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Faustina – opera prima di Luigi Magni

il film completo

Nel 1968 il 40enne Luigi Magni è già in attività da più di dieci anni avendo cominciato come soggettista e sceneggiatore sotto la guida della coppia Age & Scarpelli e si distinse subito lavorando con e per i migliori registi dell’epoca e a film di successo come “Le voci bianche” di Pasquale Festa Campanile ambientato in quella Roma papalina che sarà il marchio di fabbrica di Magni; e proprio lo stesso anno del suo debutto come regista esce un con un’altra sceneggiatura di successo: “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli. Per la sua opera prima scrive e dirige una commedia che, benché ambientata nella Roma moderna (ovviamente di quel 1968) già si colloca per gusto e ispirazione nella Roma storica di cui lui è grande studioso e cultore: un triangolo amoroso che sembra uscito dai sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli, il quale a proposito della sua produzione aveva scritto: “Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.” E Magni, supportato dalla moglie Lucia Mirisola, che sarà costumista e scenografa di tutti i suoi lavori, ambienta la vicenda in una Roma ancora più antica, quella dei siti archeologici a cielo aperto, coi Mercati di Traiano in testa, dove colloca scenografiche strutture posticce per creare le abitazioni dei suoi romani di borgata su quell’antica Via Biberatica, direttamente con affaccio sugli scavi e con libertà di movimento, anche di automezzi, oggi assai improbabili data la rigorosa protezione di cui quei siti attualmente godono; una sorta di periferia romana molto idealizzata e di nobili ascendenze, assai diversa dalle periferie fatiscenti dei primi film di Pier Paolo Pasolini che raccontavano storie di turpi borgatari; il popolino di Luigi Magni, benché altrettanto sinceramente romanesco e altrettanto dedito agli intrallazzi, è più gioioso e romantico e piuttosto che muoversi solo nella violenza dell’ignoranza e della fame, si ispira alla storia antica, quella gloriosa e imperiale cui il recente fascismo si era ispirato con ben altri intenti e risultati; uno dei protagonisti di Magni è un tombarolo che ben conosce la materia che tratta disquisendo con ricettatori e collezionisti stranieri di etruschi e Roma antica; l’altro è uno stornellatore da osteria che però avendo perso la chitarra in un incidente non può più esibirsi ed è alla fame assoluta. Fra loro l’autore colloca un’ambigua figura femminile, ambigua perché d’impatto ma poi poco definita: una ragazza mulatta frutto dell’amore estemporaneo fra una romana e uno di quei soldati di colore del vittorioso esercito americano che lasciarono su tutto il suolo italiano, e specialmente da Roma in giù, stuoli di nascituri dal colorito scuro, fatto che già nel 1944 aveva ispirato la napoletana “Tammuriata nera” al giornalista e paroliere Edoardo Nicolardi che era anche direttore amministrativo dell’ospedale Loreto Mare e lì vide nascere decine di bambini neri; la musica è del suo consuocero E. A. Mario che fu anche autore della “Canzone del Piave”: “È nato nu criaturo, è nato niro, / e ‘a mamma ‘o chiamma Ciro, / sissignore ‘o chiamma Ciro.”

La Tammuriata Nera nella personalissima interpretazione di Peppe Barra
Il debuttante Luigi Magni posa con la debuttante Vonetta McGhee
Enzo Cerusico e Vonetta MacGhee
Vittoria Febbi a 10 anni nel suo film di debutto “Campane a martello” del 1949 diretto da Luigi Zampa

Il personaggio della mulatta di Luigi Magni è d’impatto perché il nostro cinema ha raccontato molto poco quell’esperienza sociale, ma è un’occasione che lui spreca e, benché raccontando la storia della ragazza, non ne esplicita le implicazioni socialogiche e i drammi personali, che pure ci furono, e la sua protagonista è solo una bella ragazza mulatta che parla romanesco col doppiaggio di Vittoria Febbi, ex attrice bambina dal colorito altrettanto scuro in quanto figlia di un italiano e di un’eritrea. L’interprete della Faustina che dà il titolo al film dell’autore, fuorviando lo spettatore poiché il personaggio non è la chiave di volta del film, è un’altra debuttante, l’americana Vonetta MacGee, molto efficace sul piano espressivo, che quello stesso anno sarà anche protagonista dello spaghetti-western di Sergio Corbucci “Il grande silenzio”; tornata in patria sarà brevemente una star in film del genere blaxploitation e nel 1975 lavorerà con e per Clint Eastwood in “Assassinio sull’Eiger” in mezzo a un carriera di film di serie B. Morirà 65enne per attacco cardiaco.

Anche Enzo Cerusico è un ex attore bambino figlio di un direttore di produzione che debutta a 10 anni e nei successivi cinque anni recita in ben undici film. Svoltando l’adolescenza si ferma per un paio d’anni e studia recitazione col russo italianizzato Alessandro Fersen (nato Aleksander Fajrajzen che con la famiglia era giunto in Italia a 2 anni) e da lì in poi i suoi ruoli si fanno più impegnativi e recita anche in teatro dove già 30enne si mette in luce nella commedia musicale “Meo Patacca”: viene notato da due funzionari della rete tv americana NBC che cercavano il protagonista di un telefilm, e così il giovanotto pel di carota è andato alla scoperta dell’America dove con il personaggio di Tony Novello ha preso parte accanto a James Whitmore a una puntata della serie “The Danny Thomas Hour” dove ogni puntata era una storia auto conclusa; il suo episodio ebbe un tale successo che divenne il pilot di una nuova serie che poi arrivò in Rai col titolo “Il mio amico Tony” e Cerusico divenne un protagonista della televisione italiana dove, insieme al teatro, si svolgerà la gran parte della sua carriera. Per un tumore al midollo spinale muore a 54 anni. Qui è doppiato da Massimo Turci, probabilmente perché impegnato a registrare per la Rai e la regia di Ugo Gregoretti le sei puntate di “Il Circolo Pickwick” da Charles Dickens.

Renzo Montagnani in un raro scatto col figlio Daniele

Il terzo protagonista è il toscano Renzo Montagnani, attore di rango che ha speso il resto della sua carriera prevalentemente nel filone della commedia sexy; di lui, Indro Montanelli che da debuttante regista lo aveva diretto come debuttante attore cinematografico in “I sogni muoiono all’alba” da un suo testo teatrale, disse: “Come attore ha sacrificato il suo talento, che era grande, accettando qualsiasi cosa. Una vita disgraziatissima, la sua, da questo punto di vista.” Mentre Mario Monicelli ha ribadito: “Uno straordinario professionista, molto attento e intelligente come attore; purtroppo sottovalutato. Purtroppo per ragioni di famiglia non poteva rinunciare a lavorare, e doveva accettare qualunque proposta gli arrivasse.” “I film grossolani sono una scelta remunerativa, ma io uso definirmi migliore dei miei film.” è quanto Montagnani si è sentito di dichiarare. Nei fatti lui ha lavorato per gran parte della sua carriera, in cui non sono mancati i film importanti, nelle commedie trash proprio perché gli portavano lauti e facili guadagni per poter coprire le ingenti spese per le cure del figlio Daniele segnato da una lesione subita durante la nascita a causa del forcipe, e ricoverato in permanenza presso una clinica di Londra; inglese era la moglie Eileen Jarvis che aveva conosciuto quando lei ballava nelle Bluebell Girls, che nell’epoca del loro splendore furono anche trampolino di lancio per showgirl come Gloria Paul o le Gemelle Kessler. Renzo Montagnani è morto 66enne per un tumore ai polmoni ed è sepolto nel cimitero del paesello inglese Stockton-on-Tees insieme al figlio che lo ha raggiunto sette anni dopo e alla moglie che si è spenta 90enne nel 2021.

Il film di Magni è una favola sugli affamati del dopoguerra, che sintetizza nel sognatore stornellatore, un po’ alla Charlot, Enea Troiani (così lo nomina dato che il mitologico principe Enea era troiano) e nell’intrallazzista Quirino (insieme a Faustina altro nome tipico dell’antica Roma) che per tirarsi fuori dalla miseria fa di mestiere il tombarolo e che, al contrario del principe dei poveri puro di spirito, è un uomo dall’indole violenta, sempre in chiave di commedia; chiude il terzetto, come detto, la figlia del peccato e dell’amore inter-etnico (termine che dovremmo imparare a usare sostituendo l’inappropriato inter-razziale dato che non di razze si tratta ma di diverse etnie all’interno della stessa razza umana). E Magni, con la precisione della sua messa in scena di una romanità di nobili ascendenze ma corrotta dai tempi, si fa notare da quella critica e da quel pubblico che decreteranno la sua definitiva affermazione col suo successivo film “Nell’anno del Signore” col quale inizierà la sua proficua collaborazione con Nino Manfredi. Nel resto del cast Franco Acampora come aiutante di Quirino, Clara Bindi come madre di Faustina ed Ernesto Colli come patrigno; una giovane Ottavia Piccolo è impegnata nel ruolo di una ragazza che sospira d’amore per il bel cantastorie morto di fame. Produce Gianni Buffardi, prevalentemente produttore di film con Totò e autore di un unico curioso film, “Number One”, che raccontò il malaffare attorno ai locali notturni romani con precisi riferimenti alla cronaca; anche lui morto prematuramente a 49 per una leptospirosi contratta durante un bagno nel Tevere. Musiche importanti fin dalle prime note di Armando Trovajoli.

Per tentare un’indagine sul disagio dei nostri primi bambini mulatti bisogna andare a un altro film del 1954, il melodramma “Il grande addio” di Renato Polselli.

La giornata balorda – un film scritto da Moravia e Pasolini

Dopo “La classe operaia va in paradiso” restiamo sull’accoppiata film-lavoro facendo però un salto indietro di una decina d’anni e arrivando al 1960, epoca in cui il nostro cinema abbandonava lo stile e le istanze del neorealismo per inventare la commedia all’italiana. L’ispirazione sono due racconti di Alberto Moravia, “Il naso” e “La raccomandazione” dalle raccolte “Racconti romani” e “Nuovi racconti romani”, che l’autore trasforma in sceneggiatura insieme a un’altra firma eccellente, Pier Paolo Pasolini.

Pasolini come imputato in tribunale

Di Pasolini basta ricordare che è già stato coinvolto in un processo per atti osceni in luogo pubblico (ha pagato tre minorenni per una masturbazione collettiva) ed era la fine degli anni ’40; trasferendosi poi a Roma scriverà: “La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c’è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che altri lo accettino o no.” Nel 1960 oltre a essere già un rinomato poeta ha già pubblicato il suo primo romanzo “Ragazzi di vita”, cui seguirà “Una vita violenta”, grande successo ma accusato di oscenità perché tratta di prostituzione maschile omosessuale e per questo escluso dai Premi Viareggio e Strega. Sul finire degli anni ’50 co-scrive le sceneggiature di un film di Bolognini, “Marisa la civetta” per la star delle commedie Marisa Allasio, e soprattutto partecipa alla scrittura di “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini con Giulietta Masina che ottiene l’Oscar come Miglior Film Straniero; tutto mentre continua a scrivere su riviste letterarie e politiche, ovviamente di sinistra. Intanto sta già pensando al suo primo film da regista, “Accattone” che riuscirà a girare l’anno dopo, mentre nel ’62 aiuterà a debuttare il giovane Bernardo Bertolucci con il suo soggetto “La commare secca”.

Moravia con la moglie Elsa Morante

Il più anziano e celebrato Alberto Moravia che si era fatto conoscere già nel 1929 con “Gli indifferenti”, sorta di primo romanzo esistenzialista, messo in film nel 1964 da Francesco Maselli e inutilmente rifatto nel 2019 da Leonardo Guerra Seràgnoli che lo ambienta in epoca odierna e cambia anche il finale. Nel 1952 vince il Premio Strega per “I racconti” e comincia a essere tradotto all’estero mentre questi suoi racconti cominciano a diventare sceneggiature cinematografiche; ed è proprio nello stesso 1960 che Vittorio De Sica dirige “La ciociara” con Sophia Loren che vince l’Oscar come Migliore Attrice. Dunque nella scrittura di questo film si incontrano il cinico distacco esistenziale di Moravia assai critico verso la borghesia, e lo sguardo partecipativo di Pasolini ai disagi della classe operaia e alla descrizione delle periferie.

Pasolini e Bolognini

La regia è affidata all’esteta Mauro Bolognini, non dichiaratamente omosessuale, che deve all’amicizia con Pasolini il suo re-indirizzamento verso un cinema di qualità superiore. Si era laureato in architettura e poi diplomato in scenografia al Centro Sperimentale di Cinematografia, ma nella pratica si orienta subito verso la regia, dapprima come aiuto e poi debuttando come regista di commedie musicali, sentimentali e di cappa e spada passando anche per Totò e Peppino. Da regista di genere, la svolta avviene quando Pasolini gli offre la sceneggiatura di “La notte brava” da un suo racconto, e poi la sceneggiatura di “Il bell’Antonio” dal romanzo di Vitaliano Brancati; segue questo “La giornata balorda” in cui il regista dà il meglio di sé come architetto e scenografo filmando una lunga magistrale carrellata – da applauso – che apre il film sull’interno balconato di un casermone di periferia, che poi chiude il cerchio del racconto concludendo anche il film, e che ispira il titolo per il mercato anglofono “From a Roman Balcony” mentre in Francia esce come “Ça s’est passé à Rome”.

Per la sua struttura oggi lo definiremmo un one day movie svolgendosi tutto in una giornata, assai balorda appunto, ma è anche un film di formazione perché il protagonista, che vaga per Roma alla ricerca di un qualsiasi impiego essendo un ventenne che non sa fare nulla armato però di buona volontà, impara almeno l’arte di arrangiarsi: il boom economico verso cui l’Italia si è avviata e che vedremo in altri film tipo “Il sorpasso” qui non è ancora arrivato, qui in questa periferia di stampo pasoliniano; e in questo il film ricorda assai da vicino “La commare secca” del debuttante Bernardo Bertolucci in cui la scrittura di Pasolini rimane assai presente, un’altra giornata balorda – con omicidio – scandita per momenti e punti di vista: vedere per credere.

Per il resto il film non è un capolavoro ma rimane un gioiellino da vedere come una finestra su una Roma dalle periferie sparite e su un modo di fare cinema – pensarlo, scriverlo, realizzarlo – irripetibile. E’ stato accusato di discontinuità e frammentarietà quando questi due aspetti sono proprio la struttura della storia: frammenti di esperienze diverse e discontinue di un giovane alla ricerca di un impiego qualsiasi, che entra in contatto con persone e ambienti diversi, che però gli rimangono tutti alieni. Risulta davvero debole, invece, la scelta del protagonista, il 26enne francese Jean Sorel nato Jean Bernard Antoine de Chieusses de Combaud-Roquebrune da nobile e antica famiglia. Decisamente gran bel ragazzo che fa la sua figura a petto nudo in diverse sequenze, è credibile come 20enne, ma si porta però dietro quell’aria da rampollo che non ci fa mai credere di essere un borgataro romano, per quanto ben doppiato in romanesco dall’ex attore bambino Massimo Turci, e bene che vada sembra più un attore di fotoromanzi. Di fatto, Jean Sorel, dopo aver debuttato in patria viene adottato dai nostri cineasti e si accasa in Italia con una carriera di tutto rispetto, tornando a recitare occasionalmente in Francia e lavorando anche con Luis Buñuel e Sidney Lumet, mentre in età matura si dà anche al teatro.

In ordine di apparizione fanno da contorno a Jean Sorel-Davide, il giovane fauno dinoccolato e piacione, la quindicenne Valeria Ciangottini che nonostante la giovanissima età ha già all’attivo un corso all’Actor’s Studio e ha debuttato in “La dolce vita” di Fellini che esce lo stesso anno, e qui è la ragazzina, vicina di casa e amichetta della sorella del protagonista del quale ha già partorito il figlio; e lui vuole solo onestamente sistemarsi: un’aspirazione che i ventenni di oggi non hanno più perché già troppo ben sistemati a casa con mamma e papà, in una società in cui la fine dell’infanzia, così come la fine della giovinezza e l’inizio dell’età matura, si è molto spostata in avanti negli anni.

Un’altra scena in cui il regista mette a frutto il suo gusto per l’architettura

Un’altra francese – il film e una coproduzione franco-italiana – è la 19enne Jeanne Valérie che è più convincente nel ruolo di Marina, un’altra abitante del caseggiato che la mattina attraversa i pratoni per andare a prendere il tram insieme al protagonista, di cui è un’ex filarino, per andare a fare la manicure, ma scopriremo che va a fare altro, e nel corso della giornata si concederà ancora al piacione fra i tetti di Roma. Fra Francia e Italia e fra cinema e tv Jeanne Valérie resterà un’attrice nell’ombra; è morta in Italia lo scorso anno.

Con un biglietto di raccomandazione di un losco zio traffichino, Davide va a incontrare un personaggio diversamente losco in abito color crema, un viscido trafficante di carte bollate nell’interpretazione da routine, per la non originalità, ma sempre centrata di Paolo Stoppa, che dà al film uno segmento di spessore col suo avvocato Moglie che, nomen omen, tradisce la moglie con la manicurista.

Rik Battaglia con Isabelle Corey

Rik Battaglia, benché protagonista in tanti film anche d’autore – lo ha fatto debuttare Mario Soldati accanto a una giovane Sophia Loren in “La donna del fiume”, e ha anche recitato per il suo amico Sergio Leone – non ha sfondato, restando un attore al margine; qui nel ruolo di un camionista trafficante di olio contraffatto, con un preciso riferimento a uno scandalo di un paio d’anni prima, svelato nel 1958 dall’Espresso nell’articolo “L’asino in bottiglia” che raccontava una clamorosa frode alimentare: il 90 per cento dell’olio d’oliva venduto in Italia sin dal dopoguerra conteneva grassi di animali morti, cavalli, buoi, asini e montoni. Strada facendo i due giovanotti si concedono una pausa con la prostituta Sabina interpretata da Isabelle Corey, altra francese trasferitasi in Italia per recitare nei peplum e nella commedia.

Ed è poi il momento di Lea Massari, all’anagrafe Anna Maria Massatani, che accorciando il cognome si è data il nome di Lea in memoria del fidanzato Leo morto in un incidente a pochi giorni dalle nozze. Attrice a tutto tondo impegnata sia in teatro che in cinema e in tv, indubbiamente dotata di talento e di un fascino felino e sfuggente, recita anche in francese e le sue partecipazioni oltralpe sono forse più importanti che quelle nostrane, in ogni caso quasi tutte interpretazioni di donne borghesi con un lato oscuro. Qui è Freja, l’amica – non moglie, come specifica quasi con ambiguo orgoglio – dell’anziano affarista dell’olio contraffatto, che si lascia affascinare dal bel borgataro dai semplici sogni, ed elegantemente flirta con lui concedendogli fiducia e simpatia, non altro però: troppo scaltra per fare un passo falso così banale. Nella locandina, dove è il secondo nome dopo il protagonista, sovrasta il giovane steso ai suoi piedi alludendo a ciò che di fatto non accade. Lea Massari, oggi 88enne si è ritirata dalle scene a 57 anni.

Notevole anche la colonna sonora jazz di Piero Piccioni. Il film è interamente disponibile su YouTube.

E Johnny prese il fucile – unico film di Dalton Trumbo

E JOHNNY PRESE IL FUCILE - Film (1971)

Mamma mia che film! Uno di quei casi che mi fa venire voglia di leggere il romanzo da cui proviene, che è possibile trovare gratuitamente in pdf in questo link: https://kritjur.org/108541-e-johnny-prese-il-fucile.

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Sono molte le considerazioni da fare, a partire dal titolo che è un modo di dire solo americano, che non riporta il nome del protagonista del film che si chiama Joe. Johnny get your gun era una frase propagandistica che invitava i giovani a prendere le armi e andare in guerra, una frase coniata fra la fine dell’800 e l’inizio del 900 resa famosa dall’allegra (e oggi direi beffarda) canzonetta patriottica “Over There” registrata proprio all’inizio del coinvolgimento degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale. Frase che trovò una sponda grafica nel manifesto con lo Zio Sam, altra figura retorica, che diceva: “I want YOU for U.S. Army” uscito nel 1917 e usata per il reclutamento fino a tutto il secondo conflitto mondiale; manifesto in cui l’autore James Montgomery Flagg (nomen omen: flag significa bandiera) ritrasse se stesso ricevendo i complimenti dal presidente Roosevelt: “Mi congratulo con lei per l’ingegnosità con cui si è risparmiato l’assunzione di un modello.”

Il manifesto ebbe assai più successo nel reclutare la carne da macello – come romanzo e film raccontano – perché per ascoltare l’amena canzoncina le masse non erano così abbienti da possedere una delle prime radio in commercio o un grammofono su cui far girare il vinile, e la frase che invitava Johnny a prendere il fucile si avviò a una rilettura tragicamente ironica. Ma Mr Flagg non si era inventato niente perché aveva solo copiato da un manifesto inglese che ritraeva Lord Kitchener, plurititolato generale ed eroe britannico che ci mise la sua faccia per reclutare i giovani al primo conflitto mondiale nel quale lui stesso perì.

Dalton Trumbo, scrittore e sceneggiatore iscritto al partito comunista, in un articolo del 1946, “The Russian Menace”, si era messo nella prospettiva di un cittadino russo dopo la Seconda Guerra Mondiale: cercare una prospettiva diversa, un punto di vista inedito ancorché disturbante, è tipico degli scrittori di talento, ma in quell’articolo si era spinto a scrivere che gli Stati Uniti rappresentavano una minaccia per la Russia, e non il contrario.

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Per le sue idee politiche fu messo sotto inchiesta dalla “Commissione per le Attività Antiamericane”, precedente alla più nota commissione del senatore Joseph McCarthy con la quale viene confusa, e insieme ad altri dieci professionisti del cinema, che vennero poi denominati “Hollywood Ten”, fu condannato a 11 mesi di prigione e inserito in quella lista nera che gli vietava di lavorare ancora nel settore. Ma nonostante il divieto Dalton Trumbo continuò a scrivere per il cinema, celandosi però dietro altri amici prestanome, così scrisse “Vacanze romane” (1953) firmando col nome del collega Ian McLellan Hunter e come ulteriore beffa il soggetto vinse l’Oscar e il vero autore non poté uscire allo scoperto; vinse di nuovo l’Oscar con la sceneggiatura di “La grande corrida” (1956) firmata col nome di Robert Rich e stavolta il premio gli venne tardivamente riconosciuto e consegnato nel 1975 un anno prima che morisse; anche l’Oscar del ’53 gli venne riconosciuto ma solo decenni dopo, postumo, nel 2011.

Spartacus: Kirk Douglas, Dalton Trumbo e la storia vera del film di Kubrick
Kirk Douglas e Stanley Kubrick sul set di Spartacus

Il 1960 fu un anno di svolta perché la caccia alle streghe perdeva potenza e poté ricevere il sostegno che meritava senza che questo mettesse più in pericolo i suoi sostenitori. Trumbo scrisse la sceneggiatura di “Exodus” per Otto Preminger, produttore e regista, che si batté affinché il suo nome venisse accreditato. Ma la vera svolta era avvenuta grazie a Kirk Douglas che, non avendo ottenuto il ruolo di protagonista in “Ben-Hur” si impegnò per realizzare il suo sogno di interpretare un antico eroe in sandali e gonnellino che si batte contro l’Impero Romano in “Spartacus”: esplicitamente chiese di avere Dalton Trumbo alla sceneggiatura, mentre la regia sarebbe andata a Stanley Kubrick. Ma lo scrittore era ancora nella lista nera e Kirk Douglas, insieme al regista e al produttore, si incontrarono per discutere la faccenda, se e come accreditare il nome dello sceneggiatore, ma quando il regista suggerì senza tanti scrupoli di mettere il proprio nome andandosi così a prendere il merito come sceneggiatore-regista, l’attore si indispettì. L’indomani mattina Kirk si presentò al cancello della Universal dicendo solo, con autorevole nonchalance: “Vorrei lasciare un pass per Dalton Trumbo”. Fu così che per la prima volta dopo dieci anni Trumbo entrò in uno studio cinematografico: “Grazie, Kirk, per avermi restituito il mio nome.”

Va ricordato che anche Stanley Kubrick aveva debuttato con film antimilitarista, quel “Paura e Desiderio” che al confronto con questo maturo e tragico “E Johnny prese il fucile” è poco più che un esercizio giovanile.

Nel 2015, in occasione dell’uscita del film biografico “L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo” l’allora 98enne Kirk Douglas scrisse una lettera aperta dopo aver visto l’anteprima: “Negli anni delle liste nere ho avuto amici che sono stati esiliati perché nessuno li faceva lavorare: attori che si sono tolti la vita per la disperazione. Lee Grant, mia giovane collega in Detective Story, non ha potuto lavorare per dodici anni, dopo aver rifiutato di testimoniare contro il marito al Comitato per le Attività Antiamericane. Io stesso fui minacciato di essere condannato come comunista e rovinare così la mia carriera se avessi fatto lavorare in Spartacus il mio amico Dalton Trumbo.”

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Già all’uscita nel 1939 il romanzo contro la guerra “E Johnny prese il fucile” vinse l’American Book Sellers Award. La stesura del romanzo, uno straziante apologo contro ogni tipo di guerra ispirato a un fatto realmente accaduto, si adeguava alla linea del Partito Comunista Americano di stretta osservanza staliniana, il cui intento era tenere fuori gli Stati Uniti dal conflitto, una posizione non-interventista dunque. Ma quando nel 1941 Hitler attaccò l’Unione Sovietica e il partito divenne sostenitore dell’intervento americano a fianco dell’Unione Sovietica, Trumbo si attivò per sospendere la pubblicazione del suo libro fino a guerra finita, e questo dice chiaramente quanto in quell’occasione fosse in disaccordo col Partito Comunista. E poi, dopo l’episodio di Pearl Harbor, sempre nel 1941, il libro fu fisicamente ritirato dalle librerie ed occultato ai più. Solo dopo il 1945 ricomparve nelle librerie e in seguito segnò sempre picchi di vendita ogni volta che l’America entrava in guerra: Corea, Vietnam, e ogni volta rientrava in circolazione come un manifesto e un monito sull’insensatezza di quelle carneficine. Per Trumbo fu il progetto di una vita e già nel 1940 ne aveva realizzato un adattamento per la radio, con la voce narrante di James Cagney, che è possibile ascoltare al link qui di seguito:

https://www.podomatic.com/podcasts/boxcars711/episodes/2018-05-26T15_00_00-07_00

E’ il monologo interiore di un soldato rimasto orrendamente mutilato: di lui resta solo il torso, senza gli arti, e gli è completamente saltata via la faccia, dunque non può vedere né parlare né sentire; può solo pensare, perché il cervello è rimasto intatto e consente agli altri organi principali di sopravvivere, e percepire attraverso il corpo e la pelle le vibrazioni dei movimenti attorno a lui e il calore della luce del sole, quando gli viene concessa. Riuscirà a comunicare solo grazie alla dedizione di un’infermiera che gli disegna con le dita le lettere sul petto e lui, conoscendo l’alfabeto morse, muoverà a scatti la testa per riuscire finalmente a dire cosa prova e cosa vuole, non prima di aver superato la convinzione dei medici specialisti che li consideravano solo spasmi.

In sordina: Film - E Johnny prese il fucile, di Dalton Trumbo -  LaScimmiaPensa.com

A 66 anni Dalton Trumbo può finalmente farne IL suo film, ignorato in patria ma che vince il Gran Premio Speciale della Giuria a Cannes nel 1971. Usa un tagliente bianco e nero per il presente e un pastellato colore per le sequenze che raccontano i ricordi e i sogni di Joe, confezionando una scatola degli orrori senza mai scandalizzarci visivamente, ma solo emotivamente. il film è un lungo monologo con voce fuori campo che racconta le sensazioni presenti e le figure che gli si muovono intorno, alternato ai momenti spensierati e speranzosi del Joe che va in guerra perché convinto sostenitore della democrazia del suo Paese: un concetto astratto che si farà una realtà terribilmente insopportabile. Via Morse chiederà di essere esposto come un fenomeno da baraccone o di essere ucciso: non verrà accontentato e rinchiuso nel buio dello stanzino continuerà a lanciare per sempre il suo S.O.S. con l’unico modo che può, muovendo a scatti la testa. La democrazia l’ha condannato a quello stato e la sperimentazione medica lo condanna all’eternità.

Dalton Trumbo film 'Johnny Got His Gun' to screen in L.A. – People's World

Protagonista assoluto del film è il debuttante 25enne Timothy Bottoms, che con la sua faccia da innocente bambolotto incarna il tipico giovane americano medio; e quello stesso anno sarebbe stato protagonista anche del bellissimo “L’ultimo spettacolo” di Peter Bogdanovich. L’impegno per lui è notevole perché recita fuori campo per metà del film, doppiato in italiano da Massimo Turci, oltre a essere poi protagonista di tutte le altre scene in cui duetta con Jason Robards nei panni di suo padre e con Donald Sutherland che, capelli lunghi e barba bionda, è il Gesù che neanche nei suoi sogni riesce a dargli speranza. l’Infermiera che umanamente e pietosamente stabilirà con lui un contatto – anche oltre le regole e il buon senso – è interpretata da Diane Varsi, il cui ruolo più di spicco rimane quello del suo debutto in “I peccatori di Peyton” 1957.

Ten Appearances Of George W. Bush In Movies And TV | Cool Aggregator
Timothy Bottoms come George W. Bush

Anche Timothy Bottoms si perderà per strada e avrà un ritorno di attenzione in anni più recenti per la sua somiglianza con George W. Bush, nel 2001 protagonista della sitcom “That’s my Bush!” e sarà di nuovo l’ex presidente in un film e in un telefilm arrivando alle parodie.

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