che lo porterà a vincere il Globo d’Oro nel 2011 (Golden Globe italiano dalla stampa estera) al miglior attore rivelazione per “I fiori di Kirkuk” dell’iraniano Fariborz Kamkari. Senza più gli introiti del suo lavoro la ragazza non potrà più aiutare la famiglia in ristrettezze economiche, col capofamiglia Carlo Buccirosso che qui non fa rimpiangere i mostri d’antan, la cabarettista Rosalia Porcaro come madre e l’ottantunenne Enzo Cannavale come nonno, qui al suo ultimo film. Ma l’aver lasciato il lavoro non basta e il fidanzato musulmano rompe con la ragazza, che dunque può riprendere il suo lavoro di prostituta per aiutare la famiglia, col padre che esulta perché la figlia ha rimesso la testa a posto. Paola Lavini come amica e collega della protagonista. Un altro episodio completamente riuscito se non fosse per le solite sciatterie nella scrittura più da serie tv che da cinema di serie A.

La fine del mondo

La fine del mondo è il buco nell’ozono che porta un caldo innaturale (e in questi giorni tutti ne abbiamo esperienza) ma sulla spiaggia sono tutti inconsapevoli e contenti – non abbastanza mostri dentro, però: sono caratteri banali. Veloce episodio corale dove ci sono tutti quelli visti fin qui: Anna Foglietta, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Giorgio Panariello, Susy Laude e Mauro Meconi di nuovo in coppia, Diego Abantatuono che si auto-cita rifacendo il suo terrunciello, maschera con la quale fece ben 17 film in 3 anni, Angela Finocchiaro e Claudio Bisio. Nella foto di gruppo manca l’intervistatore tv, attore non accreditato che risponde al nome di Antonio Friello.

Povero Ghigo

Entra in scena la scuola milanese. Abatantuono duetta con Bisio, poi si aggiunge Ugo Conti. Ex attori cabaret i due vanno al funerale del compagno di scena Ghigo, ma il primo che nel frattempo è divenuto un divo di fiction tv dirotta il secondo verso un altro funerale dove fa l’ospite a pagamento. All’inizio dell’episodio altri due comici milanesi, Enzo Polidoro e Stefano Vogogna, come funzionari televisivi. Luciano Manzalini, in solitaria dal duo Gemelli Ruggeri, è il prete officiante. Altro degno episodio di mostri da nuovo millennio.

Razza superiore

Episodio che graffia più in profondità mettendo in scena gli argomenti sensibili del razzismo e del classismo. La vecchia nobildonna nostalgica del regime fascista e amica di gioventù di Edda Mussolini, la primogenita del Duce, costretta in carrozzella si fa accompagnare dal badante immigrato il quale, non appena la vecchia si addormenta, la traveste da mendicante e la lascia all’ingresso di una chiesa dove i parrocchiani in uscita le lasceranno molti oboli. Una trentina di euro che il badante si dividerà col maggiordomo perché la nobildonna sono anni che non paga gli stipendi. Protagonista la vera nobildonna Valeria De Franciscis che dopo una figurazione nel 2000 in “Estate romana” di Matteo Garrone debutta 93enne da protagonista in “Pranzo di Ferragosto” dell’altrettanto debuttante alla regia Gianni Di Gregorio; riprenderà il suo ruolo di vecchia madre nel 2011 in “Gianni e le donne” sempre di Di Gregorio per andarsene 99enne nel 2014. Il badante Tushar, attore non professionista ma efficace, si esibisce col suo vero nome.

Euro più, euro meno

La coppia di camerieri di un grande albergo romano, lui in sala lei alle camere, a fine giornata torna a casa sognando un futuro radioso nel presente ad ostacoli fra buffi e cravattari. A far coppia con la Ferilli la new entry nel cast del film Neri Marcorè. Dopo una velocissima carrellata dei soliti ricchi al buffet in albergo (già visti nel golf club del primo episodio) e un gratuito riferimento a Lilli Gruber“a roscia che sta de sguincio” – resta da chiedersi: dove sono i mostri? questi sono solo du’ poveri disgraziati, per dirla col loro gergo romanesco, che lecitamente sognano un futuro migliore, euro più euro meno. Episodio assolutamente inconcludente.

Fanciulle in fiore

Le tre fanciulle ironicamente in fiore sono tre borgatare romane calate in centro a far danno, sono dunque i mostri di questo brutto episodio scritto malissimo. Le tre fanciulle vogliono fare shopping ma non ci hanno gli euri, sempre al plurale in tutto il film quando sarebbe bastato una sola volta scegliendo di caratterizzare con questo idiotismo uno solo dei tanti personaggi. Le tre prendono di mira un Panariello ancora una volta formato famiglia, per circuirlo, scattargli delle foto e ricattarlo perché minorenni. I mostri ci sono e sono attuali ma sono scritti male perché svelando le intenzioni delle tre sin dall’inizio non lasciano nulla allo spettatore, né sorpresa né suspense, e il racconto si svolge tutto sulle smorfie dell’attore agganciato nella sala cinematografica dove ha portato la famiglia; a peggiorare l’intera struttura ci sono le risate del pubblico aggiunte in post-produzione, che dovrebbero essere rivolte al film sullo schermo ma sono sfacciatamente sincronizzate con le smorfie del disgraziato proprio come se l’episodio cinematografico non fosse altro che uno sketch tv, che sembra essere l’unico riferimento di regista e autori. Buggerato e derubato Panariello torna a sedere in sala e piangendo davanti al film comico dice alla moglie: “Piango dal ridere!”: battutona profonda che fa traboccare il vaso del brutto. Le tre adolescenti sono come da foto da sinistra a destra: Veronica Corsi, Cristel Checca e Chiara Gensini che è quella che si dà da fare in sala; la barese Elena Cantarone nel ruolo della moglie.

Terapia d’urto e L’insano gesto

A seguire due episodi che si intrecciano. Abatantuono come alto prelato in limousine con autista si dimostra banalmente poco caritatevole con un ragazzo africano che vorrebbe lavare il parabrezza. Poi passiamo nello studio dell’analista Finocchiaro in seduta con l’assistito Bisio, e si vede che i due amici milanesi si divertono a duettare – senza però divertire noi spettatori: la terapia d’urto consisterebbe in un grottesco e mal riuscito capovolgimento della deontologica professionale, che non è arriva ad essere un paradosso da mostro del terzo millennio ma ancora una volta solo trita comicità televisiva; sia come sia l’analista induce il paziente depresso al suicidio confermando il “buon” esito della seduta alla di lui moglie: c’è molto materiale per mettere in scena dei veri mostri ma gli sceneggiatori sono troppo presi dai loro moduli televisivi e dall’incapacità di graffiare. Si passa dunque all’insano gesto: il povero Bisio guarda il Tevere da un ponte mentre il prelato nega l’elemosina a un altro questuante, un attimo prima di accorgersi che un ragazzo sta per buttarsi nel fiume e lo “salva”, solo che il ragazzo voleva buttarsi in soccorso all’altro che si era già buttato: un pasticcio senza capo né coda, e senza morale. Nel ruolo del giovane impossibilitato salvatore Rodolfo Castagna non accreditato.

La seconda casa

Con Buccirosso si va a Napoli. Fornito di parrucchino col ciuffo che non sa trattenersi dallo scostare graziosamente dalla fronte, manca solo il mignolo alzato, fa costruire la seconda casa, ovvero un bunker segreto, sotto la villa che abita. Indi accompagna in una visita guidata lo zio latitante e i suoi due complici che abiteranno il bunker, rivelando di avere ucciso e interrato il progettista e gli operai che vi hanno lavorato, perché restasse davvero segreto. Il mostro c’è, ma l’episodio è facile e scontato: nessuno si aspetta che un camorrista non lo sia. I veri mostri sono quelli che sorprendono. Nel ruolo della moglie l’attrice teatrale Antonella Morea, nipote di Renato Carosone.

Cuore di mamma

Episodio da protagonista assoluta per la Ferilli in un episodio che è figlio di “Sequestro di persona” del 1977: lì a Vittorio Gassman avevano rapito la moglie, qui Sabrina si è persa la figlia in un supermercato; a entrambi viene data l’opportunità di una diretta televisiva per fare un appello, che si trasforma in manipolazione del mezzo pubblico. Come già detto altrove l’idea non è male ma è realizzata malissimo. La bella mamma è in cerca di attenzioni, e non c’è niente di male, mette gli occhi su un giovanotto che però è accompagnato dal suo fidanzato e lì, mentre la donna cambia espressione e parte la musica smaccatamente retorica e triste, in questo tripudio di banalità anche il fidanzato gay è eccessivamente effeminato come se non fosse bastato il bacio fra i due uomini a rendere il contesto. Di fatto la donna ha perso di vista la bambina. Anche nel cambio di prospettiva della protagonista non c’è progressione drammatica perché sceneggiatori e regista non sanno cosa sia la drammaturgia, e la donna passa da disperata a imbonitrice televisiva in un paio di fotogrammi. Di questa scrittura carentissima ne fa le spese Sabrina Ferilli che altrove e diretta da altri registi è anche brava. Massimo Giletti rifà sé stesso come intervistatore Rai.

Accogliamoli

E per finire in bellezza, si fa per dire, un episodio dedicato agli immigrati. Nel peggio del peggio di una Napoli-Milano, Buccirosso e Abatantuono duettano con battutacce da barzellette trite e ritrite che neanche da cabaret, ormai, forse solo da villaggi vacanza. I due sono due mostri reali, quelli che sfruttano gli immigrati affittando abitazioni super affollate a prezzi esorbitanti, ne sono piene le cronache. Solo che la materia è trattata con grandissima superficialità e quello che avrebbe potuto essere grottesco si fa grossolanamente surreale, alla continua ricerca di effetti per i due protagonisti. Diego Abantuono continua a rifare il suo terrunciello mentre Carlo Buccirosso non può far altro che indossare la parrucca di Pappagone, la maschera televisiva creata da Peppino De Filippo nell’ormai lontanissimo 1966, personaggio di grandissimo successo che dall’anno successivo divenne anche fumetto. In conclusione “I mostri oggi” sono solo quelli che hanno realizzato il film.

Tornando ai mostri di oggi, ovvero di 14 anni fa, il film è nel complesso un clamoroso pasticcio. Non manca qualche episodio riuscito ma, come si dice, una rondine non fa primavera. Alla sua uscita fu massacrato dalla critica quasi all’unanimità ma ebbe successo al botteghino presso il cosiddetto pubblico di bocca buona. La debolezza del film è proprio strutturale: dovrebbe toccare argomenti per i quali ci si indigna e si tiene lontano da temi sensibili come la politica, la religione, il giornalismo e la televisione che anzi omaggia: i mostri sono cinematograficamente altrove anche se non direttamente citati: “Ferie d’agosto” e il più recente e meno riuscito “Siccità” di Paolo Virzì, ma anche l’Oscar “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che ha saputo indagare su altri mostri moderni, così come pure Matteo Garrone la cui filmografia sembra interamente dedicata ai mostri troppo umani.

Col dovuto senso critico è un film in ogni caso da vedere per metterlo a confronto coi film del 1962 e 1977 coi quali ha cercato un confronto: se invece di intitolarsi ai mostri si fosse intitolato altrimenti oggi non sarei qui a parlarne. I titoli degli episodi li apprendiamo solo in coda, quando ormai stiamo lasciando la sala, se al cinema, o cambiando canale se in tv. I numeri: Diego Abantantuono, che onestamente è il peggio, la fa da padrone apparendo in 8 episodi che potrebbero essere 7 se si considera che come prelato compare in due; segue Giorgio Panariello che con le sue maschere alternatamente riuscite compare in 6; a quota 4 si piazzano a pari merito Carlo Buccirosso che è il più incisivo del terzetto, Claudio Bisio e Angela Finocchiaro che arrancano; 3 episodi per Sabrina Ferilli protagonista solo in uno è sempre troppo simpatica sopra le righe; due per Anna Foglietta e la coppia filmica Mauro Meconi e Susy Laude; un solo episodio per Neri Marcorè arrivato alla ribalta come imitatore concorrente di “La corrida” condotta da Corrado su Canale 5, vincendo nel 1988; in seguito partecipa anche a “Stasera mi butto”, Rai 2, arrivando in finale e da lì in poi la carriera televisiva è tutta in ascesa, studiando da professionista per prepararsi al doppiaggio, al cinema e al teatro; benché da più di un decennio anche protagonista al cinema, per quando in film secondari, qui con un solo episodio non merita neanche il nome in locandina. Su tutto il resto stendiamo veli pietosi.

Pinocchio – Benigni uno e due

Pinocchio siamo tutti noi, sempre sospesi fra il bene e il male, i buoni propositi e le tentazioni, l’altruismo e l’autogratificazione. Non sorprende quindi l’affetto che proviamo per questo personaggio che per la maggior parte – io in primis – conosciamo dai derivati della storia originale, un racconto per l’infanzia ottocentesco che in pochi abbiamo letto per intero: “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” di Carlo Collodi.

Il primo a farne una storia per lo schermo, nel 1940, fu il cartoonist americano Walt Disney che per ispirarsi guardava spesso alle mitologie e alle favore europee, consapevole che tutta la cultura americana, veicolata dai popoli, venivano dal Vecchio Continente; nello specifico la sua famiglia veniva dalla Francia e Disney non è altro che l’anglicizzazione di D’Isigny. Forte del successo del suo primo lungometraggio “Biancaneve e i Sette Nani” produsse “Pinocchio” raddoppiando il budget, ma non ebbe altrettanto successo, soprattutto nella vecchia Europa. Fu però il suo primo film a vincere due Oscar, colonna sonora e canzone originale, e recentemente è stato inserito nella top ten dei capolavori cinematografici. Niente di strano che la favoletta rimaneggiata e adattata da Disney sia stato il nostro punto di riferimento e l’unico Pinocchio di immediata lettura per decenni.

Dobbiamo arrivare al 1972 per avere una produzione italiana col televisivo in sei puntate “Le avventure di Pinocchio” che, nel largo respiro della serie, rende merito al complesso racconto di Collodi: un’opera, così va definita, di eccellenza, che soppianta per sempre nel nostro immaginario il grazioso burattino disegnato da Disney: un capolavoro che rimarrà per sempre nei bambini di allora il punto di riferimento e di confronto per tutto quello che verrà. Anche la sigla di Fiorenzo Carpi resterà impressa nella nostra memoria.

La regia era di Luigi Comencini, Geppetto era Nino Manfredi, la Fata Turchina: Gina Lollobrigida, il Gatto e la Volpe: il duo comico Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Il Giudice: Vittorio De Sica, Lionel Stander: Mangiafuoco, Mario Scaccia e Jacques Herlin: i due dottori, Mario Adorf: il direttore del circo, e potrei continuare con una pletora di grandi caratteristi italiani dell’epoca. Pinocchio, interpretato dal bambino Andrea Balestra, è stato reinventato in un burattino di legno quando era monello, ma che si trasformava in bambino quando faceva il bravo. L’ambientazione era quella povera e rurale della provincia italiana fine Ottocento che restituiva la storia ai suoi luoghi naturali e a Pinocchio il suo accento toscano.

Nel 2002 arriva il “Pinocchio” di Roberto Benigni che con i suoi 45 milioni di euro di budget rimane il film italiano più costoso, prodotto dalla Melampo di Nicoletta Braschi, moglie e musa di Benigni. In concomitanza dell’uscita del “Pinocchio” di Matteo Garrone il film torna in tv dove lo rivedo senza neanche arrivare al finale, confermando e rafforzando l’opinione che ne ebbi allora: è un film egocentrico ed esorbitante, frutto del successo internazionale e degli Oscar per “La vita è bella” come miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Un successo che dà alla testa e per il quale ora Benigni guarda all’America e di cui copia gli sforzi produttivi e un certo stile narrativo. Non a caso il film si apre con la carrozza della Fata Turchina trainata da un esercito di topolini bianchi che sembra uscita da un film Disney. Poi prosegue con una riuscitissima sequenza in cui un ciocco di legno caduto da un carretto prende vita e rotola per le vie del paesello con una serie di gag da comiche del cinema muto. Ma non appena il Geppetto di Carlo Giuffrè finisce di creare il suo Pinocchio si capisce subito che è un Pinocchio “pro domo sua”: non c’è traccia del burattino di legno e Benigni recita il suo Pinocchio, con accento toscano, certo, ma con la vocina e la gestualità di un bambino che in un cinquantenne è davvero imbarazzante, per non dire irritante. Già all’inizio avevamo avuto un assaggio dell’andazzo con la Fata Turchina di Nicoletta Braschi che si atteggia e fa la vocina come una bambina che recita, male, alla recita scolastica. Si salva tutto il contesto: scenografia e costumi premiati col Nastro d’Argento e la musica sempre di Piovani. Si salva il corollario dei caratteristi: Kim Rossi Stuart: Lucignolo, Peppe Barra: il Grillo Parlante, il duo comico I Fichi d’India come Gatto e Volpe, Mino Bellei: Medoro, Corrado Pani: il Giudice, Alessandro Bergonzoni: il direttore del circo, Tommaso Bianco come Pulcinella e Stefano Onofri come Arlecchino fra i burattini del Mangiafuoco di Franco Javarone. Ovviamente il film è un successo al botteghino ma viene stroncato dalla critica e, cosa ancora peggiore, è un flop in quell’America per il quale era stato segretamente pensato.

Onestamente non sentivo la necessità di un altro Pinocchio ma quando ho saputo che il progetto era di Matteo Garrone sono rimasto in fiduciosa attesa. Avevo apprezzato moltissimo i suoi “L’imbalsamatore” del 2002 e “Primo amore” del 2004. Nel 2008 “spacca” con “Gomorra” dal libro di Roberto Saviano e che ispirerà la serie tv omonima da una cui costola prende vita il recente “L’Immortale”. Del 2018 è il premiatissimo “Dogman” ma questo “Pinocchio” si inserisce nel percorso avviato con “Il Racconto dei Racconti” ispirato al seicentesco “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile: siamo quindi alla radice della narrativa italiana. E, come quell’altro film, questo “Pinocchio” mi sembra, altrettanto, grandioso e imperfetto.

Ha il merito di riportare il racconto nell’Italia rurale fine ‘800 e di rimettere al centro della storia un burattino di legno. Anche la Fata Turchina torna alle sue origini e come nella storia di Collodi la sua prima apparizione è come fata bambina. Purtroppo la caratteristica di Garrone che ha fatto grandi altri suoi film, in questo genere favolistico risulta essere un difetto: parlo della sua mancanza di empatia coi personaggi, del distacco col quale li racconta, e come per il film tratto da Giambattista Basile questo che ritorna a Collodi è a tratti emozionante e anche pauroso, nell’ottica del bambini, ma assolutamente privo di trasporto emotivo, quasi troppo freddo e razionale nel trattare queste grandi favole: è meritevole l’intento di ridare vita ai classici italiani ma il suo approccio analitico, vincente altrove, toglie smalto alle storie.

Sbagliati il Gatto e la Volpe assegnati a Massimo Ceccherini e a Rocco Papaleo: è evidente che fra i due non c’è feeling e non scatta quella scintilla che c’era fra le coppie comiche di comprovata esperienza come Franco e Ciccio o i Fichi d’India; la francese Marine Vacht è un’intensa e dolcemente seduttiva Fata Turchina che da bambina è Alida Baldari Calabria; Gigi Proietti restituisce grandiosità e burbera umanità a Mangiafuoco e Paolo Graziosi ridà vita a Mastro Ciliegia; Massimiliano Gallo è il Direttore del circo; la cabarettista Maria Pia Timo è la Lumaca e Maurizio Lombardi è il Tonno filosofo che nuota dentro il gran Pesce-Cane (che in Disney è una balena) qui disegnato sui bestiari medievali; Teco Celio è il Giudice, Enzo Vetrano è il Maestro e Domenico Centamore è il pastore; il nano Davide Marotta è il Grillo Parlante in un insieme di compagnia di nani come intelligente scelta registica per la compagnia dei burattini. Il burattino è il bambino Federico Ielapi pesantemente truccato come fosse legno, da premiarne la paziente sopportazione, e sempre credibile nella sua naïveté. Geppetto, dopo la prima ipotesi di Toni Servillo, è naturalmente Roberto Benigni, con un “naturalmente” dal doppio significato: primo, per la sua toscanità, e secondo perché dopo essere stato un improbabilissimo Pinocchio qui è finalmente nel giusto ruolo che gli compete, per età e per divismo: è dimesso e misurato come la regia richiede ma qua e là, si vede, è più forte di lui, gli brilla l’occhio del monello che è.

Dogman, un canaro d’autore

Gran film. Un film potente, di grande impatto visivo, stilistico, tematico, interpretativo. Matteo Garrone, torna a crescere nel suo tratto specifico, quello della “frontiera umana” immersa nel degrado fisico e morale.

Dopo tre film poco visti, due dei quali raccontano l’immigrazione e le frontiere estreme dell’umanità, arriva al successo di critica e pubblico nel 2002 con “L’imbalsamatore” premiato con David di Donatello, Nastro d’Argento e Globo d’Oro anche al protagonista nano Ernesto Mahieux. Segue “Primo Amore”, altro film con personaggi e tematiche “di confine”, altri premi, soprattutto alla colonna sonora della Banda Osiris e alla protagonista Michela Cescon. Il 2008 è l’anno di “Gomorra” da Roberto Saviano ed è successo planetario e pioggia di premi. Da ricordare che a Cannes vince il Gran Premio della Giuria in contemporanea a Paolo Sorrentino che con “Il Divo” vince il Premio della Giuria. Anno glorioso per il cinema italiano ma i due registi non si amano e vivono male il peso della competizione. Impiega quattro anni per realizzare il film successivo, “Reality”, sempre restando nell’ambito di questo suo mondo popolato di “mostri” inconsapevoli e ineluttabili, si ispira alla vicenda reale di suo cognato pescivendolo che voleva diventare una star dei reality, stavolta con un tono scanzonato da commedia, da carrozzone di circo di provincia. Il pubblico si allontana ma i premi continuano ad arrivare. Segue il suo gran film internazionale girato in lingua inglese e per il quale si è anche ipotecato la casa, un film che senza abbandonare la sua tematica degli esseri umani visti come mostri, stavolta si ispira al classico “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile: “Il Racconto dei Racconti” che stavolta a Cannes, dove ormai è di casa, raccoglie tiepidi consensi alla proiezione per la stampa, vince solo per la sceneggiatura. Il film è visionario e grandioso ma qualcosa non funziona e nelle sale cinematografiche si sente il disagio.

E arriviamo a “Dogman” che trionfa a Cannes con l’interpretazione maschile di Marcello Fonte, il “canaro” che si ispira al “canaro della Magliana”, protagonista di un cruento fatto di cronaca nel 1988. Garrone, mantenendo l’ispirazione, rinnova il personaggio, un omarino dalla voce chioccia che chiama “amore” anche i molossi che abbaiano rabbiosi, incapace di odio e rancori, rendendolo più tragicamente poetico nella fatiscenza fisica e morale in cui vive: siamo di nuovo in pieno nel “mondo” di Garrone e il film, crudo violento e anche disturbante, avrà vita lunga anche all’estero. Da non sottovalutare la performance del coprotagonista Edoardo Pesce irriconoscibile sotto il pesante trucco prostetico che lo trasforma in un pugile suonato, nemesi del povero canaro.

Curiosità: il film ha vinto a Cannes anche la Dog Palm per l’intero cast canino e c’è un secondo film in uscita, “Rabbia furiosa – er canaro” di Sergio Stivaletti che dovrà fare i conti con Matteo Garrone: perché farsi del male così gratuitamente?

“Il Racconto dei Racconti”, finalmente sullo schermo

E’ un film grandioso ma sono uscito dal cinema con qualche perplessità. Solo col passare delle ore sentivo che le sensazioni e le emozioni del racconto cinematografico continuavano a crescere nella mia mente e a fruttificare pensieri e idee e altre sensazioni ancora, e questo succede con un gran film o un gran libro, comunque un gran racconto. Le perplessità riguardavano fondamentalmente il mio essere uno spettatore di buone frequentazioni cinematografiche ma anche convinto consumatore di blockbusters americani cui va il primo pensiero viziato da tecniche di racconto collaudatissime ma anche tutte uguali. Questo invece è tutto un altro raccontare e tutto un altro cinema, d’autore appunto, ma soprattutto di cultura europea, quella cultura fantastica delle novelle e delle fiabe antiche cui lo stesso signor Walt Disney si è ispirato per i suoi grandi capolavori di animazione. Oggi, peraltro, Hollywood sta sfornando uno dietro l’altro dei film che rivisitano i gloriosi protagonisti di quelle fiabe raccontandoli da un altro punto di vista e col gusto dei tempi, e questo è normale perché si è sempre fatto, perché Charles Perrault e i fratelli Grimm l’hanno fatto ispirandosi a “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile che a sua volta si è pure ispirato a tradizioni ancora più antiche e popolari: insomma, nulla si inventa e tutto si riscrive.

La differenza sta tutta nella distanza che c’è fra meraviglia e incanto, dove la meraviglia è quella che ci suscita la visione di filmoni pieni di effetti speciali e narrazioni politicamente corrette mentre l’incanto è quello che prende in sala ad assistere alle tre favole di questo “Cunto”: “La Regina”, “La Pulce” e “Le Due Vecchie”. Il ritmo è lento, incantatorio appunto, e avvolgendo ci accompagna dentro questa visione mirabile fatta di scenari fantastici che però sono assolutamente reali e dislocati tutti in Italia, dove si muovono personaggi che non sempre hanno la battuta pronta dello sceneggiatore americano ma i silenzi e gli sguardi distanti di chi vive d’incanto e l’incanto racconta. Le storie sono semplici racconti morali non appesantite da quelle troppe spiegazioni ad uso e consumo dello spettatore che fra popcorn e bibita e smartphone sempre acceso dovrebbe avere almeno quattro mani come l’alieno che è. Il fantastico accade perché così è, e l’orrore di certi momenti è quello tipico delle fiabe antiche che venivano raccontate davanti al focolare proprio per far paura ai bambini e farli andare a letto col batticuore e la lezione morale che così avrebbero ricordato a lungo: oggi tutto questo viene filtrato da una malintesa e spesso millantata correttezza che volendo rispettare bambini e diversità, donne e categorie protette, fa di tutto una poltiglia insapore.

I film di Matteo Garrone, tranne le sperimentazioni degli esordi, li ho visti tutti: “L’Imbalsamatore” 2002; “Primo Amore” 2004; “Gomorra” 2008 con cui arriva al grande successo sulla scia del libro di Saviano e del Gran Prix a Cannes che bissa nel 2013 con “Reality”. Posso dunque affermare che la sua tematica è proprio l’orrore della diversità sia fisica che morale: il nano cattivo protagonista de “L’Imbalsamatore”, l’amore malato e il corpo smagrito di “Primo Amore”, tutti i camorristi di “Gomorra” e l’orrore culturale di “Reality”. Dunque “Il Racconto dei Racconti” segue una sua linea precisa e dopo tanti premi e riconoscimenti attinge alla ricchezza della nostra narrativa, all’orrore degli orrori, allo “Cunto de li cunti” e fa quel necessario salto di qualità girando in inglese con un cast internazionale ma non solo per travalicare i confini europei e andare a – mi auguro – minacciare da vicino la troppo disinvolta e collaudata fantasy americana: proprio perché girato in inglese potrebbe accedere agli Oscar e premi tecnici, come fotografia e scenografia e costumi e trucco, potrebbero ricevere se non premi almeno candidature.

Come l’attenzione alle ambientazioni che non ha niente da invidiare a “Il Signore degli Anelli”, il cast è scelto con gran cura e anche nei ruoli di contorno o nelle figurazioni di lusso c’è quel gusto per i volti e le caratteristiche fisiche che mi ha ricordato il cinema iper-realista ma anche fantastico di Pier Paolo Pasolini. La Regina della prima novella è una bellissima e gelida Salma Hayek che sacrifica la vita del suo Re, John C. Reilly, pur di generare un figlio attraverso un sortilegio suggerito dal negromante Franco Pistoni e che darà vita anche a un gemello da un’altra madre, la serva Laura Pizzirani: i gemelli sono Christian e Jonah Lees che Garrone ha voluto albini; nel cast c’è anche una coppia di sorelle, non gemelle: Jessie Cave che è Fenizia in “La Regina” e Bebe Cave che è la Principessa Viola protagonista di “La Pulce” insieme a Toby Jones che è il Re suo padre che la cede a un orco, Guillaume Delaunay gigante senza trucco e senza inganno, per insipienza; Nicola Sloane è l’anziana damigella dal volto spigoloso e antico; Vincent Cassel è il principe piacione della terza novella, “Le Due Vecchie” che truccate ancora più da immonde vecchie sono Shirley Henderson e Hayley Carmichael che ringiovanita attraverso il sortilegio di una strega, Kathryn Hunter, è interpretata da quella Stacy Martin che nel “Nynphomaniac” di Lars Von Trier non si capisce se scopa tutto il tempo con gli effetti speciali o con cazzi reali, e io sono per la seconda. Fanno da cornice una compagnia di circensi capitanata da Massimo Ceccherini che praticamente non parla e Alba Rohrwacher già lanciata nel cinema internazionale. Completano il cast italiano, per onor di cronaca, Renato Scarpa, Giselda Volodi già internazionalizzata in “Grand Budapest Hotel” e Giuseppina Cervizzi che era con Garrone in “Reality” e abbiamo rivisto da poco in “Se Dio Vuole”.

“Il Racconto dei Racconti”, tiepidamente applaudito a Cannes, dovrà vedersela con gli altri due forti italiani: “Mia Madre” di Nanni Moretti, altra star della Croisette, e soprattutto con “Youth – La Giovinezza” di Paolo Sorrentino, molto applaudito e con il carico di un Oscar per “La Grande Bellezza” in vetrina, già Premio della Giuria a “Il Divo” in quello stesso 2008 in cui Garrone vinse il Gran Prix con “Gomorra”: insomma, senza voler considerare tutti gli altri concorrenti, la sfida fra gli italiani è cruenta.

Poiché il “Gomorra” di Garrone ha dato vita all’eccellente serie tv di Sky ho fatto due più due e ho immaginato che “Lu Cunto de li Cunti” con tutto il suo materiale narrativo potrebbe far creare un’altra serie di successo: ho visto bene, leggo sul web che lo stesso regista ci sta già pensando… 🙂