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I nuovi mostri – con gli episodi censurati dalla Rai qui recuperati

1977. Sono passati quindici anni dall’originale e molta acqua è passata sotto i ponti: sono finiti i tempi spensierati del boom economico sull’onda del quale cinematograficamente si è passati dal neorealismo del dopoguerra alla spensieratezza della commedia all’italiana che nei suoi esempi migliori era anche critica sociale con venature di un umorismo graffiante che non risparmiava niente e nessuno. Il 1977 è nel mezzo di un decennio nero di terrorismo, nazionale e internazionale, una narrativa che drammaticamente entra anche in questo film in cui i toni grotteschi e graffianti si fanno ancora più incisivi, e anche violenti come la società che li esprime.

Gli episodi che prima erano 20 qui sono 14 e a Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi si aggiunge un Alberto Sordi in gran spolvero, di suo già campione di maschere grottesche dell’italiano medio, con l’aggiunta della stella in ascesa Ornella Muti che aveva debuttato solo sette anni prima con “La moglie più bella” di Damiano Damiani. Un’altra novità è che in alcuni episodi i quattro nomi dei titoli di testa cedono il passo ad altri validi interpreti che a loro volta diventano protagonisti. Tognazzi e Gassman recitano insieme in un solo episodio. Degli sceneggiatori originali rimane Ruggero Maccari che scrive il film con Age & Scarpelli e Bernardino Zapponi; mentre Ettore Scola che lì era sceneggiatore qui è regista e insieme a Mario Monicelli si aggiunge a Dino Risi che fu regista unico del primo film. Suo figlio Claudio Risi è l’aiuto regista. Armando Trovajoli che qui è Trovaioli torna a firmare la colonna sonora. Dei tre registi, all’uscita del film non si sapeva chi avesse diretto cosa perché di comune accordo avevano deciso di non firmare i loro episodi, e pare che i tre si siano impegnati a sostenere con i loro guadagni l’amico sceneggiatore Ugo Guerra gravemente malato e da diversi anni paralizzato, che sarebbe morto cinque anni dopo. Oggi siamo in grado di abbinare i registi agli episodi. Alla produzione Pio Angeletti e Adriano De Micheli della Dean Film prendono il posto di Mario Cecchi Gori. Come film straniero fu candidato all’Oscar nel 1979 ma quell’anno vinse il francese “Preparate i fazzoletti” di Bertrand Blier. Fu anche candidato ai David di Donatello ma vinse solo l’Alloro d’Oro alla miglior sceneggiatura al Festival di Taormina.

La versione presente su YouTube è quella ridotta negli anni Ottanta per la Rai in cui vengono tagliati cinque dei quattordici episodi rimescolando l’ordine di quelli rimasti. In questa censura sono saltati quelli meno edificanti ritenuti non adatti alle famiglie, ovvero: “Il sospetto”“Sequestro di persona cara”, “Mammina e mammone”“Cittadino esemplare” e “Pornodiva”; questi ultimi tre però sono stati reintegrati in una versione trasmessa su Rai Movie a partire dal 2014, però con l’amputazione del finale di “Pornodiva” che, come vedremo, cambia completamente il senso del racconto.

Tantum Ergo di Dino Risi

Gassman è un cardinale che causa guasto alla sua auto si ferma in una chiesa di periferia dove è in corso un acceso dibattito di borgatari guidato dal prete Luigi Diberti. Il cardinale improvvisa un sermone che acquieta gli animi, dimostrando al prete-operaio che faticosamente guidava da pari a pari il dibattito, che la retorica e l’eloquenza con l’aggiunta degli effetti speciali di sempre – luci, campane e musica d’organo – sono la vera via del Signore. Paolo Baroni efficacissima spalla in una regia molto arguta è il pretino che come da tradizione, vedi “La giornata dell’onorevole” in “I mostri”, è sempre omosessuale.

Auto stop di Mario Monicelli

Oggi lo scriviamo in un’unica parola ma all’epoca erano ancora due parole staccate. Partendo dal dettaglio del magnete sul cruscotto “vai piano e pensa a noi” con foto dei familiari, scopriamo che alla guida dell’auto Eros Pagni (raffinato interprete teatrale che al cinema è un caratterista di lusso) va oltre un autostoppista commentando “Sì, col cazzo!” per poi fermarsi immediatamente quando sul ciglio della strada gli compare la “gnocca” Ornella Muti che carica in macchina facendo sparire il magnete, e ovviamente mettendo in campo tutti i luoghi comuni dell’automobilista con fantasie erotiche, e tutti noi spettatori conosciamo i luoghi comuni sulla pericolosità degli autostoppisti ma anche degli automobilisti…

Con i saluti degli amici di Dino Risi

Segue uno dei due soli episodi non ambientati nell’area romana: breve come uno sketch televisivo. In un paesino dell’entroterra siciliano, un notabile mafioso passeggia per le vie assolate accompagnato dal suono del sempre classico marranzano, finché viene steso a colpi di lupara da due ragazzotti in vespa “Con i saluti degli amici”, ed è comune fra i siciliani il detto “Amici, e guàrdati!”. Battuta folgorante finale del mafioso morente interpretato dal romano Gianfranco Barra unico protagonista.

Hostaria! di Ettore Scola

Col punto esclamativo che subito mette in evidenza la tipicità dell’osteria della tradizione romana. Gassman e Tognazzi, l’uno cameriere l’altro cuoco, nel loro unico incontro del film fanno dell’osteria il loro personale ring con divertimento reciproco: sono quella che oggi diremmo una coppia di fatto, litigiosa e di mezza età, che con i tempi e i modi e la musichetta delle comiche d’antan si tirano addosso di tutto distruggendo la cucina salvo poi fare pace con un bacetto. I borghesissimi commensali apprezzano le vivande che dopo la lite contengono di tutto. E non è chiaro se i mostri sono la litigiosa coppia o i commensali, che di passaggio citano e omaggiano Indro Montanelli come caro amico: messaggio ambiguamente trasversale al giornalista.

Pronto soccorso di Mario Monicelli

Un affettatissimo Alberto Sordi, come Principe Giovan Maria Catalan Belmonte è un esponente della nobiltà nera romana, quella papalina sempre nostalgica del Papa-Re, lascia un’amica al Jackie O’, esclusivo locale romano che a partire dagli anni ’70 ereditò quello che restava della dolce vita romana dei tardi anni ’50. Con la sua Rolls Royce bianca (la Land Rover la prende solo per le uscite sportive) deve raggiungere la residenza della Principessa Aldobrandi dove fra nobili si discuterà lo scisma del Cardinale Marcel Lefebvre. Sordi si esibisce in un monologo un po’ troppo lungo e un po’ troppo indugiando, a mio avviso, su alcune volgarità che pur caratteristiche del “nobile” personaggio non necessitavano di sottolineature. Raccoglie la vittima di un incidente stradale e tenta inutilmente di portarlo in tre ospedali che per un motivo o un altro rifiutano l’urgente ricovero: questa è un’altra delle mostruosità sociali. Alla fine lo abbandona lì dove l’aveva trovato, sotto il monumento a Mazzini che lui crede Mussolini. Luciano Bonanni interpreta l’uomo ferito mentre l’amica di passaggio all’inizio altri non è che la ballerina del ventre Aïché Nana che sul finire degli anni ’50 si era resa famosa per uno spogliarello al ristorante Rugantino, immortalata dal fotografo Tazio Secchiaroli. In coda il titolo “Pronto soccorso” diventa inglese: “First Aid” e vai a capire perché.

L’uccellino della Val Padana di Ettore Scola

Questo è il secondo episodio non ambientato a Roma. La moda dell’epoca nominava le cantanti in un bestiario tutto italiano: Mina era la Tigre di Cremona, Iva Zanicchi era l’Aquila di Ligonchio e Orietta Berti che aveva addirittura due nomignoli – l’Usignolo di Cavriago e la Capinera dell’Emilia – qui diventa Fiorella l’Uccellino della Val Padana gestita dal totalizzante marito-impresario Tognazzi che nel privato se la deve vedere con le tante bambole che invadono la loro camera da letto, autocitazione per la Berti che è realmente collezionista di bambole. La poverina incorre in un problema alle corde vocali e il solerte marito le procura un incidente domestico dopo la quale potrà esibirla come caso umano su una sedia a rotelle. Molto brava lei che da cantante professionista si mette in gioco e nel finale stona con grande maestria.

Come un regina di Ettore Scola

Sordi asciuga i toni e condivide lo schermo con una dolce vecchina che interpreta la madre. Che lui, all’insaputa di lei, sta portando in in ospizio. L’interpretazione più convincente dell’attore è tutta negli sguardi che spaziano dall’apprensione all’esasperazione, dall’amore alla malsopportazione e al senso di colpa. Per Sordi è un bagno di verità: è noto che fosse morbosamente legato alla madre e ancora si racconta di quando, alla morte di lei, per vent’quattr’ore si chiuse in camera col cadavere rifiutandosi anche di aprire agli impiegati delle pompe funebri. La vecchina è l’attrice di un solo film Emilia Fabi. “Trattatela come una regina!” è l’invocazione finale del figlio mentre va via. Come una regina in esilio, dolorosa condizione di molti nostri vecchi che non hanno più spazio nella frenetica quotidianità che ci stritola.

Senza parole di Dino Risi

Il breve incontro d’amore fra una hostess poliglotta e un affascinante mediorientale che non parla nessuna delle lingue che lei conosce – e qui tocca dire che la Muti non parlava bene nemmeno l’italiano dato che per tutto l’arco crescente della sua carriera è stata sempre doppiata. Nel romantico episodio senza parole la musica è padrona con due successi dell’epoca: “Ti amo” di Umberto Tozzi e “All by myself” nella versione originale di Eric Carmen. Episodio volutamente zuccheroso dove non tutto è come sembra. Con il greco Yorgo Voyagis inspiegabilmente col trattino nei titoli, Yorgo-Voyagis, volto nuovo sugli schermi italiani come Giuseppe nel televisivo “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli, in onda quello stesso 1977.

L’elogio funebre di Ettore Scola

Il funerale comincia con l’accompagnamento di una musichetta sgangherata di una piccola banda che dà subito il tono all’episodio. Fra i quattro che portano a spalla la bara ecco Alberto Sordi. Si seppellisce un comico d’avanspettacolo e i convenuti sono il variopinto bestiario di amici e colleghi. Sordi, come storica spalla del vecchio comico Formichella, comincia l’elogio funebre che presto si trasforma in rievocazione di gloriose scenette e sagaci battute: il funerale diventa un’allegra rivisitazione della rivista d’antan in cui Sordi stesso mosse i primi passi, e alle lacrime si sostituiscono risate canti e applausi con tanto di passerella finale attorno alla fossa e sipario calato dai muratori retrostanti che calano una rete di protezione. Nel sentire comune di quell’Italietta democristiana forse questi teatranti erano dei mostri ma è evidente che a un attore comico quel funerale sarebbe piaciuto assai. Per non dire che oggi è ormai prassi comune, questa sì tristemente comune, l’abitudine di applaudire ai funerali, gesto privo di senso traslato dalla gente di spettacolo che di quegli applausi era vissuta, tanto che alcuni preti cominciano ad avvertire che gli applausi non sono consentiti. Per l’intero film questo episodio è un delizioso e degno finale. E poi con una ricerca mirata ho trovato i singoli episodi tagliati dalla Rai.

Mammina e mammone di Dino Risi

La giornata di due eccentrici barboni in un episodio davvero inconsistente che probabilmente avrà avuto un senso per i suoi creatori se ispirato a personaggi reali: la morale è che fra i barboni che si aggirano nelle nostre città ci sono anche nobili decaduti e personalità esemplari. Con Tognazzi che come dolce bambinone si accompagna all’ottantenne Nerina Montagnani, una caratterista che dopo aver lavorato come cameriera per tutta la vita ha esordito a settant’anni costruendosi una carriera di tutto rispetto.

Cittadino esemplare di Ettore Scola

Il mostro siamo noi. Gassman rientrando a casa dal lavoro assiste all’aggressione e all’accoltellamento di un uomo. Come nulla fosse raggiunge la famiglia per cena e si rilassa davanti a un programma Rai: ovvio che la Rai lo abbia tagliato. Dal programma sentiamo la voce di Pippo Franco nel varietà “Bambole, non c’è una lira” diretto da Antonello Falqui.

Il sospetto di Ettore Scola

Episodio decisamente politico, dunque indigesto alla finta ecumenica mamma Rai. Gassman commissario di polizia dall’accento napoletano fa una paternale a un gruppo di giovani sovversivi arrestati, e dal mucchio gli arriva una pernacchia. Fatta da un brigadiere infiltrato per meglio mimetizzarsi. Con Francesco Crescimone da Caltagirone che sarà anche sceneggiatore e regista.

Sequestro di persona cara di Ettore Scola

Cinema che racconta la televisione-verità: diretta televisiva dal salotto di un uomo distrutto dal dolore al quale hanno rapito la moglie e che si rivolge ai sequestratori implorando almeno una telefonata per averne notizie. Andata via la troupe televisiva l’uomo mostra che aveva tagliato il filo del telefono. Altro episodio scomodo da mostrare in tv perché un mostro si fa gioco della tv. Oltre che dell’opinione pubblica.

Pornodiva di Dino Risi

In effetti l’episodio, senza voler svelare nulla a chi non l’avesse ancora visto, è davvero forte, non per il contenuto ma per il concetto che veicola. Eros Pagni è di nuovo protagonista con la procace moglie interpretata da Fiona Florence che all’anagrafe è Luisa Alcini, una coppia di burini che prima di firmare il contratto che prevede scene di nudo e di sesso con una scimmia vogliono capire i dettagli e alzare il compenso. Nel ruolo dell’anziano produttore il caratterista settantenne Vittorio Zarfati che con Risi aveva debuttato l’anno prima, e che aveva una tragica storia alle spalle: di religione ebraica sfuggì al rastrellamento nazi-fascista dell’ottobre 1943 perché si trovava poco fuori Roma e perse la moglie e tre figli deportati e soppressi a Auschwitz-Birkenau. come figlia della coppia di burini la decenne Simona Patitucci che da adulta farà poco cinema ma tanto teatro musicale e molto doppiaggio.

E per finire un po’ di numeri. Nella versione integrale di 14 episodi Ugo Tognazzi è presente in 3, Vittorio Gassman in 5, insieme solo in uno; 3 per Alberto Sordi, 2 per Ornella Muti e 2 anche per Eros Pagni che di fatto si colloca fra i protagonisti. Nella versione ridotta Tognazzi perde un episodio e Gassman addirittura 3 restando entrambi a pari merito con 2 episodi, cedendo il passo a Sordi che li porta avanti tutti e tre mentre Pagni ne perde uno dei due. Come anticipato Rai Movie ha trasmesso una versione allungata ma continuano a mancare “Sequestro di persona cara” e “Il sospetto” entrambi con Gassman. L’ultima volta in cui il film è stato trasmesso in televisione è stato nell’agosto 2022 su Rai 3. Anche nelle versioni home prima in VHS e poi in DVD c’è la versione ridotta a 9 episodi, la stessa disponibile attualmente su Netflix: non credo che si tratti più di censura per argomenti ritenuti scabrosi o antisociali ma sono incuria da pigrizia intellettuale e commerciale.

Il signore delle formiche

Forse casualmente, nel centenario della nascita di Aldo Braibanti, Gianni Amelio esce con questo film, di certo cominciato a pensare quando Braibanti morì nel 2014. Un film in cui salta subito agli occhi, vivaddio, una recitazione di altissimo livello con un cast che mischia grandi professioni a molti debuttanti, in pratica tutti gli emiliani i cui nomi sono accompagnati dalla scritta per la prima volta sullo schermo: Leonardo Maltese, che regge alla grande un lunghissimo primo piano durante il processo, è il giovane compagno del processato e vittima sacrificale; Davide Vecchi è il tormentato fratello tormentatore; l’anziana Rita Bosello è la palpitante madre di Braibanti; Roberto Infurna regge un altro lungo primo piano come ragazzo accusatore; la cantante lirica Anna Caterina Antonacci debutta come attrice nel ruolo dell’addolorata ottusa madre. Fra i professionisti, tutti centratissimi, Luigi Lo Cascio è Braibanti, Elio Germano è il giornalista, Sara Serraiocco è l’attivista Graziella, Giovanni Visentin è l’ambiguo direttore del giornale, Valerio Binasco e Alberto Cracco impersonano il pubblico ministero e il giudice. L’autore tira fuori da ognuno il meglio e si riconferma gran scopritore di talenti.

Ma chi era quest’uomo, una figura sconosciuta ai più, me compreso? Assurse alle cronache quando la stampa riportò in cronaca il caso Braibanti. Aldo Braibanti, impropriamente detto il professore poiché di fatto non ha mai insegnato, è stato un intellettuale a tutto tondo, in un’epoca in cui, fra le cose buone, le doti dell’intelletto erano ancora tenute da conto e definire qualcuno un intellettuale non era divenuto spregiativo; fu poeta, drammaturgo, e si occupò di arte in genere, cinema e letteratura, si cimentò nei collage e negli assemblage e viene ricordato, il titolo del film lo richiama, come mirmecofilo ovvero studioso delle formiche, passione che sviluppa sin dalla prima infanzia, quando accompagnava il padre medico condotto nelle visite spesso in zone rurali del loro nativo piacentino: dimostrò una precoce attenzione alla natura da ecologista in calzoncini corti, e in particolare fu incuriosito dalla vita degli insetti sociali come api e formiche e, protetto da una famiglia illuminata che in pieno periodo fascista rifiutò qualsiasi tipo di pensiero autoritario, e anche clericale, il piccolo Aldo cominciò a scrivere versi già a otto anni: il suo destino di intellettuale è segnato. Qui di seguito quattro opere di assemblaggio di Braibanti dall’esposizione allestita dal suo comune natio, Fiorenzuola d’Arda, presso l’ex macello a lui intitolato nel 2016.

L’adolescente Braibanti

Aldo, crescendo come studente modello ottiene l’esonero del pagamento delle tasse scolastiche, e ancora adolescente scrive e distribuisce clandestinamente a scuola un manifesto rivolto a “tutti gli uomini vivi” in cui invita i compagni di liceo a mobilitarsi contro la dittatura fascista, così anche la sua rottura con l’autorità è segnata: 18enne prende parte alla resistenza partigiana e partecipa alla nascita dei primi movimenti intellettuali antifascisti; nel 1943 aderisce al Partito Comunista che è clandestino, e viene arrestato due volte, rischiando la prima volta di essere fucilato, e la scampò grazie all’ordine di Pietro Badoglio che, alla caduta del fascismo, fece prima scarcerare docenti e studenti, la classe pensante, mentre il resto dei comunisti comuni ancora in attesa di giudizio furono prontamente giustiziati dai tedeschi: oggi si può interpretare la scelta di Badoglio come una scelta di classe, ma nella sostanza salvò delle vite piuttosto che condannarle tutte; la seconda volta Aldo fu arrestato per un ultimo colpo di coda della polizia investigativa fascista che sequestrò tutti i suoi scritti antecedenti al 1940 che vennero distrutti per sempre. Nell’immediato dopoguerra, dopo aver fatto l’importante e formativa esperienza fra gli organizzatori del Festival Mondiale della Gioventù, sarà anche collaboratore dell’ormai sdoganato Partito Comunista Italiano come responsabile delle attività giovanili in Toscana: prende forma il suo mondo. Ma presto lascia la politica attiva per dedicarsi alla sua visione culturale artistica e filosofica: seguendo l’esempio di vita comunitaria delle sue formiche aderisce alla comunità che si era installata nel Torrione Farnese di Castell’Arquato, nella provincia della sua terra natia, creata fra gli altri dall’eclettico Sylvano Bussotti, principalmente compositore ma artista a tutto tondo; una comunità dove si svolgeva un laboratorio artistico e artigiano le cui opere sono state esposte anche all’estero.

Collage di Sylvano Bussotti

Il Torrione fu una fucina di talenti e sperimentazioni in cui si esercitarono artisti concettuali e musicisti post-dodecafonici, teatranti e cineasti sovversivi, i più dotati dei quali invaderanno la scena romana e nazionale; anche un giovane Carmelo Bene si è affacciato in quella realtà ed è poi divenuto amico di Braibanti; il quale aveva lì ricreato i suoi formicai in teche, scrivendo e teorizzando opere teatrali e cinematografiche di sperimentazione, e raccogliendo intorno a sé un cenacolo di giovani attirati da una vita comunitaria in cui poter sperimentare se stessi e le proprie tendenze, umane sociali e artistiche.

Giovanni Sanfratello fotografato al processo, mostra chiaramente i segni delle torture subite

il professore conosce un 17enne che qualche anno dopo, con la raggiunta maggiore età, porta con sé nella capitale, a formare una coppia gay come oggi ce ne sono tante ma che all’epoca non poteva avere dignità pubblica (a dire il vero neanche oggi date le tante aggressioni che si registrano) perché motivo di scandalo e riprovazione; e quando si dava il caso che nella coppia ci fosse una sostanziale differenza di età ci si presentava come zio e nipote: tutti capivano, ma la facciata imposta dall’ipocrisia sociale restava intatta. “Mi sono spostato a Roma, – scrisse in seguito Braibanti – e Giovanni Sanfratello mi accompagnò, perché venendo a Roma poteva difendersi meglio dalle pressioni assurde del padre, dovute a ragioni religiose, ideologiche e politiche. I Sanfratello, anche loro piacentini, erano ultraconservatori, cattolici e tra i più fascisti, e non riuscivano ad accettare che il loro figlio potesse scegliere una vita tanto diversa dalla loro.” Il padre voleva per Giovanni una carriera in medicina ma il ragazzo voleva dipingere e nella comunità trovò la sua via di fuga, via già percorsa dal fratello Agostino di poco maggiore: figura assai ambigua, mosso dalla gelosia di non essere più il preferito o di non aver saputo accentrare su di sé l’interesse del professore, reazionario a tal punto e vendicativo sul piano morale ed esistenziale, che negli anni a seguire fonderà un gruppo lefebvriano, aderendo al movimento cattolico ultra tradizionalista fondato dall’arcivescovo francese Marcel Lefebvre in seguito sospeso a divinis e poi scomunicato da Giovanni Paolo II che sciolse il movimento; Lefebvre era contrario alle aperture operate dalla Chiesa durante il Concilio Vaticano II, e nelle sue istanze si riconosceranno i fascisti, sempre in cerca di sponde morali, tanto che sarà un sacerdote ex lefebvriano che pietosamente nel 2014 celebrerà una messa in suffragio dell’anima di Erich Priebke (il criminale di guerra che partecipò all’eccidio delle Fosse Ardeatine di cui si è parlato nel film “Rappresaglia”), una messa svolta nella cappella privata di una villetta nella provincia di Treviso, alla quale partecipò il sindaco leghista Loris Mazzorato.

Agostino Sanfratello fra il pubblico del processo, nella foto che apparve su L’Unità che erroneamente nomina come Giovanni Sanfratello

Gianni Amelio racconta la vicenda prendendosi delle libertà narrative, come si fa sempre: nessun film è fedele al romanzo da cui è tratto così come ogni storia vera o biografia è sempre adattata al linguaggio cinematografico che ha altre esigenze narrative; dunque il film di Amelio non è cronaca né documentario, ma il punto di vista, e come tale discutibile, di un grande autore. Di cui personalmente ho visto e apprezzato quasi tutti i film, con l’eccezione dell’ultimo, l’altro biografico “Hammamet” che racconta gli ultimi mesi di Bettino Craxi, figura che non ho amato sia umanamente che politicamente, e ammetto la debolezza di aver smesso di vedere il film dopo circa un quarto d’ora perché mi annoiava e dava ai nervi; film che a tutt’oggi rimane il maggiore incasso dell’autore.

Restando dunque sul filone proficuo delle biografie, Amelio ritorna a riempire le sale: non vedevo tanta gente seduta tutta insieme dal marzo del 2020: unica differenza le mascherine a propria discrezione su un quarto della platea. Il regista rispolvera per l’occasione un filone che da noi sembrava estinto, quello del cinema di impegno civile, o politico, i cui esponenti di punta sono stati Elio Petri, Carlo Lizzani e Francesco Rosi, un genere che nel cinema internazionale è sempre attivo con Ken Loach o Michael Moore. La seconda parte del suo film, il processo, è praticamente fedele a quanto accaduto, con le testimonianze e i dibattimenti, dove l’unico personaggio che compare col suo vero nome è il protagonista e tutti gli altri sono reinventati per ragioni legali o di opportunità, o di libertà narrativa appunto. La prima libertà che si prende l’autore è quella di sostituire l’ingombrante figura paterna con una rigorosissima mater dolorosa che colpisce, e mette a segno in noi pubblico un forte disagio: perché non è cattiva ma solo fermamente convinta delle sue ragioni e del suo amore nel voler salvare il figlio dalla perdizione. Qui sta il genio di Amelio nel disporre i suoi personaggi: non ci sono vittime e carnefici, buoni e cattivi, ma solo controparti, ognuna delle quali con le sue proprie ragioni, convinzioni, punti di vista: una tragedia greca sull’ineluttabilità. Sulla stessa linea sono tratteggiati il pubblico ministero e il giudice, cattivissimi certo per la nostra moderna sensibilità, ma portatori di istanze che hanno la loro ragione di essere nella loro epoca: l’omosessualità era un reato e prima ancora un peccato. Con cascami su certe mentalità odierne.

In una delle scene in cui Braibanti corteggia il ragazzo volando alto fra poesia e filosofia, ho sentito mormorare dal pubblico “Che viscido!” e non mi ha sorpreso che il commento venisse da un ragazzo di un piccolo gruppo orgogliosamente e rumorosamente gay: non era un insulto ma una constatazione. Perché è cambiato il corteggiamento. Quando le cose non si potevano dire, e non erano ovvie e men che meno legali, omo o etero che fosse il corteggiamento, ci si sottoponeva a dei rituali che oggi non esistono più, minuetti e giri di parole ai quali si finiva col cedere per sfinimento e in cui lo sfinimento reciproco era anche parte del piacere: oggi il corteggiamento, se ancora lo si può definire così, è fagocitato dalla velocità e da un linguaggio, anche corporeo, sempre più espliciti. Il processo definì quel corteggiamento – plagio.

“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da 5 a 15 anni”. Era il reato di plagio secondo l’articolo 603 del codice penale. Plagio viene dal latino plagium, sotterfugio, che nel diritto romano indicava la vendita di un uomo libero come schiavo, dunque la sottrazione dei diritti di quell’individuo tramite persuasione o corruzione; allorquando alla fine del ‘700 si andò via via accettando il principio di uguaglianza fra persone e la progressiva abolizione della schiavitù, il reato di plagio fu traslato come delitto contro la libertà dell’individuo. La norma applicata nel processo a Braibanti era stata inserita nel nostro codice penale (pacchetto tutto ancora in vigore, tranne qualche spunta) nel 1930 per volontà dell’allora governo fascista e, come si dice nel film, per punire con altro nome gli eventuali reati di manifesta omosessualità, perché nella visione fallocratica di Benito Mussolini in Italia non esistevano, e non dovevano esistere neanche sul piano giuridico, quel genere di deviati. Una norma attivata nonostante i pareri contrari della Commissione Parlamentare e delle Commissioni Reali degli avvocati e procuratori di Roma e Napoli; norma assai spinosa per argomenti assai scivolosi, tanto che non venne mai applicata, fino a quel 1964.

Dopo il caso Braibanti il reato di plagio fu invocato di nuovo nel 1978 contro Emilio Grasso, sacerdote appartenente al Movimento Carismatico, accusato da alcuni genitori di aver fatto il lavaggio del cervello ai loro figli minorenni; la sentenza scagionò il religioso e con l’occasione si avviò la messa in discussione della norma che venne abrogata nel 1981. A seguire, e siamo nel 1988, i ministri Rosa Russo Iervolino (Democrazia Cristiana) e Giuliano Vassalli (Partito Socialista Italiano) cercarono di far reintrodurre nel nostro codice penale il reato di plagio psicologico, ma il parlamento ha saggiamente accantonato l’iniziativa perché argomento sempre spinoso e scivoloso: il reato non è accertabile secondo criteri e metodi scientifici ed espone l’eventuale accusato ad eventuali abusi dell’autorità giudiziaria.

L’altra libertà che si prende Amelio, che ha scritto il film con Edoardo Petti e Federico Fava, è quella di creare due coprotagonisti fittizi assai funzionali al suo racconto: l’attivista Graziella che in pratica sostituisce un giovane Marco Pannella che già nel 1955 era stato fra i fondatori del Partito Radicale, il quale seguendo giorno per giorno il processo avviò una martellante campagna con le sue “Notizie Radicali” chiamando pesantemente in causa i magistrati tanto da farsi citare in giudizio lui stesso, avviando così un ulteriore processo che, nella tradizione radicale, diventò a sua volta processo agli inquisitori. Ma questo nel film non c’è. In una delle sequenze in cui Graziella arringa la piazza, Amelio riempie improvvisamente lo schermo, in un corto circuito temporale, col primissimo piano di Emma Bonino che osserva il suo passato: “I Radicali hanno fatto forti battaglie per Braibanti e la società italiana. – ha dichiarato Amelio – Hanno fatto cancellare il reato di plagio nel 1981. Mi è sembrato giusto far vedere la Bonino di oggi piuttosto che un sosia di Pannella ragazzo.”

Ulteriormente, si inventa come cugino di Graziella (i legami fra personaggi servono a dare alla storia una solida struttura) il giornalista incaricato di seguire il processo e che ne fa una battaglia personale, perché forse anche lui è un omosessuale non dichiarato in cerca di segnali di chiarezza e di libertà espressiva; e come sua controparte viene inventato un direttore dell’Unità temporeggiatore e ostile, ambiguo sulla posizione che il giornale deve prendere, addirittura arrivando a licenziare il giornalista troppo schierato in difesa di Braibanti – cosa che pare non fu nella realtà: dopo un primo momento di sbandamento, l’Unità scese in campo sostenendo l’intellettuale sotto processo, anche sulla spinta – emotiva no, opportunistica forse sì – dei tanti intellettuali che sin da subito si schierarono con Braibanti: quel Pier Paolo Pasolini che a inizio carriera era stato cacciato dal PCI “per indegnità morale e politica”, Elsa Morante, Umberto Eco, Alberto Moravia, i giovani Carmelo Bene e Marco Bellocchio che oggi del film è coproduttore; è un dato di fatto che il partito comunista fosse, in linea con gli umori dell’epoca, tendenzialmente conservatore e bacchettone tanto quanto i cattolici e la destra, e forse Amelio si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa, o più semplicemente ha operato una sua sintesi, inventandosi quella redazione dell’Unità divisa su come schierarsi, e la polemica che ne è seguita non è da poco. Io ritengo che, così come si è inventato le figure del giornalista e del direttore senza riferirsi ai personaggi reali, altrettanto avrebbe potuto evitare di chiamare in causa l’Unità col suo nome, e avrebbe potuto restare sul vago così come ha fatto per il nome e i simboli del Partito Radicale di cui nel film non c’è traccia. Avrebbe evitato la polemica – che però torna utile al botteghino – e mantenuto la linea del suo intero film ispirata e a tratti lirica, simbolica.

Pasolini scrisse: “Se c’è un uomo ‘mite’ nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio?” Carmelo Bene lo ricordò così in un suo libro di memorie: “Un genio straordinario. M’insegnò con quella sua vocetta a leggere in versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l’altro. Non è poco.” Braibanti in vecchiaia dichiarò: “Quel processo, a cui mi sono sentito moralmente estraneo, mi è costato due nuovi anni di prigione, (oltre a quelli passati come prigioniero dei nazi-fascisti) che però non sono serviti a ottenere quello che gli accusatori volevano, cioè distruggere completamente la presenza di un uomo della Resistenza, e libero pensatore, ma tanto disinserito dal mondo sociale da essere l’utile idiota adatto a una repressione emblematica.” E ancora: “Qualunque siano gli strumenti accusatori che si utilizzano per mettere in moto un’accusa di plagio, l’accusa è sempre fondamentalmente politica, perché riguarda essenzialmente i rapporti tra il privato e il sociale.”

A 83 anni gli venne notificato lo sfratto dall’appartamento romano in cui abitava da quarant’anni, vivendo con la pensione minima. L’anno dopo, a seguito dell’iniziativa della senatrice Tiziana Valpiana (Rifondazione Comunista) col sostegno attivo di Franca Rame e di alcuni parlamentari della fugace “Unione” (idealmente “delle sinistre”) di Romano Prodi, con in testa Franco Grillini e Giovanna Melandri, gli viene assegnato il vitalizio della Legge Bacchelli. Lo sfratto diventa esecutivo tre anni dopo e l’86enne Braibanti, con le migliaia di volumi che aveva accumulato, si trasferisce nella natia Emilia Romagna, a Castell’Arquato, dove morirà 91enne. Di Giovanni Sanfratello non si è saputo più nulla, si sa solo che è morto: una vita sprecata, forse un talento, chissà, sacrificato sull’altare della rispettabilità e della cristianità. Suo fratello Agostino è tutt’oggi vivente, da qui i nomi cambiati nel film.

Dal Lido di Venezia dove il film è stato presentato, Gianni Amelio, che ha fatto coming out nel 2014, dice del suo lavoro: “È limitativo dire che è un film sul caso Braibanti, è una grande storia d’amore tra un uomo e un ragazzo, molto autobiografica: durante le riprese ho vissuto una storia d’amore molto tormentata. Ho scoperto le stesse fragilità di Aldo: Braibanti si è innamorato, io anche. Non sono andato in galera come lui ma sono chiuso in un carcere mio. Sono felicissimo del film, probabilmente è la cosa più bella che abbia mai fatto, ma intimamente non sono felice. Vi auguro di essere più felici di me.” Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Spirano venti di Destra e l’aspirazione a cancellare questi ultimi sessant’anni è forte.