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I vinti – a proposito di mostri

1952. Terzo film di Michelangelo Antonioni dopo “Cronaca di un amore” e “La signora senza camelie”. L’autore, già quarantenne, aveva cominciato ad interessarsi al teatro già da universitario, finché poco meno che trentenne si trasferì a Roma attratto dal sogno della celluloide e cominciò a scrivere per la rivista “Cinema” mentre frequentava pure il Centro Sperimentale di Cinematografia e collaborando alla sceneggiatura del film bellico propagandistico del 1942 di Roberto Rossellini “Un pilota ritorna”. Dopodiché andò in Francia a offrirsi come assistente a Marcel Carné nel film favola “L’amore e il diavolo” sempre del ’42, e l’anno dopo rientrò in Italia a causa della guerra che vedeva le due nazioni su fronti opposti. Lavorò a dei cortometraggi e con Luchino Visconti ad altri progetti che non videro mai la luce, e a guerra terminata partecipò, insieme a Carlo Lizzani e Cesare Zavattini alla sceneggiatura del post-bellico “Caccia tragica”, opera prima di Giuseppe De Santis, la cui opera seconda sarà il capolavoro “Riso amaro”. Antonioni, che non è più un ragazzino, freme, e forte della sua esperienza tecnica dietro la macchina da presa, nonché portatore di messaggi molto personali, debuttò con la storia noir di una coppia in “Cronaca di un amore” in cui lucidamente, e a suo modo, raccontò dei mostri. Con “La signora senza camelie” raccontò il mondo del cinema graffiando via la patina luccicante con la quale il mezzo si era fin lì raccontato, ambiente di mostri esso stesso, e al contempo l’autore introduce uno dei temi che caratterizzeranno la sua cinematografia: la crisi dei sentimenti, lo squallore oltre il sentimentalismo. Qui scrive soggetto e sceneggiatura insieme a Giorgio Bassani, Diego Fabbri, Suso Cecchi D’Amico e Turi Vasile.

Segue questo strano film moraleggiante fatto di tre episodi che nelle filmografie ufficiali di Antonioni viene spesso dimenticato: eppure non è un film secondario o brutto, tutt’altro. La sua debolezza sta forse nella lunga spiegazione in apertura del film, voce fuori campo di Mario Pisu su immagini di repertorio e titoli di giornali che spiegano la poetica del film che vuole raccontare il dramma sociale della violenza gratuita perpetrata da bravi ragazzi di buone famiglie: l’orrore dei mostri che una decina di anni dopo, prendendosi meno sul serio e attraverso la lente deformante del paradosso e del grottesco, Dino Risi racconterà nel suo capolavoro a episodi sfruttando le maschere di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Ma non tutti sono portati alla commedia e la grandezza di Antonioni sta tutta nella sua poetica, oltre che nel suo stile lucido e tagliente. Ha viaggiato e ha lavorato in Francia ed è subito evidente che le sue aspirazioni guardano già fuori dai confini nazionali e, benché potendo raccontare storie di crimini tutti italiani che certo non mancavano in cronaca, sceglie di raccontare i tre episodi così come li ha letti sulla stampa internazionale e dedica un episodio alla Francia, uno all’Italia e l’ultimo all’Inghilterra, girati in loco e con troupe tecniche e artistiche locali. E ricordiamoci che in quel 1952 la guerra è finita da appena sette anni.

Francia, Parigi. I bravi ragazzi borghesi covano braci ardenti: la bella Simone cova disprezzo per i genitori e sogna una vita da favola; Pierre è un mitomane megalomane che si racconta come un parvenu, senza vergogna quando favoleggia di essere ricco oltre che desiderato dalle donne, le più anziane delle quali pagherebbero per averlo; i fratelli André e Georges che si fingono studenti modello ma architettano di uccidere l’amico ricco per fare anche loro una vita da favola possibilmente all’estero. Nel gruppo di giovani attori l’unico che ha avuto una brillante carriera è stato Jean-Pierre Mocky che cominciò come attore e poi facendosi assiduo aiuto di Antonioni imparò il mestiere e proseguì come regista, talmente prolifico da riuscire a girare anche tre film in un anno – qui nel ruolo di Pierre, la vittima. Non c’è un ruolo per il 45enne Alain Cuny, che aveva già lavorato con Antonioni in “La signora senza camelie”, e qui l’attore si accontenta di affiancare il maestro italiano come aiuto regista, anche se non farà mai il regista. Alla sceneggiatura si aggiunge la firma del francese Roger Nimier. L’episodio ebbe seri problemi di censura in patria tanto che non fu distribuito fino al 1963.

Questi i fatti: nel settembre del 1952, un uomo che resterà identificato solo come Monsieur I. intentò causa per chiedere che il governo francese sequestrasse il film che all’epoca era ancora in produzione. Il titolo francese del film era “Sans Amour” ed era composto da tre parti, tutte basate su storie vere, una delle quali era un famigerato affair del 1948 in cui un ragazzo di sedici anni aveva sparato a un compagno di classe, apparentemente a causa di una ragazza. Monsieur I. era il padre di quella ragazza, citata come Nicole I. che era stata condannata per complicità nel crimine, ma in quanto minorenne il suo nome restò secretato. Monsieur I. accusava il regista Michelangelo Antonioni e il suo assistente alla regia Alain Cuny di aver girato una storia in cui la ragazza sarebbe stata identificabile. Il governo francese prese le sue severe misure contro l’episodio: In primo luogo l’esportazione del negativo in Italia, dove Antonioni risiedeva, fu vietata; ma il divieto non divenne esecutivo e allora il governo pensò bene di vietare l’episodio in Francia, perché – come scrisse il critico Jean de Baroncelli su Le Monde dieci anni dopo, nel 1963, quando l’episodio fu distribuito sul territorio francese: – “Il Ministero della Giustizia si oppone alla realizzazione di qualsiasi sceneggiatura che evochi una vicenda giudiziaria che coinvolga persone ancora in vita”.

Italia, Roma. Protagonista è il 22enne Franco Interlenghi che aveva debuttato 15enne in “Sciuscià” di Vittorio De Sica, film premiato con l’Oscar. È il bravo ragazzo di buonissima famiglia che non accontentandosi del lusso in cui vive, c’è la servitù che lo chiama “il signorino”, invece di andare all’università si dà al contrabbando di sigarette: perché la gioventù gli brucia dentro e vuole tutto e subito. Ma il trasbordo delle sigarette allo scalo di San Paolo, allora periferia della città, viene interrotto dalla polizia e seguono fuggi fuggi e sparatorie, in una delle quali il giovane mostro uccide un uomo, ma poi nella fuga fa una brutta caduta in cui batte la testa. Rinviene, è sonnolento, raggiunge la sua ragazza e le confessa il delitto in un monologo un po’ troppo retorico, e a rendere ancora meno plausibile il dialogo che segue c’è che lei alla confessione del delitto non batte ciglio: vabbè che è ciecamente innamorata, ma un minimo di sana reazione sarebbe stato logico. È l’episodio meno riuscito e forse anche per questo non ebbe alcun problema con la censura. La ragazza è Anna Maria Ferrero che aveva debuttato nel 1950 nell’opera prima di Claudio Gora “Il cielo è rosso” e da allora è stata attivissima fino a tutti gli anni Sessanta, quando si ritirò per fare la moglie a tempo pieno del francese Jean Sorel, salvo poi pentirsene quando era troppo tardi. Nei ruoli dei genitori la signora del teatro Evi Maltagliati e l’ex baritono Eduardo Cianelli; il caratterista cine-televisivo Mario Feliciani è il commissario di polizia; Francesco Rosi è l’aiuto regista che debutterà come autore sei anni dopo con “La sfida”. Ah dimenticavo: il protagonista muore nel suo letto per le conseguenze del trauma cranico.

Inghilterra, Londra. Il mostro è uno psicopatico egomaniaco megalomane e anche lui vuole fama e ricchezza senza onesto sudore della fronte; è un poeta frustrato e frustrante e poiché il quotidiano scandalistico Daily Witness paga chiunque porti una storia da prima pagina – questa è l’altra mostruosità creatrice di mostri – va a vendere la sua notizia: ha ritrovato il cadavere di una donna e pretende di scrivere lui stesso l’articolo con tanto di sua foto in quanto anche autore del pezzo. Ma la cronaca trita e passa oltre, così dopo qualche giorno, di nuovo in cerca di soldi facili e di fama, confessa l’omicidio, credendo di aver commesso un crimine perfetto per il quale non potrà mai essere condannato. Ovviamente si è sopravvalutato e viene condannato a morte.

L’episodio è riuscitissimo, tanto che incorre nelle ire della censura italiana e tagliato fino a renderlo incomprensibile. Verrà recuperato integralmente e inserito in un altro film a episodi “Il fiore e la violenza” del 1962, che mette insieme, oltre all’episodio di Antonioni girato dieci anni prima, uno girato da Jean Renoir addirittura nel 1937, e uno completamente nuovo di François Reichenbach, poliedrico autore francese che fra le altre cose scrisse delle canzoni per Édith Piaf. Il centratissimo protagonista è interpretato da Peter Reynolds qui certamente nel suo ruolo più importante dato che il resto della sua carriera fu tutta una carrellata di caratterizzazioni in film di serie B; il giornalista lo interpreta il caratterista Patrick Barr. L’anziana patetica vittima è interpretata dall’ex attrice del muto Fay Compton; mentre la ventenne Eileen Moore, che interpreta la passione non corrisposta del protagonista, avrà una carriera di genere.

Il film, che fu presentato senza alcun esito al Festival di Venezia, benché considerato minore nella produzione dell’autore, e anche imperfetto, è certamente molto interessante e sicuramente da recuperare. Ciò che colpisce è che dalla sua analisi in poi, quel tipo di mostri urbani, di generazione bruciata come li definisce nel discorso di apertura, non hanno più smesso di esistere e quei giovani senza valori, o il cui unico valore è la soddisfazione personale a tutti i costi anche attraverso il crimine, sono ancora oggi in cronaca. Antonioni li racconta come figli della guerra, ragazzi nati durante il conflitto, che nella ritrovata pace non hanno più i valori fondanti delle generazioni precedenti e aspirano a un benessere, informe e indistinto, che con il boom economico avverrà solo dieci anni più tardi. Solo due anni dopo la distribuzione italiana re-intitolerà “Rebel Without a Cause” di Nicholas Ray come “Gioventù bruciata”: fu un caso? Sta di fatto che quel film divenne il manifesto di una generazione, di tanti giovani che si videro rappresentati e che si immedesimarono nel protagonista che, al contrario dei giovani frammentati nei tre episodi di Antonioni, è anche accattivante, affascinante. Antonioni avvertiva che avrebbe raccontato la realtà senza abbellirla ma il suo film è stato praticamente dimenticato mentre l’antieroe di James Dean ancora vive: segno che la realtà, al cinema, non può mai essere reale.

Per un pugno di dollari

“Quando cominciai il mio primo western dovetti trovare in me stesso una ragione psicologica, perché non avevo mai vissuto in quel tipo di ambiente. E un pensiero mi venne spontaneo: era come se fossi il burattinaio dei pupi siciliani; i loro spettacoli erano leggendari ma anche storici. Tuttavia l’abilità del burattinaio consisteva in una cosa: dare a ciascun personaggio una connotazione ulteriore relativa al paese specifico che i “pupi” stavano visitando. Come cineasta il mio compito era quello di creare una favola per adulti, una fiaba per ragazzi cresciuti; e il mio rapporto col cinema era quello di un burattinaio con i suoi burattini.”

“Da parte dei produttori c’era la ferma sicurezza che sarebbe stato un disastro economico, però con un guadagno in partenza, perché io per farlo dovetti andare a trovare un coproduttore tedesco (la Constantin Film), un coproduttore spagnolo (la Ocean Film), e naturalmente un partecipante italiano. Il preventivo era di 80 milioni circa. Così andai da Constantin in Germania e ci fu subito l’accordo concreto di una cifra, e poi trovammo il coproduttore spagnolo. Io decisi di prendere la metà del mio cachet e di avere però la partecipazione. Dato che loro credevano che di utili non ce ne sarebbero stati, furono ben felici di darmi questa possibilità. Il film veniva girato gratis in partenza.”

1964. Il 35enne Sergio Leone aveva debuttato l’anno prima con un film tutto suo, il peplum “Il colosso di Rodi” dopo una già intensa carriera come assistente alla regia e regista di seconde unità in importanti film hollywoodiani girati a Cinecittà: basti pensare che aveva diretto lui la famosa battaglia delle quadrighe di “Ben-Hur” di William Wyler e sempre lui, co-sceneggiatore e aiuto regista, aveva concluso il film “Gli ultimi giorni di Pompei” che il regista Mario Bonnard aveva abbandonato per correre a dirigere Alberto Sordi in “Gastone”, ma ufficialmente ritiratosi per ragioni di salute.

Insomma, Sergio Leone non si ferma un attimo e pensa a un film tutto suo già da una decina d’anni; per il suo debutto aveva scritto la sceneggiatura “Viale Glorioso”, che a Roma è un luogo simbolo della sua infanzia e della sua giovinezza nel quartiere Monteverde, ma poi vi aveva rinunciato perché Federico Fellini era uscito con “I vitelloni”, film che in qualche modo ricalcava lo stesso spirito della sua storia, e fa riflettere che due registi tanto diversi abbiano pensato a inizio carriera una storia con le stesse atmosfere: un gruppo di giovani che oziosamente riflette sul senso della vita. Di fatto, i produttori di “Gli ultimi giorni di Pompei” soddisfatti dell’aiuto regista che aveva salvato il film, si mettono a disposizione per produrgli la sua opera prima, un altro peplum a basso costo, e Leone, che si era già divertito a scrivere una sceneggiatura come sorta di rivisitazione del genere ma in chiave ironica, propose “Il colosso di Rodi”: il film si fece, l’autore smussò però la parte ironica e mostrò grande talento nel filmare e firmare uno pseudo-colossal girato con un budget ridotto e molta inventiva.

Ricordiamo che in quei primi anni ’60 stava scemando l’interesse per i peplum – che gli americani chiamavano sword-and-sandals e Leone più prosaicamente sandaloni – e gli stessi western che in Europa, Italia e Spagna soprattutto ma anche Germania, si giravano a basso costo fingendo che fossero americani. Preso in quella scia Sergio Leone stava già lavorando alla sceneggiatura del suo terzo film del genere, “Le aquile di Roma” una specie di “I sette samurai” (1954) di Akira Kurosawa ma in sandaloni, film che aveva già avuto un recentissimo remake americano con “I magnifici sette” (1960) di John Sturges. Insomma, nulla si inventa e tutto si ricicla, e se poi il riciclo diventerà a sua volta un capolavoro dipenderà dal reale talento dell’autore. Ma in quel frangente Leone fu distratto da un altro impegno: gli era stata commissionata la sceneggiatura di un western per un regista spagnolo che poi rigettò il suo lavoro; ma al nostro autore era però rimasta in testa l’idea del western, idea che accarezzava da molto pur essendogli venuti a noia le dinamiche e i luoghi comuni di quel genere classico americano; e da innovatore, così come aveva tentato di innovare il peplum senza riuscirci, pensò di cimentarsi con una sua personalissima visione del western all’italiana o spaghetti-western, termine coniato dagli americani per definire i western girati da noi a basso costo, inizialmente col senso spregiativo che proveniva da mangia-spaghetti, definizione che recentemente anche Putin ha inopinatamente rispolverato.

Vale la pena riferire, per chi lo volesse cercare, che il primo western italiano fu “Una signora dell’ovest” del 1942 diretto dal tedesco italianizzato Carl Koch, regista su cui va spesa qualche parola: fu assistente del francese Jean Renoir che nel 1936 lo aiutò ad espatriare insieme alla moglie regista animatrice; a ridosso dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, Renoir col suo assistente Koch iniziarono a lavorare a Roma a un adattamento cinematografico del dramma in cinque atti fine ‘800 “La Tosca” di Victorien Sardou di cui nel 1900 Giacomo Puccini compose l’opera lirica su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa; film che era stato voluto da Mussolini e caldeggiato dal governo francese per mantenere buoni rapporti con l’Italia onde evitare che entrasse in guerra al fianco della Germania, ma come sappiamo così non fu e dopo appena quattro giorni di riprese l’Italia entrò in guerra contro la Francia e Jean Renoir rientrò precipitosamente in patria lasciando il film in mano al suo secondo, il quale essendo tedesco non aveva problemi logistici, semmai ideologici, ma il lavoro è lavoro, gli venne italianizzato il nome in Carlo Koch e portò a compimento il film, successo al botteghino, avendo come assistente un promettente giovane, Luchino Visconti.

Torniamo a Sergio Leone. Era andato con la moglie al cinema Arlecchino – nomen omen! – a vedere “La sfida del samurai” (Yojimbo) sempre di Akira Kurosawa che a sua volta si era ispirato a un racconto dell’americano Dashiell Hammett, e ne fu folgorato: gli venne l’idea di fare il western che aveva sempre sognato. Si mise subito al lavoro e in breve completò la sceneggiatura insieme ai registi Fernando Di Leo e Duccio Tessari, ricalcando quasi pedissequamente il film del regista giapponese, fatto che diverrà una querelle giudiziaria. Il ronin giapponese diventa per Leone l’Uomo Senza Nome, un pistolero che, mostrate le sue capacità, rinfodera le armi e si mette al servizio di due famiglie rivali che con astuzia conduce allo scontro e all’annientamento reciproco. E Leone, dichiaratamente, si ispira proprio alle maschere di Goldoni benché nel prodotto finale è una finezza che il grosso del pubblico non coglie, un punto di vista che gli fa usare la macchina da presa per indagare gli sguardi dei protagonisti nei primissimi piani, le maschere che esprimono pensieri e sentimenti al di là delle parole che spesso diventano superflue.

Un’interessante intervista di Sergio Leone nonostante la piattezza dell’intervistatore Giuseppe Cereda

In seguito Leone racconterà (in questa intervista e altrove) che il ruolo del protagonista lo aveva scritto ispirandosi a un attore televisivo americano protagonista della serie “Gli uomini della prateria”, Clint Eastwood, ma in realtà lui aveva pensato in prima istanza a uno dei due giovani attori che si erano messi in luce in “I magnifici sette”, James Coburn o Charles Bronson; ma la produzione sparagnina gli negò una di quelle nuove star che ora avevano un ingaggio da 25mila dollari e le attenzioni si puntarono sulla star televisiva che si accontentava di 15mila. A dirla tutta i produttori avevano prima proposto Richard Harrison, cachet da 20mila dollari, che in Italia aveva già girato due peplum ma a Sergio Leone l’attore non piaceva, lui che inizialmente aveva puntato nientemeno che a Henry Fonda, tanto da mandare il copione al manager che neanche lo mostrò all’attore scrivendo nella cortese risposta: “Una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta”; ma solo pochi anni dopo Fonda lavorò con Leone, che nel frattempo era diventato a sua volta una star, in “C’era una volta il West”. Leone aveva anche preso in considerazione Cliff Robertson ma non ci pensò più quando seppe che sarebbe costato come l’intero film. Così fra rifiuti e costi troppo alti non c’era ancora il protagonista. Si fece avanti un dipendente dell’agenzia William Morris di Roma con la copia di una puntata della serie “Gli uomini della prateria” nella quale recitava, a suo dire: “un attore giovane e allampanato, che poteva forse interessare Leone.” Ma Leone era ancora riluttante e fu spinto alla scelta dalla necessità di cominciare le riprese e dal costo contenuto dell’attore.

I cinque che non furono: Charles Bronson, James Coburn, Richard Harrison, Henry Fonda e Cliff Robertson

Solo dopo il regista dirà in un’intervista americana quello che parzialmente ripeterà nell’intervista Rai: “Ciò che più di ogni altra cosa mi affascinò di Clint, era il modo in cui appariva e la sua indole. Nell’episodio ‘Incident of the Black Sheep’ Clint non parlava molto… ma io notai il modo pigro e rilassato con cui arrivava e, senza sforzo, rubava a Eric Fleming tutte le scene. Quello che traspariva così chiaramente era la sua ‘pigrizia’. Quando lavoravamo insieme lui era come un serpente che passava tutto il tempo a schiacciare pisolini venti metri più in là, avvolto nelle sue spire, addormentato nel retro della macchina. Poi si srotolava, si stirava, si allungava… L’essenza del contrasto che lui era in grado di creare nasceva dalla somma di questo elemento con l’esplosione e la velocità dei colpi di pistola. Così ci costruimmo sopra tutto il suo personaggio, via via che si andava avanti, anche dal punto di vista fisico, facendogli crescere la barba e mettendogli in bocca il cigarillo che in realtà non fumava mai. Quando gli fu offerto il secondo film, ‘Per qualche dollaro in più’, mi disse: ‘Leggerò il copione, verrò a fare il film, ma per favore ti imploro solo una cosa: non mi rimettere in bocca quel sigaro!’ E io gli risposi: ‘Clint, non possiamo tagliare fuori il sigaro. È il protagonista!‘ e la mitizzazione dei fatti è talmente accattivante che verrà ripetuta come una lezione imparata a memoria.

Ma Clint Eastwood che ne pensava? Lui aveva ricevuto la sceneggiatura di “The magnificent stranger”, una produzione italo-ispano-tedesca, e ovviamente non sapeva niente di Leone ma conosceva gli spaghetti-western e riteneva che nessun europeo potesse essere in grado di girare un western: come dargli torto? cosa avremmo pensato noi di un americano che avesse voluto girare un film neorealista? Però, benché tradotta in uno scadente inglese, fu incuriosito dalla sceneggiatura che si ispirava al film del regista giapponese, al cui precedente film si era già ispirato il successone “I magnifici sette” che gli aveva fatto gola.

Clint nella serie tv CBS

L’offerta era pure allettante: la produzione garantiva il viaggio in Europa anche alla moglie, e l’eventuale insuccesso commerciale non gli avrebbe nuociuto perché nessuno avrebbe visto in patria quello strano western il cui protagonista era sì il classico pistolero ma era anche un furbo manipolatore, oltre che un vagabondo sui generis e dunque un personaggio troppo fuori dagli schemi dei classici western per poter essere apprezzato sul mercato americano; dovette solo questionare con la produzione della serie che non voleva lasciarlo andare, ma garantì che a fine riprese sarebbe tornato a girare per la tv e si accordarono; e quando più avanti la rivista Variety riportò lo straordinario successo di quello spaghetti-western lui quasi non ci fece caso, anche perché non conosceva il titolo finale del film; solo quando gli arrivò una lettera dalla produzione per la proposta di un secondo film si rese conto del valore dell’impresa, dato che gli si spiegava che nel box office italiano, il “suo” era il secondo incasso dopo un film col divo Marcello Mastroianni (“Matrimonio all’italiana”) e fece i bagagli in quattro e quattr’otto.

Per cominciare a lavorare alla sceneggiatura, Leone si era procurato una traduzione del copione del film giapponese con l’intento di evitare, racconterà in seguito, che il suo scritto fosse una copia conforme: “Mi feci fare una traduzione del copione solo per essere sicuro di non ripeterne nemmeno una parola. Tutto ciò che volli mantenere fu la struttura di base del film di Kurosawa. Concepii l’intero trattamento in cinque giorni con Duccio Tessari. Il titolo provvisorio era ‘Il magnifico straniero’. Tessari non capiva bene cosa stavo facendo. Fece girare per Roma la voce che ero diventato un po’ strano. Poi scrissi l’adattamento, da solo, in una quindicina di giorni.” Ma il suo amico e aiuto Sergio Corbucci lo smentirà dicendo che Leone aveva copiato il film di Kurosawa per filo e per segno cambiando solo ambientazione e dialoghi. Posizione confermata da Fernando Di Leo, co-sceneggiatore con Duccio Tessari: “Non so chi disse a Leone — o meglio come si sparse la voce — che Yojimbo aveva stilemi western, sicché quando Sergio ci convocò, Tessari e me, si pensò a come fare la trasposizione. Tessari era per dare una robusta vena d’ironia alla storia, io per differenziarci, Leone era decisamente per il plagio: staccarsi di quel tanto che la diversità del genere comportava. Più io che Duccio lavorai in ‘direzione plagio’ e Sergio ebbe il copione che voleva. Va detto che l’originalità di Leone fu nel modo di ‘girare’, della storia s’era proprio invaghito.”

Ma veniamo alla questione legale. Durante la lavorazione del film dalla produzione arrivò la direttiva che chiunque fosse impegnato sul set doveva “astenersi in ogni circostanza dal menzionare la parola Yojimbo.” Cos’era successo? anzi, con non era successo? i diritti del film giapponese non erano ancora stati pagati e lo stesso Eastwood ha poi ricordato che la produzione aveva assicurato che si trattava di una mera questione burocratica che si sarebbe risolta a breve; ma così non fu perché quando il film venne distribuito nelle sale, l’italiana la Jolly Film non aveva ancora pagato i 10mila dollari di diritti alla giapponese Toho Film. Akira Kurosawa intentò causa e nella produzione italiana nessuno volle prendersi la responsabilità: Leone disse che i produttori erano troppo taccagni per pagare il dovuto, e gli fu risposto che lui non aveva avvertito che ci fossero degli oneri da pagare; poi fu sostenuto che la Jolly avesse contattato la Toho senza però ricevere risposta; ma ci fu anche chi sostenne che i produttori volessero incastrare l’autore: “Fece vedere loro ‘La sfida del samurai’ e disse: ‘Se riuscite a ottenere i diritti per un remake, io farò il film’. Beh, loro gli dissero che avevano preso i diritti, ma in realtà non era vero. E lui andò avanti e fece ‘Per un pugno di dollari’. E partì una causa con Kurosawa, che aveva ragione.” Fu così che Sergio Leone ricevette una lettera direttamente da Akira Kurosawa che rivendicava i diritti del film, e l’azione legale ebbe inizio.

A questo punto entrarono in gioco le sottigliezze legali che ben si sposavano con il genio italico sempre incline all’inganno e al raggiro, come il personaggio che avrebbero scelto per difendersi in tribunale. Gli avvocati della Jolly ritennero che la miglior difesa fosse l’attacco e il futuro regista Tonino Valerii, assistente alla regia non accreditato, fu incaricato di cercare una qualsiasi opera antecedente a “Yojimbo” con la quale poter sostenere che anche Kurosawa avesse copiato. Valerii buttò lì una proposta: l’opera di Carlo Goldoni “Arlecchino servitore di due padroni” che presentava, secondo lui, diverse analogie con il film di Kurosawa: “Gli avvocati consigliarono di sostenere che l’eroe doppiogiochista era ispirato a un personaggio di qualche opera letteraria occidentale e che quindi eventualmente il plagiario era Kurosawa. Io fui incaricato di trovare quest’opera. Mi capitò sotto gli occhi l’annuncio di una rappresentazione della commedia di Goldoni. Telefonai a un amico, fortunato proprietario del ‘Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi‘ e gli chiesi di leggermi la trama. Lo stesso pomeriggio portai l’idea in produzione con una punta di vergogna per l’irriverenza dell’accostamento. Fu riferita agli avvocati che ne furono entusiasti. Ebbi trecentomila lire in premio. Fu così che Goldoni divenne l’ispiratore del western all’italiana.” Questa controffensiva modificò leggermente la questione legale e i giapponesi si resero più inclini a un patteggiamento. Kurosawa e il suo co-autore Kikushima sarebbero stati risarciti col totale dei proventi dei diritti di distribuzione del film in Giappone, Taiwan, e Corea del Sud, più il 15% degli incassi di tutto il mondo. Leone rimase molto contrariato, poiché mai pensava che la questione sarebbe finita in tribunale: “Kurosawa aveva tutte le ragioni per fare ciò che ha fatto. È un uomo d’affari e ha fatto più soldi con questa operazione che con tutti i suoi film messi insieme. Lo ammiro molto come regista.” L’intera causa andò avanti per dieci anni e Sergio Leone perse tutta la sua percentuale sui diritti del film per pagare le parcelle dei suoi avvocati, ma imparò la lezione e da quel momento in poi decise che avrebbe prodotto da sé i suoi film.

Il successo ha molti padri. L’iconico personaggio senza nome si presenta con un look che rinnova quello classico del pistolero, a cominciare dal poncho che era noto da noi per essere stato indossato da Giuseppe Garibaldi di ritorno dal Sud America, ma che il personaggio di Leone-Eastwood, mantenuto per tutta la trilogia del dollaro, aveva rinnovato nell’immaginario e nella moda nostrana dove il poncio era indossato soprattutto dagli alternativi e dagli hippy, i figli dei fiori nostrani, ma c’era pure chi se lo faceva all’uncinetto. Leone ha affermato che furono sue le idee per acconciare il personaggio: “Gli diedi un poncho per ingrossarlo. E un cappello. Nessun problema. Presi una di quelle foto in bianco e nero che mi avevano fornito e aggiunsi a penna una barba, un sigaro toscano e un poncho.” Diversamente Clint Eastwood ha ricordato: “Andai in un magazzino di costumi sul Santa Monica Boulevard, e mi limitai ad acquistare il costume e portarlo là. Era molto difficile, perché in un film hai sempre due o tre cappelli dello stesso tipo, due o tre giacche uguali, nel caso si perda un accessorio del costume, o se qualcosa si bagna o tu ti devi bagnare. Ma per questo film avevo solo uno di tutto: un cappello, una specie di abito di montone, un poncho, e diverse paia di calzoni che erano semplicemente jeans tipo Frisco. Se avessi perso qualcosa a metà film sarei stato veramente nei guai.”

Volonté e Eastwood
Mimmo Palmara

Per il secondo ruolo, quello del vilain Ramón Rojo, fu scritturato Gian Maria Volonté che il regista già apprezzava, benché pare che la parte fosse stata scritta con e per l’amico Mimmo Palmara, già nel cast di “Il colosso di Rodi” che però non prese parte al progetto perché al momento era solo una produzione di riserva della Jolly Film la cui produzione principale era “Le pistole non discutono” a cui Palmara scelse di partecipare: un film che oggi non ricorda più nessuno; e Leone per girare il suo film a basso costo dovette accontentarsi di riciclare location, costumi, troupe e anche parte di attori e figuranti del film principale. Il resto del cast è equamente distribuito fra le tre nazioni che producono: per l’Italia ci sono anche i caratteristi Mario Brega, che da qui in poi sarà in tutti i film di Leone, Benito Stefanelli, anche stuntman prenderà parte a tutta la trilogia del dollaro perché parlando molto bene l’inglese sui set sarà l’interprete di Clint Eastwood; Bruno Carotenuto, figlio del più celebre Memmo; Edmondo Tieghi al suo debutto cinematografico.

José Calvo con Eastwood

Per la Spagna il volto noto José Calvo, che come tenutario del saloon nonché “guida turistica per stranieri” ha il ruolo più importante dopo Eastwood e Volonté; Antonio Prieto, anche lui popolarissimo in Spagna pure come cantante; Margarita Lozano al suo primo western, continuerà a lavorare molto in Italia fino in età matura; il belloccio baffuto Daniel Martìn rifà lo stesso ruolo di tanti western spagnoli.

Eastwood con Joseph Egger

Per la Germania: Marianne Koch (nessuna parentela col regista Carl Koch sopra citato) che all’epoca era molto nota in patria tanto da meritarsi il secondo nome nei titoli, ma questo resterà il suo film più importante; Wolfgang Lukschy noto in Germania per essere il doppiatore di John Wayne e Gary Cooper nei western doc; Sieghardt Rupp, già interprete dei western tedeschi; il vecchio Joseph Egger è doppiato da Lauro Gazzolo che fu la voce chioccia di tanti vecchietti del west. E restando sul parlato c’è da dire che il film fu girato senza traccia sonora, praticamente muto, e sul set ognuno parlava la sua lingua in una sorta di babele cui fu data forma al doppiaggio. Clint Eastwood, che nella versione americana si doppiò da sé, fu doppiato da Enrico Mario Salerno, mentre Volonté fu doppiato da Nando Gazzolo figlio di Lauro. Altri doppiatori di rango: Anna Miserocchi per la Lozano, Rita Savagnone per la Koch, Sergio Graziani per Stefanelli, Mario Pisu per Prieto, i fratelli Luigi e Nino Pavese (padre della doppiatrice Paila Pavese) per Calvo e Martìn.

Per la colonna sonora Leone aveva pensato di affidarsi ad Angelo Francesco Lavagnino già compositore della musica per “Il colosso di Rodi” ma la produzione aveva sotto contratto un certo Ennio Morricone che aveva appena musicato il primo western della Jolly Film, “Duello nel Texas”, e benché restio l’autore andò a trovare il musicista a casa, scoprendo che erano stati compagni di scuola alle elementari: il resto è storia, anche se sulle prime ci furono delle frizioni perché Leone chiese a Morricone di ispirarsi al russo Dimitri Tiomkin che aveva musicato “La battaglia di Alamo” film d’esordio da regista di John Wayne, ma il musicista non aveva nessuna intenzione di copiare, anche per una questione di professionalità: “Mi toccò dire a Sergio: ‘Guarda, se vuoi mettere nel film quel lamento, io non voglio averci niente a che fare’. Allora lui mi disse: ‘Okay, tu componi la musica ma fallo in modo che una parte della partitura suoni come il deguello‘. Anche questa soluzione non la vedevo di buon occhio, così presi un mio vecchio tema, una ninna nanna che avevo scritto per un amico, per una versione teatrale di tre drammi di mare di Eugene O’Neill. La ninna nanna era cantata da una delle Peter Sisters… Ciò che lo faceva somigliare era l’esecuzione, con una tromba suonata un po’ alla zingara.” Terminata la composizione delle musiche per le scene principali, Leone pretese un altro pezzo che accompagnasse l’intero film e Morricone gli propose un altro suo vecchio tema musicale, un brano folk americano ispirato a Woody Guthrie in cui voleva far percepire la solitudine e la nostalgia e al primo ascolto del pezzo il regista ne rimase affascinato e disse al compositore: “Hai fatto il film. Vattene in spiaggia. Il tuo lavoro è finito. È questo che voglio. Ora devi solo procurarti qualcuno che sappia fischiare”. E Morricone contattò il maestro Alessandro Alessandroni, abile col fischio tanto da saperlo rendere un vero e proprio strumento – roba che oggi si farebbe solo in digitale; e degna di nota era anche l’armonica a bocca suonata da Franco De Gemini. Questa colonna sonora fu per Morricone il primo successo internazionale con grande vendita di dischi ma lui la ricordò come la peggior colonna sonora che avesse mai scritto per il peggior film di Sergio Leone. Vinse ai Nastri d’Argento mentre Volonté fu candidato come miglior non protagonista.

Nei titoli di testa Sergio Leone si firma come Bob Robertson in omaggio al padre Vincenzo Leone che come attore aveva usato il nome d’arte Roberto Roberti. Ennio Morricone è Leo Nichols e Volonté è John Wells. Fra le altre curiosità: Clint Eastwood ha successivamente affermato che Leone non sapeva nulla del West, e che molte delle sue innovazioni erano dovute proprio all’ignoranza del regista circa le norme vigenti a Hollywood, a cominciare dalle regole del Codice Hays, secondo il quale quando avveniva uno sparo, l’arma e il personaggio ucciso non potevano trovarsi nello stesso fotogramma: “Dovevi girare la scena separatamente, e poi far vedere la persona che cadeva. Si era sempre pensato che fosse un po’ stupido, ma in televisione facevamo sempre in quel modo… Sergio non ne sapeva niente, e quindi metteva tutto insieme… Si vede la pallottola che parte, si vede la pistola che fa fuoco, si vede il tizio che cade, e non era mai stato così prima.” Fra le innovazioni di Leone c’è il frequente uso di primi piani, dettaglio che divenne un suo marchio di fabbrica e per il quale divenne famoso in tutto il mondo; Secondo Leone, gli occhi “rivelavano tutto quello che c’è da sapere sul personaggio: coraggio, paura, incertezza, morte, eccetera.” Mentre Eastwood rifletteva: “Leone credeva, come Fellini, e come molti registi italiani, che la faccia significasse tutto. In molti casi è meglio avere una gran bella faccia piuttosto che un gran bravo attore.”

Negli Stati Uniti il film uscì tre anni dopo, nel 1967, dopo che si furono appianate le questioni legali; e per il passaggio in tv avvenuto nel 1975 ci fu qualche problema di ordine morale nonostante il Codice Hays fosse decaduto: le azioni del protagonista furono ritenute perverse e immotivate e perciò venne girato un prologo trasmesso prima dei titoli di testa, diretto da Monte Hellman, anche lui autore di western atipici, in cui il personaggio di Eastwood, interpretato da un ignoto attore più basso e con un poncho diverso, insieme a primissimi piani riciclati da altre scene del film, si trova in un carcere statunitense; viene portato dal Direttore, Harry Dean Stanton, il quale gli dice che sarà lasciato libero solo se riporterà la pace nel paese di San Miguel entro sessanta giorni, altrimenti verrà ricercato come qualunque altro prigioniero evaso. Lo informa della situazione tra i Rojo e i Baxter e lo avvisa che non potrà contare su aiuti militari o indigeni, in quanto anche queste fazioni commerciano con i banditi, per poi lasciarlo andare in groppa a un cavallo, anziché di un mulo come Leone fa arrivare l’Uomo Senza Nome a San Miguel. La curiosa scena è oggi disponibile come contenuto extra nell’Edizione Speciale in DVD e Blu-ray disc per il mercato statunitense, insieme a un’intervista al regista sulla sua realizzazione. Noi ce ne faremo una ragione.