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Diabolik – dal primo fumetto all’ultimo film

Tanto per cominciare lo pronunciamo tutti, anche nel film, Diabòlik, seguendo l’accentatura dell’italiano diabolico, mentre secondo le intenzioni delle autrici e secondo il sito ufficiale – http://www.diabolik.it – la pronuncia dovrebbe essere Diabolìk seguendo l’accentatura del francese diabolique, ma vabbè, vox populi vox dei.

Creato nel 1962 dalle sorelle Angela e Luciana Giussani, di fatto fu inizialmente ideato da Angela, bella signora milanese che dopo aver calcato le passerelle come modella, sposa l’editore Gino Sansoni e comincia a lavorare nella di lui casa editrice Astoria Edizioni che si era specializzata nelle riviste chiuse, pubblicazioni con la copertina chiusa che contenevano materiale per adulti, racconti foto e fumetti, che per essere lette bisognava tagliarne la copertina: dunque non era possibile darci un’occhiata veloce in edicola e andavano comprate; ovviamente la produzione non era tutta lì e la signora Angela si occupò di una collana per ragazzi, salvo poi volere una propria casa editrice per avviare progetti tutti suoi, e dato che era stata regolarmente assunta si licenziò e con la liquidazione creò l’Astorina, sorta di costola dell’Astoria la cui sede venne creata all’interno del vasto appartamento che già ospitava l’Astoria. La signora comincia l’avventura editoriale pubblicando giochi in busta e importando dagli Stati Uniti un fumetto su un pugile, Big Ben Bolt, al quale poi affianca un nuovo progetto ispirato da un romanzo che aveva trovato in treno, Fantômas, un noir rigorosamente francese pubblicato in avventure seriali su uno spietato criminale abilissimo nei travestimenti e dotato di intelligenza diabolica. Nasce così l’italiano Diabolik, con un nome fantasy che non proviene da nessuna lingua, un anglo-francese maccheronico: da noi, a quell’epoca, aggiungere una kappa significava conferire una nota di pericoloso esotismo a nomi altrimenti troppo italiani e dunque banali; sono gli anni in cui vengono creati anche Satanik e Kriminal, il meno noto Zakimort e a seguire arrivano le parodie: Cattivik di Bonvi e il film “Arriva Dorellik” interpretato dal cantantattore Johnny Dorelli e diretto da Steno.

Il primo numero di Diabolik è interamente scritto da Angela Giussani con i disegni del misterioso Angelo Zarcone detto “il tedesco” perché portava in redazione il biondissimo figlioletto avuto da una relazione con una tedesca, che inoltre andava in giro indossando pantaloncini e zoccoli proprio come un turista tedesco. All’epoca disegnava per l’adulta Astoria il fumetto sexy “Alboromanzo Vamp” e, com’era in uso, gli autori, scrittori e disegnatori, non si firmavano per non essere rintracciati dal fisco; oltre a questo, di Zarcone si sa poco perché era un tipo assai sfuggente: l’editore Sansoni doveva appostarsi sotto la pensione nella quale viveva per costringerlo a farsi consegnare le tavole, puntualmente sempre in ritardo; mentre a sua insaputa stava disegnando anche la nuova creatura d’esordio della di lui consorte, solo che, appena consegnato il lavoro sparì senza lasciare traccia e inutili furono le ricerche. L’albo uscì il 1° novembre del 1962 con la copertina disegnata da Brenno Fiumali, e quando due anni dopo vennero ristampati a grande richiesta i primi 17 numeri, Marchesi ridisegnò il numero uno del misteriosamente scomparso Angelo Zarcone.

Nel 1982, a vent’anni da quel numero uno, le sorelle Giussani ingaggiarono addirittura l’investigatore americano Tom Ponzi per trovarlo, ma senza successo; solo nel 2005 Brenno Fiumali incontra Zarcone, non si sa come e dove, e in seguito ne disegnerà a memoria il volto, mentre la ragione della sua sparizione resterà un mistero, poi indagata dal regista Giancarlo Soldi nel docufilm “Diabolik sono io” in cui si ipotizza un incidente cui è seguita un’amnesia dissociativa – ma oltre le ipotesi la verità resterà un enigma. I Manetti Bros. autori di questo film del 2021, sono presenti come testimonial ed esperti di Diabolik nel docufilm visibile a pagamento su YouTube; qui di seguito il trailer.

Il numero 1

Angela Giussani, con piglio da moderna imprenditrice, condusse un’informale indagine di mercato osservando in prima persona i pendolari alla stazione ferroviaria non lontana da casa: i lavoratori durante lo spostamento leggevano per lo più romanzi gialli, di facile presa; e anche nella rivista allora per eccellenza, Grand Hotel, le storie che avevano più seguito erano quelle a tinte forti, per non dire che i titoli di maggior successo della casa editrice del marito erano quelli con copertine sessualmente allusive e titoli morbosi: dunque erano quelle le tracce su cui muoversi e di suo, la signora, ebbe la brillantissima intuizione del formato tascabile, che entrasse appunto nelle tasche e nelle borse, formato che avrà moltissimi epigoni, di lettura facile e veloce ma che soprattutto doveva costare poco, 150 lire, meno di 2 euro odierni. Il numero 1 non è lo sperato successo commerciale e per il numero 2, pensando anche al risparmio, chiama la sorella Luciana alla co-scrittura della storia che, sparito Zarcone, fa disegnare all’amica modista Kalissa Giacobini. Ed è nel fatidico numero 3, “L’arresto di Diabolik” che entra in scena e nella vita del criminale la fascinosa Eva Kant che deve l’invenzione del suo cognome al filosofo Immanuel Kant su cui Angela aveva fatto la sua prima tesina al diploma magistrale.

È dal 14esimo numero che Luciana viene ingaggiata stabilmente nella creazione degli albi e nella conduzione della casa editrice, e insieme racconteranno di essersi ispirate per la creazione di Diabolik a un fatto di cronaca nera accaduto a Torino nel 1958: un 27enne venne trovato nel suo letto in una pozza di sangue con i segni di diciotto coltellate sul petto; le indagini presero anni creando un mistero che appassionò l’opinione pubblica, fino a che l’assassino non inviò un biglietto al commissariato di polizia in cui si firmava Diabolich, a sua volta probabilmente ispirato dal Diabolic protagonista del romanzo “Uccidevano anche di notte” del giallista Italo Fasan che si firmava Bill Skyline. Il fantomatico Diabolich non fu mai catturato e alla sua vicenda pare si sia ispirato anche l’americano Assassino dello Zodiaco. Realtà e finzione che si ispirano a vicenda, perché forse gli psicopatici assassini hanno bisogno da dare un senso alto, un significato superiore, alle loro azioni, mentre scrittori ed editori hanno bisogno della cruda realtà per rendere più scandalosamente emozionanti le loro storie. E col terzo numero arrivarono i guai giudiziari: l’editrice, per promuovere la sua nuova creatura, ebbe l’idea di distribuire copie omaggio ai ragazzi delle scuole medie, ma questo venne visto come un tentativo di traviare la sana gioventù; ne seguì un processo nel quale Angela Giussani fu assolta perché nella copertina Diabolik compariva con i polsi incatenati e davanti a una ghigliottina a monito per le sue indicibili colpe. Resta da svelare come fu creato il nome dell’Ispettore Ginko: fu semplicemente inserita una K, tanto per non cambiare, all’interno del nome Gino, che era Gino Sansoni marito di Angela.

Il primo film su Diabolik è del 1967 diretto dal maestro degli effetti speciali Mario Bava, che non fu un gran successo commerciale ma che negli anni è divenuto, come spesso accade, un cult. Bisogna aspettare più di mezzo secolo perché un’altra produzione cinematografica si metta in moto su idea dei Manetti Bros., Marco e Antonio, anche direttori della fotografia, produttori e sceneggiatori oltre che registi: registi di genere, appassionati di cultura pop anni ’70 e di horror misto a un gusto dissacrante che vira nella commedia grottesca, un po’ alla Quentin Tarantino de noantri, e nelle loro prime produzioni mischiano generi che tutti insieme non hanno fatto presa al botteghino anche perché i nostri, pur essendo dei cineasti rifiniti, non hanno il genio e la visione dei maestri. E questo loro Diabolik ne è la prova.

Scrivono la sceneggiatura con Michelangelo La Neve, loro amico e assiduo collaboratore che fu anche – fu perché è morto 62enne in questo 2022 – sceneggiatore di fumetti come Dylan Dog, Martin Mystère oltre che Diabolik. Nel cast la scelta più infelice, anzi di più, disastrosa, è quella di Luca Marinelli che interpreta il suo Diabolik leggendolo in chiave psicoanalitica e dimenticandosi di avere a che fare con una maschera, un personaggio da fumetto nato nei primi anni ’60, a cui la profondità psicologica è sconosciuta e aliena; ne fa un lugubre psicopatico che a tratti si muove anche come un automa, e gli manca del tutto la caratteristica primaria: quel fascino magnetico foriero di tanti pericoli che il nostro uomo mascherato dagli occhi di ghiaccio possiede; e a dirla tutta Marinelli è anche poco somigliante e appare anche ridicola l’attaccatura a punta sulla fronte. Più centrati e somiglianti i comprimari: Miriam Leone è fascinosa come abbiamo sempre percepito Eva Kant, ma il lavoro migliore lo fa Valerio Mastrandrea come Ginko perché ha dalla sua una recitazione asciutta che non cerca a vuoto facili effetti che non ci sono. Miriam Leone passa l’esame perché fa quello che le riesce meglio, essere credibile, senza però mai arrivare a una vera interpretazione da attrice raffinata che controlla i suoi mezzi espressivi inserendo nel personaggio sfumature che non ha: è bella e fa la bella che sa essere ambigua e seducente, tutto il resto non le compete. Basta guardare l’interpretazione del cameo di Claudia Gerini per capire di che parlo, una vera attrice che interpreta – lei sì – una maschera in commedia, un personaggio inesistente creato da Eva Kant con una maschera di lattice: una sciura milanese con la R moscia che accende lo schermo per la breve durata del suo intervento, e quando Eva Kant si leva la maschera e torna Miriam Leone finisce l’incanto.

Il film, che segue il plot del fumetto n° 3, è un buon prodotto ma non un capolavoro, laddove ai Bros. non è dato creare capolavori: manca un’idea specifica, una chiave di lettura autorale, e si rimane nel film di genere, a tratti anche noioso perché troppo parlato senza avere dialoghi particolarmente brillanti. Se i Fratelli avessero saputo azzardare avrebbero potuto realizzare un film in un tagliente bianco e nero per richiamarsi alle tavole originali del fumetto o, sempre in quest’ottica, montare una serie di inquadrature ferme come fosse appunto una sequenza di tavole disegnate, salvo creare un movimento esasperato nelle scene di azione – invece muovono la cinepresa come se stessero girando né più né meno che un film per la tivù.

Notevolissima, invece, la colonna sonora degli storici collaboratori dei fratelli registi, Pivio (Roberto Pischiutta) e Aldo De Scalzi, che in ogni circostanza del film creano sempre la giusta atmosfera in puro stile anni Sessanta; si aggiungono due canzoni originali di Manuel Agnelli che è l’unico a vincere su 11 candidature ai David di Donatello. Ma sono notevoli anche l’ambientazione tutta in stile italiano, come nei fumetti, con scritte e insegne in italiano nonostante la collocazione sia nella fantasiosa Clerville: un pastiche fantasy pensato e voluto dalle Sorelle Giussani, che colloca le azioni in un immaginario paese estero senza allontanarsi dalla cultura popolare italiana; scenografia di Noemi Marchica, costumi di Ginevra De Carolis, trucco e parrucco di Francesca Lodoli.

Fra gli altri interpreti il ruolo più corposo, quello dell’ambiguo vice ministro innamorato di Eva Kant, è andato a un altro fedelissimo dei fratelli, l’Alessandro Roia (alterimenti Roja) assurto alla notorietà come Dandi nella serie tv “Romanzo criminale” e, proprio perché i Fratelli non pensano a dirigere gli attori, anche lui fa del suo meglio senza convincere del tutto nonostante il personaggio sia molto ben scritto e accattivante. Centrati, invece, tutti gli altri ruoli assegnati a caratteristi di lungo corso che nei loro curriculum hanno anche dei ruoli da protagonisti: Serena Rossi è l’ignara prima compagna di Diabolik che nel fumetto finirà al manicomio, Vanessa Scalera è la compiacente segretaria del vice ministro e Luca Di Giovanni è il cameriere di cui Diabolik indossa la maschera e che è costretto a replicare l’automa a cui Luca Marinelli ha dato vita (si fa per dire!); Roberto Citran è l’azzimato direttore d’albergo, Antonino Iuorio l’ebete direttore del carcere, Daniela Piperno l’adeguata (dis)funzionale direttrice di banca; Urbano Barberini nel piccolo ruolo di un politicante e Pier Giorgio Bellocchio (figlio del regista Marco) interpreta un poliziotto nel tempo libero che gli rimane dall’impegno principale, quello di produttore esecutivo per la Mompracem dei Manetti e per Rai Cinema.

Anche questo film è incappato nelle chiusure della pandemia: la prima uscita era prevista per il 31 dicembre 2020 ed è stata posticipata di un anno, e nonostante la distribuzione accidentata ha avuto ottimi incassi, tanto da far mettere in cantiere addirittura due sequel che gli autori hanno pensato durante il lockdown. Luca Marinelli però è fuori gioco, non si sa se per coscienziosa scelta personale o scelta della produzione: la versione ufficiale è che aveva altri impegni. E a indossare la calzamaglia di Diabolik sarà l’italiano naturalizzato canadese Giacomo Gianniotti che è assurto alla notorietà come dottor Andrew DeLuca nella serie “Grey’s Anatomy” dove era doppiato da Marco Vivio; ma dato che Gianniotti parla anche l’italiano, sentiremo la sua vera voce nei Diabolik numero due e tre? A proposito di voci: quelle di Marinelli e Mastrandrea hanno all’inizio un impatto negativo perché troppo leggere: siamo abituati, viziati, a sentire i personaggi in calzamaglia e in genere quelli iconici con le voci pastose e profonde dei nostri doppiatori, anche riconoscibili di film in film e di serie in serie; ma mentre Mastrandrea nel corso del film risulta accettabile perché convincente è la sua interpretazione, il tenorile biascichio di questo primo Diabolik risulta davvero penoso: archiviato. E ricordandoci che è del 1968 il primo film su Diabolik diretto da Mario Bava, per il futuro non ci resta che attendere.

Giacomo Gianniotti

Ready Player One, l’uovo di pasqua virtuale

Il titolo riprende la schermata iniziale dei primi videogiochi degli ormai lontani anni ’80, dunque siamo in pieno nel mondo dei nerd, ma non solo, perché l’intricatissima trama è anche materia per cinefili, sempre quelli cresciuti negli anni ’80. Il film è tratto da un romanzo di Ernest Cline, che a lungo ha lavorato nel sottobosco informatico, dei nerd appunto, con una sua personale passione per la cultura pop che riversa appieno in questa sua fantasia distopica.

2045. Come in tutti i mondi futuristici, mai ottimisti (chissà perché!), il pianeta Terra è alla frutta, ammesso che in giro ci sia il lusso della frutta fresca: sovrappopolazione, inquinamento, forte divario fra le classi sociali, estremo sfruttamento delle risorse energetiche e degli esseri umani indigenti: una proiezione realistica di quanto stiamo vivendo oggi. E la gente che fa? quello che fa oggi: gioca. Non ci saranno più i gratta-e-vinci statali, né le slot machine mangia pensioni gestite dalla mafia, né tantomeno i web casinò che già creano dipendenza, e il partito politico costruito online è solo il primo passo di quello che sarà: ognuno potrà vestire virtualmente i panni di un ministro, e se vince – vincerà anche nella vita reale. Una volta si beveva per dimenticare, sul finire dello scorso secolo ci si drogava con qualsiasi cosa: la droga odierna, e quella dell’immediato futuro, è il gioco, meglio ancora se gioco di ruolo virtuale dove ognuno può più che sognare, può “essere” qualsiasi/chiunque alterità.

Da questo punto di vista niente di nuovo, abbondano i film sui mondi virtuali e le società futuristiche dove per sopravvivere devi vincere i giochi di ruolo: la trilogia di “Hunger Games”, la trilogia dei “Divergent”, senza dimenticare la trilogia di “Matrix” e riandando indietro nel tempo: “Rollerball” del 1975 remaked nel 2002 e “Tron” del 1982 con un sequel nel 2010.

Oasis, il mondo qui immaginato da Cline, è praticamente Second Life, la realtà virtuale creata all’inizio di questo nuovo secolo e la cui immediata diffusione ha riempito per un po’ giornali e telegiornali, creando dipendenze, rotture sentimentali e guai familiari; oggi, pur continuando ad esistere, si è ridimensionato. Ma anche lì come in Oasis si possono fare soldi virtuali che possono diventare reali, se sei davvero bravo. Detto questo è inutile parlare della trama, che è davvero complessa e tutta da scoprire insieme ai tanti rimandi per veri intenditori dei videogiochi e dell’immaginario cinematografico pop, che va da “Shining” e “La Febbre del Sabato Sera”, i film più ampiamente citati e riconoscibili, a “Ritorno al Futuro”, “King Kong”, “Jurassic Park” dello stesso Steven Spielberg che firma questa regia e il quale, con grande senso della misura, ha preteso che venissero tolti, ove possibile, tutti i riferimenti ai suoi film che la sceneggiatura, co-firmata dallo stesso romanziere, e gli autori delle creature virtuali, hanno disseminato dappertutto: bisognerebbe rivedere il film a casa, in slow motion, per scoprire tutti gli omaggi a film e personaggi dell’ultimo trentennio: c’è Chucky la bambola assassina, ma anche il Joker con Harley Quinn, come anche Lara Croft, un Gremlin e tantissimi altri.

Per i non avvezzi ai linguaggi tecnici da nerd c’è da spiegare: “easter egg”, ovvero uovo di pasqua, è una sorpresa che i creatori dei software nascondono all’interno del gioco, e che qui è l’ambitissimo premio finale; il “cubo di Zemeckis” non è altro che il cubo puzzle di Rubik degli anni ’80, rinominato col nome di Robert Zemeckis non si sa perché: forse un omaggio a un altro degli immaginifici registi citati nel film (e a cui in un primo tempo era stata offerta la regia) o forse, e qui mi sono fatto ricercatore di indizi come il protagonista del film, “Zemeckis” è una distorsione pop di Zemdegs, dall’australiano Feliks Zemdegs detentore di 7 record mondiali per la soluzione del diabolico cubo. Comunque sia sono cose da addetti ai lavori.

Per noi spettatori il film scorre veloce e il fatto che non ci dia tempo di pensare a tutti i riferimenti fa parte del gioco, ma è un gioco, questo gioco virtuale, di cui siamo solo spettatori passivi mentre il film racconta quanto e come siano attivi i protagonisti nel loro mondo virtuale: uno specchio che ci rimanda un falso messaggio. Che poi la sceneggiatura sia arrivata al maestro Steven Spielberg dopo diversi passaggi di mani, non è che un bene, anche se in qualche modo si intuisce che questo film per lui è un prodotto e non una delle sue creature. Quello che avrebbe potuto essere l’ennesimo film fracassone – ed è anche questo ma non solo – diventa un divertissement più o meno raffinato, tanto quanto raffinato è il gusto dello spettatore, e in questa linea compone il suo cast.

Padre nobile e deus ex machina è Mark Rylance, Oscar in “Il Ponte delle Spie” e poi “Grande Gigante Gentile”: c’è dunque da pensare che l’eccellente attore inglese sia diventato il suo nuovo alter ego dopo il Richard Dreyfuss degli anni ’70, “Lo Squalo” “Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo” e “Always” e l’Harrison Ford dagli anni ’80 a fine millennio con tutti gli “Indiana Jones”. Il protagonista giovane, che come quasi tutti si alterna dal vero al virtuale, è Tye Sheridan, mentre il cattivo di turno è Ben Mendelsohn, un eccellente caratterista con una lunga carriera che qui se la gode alla grande; fra i buoni c’è un altro caratterista inglese, Simon Pegg, rilanciato nel cinema statunitense come parte dell’equipaggio di “Star Trek” e braccio destro di Tom Cruise in “Mission Impossible”; la buona ma “bella non troppo” – con un occhio attento alle tante nerd al femminile – è Olivia Cooke e completano la squadra dei nerd combattenti Lena Waithe, Philip Zhao e Win Morisaki. La bella e cattiva è Hannah John-Kamen e Il comico T.J. Miller è accreditato come voce del personaggio virtuale i-R0k, ma poiché non lo vediamo mai dal vero citiamo il suo doppiatore Marco Vivio.

In sala molta gioventù, ma non quella dei film fracassoni coi super eroi belli e fashion, bensì quelli coi brufoli e gli occhiali, i nerd appunto, con le loro moltiplicazioni all’ennesima potenza dei trenta-quarantenni. E poi, in ordine sparso, i battitori liberi come me. Il divertimento è assicurato esclusivamente a chi ama il genere.